Alien – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La saga di Alien tra orrore cosmico e capitalismo dello spazio profondo https://www.carmillaonline.com/2024/09/25/alien-tra-orrore-cosmico-e-capitalismo-dello-spazio-profondo/ Wed, 25 Sep 2024 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84441 di Sandro Moiso

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, pp. 246, 20,00 euro

Quando nel 1979 un ancor giovane Ridley Scott, alla sua seconda regia di un lungometraggio, portò sugli schermi Alien probabilmente nessuno, e tanto meno il regista inglese, avrebbe potuto anche solo lontanamente pensare che tale film stesse per dare inizio ad una delle saghe fantascientifiche cinematografiche più durature, complesse e articolate. Una saga ampliatasi ben al di là degli schermi cinematografici per espandersi nei comics, videogiochi, serie televisive e, più in [...]]]> di Sandro Moiso

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, pp. 246, 20,00 euro

Quando nel 1979 un ancor giovane Ridley Scott, alla sua seconda regia di un lungometraggio, portò sugli schermi Alien probabilmente nessuno, e tanto meno il regista inglese, avrebbe potuto anche solo lontanamente pensare che tale film stesse per dare inizio ad una delle saghe fantascientifiche cinematografiche più durature, complesse e articolate. Una saga ampliatasi ben al di là degli schermi cinematografici per espandersi nei comics, videogiochi, serie televisive e, più in generale, nell’immaginario collettivo e nelle paure inconsce di milioni di spettatori di tutte le età.

Anche se l’ultimo prodotto cinematografico ispirato alle vicende degli Xenomorfi e del loro atroce coinvolgimento nelle disavventure di equipaggi spaziali umani del tutto incapaci di far fronte alla loro minaccia, Alien Romulus di Fede Álvarez, nonostante un ottimo inizio e il successo al botteghino si sia rivelato come il più debole di quelli realizzati fino ad ora, vale la pena di ripercorrere le vicende della ideazione e della realizzazione delle storie contenute nella saga e, soprattutto, le riflessioni e invenzioni scientifiche, letterarie, filosofiche, religiose e tecnico-economiche che in esse si annidano.

A guidare il lettore nell’autentico e interessante, oltre che caotico, labirinto formato dall’insieme degli infiniti rivoli di orrore e paura sgorgati da quella fonte iniziale ci pensano Paolo Riberi e Giancarlo Genta con il volume appena uscito per le edizioni Mimesis. Il primo, laureato in Filologia e letterature dell’antichità e in Economia presso l’Università deli Studi di Torino, è giornalista, studioso di storia antica e letteratura delle origini cristiane oltre che membro della Società Italiana di Storia delle Religioni e autore di vari saggi dedicati al mondo dei vangeli apocrifi e alla simbologia del cinema contemporaneo.

Il secondo è professore emerito di Costruzione di macchine presso il Politecnico di Torino, membro dell’Accademia delle Scienze della stessa città e dell’Accademia Internazionale di Astronautica. E’ autore di numerosi testi di formazione, di articoli e di volumi sull’esplorazione spaziale e il programma Search for Extra-Terrestrial Intelligence, oltre che di sei romanzi di fantascienza e di un altro saggio in coppia con Riberi, anch’esso edito da Mimesis, sul ciclo di Dune di Frank Herbert (qui).

Diviso in tre parti riguardanti, nell’ordine, la saga stessa e la sua ideazione e realizzazione, i rapporti della stessa con il mito e la filosofia e, per ultima, quelli con la scienza e l’economia, il testo si rivela come un’autentica bibbia per tutti gli appassionati non soltanto del ciclo degli Xenomorfi, ma della fantascienza in generale. Qui il recensore, però, non potrà che riprenderne e sottolinearne alcuni aspetti, lasciando ai lettori la scoperta dei numerosi altri.

Nella prima parte, comprensiva di una ricostruzione in ordine cronologico degli eventi narrati nei primi sei film, sicuramente la parte del leone la fa la ricostruzione dei conflitti, delle rivalità tra sceneggiatori e successivi registi e dei dubbi della casa di produzione cinematografica, la 20th Century Fox, che portarono alla realizzazione del cult movie nel 1979. Una ricostruzione che vede tra i protagonisti Dan O’Bannon, John Carpenter, Walter Hill, Ridley Scott, James Cameron, Sigourney Weaver (destinata a dare volto e corpo ad una delle figure femminili più iconiche della cinematografia degli ultimi quarant’anni), Alejandro Jodorowsky (con il suo fallimentare progetto di un film, basato sul ciclo di Dune di Frank Herbert, della durata prevista di dieci ore) e Ron Shusett al quale, in definitiva, si deve l’idea di coniugare «le sfumature dei racconti di Howard P. Lovecraft con i tabù sessuali più oscuri della storia dell’Occidente», con la creazione «di un mostro alieno che, dopo essere salito a bordo di un’astronave umana, “violenta uno dell’equipaggio, gli salta sulla faccia, gli infila un tubo nel corpo, introduce il suo seme e poi fuoriesce dal suo stomaco”»1.

A costoro vanno aggiunti almeno tre importanti artisti e illustratori: lo statunitense Ron Cobb, destinato a dare forma alle astronavi del ciclo; il francese Jean Giraud alias Moebius, ideatore delle tute spaziali e, soprattutto, lo svizzero Hans Ruedi Giger dai cui disegni e illustrazioni da incubo sarà tratta la forma definitiva, allo stesso tempo oscena e spaventosa, del primo Xenomorfo. Immagine tratta, come tra l’altro molte di quelle che animavano i racconti di H. P. Lovecraft, direttamente dagli incubi dell’autore.

Ma non sono soltanto gli incubi notturni di Giger a far sì che sia possibile un rinvio dell’intera saga all’immaginario lovecraftiano, poiché i principali protagonisti della sua ideazione e realizzazione, da O’Bannon a Shusett fino allo stesso Ridley Scott (che nel complesso sarà responsabile della realizzazione di tre film dei primi sei di quelli appartenenti alla saga ed esclusi quelli della serie “parallela” Alien Vs. Predator), solo per citarne alcuni, saranno tutti “discepoli” e amanti dell’opera del solitario di Providence.

Il cui concetto di “orrore cosmico”, come ben si dimostra nell’apposito capitolo contenuto nella seconda parte del testo è sostanzialmente alla base dell’intero ciclo. Come affermano gli autori, la sua influenza su Alien è innegabile, così come quella del suo Necronomicon, libro maledetto scaturito totalmente dalla fantasia e dagli incubi dello scrittore americano, ma ripreso in seguito come fonte di ispirazione non soltanto per i suoi romanzi e racconti ma anche per un numero infinito di altri appartenenti ad altri autori. Oltre che per i disegni di Giger, da cui sarebbe stata ripresa quasi integralmente la morfologia della creatura figlia dello spazio profondo.

A ben vedere, la stessa immagine del mostro che fuoriesce all’improvviso dal petto della vittima dopo averla dilaniata dall’interno è già presente nei racconti lovecraftiani: in La casa delle streghe, il mostruoso famiglio dai denti aguzzi Brown Jen­kin, con il viso e le mani umanoidi, e il corpo di topo, si comporta esattamente come il chestbuster di Alien, uccidendo il povero protagonista Walter Gilm […] Analogamente – osserva il critico cinematografico Davide Co­motti – “l’abominio che fuoriesce dalle uova (il facehugger) è un essere tentacolare che ricorda da vicino lo Cthulhu lovecraftia­no”, mentre lo Xenomorfo, “che viene definito dal robot [Ash] come un superstite, richiama i Grandi Antichi, mostruosità innominabili anch’esse ricorrenti negli scritti di Lovecraft”2.

Ma più che nelle immagini orrorifiche e nelle creature mostruose oppure nelle trame, la vicinanza maggiore tra la saga e Lovecraft sta proprio nella filosofia di fondo che li sostiene, poiché:

L’alieno non è mai soltanto un “predatore dello spazio”, un parassita o un animale feroce, bensì un’entità molto più oscura e incomprensibile, al pari di Cthulhu e del folle Yog-Sothoth. Come direbbe Charles Darwin – parlando dei suoi “Xenomorfi in miniatura” – si tratta di un’entità così assurda da indurci a negare l’esistenza stessa di Dio…3

Così come sembrano confermare le recenti osservazioni del fisico Carlo Rovelli e del teologo Giuseppe Tanzella-Nitti:

Se le costanti della fisica fondamentale fossero diverse, come sarebbe il mondo? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che noi non ci saremmo, perché il mondo che ci ha generato è quello di queste costanti, non di altre. Questo per noi ha un enorme valore. Quindi ci sembra, rispetto a ciò a cui noi diamo valore, che le costanti siano fissate «stranamente» proprio per generare ciò a cui noi diamo valore, cioè noi stessi. L’errore che stiamo commettendo è di non vedere che noi abbiamo ovviamente valore, siamo ovviamente «speciali», ma lo siamo rispetto a noi stessi. Se l’universo fosse diverso, sarebbe quello che sarebbe […]. Nulla, della stretta dipendenza di ciò che esiste dalle costanti, può legittimamente essere interpretato come prodotto da un disegno intelligente. Se la struttura e l’evoluzione dell’universo rispondono all’intenzione di un Dio Creatore, ciò non può essere dedotto dalle osservazioni e dalle misure proprie del metodo scientifico4.

In un universo in cui «la vita stessa è una temporanea anomalia frutto del caso, che dal Nulla nasce, e al Nulla ritorna. Non c’è più spazio per alcuna legge, sia essa di natura morale, giuridica o fisico-scientifica»5. Dove predominano la morte, il caos e la distruzione, esattamente come in quello dell’ateo e visionario Lovecraft al cui centro balla Yog-Sothoth, dio nudo e idiota, in una cacofonia di flauti e tamburi. Di cui lo pseudo-biblium Necronomicon, traducibile come Libro delle leggi dei morti, costituisce l’anti-Bibbia per eccellenza. Un universo casuale in cui il mondo non è stato affatto creato per l’uomo e in cui il cosmo caotico che lo circonda lo tollera a malapena, poiché i Grandi Antichi oppure i loro corrispondenti Ingegneri, compresi nella saga, hanno probabilmente creato la vita e l’uomo stesso per errore oppure come semplice e atroce esperimento oppure, ancora, per dare ospitalità nei loro corpi al seme degli Xenomorfi affinché questi ultimi possano riprodursi su scala più ampia e diffusa. Attraverso la filosofia e l’opera dell’autore statunitense avviene così

lo svelamento di una verità profonda e incontrovertibile (“la più terribile concezione del cervello umano”), ovvero la consapevolezza di essere del tutto soli di fronte alla sconfinata vastità dell’universo. Alla base di queste teorie c’è il radicale ateismo dell’autore: vivendo pur sempre nei primi anni del Novecento, ossia un tempo fortemente influenzato dal pensiero di Arthur Schopenhauer e di Friedrich Nietzsche, Lovecraft rifiuta alla radice l’ottimistica visione del mondo giudaico-cristiana, sostenendo di “non essere mai riuscito a placarsi con le dolci illusioni della religione”. Il suo categorico rifiuto lo induce a ripudiare non soltanto l’idea di un benevolo Dio Padre, ma – coerentemente – anche la concezione umanista che deriva dalla Bibbia, e che nel corso degli ultimi due millenni ha plasmato la storia dell’Occidente: per Lovecraft, il cosmo è un abisso oscuro e misterioso, che non ha al proprio centro né la Terra, né tantomeno l’uomo, e che non risponde a quelle “immutabili leggi della natura” a cui l’homo sapiens, con i suoi studi scientifici, ha preteso di attribuire una valenza universale e assoluta6.

Tanto per Lovecraft quanto per Alien l’approdo finale non può che consistere nel cosiddetto nichilismo: se Dio non esiste – e non esiste neppure un ordine razionale dell’universo – allora nulla ha davvero senso, e l’unica certezza diventa il Nulla supremo, oppure come avrebbe affermato il colonnello Walter Kurtz in un altro celebre film, null’altro che «l’orrore, l’orrore!»7.

L’unico appunto che si potrebbe fare a questa parte del testo, certamente una delle più interessanti, è dovuto al fatto che gli autori si sono un po’ troppo basati sulle considerazioni derivate dalle opere sulla vita e l’opera di Lovecraft del controverso Sebastiano Fusco, più che su quella monumentale e più autorevole di S. T. Joshi8.

Il riferimento precedente al film di Coppola ispirato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad non è casuale, poiché fin dal primo film di Ridley Scott altri elementi conradiani sono comparsi nella saga di Alien. Ad esempio il nome dell’astronave su cui iniziano le avventure di Ellen Ripley è Nostromo, mentre quello della scialuppa di salvataggio sulla quale si salverà la stessa figura femminile interpretata da Sigourney Weaver è Narcissus, nomi presi entrambi a prestito da romanzi brevi dell’anglo-polacco Conrad.

Ed è proprio a partire dalla Nostromo che inizia nella saga quella riflessione sull’espansione capitalistica nello spazio che occupa un capitolo nella terza e ultima parte del libro di Riberi e Genta. Una riflessione che fin dalle prime immagini porta il conflitto salariale e di classe nello spazio profondo e che vedrà nella Weyland-Yutani Corporation la massima espressione dell’avidità e indifferenza del capitale nei confronti dei suoi dipendenti e dell’intera specie umana.

Ecco allora che tutto quanto si è detto e citato prima a riguardo dell’inesistenza di un “piano regolatore” delle vicende umane e del cosmo trova la sua perfetta adesione alle finalità anonime e distruttive riconducibili agli interessi dell’accumulazione capitalistica. Costi quel che costi, anche in termini di devastazione delle esistenze dei singoli oppure di interi pianeti. Un’ipotesi che sembra essere non del tutto approfondita dai due autori che preferiscono lasciare, forse, un filo di speranza a chi legge ma che già oggi, nelle “imprese” spaziali private di Elon Musk e nelle su promesse di conquista di Marte, iniziano a dare i primi segni del bisogno di espansione infinita del capitale e del suo sogno di eternità. Ben rappresentato dagli obiettivi iniziali del fondatore della stessa corporation Weyland -Yutani.

Una disponibilità a divorare vite, ricchezze accumulate socialmente e digerite privatamente, pianeti interi che ben si accompagna all’immagine degli Xenomorfi e degli incoscienti Ingegneri o Space Jokey che perseguono piani non del tutto chiari nemmeno a loro. In cui la creazione si accompagna alla distruzione, lasciando spesso soltanto un mondo di rovine e di guerre senza fine e senza scopo. Una visione apocalittica, e qui ancora il riferimento all’Apocalisse di Coppola, per cui l’intera saga costituisce una delle critiche più radicali del modo di produzione capitalistico, la cui massima espressione sembra essere, oggi sulla Terra e domani nello spazio profondo, la guerra.

Tema indagato soprattutto nell’espansione della saga nei comics e per questo motivo non troppo sottolineato all’interno della ricerca pubblicata da Mimesis. Rimane comunque ancora il profumo di un altro autore di fantascienza, il vecchio Jules Verne, che già nel sul Dalla Terra alla Luna, nel 1865, illustrava il grande interesse finanziario contenuto nel battage pubblicitario destinato a raccogliere i fondi per il lancio del proiettile/navicella verso la Luna.

Sbagliò di poco i conti lo scrittore di allora rispetto al tempo impiegato nel 1969 dalla Apollo 11 per portare gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla superficie lunare e centrò invece perfettamente l’obbiettivo dell’operazione. Cosa che gli sforzi di Musk oggi confermano, in attesa che una Weyland-Yutani di domani riporti sul pianeta qualche strano essere più adatto a fare la guerra e a dominare il cosmo di quanto lo sia la specie umana. Forse ancora “troppo umana” e dunque sostanzialmente inutile per le finalità ultime del capitale.


  1. P. Riberi, G. Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, p.16.  

  2. P. Riberi, G. Genta, op. cit., pp. 90-91.  

  3. Ibidem, p. 97.  

  4. Carlo Rovelli, Giuseppe Tanzella-Nitti, Universo, un disegno poco intelligente: la scienza non può dimostrare l’esistenza di Dio, Corriere della sera qui  

  5. P. Riberi, G. Genta, op.cit., p.105.  

  6. Ibid., pp. 104-105.  

  7. Interpretato da Marlon Brando nel film, di Francis Ford Coppola, Apocalypse Now nel 1979.  

  8. S. T. Joshi, Io sono Providence: la vita e i tempi di H.P. Lovecraft, 3 voll, Providence press  

]]>
Cavalieri erranti in un’apocalisse senza distopia https://www.carmillaonline.com/2023/06/14/cavalieri-erranti-in-unapocalisse-senza-distopia/ Wed, 14 Jun 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77717 di Paolo Lago

Già all’inizio degli anni Ottanta, Teresa De Lauretis, citando Foucault, scriveva che la fantascienza contemporanea si è ormai lasciata alle spalle il classico conflitto fra utopia e distopia, indirizzandosi invece verso l’eterotopia, verso la coesistenza di sistemi di significato fra loro apparentemente inconciliabili. Pochi anni dopo, il concetto è ribadito da Fredric Jameson secondo il quale, ciò che distingue la fantascienza contemporanea dalle sue versioni ottocentesche è che, invece di proporre scenari utopici (o distopici), rispecchia il nostro senso di straniamento di fronte alla rapidità dei cambiamenti in corso. Sotto [...]]]> di Paolo Lago

Già all’inizio degli anni Ottanta, Teresa De Lauretis, citando Foucault, scriveva che la fantascienza contemporanea si è ormai lasciata alle spalle il classico conflitto fra utopia e distopia, indirizzandosi invece verso l’eterotopia, verso la coesistenza di sistemi di significato fra loro apparentemente inconciliabili. Pochi anni dopo, il concetto è ribadito da Fredric Jameson secondo il quale, ciò che distingue la fantascienza contemporanea dalle sue versioni ottocentesche è che, invece di proporre scenari utopici (o distopici), rispecchia il nostro senso di straniamento di fronte alla rapidità dei cambiamenti in corso. Sotto il travestimento di futuri post-apocalittici, quindi, non vi è altro che la nostra difficile e contraddittoria contemporaneità. Penso che ciò possa valere anche per gran parte della fantascienza di oggi: dietro l’apparente distopia vi è invece l’eterotopia, uno “spazio altro” secondo la definizione di Foucault; una dimensione e un modo diversi per raccontare ciò che ci circonda. Quindi, la letteratura, il cinema, le serie TV, quando mettono in scena catastrofici scenari futuri, raccontano né più né meno che il mondo di oggi.

Ebbene, la post-apocalittica Corea del Sud del futuro raccontata in Black Knight (2023, sei episodi per una stagione), in onda su Netflix, non è altro il mondo di oggi, nel quale però vige un importante ribaltamento di prospettiva. Quello che nell’odierna società dei consumi è considerato come uno dei lavori più soggetti a sfruttamento e meno gratificanti, cioè il rider, il corriere (attività il cui ampio spettro racchiude sia l’immigrato sottopagato che consegna cibarie a domicilio in bicicletta o in motorino, sia il corriere che con il furgone si fa centinaia di chilometri al giorno sempre sotto stress per rispettare gli orari), nel futuro eterotopico di Black Knight si trasforma in un lavoro da eroe, da “cavaliere nero” (un termine che indica un personaggio ambiguo e misterioso e che rimanda all’immaginario del ciclo arturiano e, successivamente, alla ricezione romantica e gotica del Medioevo). I corrieri, infatti, garantiscono la sopravvivenza alle altre persone e si battono contro le ingiustizie sociali. A causa dell’impatto della Terra con una cometa, l’intera Corea del Sud si è trasformata in un immenso deserto e all’aperto c’è scarsità di ossigeno. I corrieri, al servizio della potente corporation Cheonmyeong Group, si spostano su enormi camion che solcano il deserto e consegnano a domicilio le scorte di ossigeno e viveri a una popolazione che ha trovato rifugio in veri e propri bunker, completamente separati dall’esterno. Fare il corriere vuol dire essere un salvatore dell’umanità, come il leggendario 5-8, una specie di vendicatore mascherato che, assieme a un gruppo ristretto di corrieri, cerca però di sabotare il sistema classista e discriminatorio della corporation. Quest’ultima appare assai più potente degli apparati di governo (lo strapotere delle corporation è molto presente nell’immaginario fantascientifico contemporaneo e ci è stato tramandato cinematograficamente da capolavori come Alien e Blade Runner, entrambi di Ridley Scott) e mantiene la società rigidamente separata in classi sociali. I più poveri sono i “rifugiati”, che vivono in baraccopoli improvvisate oppure all’aperto, costretti a portare una maschera di ossigeno, non possedendo neppure un codice QR che permette l’accesso ai più essenziali servizi sociali; poi ci sono i cittadini ‘normali’, rinchiusi nei loro bunker ‘a schiera’; infine, i ricchissimi, i più vicini alla Cheonmyeong Group, che conducono la loro vita in serre artificiali dove viene ricreata un’esistenza quasi normale, con tutti gli agi e i confort.

Sotto il travestimento distopico creato dalla serie TV intravediamo perciò un’eterotopia del nostro mondo e, soprattutto, della società contemporanea coreana, ma anche cinese o giapponese. Innanzitutto, il pervasivo e digitalizzato controllo sociale. Le classi abbienti possiedono tatuato sulla mano un codice QR che permette loro l’accesso a qualsiasi servizio. Se anche dalle nostre parti il controllo digitale dei cittadini sta aumentando sempre di più, sicuramente paesi come la Corea del Sud o la Cina possiedono livelli altissimi di digitalizzazione dell’esistenza quotidiana finalizzata a un controllo quasi invisibile. È quella che il filosofo Byung-Chul Han (non a caso, un altro sudcoreano) chiama “società della trasparenza”: un universo sociale in cui ognuno si consegna volontariamente al controllo tramite gli smartphone e le loro applicazioni; un universo che ha la peculiarità di eliminare l’Altro o l’Estraneo. L’alterità è negativa e disturba la piatta comunicazione dell’Uguale. Perciò, la corporation non trova niente di meglio che indire una gara per dare l’opportunità al vincitore di diventare un corriere, gara che serve in realtà per eliminare la popolazione più povera. Dal momento che alla competizione partecipa il giovane rifugiato Yoon Sa-wol, tutti i rifugiati fanno il tifo per lui e la potente azienda predispone dei maxischermi nelle zone delle baraccopoli con l’intento di riunire più persone possibile per ucciderle. Un altro sistema per eliminare i più poveri sono i vaccini: ai “rifugiati”, chiamati a raccolta – si direbbe oggi – negli “hub vaccinali”, viene inoculato un siero che dovrebbe proteggerli dalle malattie ma che in breve tempo li conduce alla morte. Capiamo subito allora che dietro allo scenario distopico raccontato nel film c’è ancora una volta la nostra società, con un preciso riferimento all’emergenza Covid. Maschere per l’ossigeno, vaccini, codici QR rimandano alle misure di controllo della popolazione allestite per arginare l’emergenza del virus. Ancora una volta, se guardiamo alla realtà di diversi paesi orientali, tra cui la Corea del Sud, capiamo subito come queste misure siano state più pervasive e digitalizzate di quanto sia avvenuto da noi. D’altra parte, non dobbiamo neanche dimenticare che si tratta di paesi in cui la pandemia ha colpito assai duramente. Non vengono risparmiati neppure i risvolti più complottisti della nostra contemporaneità: si scoprirà infatti che i macchinari del governo (cioè, ça va sans dire, della corporation) che dovrebbero diffondere ossigeno nell’aria contribuiscono invece all’inquinamento. Anzi, il presunto inquinamento dell’aria, per cui è necessario portare sempre la maschera per l’ossigeno, non sarà forse del tutto opera della potente e mefistofelica Cheonmyeong Group?

Dalla Corea del Sud arrivano perciò letture interessanti della nostra contemporaneità, sia da una prospettiva filosofica che da una più legata all’immaginario cinematografico. Possiamo ricordare anche Bong Joon-ho, regista di un film significativo come Parasite (2019), in cui la “trasparenza” si è diffusa ormai in tutte le fasce sociali, persino nelle più povere, per mezzo della pervasiva diffusione degli smartphone. Un altro importante film del regista sudcoreano (dal quale è stata tratta anche una serie TV) è poi The Snowpiercer (2013), in cui in un mondo futuro completamente ricoperto dai ghiacci (altra eterotopia della nostra contemporaneità), gli unici sopravvissuti vivono su un treno rigidamente diviso in classi sociali. Se negli ultimi vagoni incontriamo i più poveri, sottoposti ad angherie di ogni tipo, nella testa ci sono i ricchissimi, che trascorrono la loro esistenza in luoghi eleganti e sicuri. Non dovremmo dimenticare neppure Okja, del 2017, in cui una potente azienda alimentare incentiva l’allevamento di sensibilissimi “supermaiali” al solo scopo di confinarli in mattatoi (dipinti come lager) per poi trasformarli in cotolette e salsicce. A capo della corporation c’è Lucy Mirando, interpretata da Tilda Swinton, che presenta il suo progetto aziendale in una forma spettacolare e teatrale: lo spettacolo più gretto ed ostentato è ormai la forma privilegiata di comunicazione delle potenti lobby che controllano le economie degli stati. Ma anche questo ce lo aveva già insegnato un capolavoro degli anni Ottanta come Videodrome (1983) di David Cronenberg. Dalla Corea del Sud arriva anche la recente serie TV Squid Game (2021, 9 episodi per una stagione), in cui l’inferno dell’Uguale – come direbbe Byung-Chul Han – è dominato dal denaro, in nome del quale i più poveri e indebitati della società non esitano ad affrontarsi in giochi crudeli e mortali controllati dai più ricchi capi d’azienda del globo, nascosti dietro le quinte come macabri burattinai.

Pensare che quei mondi distopici, post-apocalittici, devastati da conflitti nucleari, da catastrofi naturali, che vediamo nei film e nelle serie TV di fantascienza contemporanee non sono altro che “eterotopie” per rappresentare il nostro mondo ci fa venire i brividi. Ma i brividi ci dovrebbero venire anche a vedere come è il nostro mondo, senza distopie o travestimenti: un mondo dominato dall’economia capitalistica più gretta e meschina, dalla guerra infinita (a sua volta intrecciata alla sfera economica), dalle discriminazioni, dai conflitti sociali, dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, dalla distruzione selvaggia degli spazi naturali e dalla cementificazione incentivata dagli stessi governi e poteri, dalla pervasività del controllo digitale che irrompe anche nella sfera della medicina e della salute, dalle manipolazioni genetiche. La fantascienza e la distopia sono intorno a noi, basta guardare un qualsiasi telegiornale. Però, se abbiamo bisogno di un immaginario che possa funzionare anche come una resistenza (non solo passiva ma anche creativa) a questa distopia quotidiana, a questo lento affondare nell’irrealtà, affidiamoci allora alle eterotopie create dal cinema e dalle serie TV e, non da ultimo, a quella creata da questa interessante Black Knight.

]]>
L’altro che è (anche) in me https://www.carmillaonline.com/2023/04/25/laltro-che-e-anche-in-me/ Tue, 25 Apr 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76766 di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, [...]]]> di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, entrambi sospinti in un improvviso vuoto di riferimenti oggettivi, appare come una caratteristica dell’immaginario moderno, eccitato da un ambiente sociale e tecnologico divenuto sempre più estraneo al proprio essere presente di ogni singolo individuo.
E’ evidente che l’altro da sé stimola gran parte delle paure moderne basate sulle differenze di razza, classe, genere, ma ciò avviene perché spesso tale alterità può anche presentarsi come la presa di coscienza dell’esistenza dell’altro nel sé,

Fu certamente Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 -1822) il primo autore a far precipitare nella letteratura della sua epoca la figura dell’altro da noi che in realtà è in noi, del doppelganger (in tedesco il “doppio camminatore”) che con la sua presenza faccia parte di un altro essere umano e ne condivida la vita, la osservi soltanto oppure cerchi di sostituirsi ad esso. Una sorta di gemello malvagio che si presenta rivelandone il lato oscuro e patologico della personalità.

Ma se la figura del doppio o dell’altro consimile era già presente nelle culture dei secoli precedenti, come effetto di magie e stregonerie, è proprio con la Rivoluzione Industriale che l’altro da sé di cui si ha paura, ma che in realtà è anche parte del proprio sé, esplode nell’immaginario e nella psiche individuale e sociale. Come ha affermato Luca Crescenzi, in una sua introduzione ai Notturni di E.T.A. Hoffmann:

[…] il vero movente della narrazione notturna era la rappresentazione tanto evidente quanto spietata della modernità e, soprattutto, della tecnica quale sua componente essenziale. In modo clamoroso questa dimensione del notturno emergeva nelle pagine dell’Uomo della sabbia, il racconto che, non a caso, poté sedurre più di ogni altro l’immaginazione artistica ottocentesca e novecentesca. Il primo dei Notturni rappresentava infatti in modo più esplicito di ogni altra narrazione hoffmaniana l’aggressione che l’impotente individuo moderno subiva ad opera della tecnica.
[…] L’aspirazione demiurgica della tecnica, la sua volontà di assimilarsi alla potenza divina, venivano qui mostrate nella loro valenza nichilista e distruttiva. Il mondo costruito dalla scienza racchiudeva in se stesso il germe della notte.
[…] Il tratto veramente spaventoso e «perturbante» dei Notturni hoffmaniani era dato dalla visione di un’umanità disumanizzata dalla tecnica e di individui resi incapaci di esercitare un autonomo controllo sulle loro facoltà fisiche e psichiche. Il mondo moderno appariva a Hoffmann percorso in profondità dall’orrore della spersonalizzazione e dell’alienazione del singolo da se stesso. La realtà che esso produceva era una realtà oscura, dominata d una titanica volontà distruttiva1.

Redatto di getto, in una prima versione, nella notte tra il 15 e il 16 novembre 1815 L’uomo della sabbia sarà eguagliato all’epoca, nella critica alla notte dell’umano creato da una tecnica dalle aspirazioni caratterizzate da una demoniaca volontà di potenza, soltanto da un altro romanzo della stessa epoca: Frankenstein o il moderno Prometeo (Frankenstein, or The Modern Prometheus).

Scritto, tra il 1816 e il 1817, da una Mary Shelley ancora diciannovenne, il romanzo sarebbe stato ideato nella piovosa e fredda estate del 1816 mentre l’autrice, Mary Wollstonecraft Godwin insieme al futuro marito Percy Bysshe Shelley e John William Polidori, era ospite di Lord Byron che, per l’occasione aveva affittato Villa Diodati, già Villa Belle Rive, a Cologny, nel cantone di Ginevra.

Se nel racconto di Hoffmann a dominare sarebbe stata l’immagine dell’automa dalle sembianze femminili e dotato di occhi umani strappati a un vivente, nel romanzo della Shelley il lettore sarebbe stato terrorizzato dell’essere creato dal dottor Victor Frankenstein per mezzo dell’assemblaggio di parti di cadaveri e dell’utilizzo della corrente elettrica originata dai fulmini per dare vita al cadavere così ricomposto attraverso un esperimento ispirato a quelli di Luigi Galvani (1737 – 1798).

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a qualcosa di inumano cui viene donata la vita per mezzo di una scienza e di una tecnica profondamente marcate dall’inumanità degli strumenti della ricerca.
In tutte e due le narrazioni ci troviamo di fronte all’anticipazione letteraria di quell’alienazione dell’individuo creata dal sistema delle macchine assurto in auge a partire dalla Rivoluzione industriale e perfettamente messa a fuoco, sul piano politico e sociale, da Karl Marx fin dai suoi giovanili Manoscritti economico filosofici del 1844.

L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. […] Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
[…] La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia capitalistica come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.2.

Svelando poi definitivamente l’arcano nelle pagine successive.

E ora in che consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. […] Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […] Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma a un altro3.

Il passaggio dell’alienazione nella contemporaneità, dal lavoro operaio a quello di strati sociali che da questo pretendevano di essere separati, si manifesta letterariamente nella più famosa opera di Franz Kafka, pubblicata per la prima volta a un secolo di distanza dalle due precedenti nel 1915, La metamorfosi. L’opera forse più sintomatica dell’immaginario moderno vede il tranquillo rappresentante di commercio Gregor Samsa, membro di una famiglia piccolo borghese di Praga, scoprire la propria alienazione, lavorativa e famigliare, e la separazione dal proprio sé attraverso una drammatica e sconvolgente trasformazione fisica.

Gregor Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un po’ la testa vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi. “Che mi è successo?” pensò. Non era un sogno.

Possiamo fissare qui l’inizio dell’incubo della modernità rappresentato dalla paura della perdita del sé o della scoperta di esserne individualmente portatori di un altro che caratterizza le opere cinematografiche analizzate da Gioacchino Toni e Paolo Lago.

Rispettivamente del 1979 (Alien), 1982 (Blade Runner e La cosa) e 1983 (Videodrome), nel giro di pochissimi anni portano sulla scena l’anticipazione, se non la conferma, delle paure più recondite degli individui, più o meno consci della radicale trasformazione antropologica, sociale e psicologica in atto in prossimità della fine del secondo millennio.

Più di centosessanta anni dopo le prime e sessanta dopo l’opera di Kafka, quegli autori ci dicono che la situazione non è migliorata ma, anzi, che è peggiorata. Che, insomma, non è bastato andare sulla Luna o cantare le lodi del welfare state per convincere la società che tutto sarebbe andato bene da lì in avanti. La festa post-sessantottina e successiva alla fine della guerra in Vietnam era già finita.

Il piccolo margine di autonomia conquistato dai lavoratori dell’Occidente e dagli esclusi del Primo e del Terzo Mondo si stava già rinchiudendo. Margaret Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990) e Ronald Reagan (quarantesimo presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989) preannunciavano, non solo simbolicamente, il trionfo di un ultra-liberismo che avrebbe portato alla globalizzazione economica su scala planetaria e alla fine di ogni diritto collettivo o su scala comunitaria, per tornare a rinchiudere gli individui nella ristretta e meschina dimensione del sé.

Motivo per cui sarebbe cresciuta in maniera esponenziale la paura di essere come l’altro, il povero, l’emarginato, il migrante proveniente dalle aree più povere, o devastate da crisi economica o ambientale oppure dalla guerra, del mondo al di fuori di quello che un tempo si riteneva sicuro, benestante e garantito, identificabile con quello bianco e occidentale.

Il cittadino occidentale nello specchio dell’immaginario ha iniziato a non riconoscersi più come tale, ma piuttosto come il futuro povero, figura ben più terrificante della figura del vampiro (che nello specchio, secondo la tradizione, non si rifletteva).

Un altro da sé iniziava a strisciare sul fondo delle coscienze individuali, mentre la crisi del lavoro, delle certezze (anche tecnico-scientifiche) e la paura di un futuro che iniziava a mostrarsi nuovamente come ignoto riportavano alla ribalta la figura dell’automa dotato soltanto di vita apparente, del mostro pronto a esplodere dal proprio interno e dell’individuo sfigurato, fisicamente e psichicamente, da una magia esterna, di cui il medium non sarebbe stato più il negromante, colui che ha la facoltà de di comunicare con gli spiriti e con i morti, ma la rete mediatica rappresentata dalla televisione e dagli altri strumenti di comunicazione di massa elettronici.
Nelle quattro opere cinematografiche analizzate dagli autori sono presenti, in forme e modalità diverse, tutti questi aspetti di una nuova paura che si alimenta ancora di quelle più vecchie, sorte fin dagli albori dell’attuale modo di produzione.

Nell’ultimo dei quattro film analizzati, Videodrome di David Cronenberg, tutti i temi si riuniscono: dal controllo esterno esercitato dai media alla possessione del corpo, orrendamente trasformato in qualcosa di alieno e altro dall’umano, tutto concorre a dare voce alla paura e all’orrore per il non essere più ciò che si pensava di essere oppure del dover rassegnarsi ad agire in maniera non più umana o, perlomeno, che come tale si pensava.

Nel film di Cronenberg, ha scritto in suo saggio Gianni Canova: «Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno delle televisione.»4.

Tecnologia, controllo della mente e del corpo, alienazione sociale e individuale si fondono nel corpo umano che diventa altro da sé e allo stesso tempo non più umano ma nemmeno soltanto artificio robotico. In tal modo

Cronenberg inaugura dunque un nuovo tipo di cyborg, che nasce dalla fusione del corpo biologico dell’uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta: non più un cyborg elettromeccanico, con impianti spinotti e prese craniali, ma un ibrido tra corpo e flusso comunicativo, quello che potremmo definire “cyborg del codice”5.

E’ di una anno successivo l’uscita del romanzo di SF che avrebbe poi aperto le porte al cyberpunk nella fantascienza, Neuromante di William Gibson (1984), in cui il collegamento tra mente e rete diventa elemento, forse meno tormentato che nel film sopra citato, di quasi normalità nell’esistenza quotidiana e nella società dell’economia dell’informazione.

Quest’ultimo tema, però, rischia di portare lontano da quello iniziale, sul quale occorre tornare in queste ultime righe. Sottolineando come le paure manifestatesi nell’immaginario letterari all’inizio del capitalismo industriale e nel periodo della sua conferma come modo di produzione dominante su scala planetaria siano state confermate e amplificate dal cinema della fine del secondo millennio.

Aprendo una finestra da incubo su quella che sarebbe poi diventata la nostra attuale realtà: in cui l’individuo si è perso, dentro e fuori i luoghi di lavoro e in cui i social hanno finito col divenire luoghi “reali” dell’agire umano e della diffusione di un pensiero unico, di cui gli utenti non sembrano più manifestare alcune coscienza.

Da oggetti originari delle paure della modernità gli automi, i corpi modificati e la perdita della coscienza individuale sono quindi diventati il pane quotidiano dell’agire umano, rovesciando e trasformando in disumano e nemico ciò che è altro da sé: l’umana fatica e sofferenza, nella loro concreta realtà, e il conflitto sociale che ne deriva inevitabilmente.

Il capitale è entrato così nei corpi, nelle coscienze e nell’immaginario della specie minandone la comunità possibile per perpetrare, come lo xenomorfo di Alien, unicamente la propria.


  1. L. Crescenzi, Introduzione a E.T.A. Hoffmann, Notturni, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 12-13.  

  2. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi editore, Torino 1968, p. 71.  

  3. K. Marx, op. cit., pp.74-75.  

  4. G. Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano 1993 cit. in A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing, Brescia 2022, p. 111.  

  5. A. Caronia, op. cit., p.112.  

]]>
Alle radici di un nuovo immaginario https://www.carmillaonline.com/2023/03/09/alle-radici-di-un-nuovo-immaginario/ Thu, 09 Mar 2023 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75871 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Paolo Lago e Gioacchino Toni, Alle radici di un nuovo immaginario. Alien, Blade Runner, La Cosa, Videodrome. Prefazione di Sandro Moiso (Rogas 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

Consapevoli che lo sguardo sull’alterità è inevitabilmente anche uno sguardo su sé stessi, sulla propria identità, alcune opere cinematografiche uscite a ridosso dei primi anni Ottanta del Novecento – Alien (1979) e Blade Runner (1982), entrambe di Ridley Scott, La Cosa (The Thing, 1982) di John [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Paolo Lago e Gioacchino Toni, Alle radici di un nuovo immaginario. Alien, Blade Runner, La Cosa, Videodrome. Prefazione di Sandro Moiso (Rogas 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

Consapevoli che lo sguardo sull’alterità è inevitabilmente anche uno sguardo su sé stessi, sulla propria identità, alcune opere cinematografiche uscite a ridosso dei primi anni Ottanta del Novecento – Alien (1979) e Blade Runner (1982), entrambe di Ridley Scott, La Cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter e Videodrome (1983) di David Cronenberg – hanno affrontato in maniera del tutto nuova le montanti paure identitarie del periodo costringendole al confronto con alterità sempre più spaventose. […]

Nelle opere qui selezionate come apertura degli anni Ottanta il futuro si mostra tutt’altro che rassicurante; la tecnologia si svela ben poco affascinante e desiderabile e le corporation che governano i diversi contesti si rivelano interessate esclusivamente al profitto, tanto da mettere in gioco senza alcuna remora il futuro stesso dell’umanità o quel che ne resta.

Ad essere ricorrente in queste opere cinematografiche è anche il timore della perdita del controllo sulle tecnologie; si tratta di una paura ricorrente nel mondo tecnologico e più quest’ultimo è complesso, dunque meno di esso è dato di comprendere, maggiormente si risvegliano inquietudini profonde.

I film presi in esame prospettano una visione distopica del futuro, lontanissima da quei radiosi scenari futuristici che facevano da sfondo anche alle avventure più spaventose messe in scena dalla cinematografia precedente: l’astronave di Alien o la metropoli di Blade Runner si mostrano spazi pericolosi che si reggono su un equilibrio precario che potrebbe implodere da un momento all’altro, la distesa di neve in cui è ambientata La Cosa non esercita alcun fascino e la tele-visione che plasma la mente e il corpo degli individui in Videodrome si prospetta come anticipazione di uno spazio disumanizzato ove l’individuo, sedotto e abbandonato dalle immagini, è condannato a vivere da sfruttato in uno stato di perenne allucinazione a cui paradossalmente fornisce volontariamente il suo contributo1.

Spetta a film come questi disturbare il mito del successo individuale, con la sua pretesa di fare a meno di ogni residuo di socialità, che inizia a diffondersi, come un virus, sin dai primi anni Ottanta. […]

Gianni Canova ricorda come negli anni Cinquanta, nell’indagare la figura dell’alieno nella fantascienza, già Roland Barthes2 avesse sottolineato la sostanziale incapacità nella cultura occidentale di immaginare l’Altro, tanto da risolvere il “controllo sociale dell’alterità” «attraverso un atto di appropriazione e di ridefinizione morfologica che lo rendeva in tutto e per tutto omologo all’Identico»3. Ebbene, già sul finire degli anni Settanta, con il graduale eclissarsi della figura del “nemico esterno”, l’immaginario occidentale si è trovato a fare i conti con “il ritorno del rimosso” e, non avendo più a disposizione un oggetto esterno su cui addossare le proprie paure, ha finito per proiettarle su di un «mostruoso “fantasma circolante, senza forma o confini”, a cui dà tout court il nome archetipo di Alien»4.

Dalle pellicole qui prese in esame sembrano insomma emergere quelle inquietudini identitarie che attraversano gli Stati Uniti a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta destinate a proiettarsi, ben oltre i confini americani, fino ai nostri giorni. L’incontro con l’alterità diviene pertanto l’occasione per fare i conti con sé stessi alle prese con un inquietante mutamento identitario in atto. […]

Alien, Blade Runner, La Cosa e Videodrome si prestano anche ad essere analizzati dal punto di vista dello spazio. In essi, infatti, si alternano diverse tipologie di spazi che possono essere affrontate per mezzo degli strumenti critici offerti da studiosi come Gilles Deleuze, Félix Guattari e Michel Foucault. Ai primi si devono i concetti di “spazio liscio” e “spazio striato”, esposti in Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, uno studio uscito proprio agli inizi degli anni Ottanta, come i film presi in esame. Lo “spazio liscio” è quello del deserto, legato alla “macchina da guerra nomade”, lo “spazio striato”, invece, è proprio dell’organizzazione del potere della città e dell’apparato di Stato5. Michel Foucault, invece, in una conferenza tenuta nel 1967 e pubblicata postuma nel 1984 col titolo Des espaces autres, a fianco di “utopia” introduce il termine di “eterotopia”6. Quest’ultima, nell’ottica dello studioso, si configura come un luogo separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo”7. […]

[In] tutti e quattro i film la minaccia proviene sempre da una spazialità “liscia”: in Alien e Blade Runner la creatura aliena ed i replicanti giungono dallo spazio, in La Cosa il mostro mutante giunge anch’esso dallo spazio galattico ma anche dal deserto di ghiaccio dell’Antartide, dove viene rinvenuto. In Videodrome, infine, la minaccia proviene dallo schermo e dall’etere delle stazioni televisive, da luoghi inconsistenti e spettrali, onnipervasivi quasi quanto la rete Internet di oggi.

In ognuno di questi film occorrerà prestare anche una particolare attenzione allo spazio come ambiente, come sfondo dell’azione scenica perché i personaggi interagiscono sempre con un ambiente. Quest’ultimo può assumere diverse sembianze e valenze, può essere esterno o interno e, alcune volte, può assumere le caratteristiche delle eterotopie foucaultiane, di spazi cioè completamente “altri”, separati da tutti i normali ambienti della quotidianità.

[Le] pellicole qua affrontate si mostrano del tutto prive di intenzioni rassicuranti; si tratta di opere nate sulle inquietudini per dispensare dubbi. Nel bene e nel male, i primi anni Ottanta del secolo scorso hanno davvero rappresentato un importante spartiacque politico, culturale ed estetico e i film di Ridley Scott, John Carpenter e David Cronenberg hanno sapientemente dato immagine a un nascente nuovo immaginario che, a ben guardare, si è riverberato fino ai nostri giorni. […]

A ridosso dei primi anni Ottanta, Alien, Blade Runner, La Cosa e Videodrome forniscono le prime avvisaglie di alcune questioni su cui, come ha efficacemente illustrato Gianni Canova,8 insisterà, con maggiore evidenza e consapevolezza, il cinema del decennio successivo:

la crisi dell’egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà, l’avvento di un paradigma tecnologico e culturale in cui l’immagine filmica reagisce alla consapevolezza del proprio definitivo ingresso in un regime di simulazione lasciando emergere la crisi delle sue forme tradizionali e dei suoi più collaudati dispositivi di rappresentazione del visibile9.

La progressiva caduta dei sogni di onnipotenza dello sguardo e della fiducia concessa dal cinema all’illusione riproduttiva/sostitutiva del reale, ha indotto diversi film a prospettare una sorta di rinuncia a vedere. […]

Già i quattro film su cui ci si concentra la disamina si fanno carico di segnalare come l’atto del vedere non sia più sufficiente per comprendere e capire, palesando così l’entrata in crisi di una convenzione su cui reggevano il cinema e tutto l’immaginario dell’era del visibile. […]

Alien e Blade Runner di Ridley Scott, La Cosa di John Carpenter e Videodrome di David Cronenberg hanno saputo aggiornare lo sguardo, dando immagine a quelle inquietudini identitarie e a quelle mostruosità che hanno fatto capolino insieme al neoliberismo in apertura degli anni Ottanta e che, in fin dei conti, non sono che le premesse alla nostra contemporaneità, le radici di un nuovo immaginario.

 


  1. Cfr. Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone, Roma 2022. 

  2. Cfr. Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974. L’edizione originale in lingua francese è del 1957. 

  3. Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2022, p. 128. La prima edizione del saggio è del 2000; in questo testo viene fatto riferimento all’edizione 2022. 

  4. Ivi, p. 129. 

  5. Cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010, pp. 451-458. 

  6. Cfr. Michel Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di a cura di Salvo Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine 2002, pp. 19-32. 

  7. Ivi, p. 25. 

  8. Cfr. Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, op. cit. 

  9. Ivi, p. 12. 

]]>
Astronavi nell’infinito, fra incubi e sogni https://www.carmillaonline.com/2023/01/23/astronavi-nellinfinito-fra-incubi-e-sogni/ Mon, 23 Jan 2023 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75717 di Paolo Lago

M. Tetro, R. Azzara, Astronavi. Le storie dei vascelli spaziali nella narrativa e nel cinema di fantascienza, Odoya, Bologna, 2022, pp. 383, euro 22,00.

In una scena del dramma Vita di Galileo (1938-39) di Bertolt Brecht, lo scienziato pisano, parlando con Andrea Sarti, figlio della sua governante, così afferma: “Io ho in mente che tutto sia incominciato dalle navi. Sempre, a memoria d’uomo, le navi avevano strisciato lungo le coste: ad un tratto se ne allontanarono e si slanciarono fuori, attraverso il mare. Sul nostro vecchio continente allora si sparse [...]]]> di Paolo Lago

M. Tetro, R. Azzara, Astronavi. Le storie dei vascelli spaziali nella narrativa e nel cinema di fantascienza, Odoya, Bologna, 2022, pp. 383, euro 22,00.

In una scena del dramma Vita di Galileo (1938-39) di Bertolt Brecht, lo scienziato pisano, parlando con Andrea Sarti, figlio della sua governante, così afferma: “Io ho in mente che tutto sia incominciato dalle navi. Sempre, a memoria d’uomo, le navi avevano strisciato lungo le coste: ad un tratto se ne allontanarono e si slanciarono fuori, attraverso il mare. Sul nostro vecchio continente allora si sparse una voce: esistono nuovi continenti. E da quando le nostre navi vi approdano, i continenti ridendo dicono: il grande e temuto mare non è che un po’ d’acqua”. Probabilmente, la letteratura e il cinema di fantascienza hanno dischiuso un immaginario simile: hanno permesso che gli aerei o qualsiasi tipo di ‘macchine volanti’ non ‘strisciassero’ più attaccati al pianeta, ma si slanciassero al di fuori della sua atmosfera, nello spazio più profondo. In definitiva, cos’altro sono le astronavi se non aerei che si innalzano nel cielo, oltre ogni confine o, per l’appunto, navi che si distaccano dal mare per dirigersi verso gli ‘astri’? Luciano di Samosata (II sec. d.C.), nella “Storia vera”, immagina infatti che sia proprio una nave, sollevata in aria da un tifone, a compiere un viaggio sulla Luna, dove l’equipaggio (di cui faceva parte lo stesso autore) avrebbe incontrato la stirpe dei Seleniti. D’altra parte, celebri astronavi come la corazzata Yamato, che incontriamo originariamente nella serie d’animazione giapponese “Star Blazers” (1974-1981), o l’Arcadia di Capitan Harlock, appartenente al manga “Capitan Harlock” (1977-1979) di Leiji Matsumoto, non sembrano vere e proprie navi che hanno preso il volo? La prima ha l’aspetto e il nome di una corazzata della Marina Militare giapponese della Seconda Guerra Mondiale, mentre la seconda, connotata come una nave pirata, ha il cassero di poppa di un vascello settecentesco.

Michele Tetro e Roberto Azzara, nel loro bel libro, ci offrono una convincente cronistoria illustrata “dei vascelli spaziali nella narrativa e nel cinema di fantascienza”, dalle prime testimonianze letterarie e cinematografiche fino ai giorni nostri. Le astronavi e le basi spaziali di alcuni fra i più noti film di fantascienza, alle quali è dedicata la seconda parte del saggio, sono descritte e raccontate come se fossero reali per cui, spesso, in modo straniante, ci troviamo di fronte a delle vere e proprie ‘schede tecniche’; leggendole, per qualche attimo, il nostro senso di realtà vacilla e si interseca con l’immaginario fino a chiederci: “ma allora sono esistite ed esistono davvero!”. La prima parte del libro è dedicata a un’altra cronistoria, stavolta su “una, cento, mille navi stellari”, fin da quando “le silenziose distese cosmiche si affollarono di mezzi artificiali di ogni sorta, riducendo alla portata umana gli abissi dell’Universo insondabile, là dove, invece, nella realtà, l’umanità stava ancora muovendo i primi, timidi passi al di fuori dell’atmosfera terrestre, a bordo di minuscole e claustrofobiche capsule Mercury o Vostock, unicamente abilitate al volo orbitale”. La terza parte prende curiosamente in esame “l’astronave che s’indossa”, cioè la tuta spaziale, elemento presente in pressoché tutti i film che narrano viaggi nel cosmo: l’immaginario cinematografico ha creato infatti tute spaziali di diverse forme e fogge, dalle più fantasiose alle più realistiche. Infine, a chiudere il libro, incontriamo un’intervista al grafico modenese Roberto Baldassarri, autore di straordinari disegni tecnici relativi ai mezzi spaziali e alla base “Alpha” della serie tv inglese Spazio 1999 (Space: 1999, 1974-1977).

Gli autori sottolineano come nel tempo sia cambiata l’estetica dell’astronave: dall’aspetto sigariforme del razzo (che incontriamo fin dal Voyage dans la lune, 1902, di Georges Méliès) a quello sferico del disco volante, per assumere le forme più svariate che rappresentano una specie di ibrido fra queste due originarie (come, ad esempio, la Enterprise di Star Trek). Le rappresentazioni iconografiche delle astronavi sono poi il frutto dell’immaginario di autentici artisti: Chesley Bonestell, che inizia la sua carriera di pittore dello spazio nel 1944; Chris Foss, nato nel 1946, “che portò la space art a livelli di qualità assoluti” (peccato che le immagini del libro siano in bianco e nero: sarebbe stato bello vedere quei “cromatismi accesi” delle navi spaziali di Foss, come recita una didascalia); gli italiani Franco Storchi, Michelangelo Miani, Franco Brambilla e Luca Oleastri, autori di “grandiose” e “magnifiche” navi spaziali.

Come afferma Michel Foucault in una conferenza radiofonica del 1966 dal titolo Des espaces autres (cioè gli “spazi altri” o “eterotopie”) la nave “è la maggiore riserva della nostra immaginazione” perché è il mezzo attraverso cui la fantasia umana ha varcato confini, ha liberato il proprio sapere (come dice il Galileo di Brecht), ha tenuto vivo il fuoco del suo immaginario. La nave, secondo lo studioso francese, “è un pezzo di spazio vagante, un luogo senza luogo che vive per se stesso, chiuso in sé, libero per certi aspetti ma fatalmente consegnato all’infinito del mare” che “giunge fino alle colonie”. È “l’eterotopia per eccellenza”: strumento di connessione, di contatto, di scambio, di slancio libero nell’ignoto della fantasia liberata. Lo stesso, credo, può dirsi di un’astronave: spazio chiuso in sé, dove si può radunare la stessa umanità superstite in viaggio verso nuovi mondi da colonizzare (come nella serie Lost in space e nei film da essa derivati), luogo aperto ad altri luoghi e ad altri incontri, anche con le alterità aliene più terribili e letali (come in Alien di Ridley Scott), microcosmo in viaggio verso sognati percorsi di liberazione ma anche verso gli incubi più inquietanti.

Allora, nella seconda e più corposa parte del libro, dal titolo “Astronavi nell’infinito”, alcune fra le più iconiche e celebri astronavi del cinema e della televisione si dischiudono di fronte al nostro sguardo offrendoci il loro contenuto di sogni, ma anche di incubi. Una delle astronavi più celebri, sia in televisione che al cinema, è sicuramente la Enterprise della serie Star Trek (1966-1969), ideata da Gene Roddenberry. La forma della prima Enterprise conosciuta dal pubblico (perché, in effetti, nella serie e nei suoi derivati ci sono molte astronavi che portano questo nome), come già notato, “non era quella classica delle astronavi che si vedevano nelle produzioni di fantascienza precedenti o coeve, solitamente a missile sigariforme o a «disco volante», ma si presenta quasi come un incrocio di questi due elementi: una sezione a disco innestata a una sezione tubolare con due motori appunti sigariformi”. L’Enterprise non è solo un mezzo di trasporto, come scrivono gli autori, ma una vera casa e un’amica, un vero e proprio “personaggio” tra i personaggi, “un elemento indispensabile per l’essenza stessa del telefilm”. L’Enterprise di Star Trek, una serie celeberrima anche in Italia (dove arrivò nel 1979) con personaggi cult come il capitano Kirk o il “vulcaniano” Spoke, ha dischiuso a spettatori e appassionati un immaginario ricco di innumerevoli viaggi nello spazio profondo. Come, del resto, ha fatto quella che è a buon diritto considerata la più importante pellicola di fantascienza mai realizzata, nonché uno dei capolavori della storia del cinema, 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick. La Discovery 1 del film è dotata di un’intelligenza artificiale dal nome di HAL 9000, programmata per simulare atteggiamenti umani e interagire con gli astronauti. È stato proprio questo computer superumano a provocare il disastro della “missione Giove” e la morte di quattro membri dell’equipaggio: l’astronave ‘senziente’ del film si presenta perciò come una specie di antesignana delle più diverse intelligenze artificiali che interferiscono con la volontà umana in molti successivi film di fantascienza. L’astronauta Bowman, unico superstite a bordo, dopo essere riuscito a ‘lobotomizzare’ HAL 9000, si perde con la Discovery tra i satelliti di Giove, senza più riuscire a tornare indietro. Nel film di Kubrick ci sono anche altri mezzi spaziali assimilabili al concetto di ‘astronave’: ad esempio, la “Stazione Spaziale 5”, dalla forma di una gigantesca ruota (che probabilmente ha ispirato l’“arca”, dalla stessa forma, dove si raccoglie l’umanità superstite dopo un disastro atomico, nella serie tv The 100), tappa intermedia di rifornimento per i voli Terra-Luna, o l’aereo spaziale “Orion III”, logica evoluzione dei reali space shuttle, somigliante ad aerei di linea “Boeing 737”.

Di forma circolare, come la “Stazione Spaziale 5”, è anche la stazione orbitante di Solaris, romanzo di fantascienza di Stanislaw Lem del 1961, dal quale Andrej Tarkovskij ha tratto il suo film del 1972. Vero e proprio spazio ‘altro’ creatore di incubi provenienti dai fantasmi dell’inconscio dei personaggi, la stazione orbitante intorno al pianeta ‘senziente’ Solaris, nel film del regista russo, perde le classiche connotazioni fantascientifiche per assumerne altre, simboliche e legate all’immaginario poetico di Tarkovskij. Quest’ultimo, infatti, diffonde “in ogni dove tutta una serie di oggetti inammissibili su una stazione orbitante e del tutto improbabili nel cinema dedicato all’avventura spaziale”, fra cui icone della tradizione russa, servizi da tè in ceramica, statue greche, classici antichi e moderni, raffigurazioni artistiche di scuola fiamminga, lampadari con gocce di cristallo, candelabri. Lo spazio della stazione spaziale del film di Tarkovskij viene decontestualizzato e ricostruito secondo l’immaginario artistico dell’autore. Un altro ambiente per certi aspetti decontestualizzato dai cliché che prevedono lo spazio delle astronavi come perfetto ed asettico è quello che caratterizza gli interni della Nostromo di Alien (1979) di Ridley Scott. All’inizio del film, dopo alcune immagini che mostrano in navigazione il gigantesco ‘rimorchiatore’ spaziale rappresentandolo come una specie di terribile mostro che solca oscuri abissi, vediamo gli interni dell’astronave prima del risveglio dell’equipaggio. La macchina da presa si insinua nei corridoi con movenze quasi da film horror, come se dietro ogni angolo si potesse già incontrare la terribile creatura aliena che sterminerà pressoché tutto l’equipaggio. Gli interni e gli oggetti elettronici presenti, i computer di bordo, sembrano pervasi da un alone di antiquata marcescenza segnata dal rintocco di due uccellini meccanici che – al pari degli automi-giocattolo che abitano la casa di J.F. Sebastian in Blade Runner (1982) dello stesso Scott – si muovono a scatti in un tetro abisso di silenzio. Successivamente, quando gli esseri umani riprendono possesso dell’ambiente, durante il loro pasto, quello stesso ambiente si trasforma quasi nella familiare cucina di casa dove si bevono tazze di caffè e si fumano sigarette. Gli interni della “Nostromo” appaiono perciò intrisi anche di un sentore di quotidianità non presente in nessun’altra astronave precedente.

Al gotico e inquietante aspetto esteriore della Nostromo si ispira successivamente la Event Horizon di Punto di non ritorno (Event Horizon, 1997) di Paul W. Anderson. L’astronave, il cui motore era in grado di creare un varco dimensionale per spostamenti rapidi negli abissi spaziali, “ricorda più una cattedrale gotica che una moderna astronave sperimentale” configurandosi come “una dichiarata magione spaziale infestata”. Non a caso, lo scenografo David Sharpe “ha affermato di essersi ispirato per il progetto della nave alla cattedrale di Notre-Dame, con i due propulsori laterali a fungere da campanili”. La gigantesca astronave scompare misteriosamente per poi riapparire di fronte alla nave di recupero Lewis and Clark configurandosi come un’astronave fantasma, quasi come una versione spaziale del cupo e spettrale vascello dell’“Olandese volante”. Se la Event Horizon appare come un’improbabile cattedrale gotica volante, ben più realistica è invece la Endurance di Interstellar (2014) di Christopher Nolan. Essa, infatti, si può considerare come “una delle più verosimili astronavi a lungo raggio viste in un’opera cinematografica”. D’altra parte, come ricordano gli autori del libro, lo stesso scenografo Nathan Crowley “affermò che l’intenzione era quella di evocare nel film una nuova generazione di possibili astronavi della NASA”. L’Endurance è una di quelle navi spaziali progettate per portare in salvo l’umanità dalle catastrofi terrestri, nella fattispecie la “Piaga”, un parassita in grado di distruggere tutte le coltivazioni della Terra. In questo caso, allora, l’incubo è rappresentato dallo stesso ambiente terrestre, sottoposto a ipersfruttamento e inquinamento, mentre il sogno si intravede nei più lontani interstizi extraterrestri.

Dopo la lettura del libro, aumenta quindi la convinzione che anche le astronavi siano “eterotopie per eccellenza”, secondo la definizione di Foucault riferita alle navi. Luoghi senza luogo, chiusi in sé ma anche fatalmente aperti, consegnati all’infinità del cosmo. E se quest’ultimo, sostituendosi al mare, diviene un nuovo vettore di “spazio liscio”, per usare un termine coniato da Gilles Deleuze e Félix Guattari, è proprio in esso che si muovono i veicoli spaziali, nuovi nomadi di sogni che spalancano inusitati territori per l’immaginario liberato. Scrigni che aprono fantasie, percorsi inesplorati e sconosciuti, inedite linee di fuga perennemente in bilico fra incubi e sogni.

]]>
L’alieno, il pipistrello e il clown tragico. Transiti identitari e impotenze visive https://www.carmillaonline.com/2022/08/28/lalieno-il-pipistrello-e-il-clown-tragico-transiti-identitari-e-impotenze-visive/ Sun, 28 Aug 2022 20:52:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73308 di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano (e che in essi si esprimono): la minaccia e la rassicurazione, l’alterità e l’identità» (p. 123).

In queste righe che aprono il capitolo dedicato alle due serie di film che Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022) [su Carmilla], sceglie come terreno privilegiato di analisi di quei processi di crisi che investono e di cui danno consapevolmente conto i film negli ultimi decenni del vecchio millennio, ponendosi al contempo come avvisaglie della contemporaneità più recente, esplicita la centralità che ha assunto il rapporto alterità/identità in un periodo storico segnato da grandi trasformazioni sia a livello materiale che di immaginario.

Alien e Batman anziché collocarsi nettamente all’interno delle polarizzazioni minaccia/rassicurazione ed alterità/identità, transitano tra di esse trovando nell’ibridazione la loro specifica connotazione costitutiva, inoltre, continua Canova, l’alieno e il pipistrello sembrano aver bisogno l’uno dell’altro:

Alien trova cioè in Batman la figura mitopoietica necessaria a bilanciare la sua ambigua minacciosità con un’altrettanto ambigua rassicurativà, mentre per Batman vale esattamente l’opposto. Nel rapporto chiasmico che le lega, le due figure danno vita dunque a un sistema di compromesso, o a una coincidentia oppositorum: per certi versi, sostituiscono a loro volta l’aut aut del moderno con l’et et del postmoderno. E perimetrano un territorio immaginario in cui fra minaccia e rassicurazione (ma anche fra identità e alterità, fra visibilità e invisibilità, fra riproposta delle forme classiche e crisi dei processi di significazione) non c’è più contrapposizione esclusiva, ma solo e sempre coabitazione inclusiva (p. 124).

Si tratta di serialità tipicamente postmoderne, costruite sulla mescolanza e sulla contaminazione di codici e linguaggi, che, rifuggendo la logica fordista della catena, optano per la reticolarità, costruite come sono attorno a “un mostro senza volto” (Alien) o a un “eroe mascherato” interpretato di volta in volta da attori differenti (Batman). Sono serie fondate su criteri di

flessibilità, multidimensionalità e pluricorporeità (sia attoriale sia testuale) […] in cui tra un episodio e l’altro non c’è più, necessariamente, né ripetizione né sviluppo diegetico […] in cui “la differenza eclissa la norma” in un processo di ottimizzazione del “marchio di fabbrica” che ha bisogno di espandersi in ogni direzione, di dilatarsi al massimo. E di autoriprodursi incessantemente, in ogni modo e in qualsiasi direzione. (pp. 126-127).

La questione della riproducibilità, del resto, è ricorrente in entrambi casi; nel caso del mostro alieno questa si palesa con la sua ossessione riproduttiva che lo pone alla costante ricerca di corpi entro cui poter generare la propria discendenza, nel caso dell’eroe oscuro di Gotham City si insite invece sul suo stato di orfano che si trova ad agire da “macchina celibe” improduttiva.

Canova ricorda come, negli anni Cinquanta, nell’indagare la figura dell’alieno nella fantascienza, già Roland Barthes avesse sottolineato la sostanziale incapacità nella cultura occidentale di immaginare l’Altro, tanto da risolvere il “controllo sociale dell’alterità” «attraverso un atto di appropriazione e di ridefinizione morfologica che lo rendeva in tutto e per tutto omologo all’Identico» (p. 128). Evidentemente, continua Canova, si è trattato di processo di rimozione di comodo destinato a durare poco, visto che già sul finire degli anni Settanta l’immaginario occidentale si è trovato a fare i conti con “il ritorno del rimosso” e ciò, soprattutto nella cultura statunitense, si colloca all’interno di quel progressivo eclissarsi della figura del nemico esterno. Per certi versi è proprio nel venir meno «di un oggetto esterno su cui scaricare e a cui attribuire la responsabilità delle proprie paure persecutorie [che] la società occidentale le proietta in un mostruoso “fantasma circolante, senza forma o confini”, a cui dà tout court il nome archetipo di Alien» (p. 129).

Di fatto, nell’immaginario degli ultimi due decenni Alien “eccita” le fantasie di alterità e negozia la loro controllabilità sociale. Dà una forma all’Altro e lo rende visibile, ma segnala anche il pericolo che si annida nel nostro ostinarci a volerlo vedere. Di fronte a un pantheon cinematografico sempre più sguarnito di eroi, Alien offre al contempo un appagamento al bisogno inconscio di minacciosità e una garanzia che quella minaccia non diverrà mai reale (pp. 130-131).

La serie Alien, esplicitando sin dalle modalità con cui si compone il titolo del primo film (da una serie di brevi linee bianche) il suo rifarsi a un meccanismo generativo che prevede l’identico produrre il diverso e il differente generarsi a partire dall’uguale, si inserisce all’interno dell’archetipo del mostro proteiforme. La serie Batman deriva invece dall’archetipo dell’ibrido (uomo/pipistrello, roditore/volante ma è tale anche per la sua transcodificabilità e flessibilità multimediale).

Non è difficile vedere come entrambe le serie palesino un «legame metaforico (e metalinguistico) con la dimensione della filmicità» (p. 132): Batman diviene tale dopo essere restato orfano di ritorno dal cinema, pertanto la sua scelta può essere vista come «risposta nemesiaca a un dolore immeritato che ha interrotto il piacere conseguente a un consumo scopico» (p. 132), Alien, invece, «emerge dalle tenebre in cui è sepolto quando un raggio di luce fende la caverna in cui giace […] e si proietta direttamente sul suo organismo» (p. 132).

Seppure in maniera diversa, Alien e Batman sono due figure di transito identitario: il primo «cerca di sfuggire alla sua alterità fecondando il corpo di una donna che renda la sua progenie simile a lei, ma si vede continuamente respinto nella sua corsa verso l’identico dai rifiuti che riceve e dall’orrore che provoca, tanto da essere ogni volta rigettato all’indietro, verso le regioni buie e oscure dell’informe» (p. 133), il secondo, invece, controlla i suoi spostamenti tra i suoi due estremi identitari potendo contare sulla reversibilità.

Un’ulteriore metamorfosi di Batman deriva dalla sua rilettura gotica e spettrale dell’archetipo che lo conduce nel «buio di una città che sembra essere immersa nella stessa luce sporca e malata del pianeta di Alien, che comincia a proiettare nel cielo il suo marchio luminoso» (p. 134), quasi a rimandare a quella proiezione archetipa che, da bambino, di ritorno dal cinema, ha indirizzato il suo destino al desiderio di vendetta.

Se in Alien tutti sono in qualche modo stranieri che abitano i diversi luoghi in una situazione di transito, gli abitanti di Gotham City, città priva di estranietà rispetto a cui costituirsi identitariamente come differenza, intrattengono con il luogo relazioni di appartenenza e di identificazione, facendo tutti parte della medesima razza-cultura. In tale realizzazione del sogno occidentale autocentrico e solipsistico, la

figura minacciosa dell’Altro inteso come barbaro, diverso o straniero che preme ai confini e minaccia di entrare, secondo quella sindrome invasiva che costituisce la vera fobia epocale della società occidentale di fine millennio, nel mondo finzionale di Batman è esclusa a priori. L’Altro, a Gotham City, non viene da fuori, nasce da dentro. Emerge all’improvviso dalle viscere della città, appare nel buio livido delle sue notti. E la sua alterità è tanto più traumatica quanto più è avvertita, appunto, come endogena: quanto più marca ed evidenzia cioè una frattura che spacca in due un corpo etnico-sociale apparentemente coeso, rivelando il ritorno della differenza laddove sembrava non dovesse esserci che identità (p. 142).

Analogamente Alien e Gotham City si mostrano entità informi e mutevoli che adottano rapporti mimetici nei dei confronti dei corpi con entrano in contatto: «Alien assume la forma dei corpi in cui penetra, Gotham City si fa imprimere una forma da coloro che lottano per il suo dominio» (p. 144). Mentre «Gotham City è il luogo dell’Identico che genera al proprio interno l’Altro (architettonico, antropologico, etico, segnico), il cosmo di Alien è il luogo dell’Altro che si riplasma perennemente all’insegna dell’Uguale» (p. 146).

Entrambe le serie, sottolinea Canova, operano un indebolimento delle forme codificate e consolidate della della figura del viaggio. In Batman, pur trovandosi sempre nello stesso luogo, si ha l’impressione dell’altrove, di essere di volta in volta in luoghi diversi, in Alien, pur non essendo mai nello stesso posto, è come se lo si fosse in quanto i luoghi si presentano uguali. «L’estetica postmoderna della rovina (architettonica in Batman, meccanico-metallica in Alien) serve dunque ai creatori di Batman per produrre una spazialità differenziata ed eterogenea nei territori dell’Identico, mentre viene usata dai creatori di Alien per omologare la radicale alterità del mostro, imbrigliandola dentro spazi diegeticamente diversi ma iconicamente identici» (p. 148).

L’uomo-pipistrello e l’alieno tentano di sottrarsi allo sguardo altrui, di essere ridotti ad oggetto scopico. Il primo lo fa sia sul piano iconico (mascherandosi) che su quello diegetico (intervenendo nel racconto per impedire agli altri di fotografarlo o di filmarlo), il secondo agisce sul piano scopico (occultandosi).

L’inafferrabilità visiva dell’alieno, sottolinea Canova, non è però dovuta alla sua particolare conformazione fisica e iconica, che si scoprirà mutevole pur conservando sempre una componente animalesca sessualmente marcata irriducibile alla razionalità tecnica con cui si trova a fare i conti. La sua inafferrabilità è sopratutto cinematografica:

Alien è un mostro instabile o indecidibile non per le sue intrinseche caratteristiche teratologiche […] quanto per le modalità con cui viene messo in scena. Risulta instabile nella misura in cui diventa oggetto scopico. Allora si sottrae alla vista, sfugge e si nasconde, elude le trappole della tassonomia percettiva. E porta sullo schermo il trauma della inidentificabilità del visibile. Non basta vederlo per conoscerlo, per capirlo, per dargli una forma. La sua apparizione segna lo scacco della vista, è un evidente sintomo della sua crisi (p. 156).

Alien palesa come il limite dello sguardo non risieda soltanto nel fuoricampo; anche ciò che si fa intercettare dallo sguardo può non lasciarsi comprendere. «Alien è il sintomo esplicito di una frattura fra il vedere e il conoscere: la visibilità non garantisce più la conoscenza, non certifica alcuna verità. Produce piuttosto incertezza, indecisione, instabilità» (p. 156).

Alien sfugge al dominio dello sguardo sia per le modalità con cui è messo in scena visivamente che perché ogni sua apparizione diegetica manda in tilt i dispositivi tecnologici della visione. Nel suo continuo e simultaneo apparire-sparire è possibile scorgere «uno dei segni più radicali del disagio attraverso cui lo sguardo filmico svela a se stesso il proprio collasso epocale, e ne prende atto (o lo esorcizza) cercando – ancora una volta – di metterlo in scena » (p. 159)

Alien è anche un soggetto scopico inquietante, oltre che sfuggente: oltre a sottrarsi allo sguardo umano ne mette in campo uno proprio, “altro”, disorientante. L’intera serie è disseminata di sguardi senza padrone non attribuibili a qualche personaggio e nemmeno interpretabili come visioni diegetiche di un narratore esterno. Ad inquietare nella serie «non è tanto un differente modo di vedere, quanto il fatto che non è mai del tutto chiaro chi sta vedendo o guardando per noi. È la scoperta che la radicale alterità di cui Alien è portatore si esprime in uno sguardo del tutto simile al nostro (o a quello che i modi di rappresentazione e la retorica del cinema ci hanno abituato a percepire come “nostro”)» (p. 161).

I meccanismi di negoziazione fra Altro e Identico, attorno a cui ruota la problematica della definizione identitaria, sono riconducibili ai nemici di Batman ed a quelli di Alien, in particolare Ripley, che viene presentata come una novella Artemide, divinità della guerra e del parto allo stesso tempo, icona combattiva e chiamata a svolgere funzioni di maternità surrogatoria in difficile equilibrio tra l’umano e il bestiale. Come Artemide, Ripley vive ai margini, abita spazi liminali sulle frontiere dell’Altro, proprio come Batman che mascherandosi si fa altro da sé per rapportarsi con un’Alterità caratterizzata da una sorta di aspirazione frustrata al godimento. I suoi antagonisti, infatti, si presentano come creature infelici che esorcizzano il godimento negato simulandolo in maniera teatrale e narcisista smisurata:

diventano “altri”, insomma, nel momento in cui ambiscono a uscire dall’ordine quotidiano del dovere e della responsabilità per entrare anche solo virtualmente nel regime del godimento. È questo che Batman trova intollerabile in loro: il fatto che vivano come occasione gaudiosa quella stessa maschera che egli sente come scissione sofferta e dolorosa. In loro, insomma, Batman punisce tutto ciò egli non sa, non può e forse non vuole essere (p. 167).

Le due serie non presentano alcuna evoluzione del racconto, non presentano alcuno sviluppo:

“mettono in forma” una sofisticata dialettica fra l’Altro e l’Identico, poi (meglio: nello stesso tempo) attuano anche su di sé – sul proprio organismo seriale – quel farsi altro da sé che hanno tematizzato sul piano funzionale. Il che significa rappresentare un equilibrio e nello stesso tempo renderlo precario. Eccitare una pulsione e contemporaneamente inibirla. Evocare una forma e simultaneamente visualizzare un sintomo di crisi nei suoi processi di significazione (p. 174).

Ed è proprio «in questo equilibrio tensivo tra messa in forma e deformazione, tra iconofilia e iconoclastia, tra sfiguramento ed epifania della figura, che Alien e Batman acquistano un rilievo strategico nello scenario del cinema contemporaneo e danno voce a un conflitto e a un destino davvero – a modo loro – epocali» (p. 176).

Se c’è un «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7), scrive Canova nel capitolo aggiunto alla nuova edizione de L’alieno e il pipistrello, questi è Joker. Ed è proprio lui a togliere la scena a Batman nel Joker (2019) di Todd Phillips, eroe mancato che per un momento si trova a dare il volto-maschera alle frustrazioni e alla rabbia di una società alla deriva ma che non saprà/vorrà sfruttare l’occasione per farsi eroe di una rivolta collettiva nel momento in cui si viene a trovare tra una folla in tumulto che potenzialmente potrebbe trasformare il disagio individuale in desiderio collettivo di rivolta.

Quello messo in scena da Phillips, interpretato da Joaquin Phoenix, è soltanto l’ultimo di una serie di Joker che hanno tentato di scalzare la figura di Batman da Gotham City. Ne Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan, ad esempio, Joker (Heath Ledger) è presentato come un personaggio interessato al collasso della ragione, all’implosione di ogni forma di convivenza civile e, soprattutto, scrive Canova, mira

a dimostrare che in ogni essere umano, compresi gli eroi che lo combattono, alligna una cattiveria immotivata e radicale come quella di cui lui stesso è espressione: di fronte alla paura, ogni essere umano può diventare un mostro, ogni individuo che si ritiene “offeso” può mostrare il lato più oscuro di sé e rivelarsi peggiore di chi è responsabile dell’offesa […] Joker produce l’orrore come forma precipua di disgregazione sociale, come sfida all’idea stessa di giustizia (p. 211).

Nel fare della giustizia una questione centrale del film, Nolan «produce volutamente nello spettatore una sensazione vorticosa di caos e di vertigine, in cui a volte sfuggono i nessi causali fra azione e reazione, ma in cui quel che risulta chiaro – dall’inizio alla fine – è proprio la confusione in cui precipita l’idea stessa di legge e di legalità. Nessuno è del tutto “giusto”, nel Cavaliere oscuro. Neppure Batman» (pp. 211-212)

Ne Il cavaliere oscuro, costruito com’è sulla dualità, se tutte le individualità che si ergono a protagonisti escono sostanzialmente sconfitte, i cittadini asserragliati sui battelli minati tentano invece di affrontare l’emergenza e la paura attraverso una convivenza civile, lasciando intendere, scrive Canova, di poter fare a meno di supereroi.

Il decennio che separa il film di Nolan da quello di Phillips conduce «in un mondo completamente cambiato e in cui la convivenza civile sembra minata alla radice dal serpeggiare del rancore, del risentimento e dell’indignazione per l’ingiustizia dilagante» (p. 213).

Nel suo film Phillips mette in scena l’ultima di una lunga serie cinematografica di incarnazioni dell’archetipo del “clown tragico” che pur vedendosi respinto nella sua professione è al contempo condannato a una risata priva di una corrispondenza emotiva che non gli permette la rimozione del comico. Il Joker che ride suo malgrado è un eroe mancato che si accontenta di combattere la sua battaglia individuale «per l’eliminazione del sorriso e della risata dal mondo» (p. 215). Già, perché nel soffocante spazio concentrazionario quale è diventata, o è sempre stata, la città in cui vive (viviamo), ridotta a una successione di scale, corridoi, cunicoli, tunnel e anfratti vari, c’è davvero poco da ridere.

 

]]>
Primi elementi di ballistica spaziale https://www.carmillaonline.com/2019/10/09/primi-elementi-di-ballistica-spaziale/ Wed, 09 Oct 2019 21:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55125 di Sandro Moiso

Cobol Pongide, Marte oltre Marte. L’era del capitalismo multiplanetario, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 176, Euro 13,00

Qualche anno or sono, introducendo un più vasto discorso sull’Antropocene e l’accelerazione dell’influenza dell’azione umana sul clima e sull’ambiente a partire dal 1945, John R.Mc Neill e Peter Engelke, nel loro testo La Grande accelerazione (Einaudi 2018), hanno scritto : “Solo una persona vivente su dodici può vantare memorie precedenti al 1945. L’intera esperienza di quasi tutti gli individui che abitano il pianeta si è svolta in questo particolare momento storico, la Grande [...]]]> di Sandro Moiso

Cobol Pongide, Marte oltre Marte. L’era del capitalismo multiplanetario, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 176, Euro 13,00

Qualche anno or sono, introducendo un più vasto discorso sull’Antropocene e l’accelerazione dell’influenza dell’azione umana sul clima e sull’ambiente a partire dal 1945, John R.Mc Neill e Peter Engelke, nel loro testo La Grande accelerazione (Einaudi 2018), hanno scritto : “Solo una persona vivente su dodici può vantare memorie precedenti al 1945. L’intera esperienza di quasi tutti gli individui che abitano il pianeta si è svolta in questo particolare momento storico, la Grande accelerazione, senz’altro il periodo più anomalo e meno rappresentativo dei rapporti tra la nostra specie e la biosfera in una storia lunga 200.000 anni. Ciò dovrebbe renderci tutti piuttosto scettici riguardo al fatto che le tendenze attuali siano destinate a durare a lungo.
La Grande accelerazione, almeno nelle sue modalità attuali, non può durare ancora a lungo: non ci sono abbastanza grandi fiumi su cui costruire dighe, non sono rimasti petrolio a sufficienza da bruciare, foreste da abbattere, pesci da pescare, falde acquifere da prosciugare. In verità, anzi, vedremo che vi sono numerosi segnali di rallentamento, e in alcuni casi di inversione, dovuti a cause diverse”.

Ecco allora che il testo appena pubblicato da DeriveApprodi dimostra invece proprio il contrario, ovvero come l’idra capitalistica non sia affatto intenzionata ad abbandonare il sistema basato sull’estrattivismo e lo sfruttamento dell’ambiente e delle specie che lo abitano su cui ha posto le sue fondamento fin dal XVIII secolo, se non prima.
Quindi se non dovessero bastare le risorse minerali del pianeta, in tale logica, occorrerà trovare il modo, o i modi, di sfruttare quelle presenti fuori da questo.

Vi ricordate l’astronave da trasporto Nostromo, su cui si svolgono le vicende del primo Alien? 1 Le vicende di quell’autentico astro-cargo destinato a portare minerali preziosi estratti su pianeti lontani e che vedrà il proprio, conflittuale equipaggio distrutto da un carico inaspettato e indesiderato, possono servire come punto di partenza per le considerazioni svolta dall’autore nelle pagine di Marte oltre Marte.

Perché Cobol Pongide (musicista, scienziato e ufociclista come egli stesso si definisce) esprime l’urgenza di descrivere concretamente un nuovo ciclo del modo di produzione e di accumulazione capitalistica, quello “multiplanetario”. Un’urgenza che deriva dalla necessità di delineare scenari di espansione del tutto nuovi, destinati, nell’intento dei suoi promotori, a rompere quella contraddizione esistente tra un capitalismo potenzialmente illimitato nelle sue possibilità teoriche di espansione, ma finito all’interno dei limiti dello sferoide su cui fino ad ora si è appoggiato.

Non a caso il numero di privati interessati alla ricerca tecnologica e scientifica legata all’esplorazione spaziale si è notevolmente ingrandito a partire dagli anni 2000. Il recente annuncio di Elon Musk sull’avanzamento nella progettazione e realizzazione di un nuovo potentissimo razzo destinato a portare gli uomini sulla Luna e su Marte (qui) sembra far parte di questo allargamento della base di coloro che sono interessati e coinvolti nel progetto di espansione multiplanetaria del modo di produzione dominante, per ora, sul solo nostro pianeta.

E, non a caso, sempre il solito Musk ha sostenuto l’utilità di un bombardamento nucleare del pianeta rosso ai fini di una sua terraformazione e adattamento per una futura colonizzazione terrestre (qui). L’imprenditore americano, spesso definito come “visionario”, sembra infatti essere la punta di diamante di una ricerca di espansione degli investimenti destinati alla rivitalizzazione di un capitalismo, esattamente come le aziende dello stesso Musk, oggi piuttosto asfittico, almeno in Occidente.

Non dovrebbe sfuggire ai lettori più attenti che tutto il dibattito è stato particolarmente diffuso dai media proprio a partire dal cinquantenario dello sbarco sulla Luna avvenuto nell’agosto del 1969.
Intessendo, ancora una volta, una sorta di mantra in favore del progresso e delle magnifiche sorti dell’attuale società divisa in classi, in cui il futuro della maggioranza della specie sembra essere, però, più quello disegnato dal film Elysium di Neill Blomkamp (2013) che quello delineato dalle grandi saghe di colonizzazione spaziale ideate da Isaac Asimov e dalla hard science fiction, così tanto innamorata dei dettagli tecnici e scientifici.

Un dibattito che, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sia negli Stati Uniti che in Russia accompagnò non soltanto una gara spaziale, che in realtà in quel periodo non si allontanò mai più di tanto dall’orbita terrestre, ma anche una competizione economica, tecnologica e militare di non secondaria importanza per le due, allora, superpotenze. Contribuendo ad intessere e arricchire per i primi la promessa della Nuova Frontiera di kennedyana memoria, e quella dell’Uomo Nuovo sovietico per la seconda.

Una frontiera che per diversi anni, a sua volta, non si allontanò molto dall’idea di Jules Verne contenuta nel romanzo Dalla Terra alla Luna del 1865, in cui l’autore prospettava una durata di 97 ore e 20 minuti del viaggio per raggiungere il satellite terrestre per mezzo di un proiettile, con equipaggio, sparato da un gigantesco cannone. Al di là del fatto che Verne avesse sbagliato di poco i tempi di viaggio, abbreviandoli di circa sei ore2 , la tecnica e la meccanica dell’impresa non si erano differenziate molto da quella ideata dallo stesso scrittore francese. Un viaggio in cui l’attrazione gravitazionale dei due corpi (Terra e Luna) ebbe molta più importanza della potenza dei mezzi impiegati.

Come infatti dichiarò Chuck Yeager, il pilota collaudatore americano che nel 1947 con un aereo Bell X-1 aveva superato per la prima volta il muro del suono e che il 12 dicembre 1953 raggiunse Mach 2.44 con un apparecchio X-14, allo scrittore Tom Wolfe per la stesura del libro La stoffa giusta (1979)3 , “un vero pilota come lui non avrebbe mai accettato di farsi sparare nello spazio come un qualsiasi uomo-proiettile da circo”.
Motivando così il suo rifiuto di aderire a quel programma, per il quale pure era stato contattato.

Anche la recente esaltazione italica per la permanenza nello spazio di Samantha “Astro” Cristoforetti, e per l’attuale incarico come comandante della stazione spaziale Iss dato a Luca Parmitano, omette di ricordare che la distanza tra la stazione spaziale orbitante e la Terra è inferiore a 400 chilometri, ovvero la distanza che separa Torino da Venezia, elemento che fa sì che la stazione Iss si trovi ancora tutta all’interno dell’ultimo strato dell’atmosfera terrestre, ovvero l’esosfera che è compresa tra i 200 e i 2500km di altezza.

Il testo di Cobol Pongide, dopo una sintetica definizione del problema contenuta nell’introduzione, si articola in tre capitoli.
Nel primo prende in esame le tre ere della espansione spaziale del capitalismo, delineandone una sintetica storia: quella che va dalla “Machine Age” al 1975, la successiva dal 1981 al 1997 e, infine, quella dal 1997 ad oggi ed oltre (come recita il suo titolo). In quest’ultima parte del primo capitolo si rivelano particolarmente interessanti quelle dedicate alla biologia cosmica e a quelli che l’autore chiama “cadetti spaziali” ovvero la forza lavoro ingegneristica e tecnico-scientifica necessaria allo sviluppo dei progetti spaziali. Forza lavoro intellettuale e non che, nonostante un vasto sforzo propagandistico portato avanti anche dalle agenzie di formazione governative e private, vede ancora una gran parte degli addetti avere un’età media di 40-45 anni, ormai troppo alta per garantire una reale continuità di saperi e pratiche atte alla realizzazione dei progetti collegati ai piani di espansione nell’outer space.

Il secondo capitolo si occupa invece dei problemi e delle prospettive legate alle necessità di terraformazione necessarie per l’adattamento degli uomini ai nuovi “territori” da sfruttare e al cosiddetto transumanesimo.
Mentre il terzo si dedica ai problemi dell’esopolitica necessaria al controllo e allo sfruttamento dei nuovi “territori” destinati allo sfruttamento.

Proprio leggendo le interessanti pagine, le riflessioni e i dati riportati dal testo diventa però chiaro come tutti questi progetti siano destinati a schiantarsi a causa dei limiti del capitalismo stesso.
Una sorta di drammatica space opera che Marx, quando aveva rilevato i limiti all’espansione del modo di produzione capitalistico nel capitalismo stesso, aveva ampiamente anticipato.
Faccio solo un esempio: il capitalismo, estrattivista per sua intrinseca natura, dispone oggi di propellenti, liquidi e solidi, ancora arcaici ed inadatti per una spinta adatta a superare, non con piccole sonde, ma con navi spaziali piuttosto grandi le immense distanza che ancora separano le multinazionali terrestri dai loro obiettivi extra- terrestri. Come rileva infatti un articolo di Sarah Scoles, pubblicato sul numero di ottobre della rivista “Le Scienze”4 , i razzi di oggi non ci permetteranno di arrivare fino alle stelle e, proprio per questo assodato motivo, alcuni ricercatori stanno lavorando, affidandosi non ai prodotti fossili e chimici ma alle scoperte alla frontiera della fisica, per portare gli uomini lassù.
Una contraddizione enorme quella prodotta da una tecnologia che nel fossile e nella chimica, per motivi di profitto, affonda le sue radici e una possibile probabilmente solo a patto che la scienza non sia più controllata da investitori che alle prime sono collegati (anche nelle loro aspirazioni galattiche).

Un altro esempio di limite è dato proprio dai problemi biologici e fisiologici causati negli esseri umani da una lunga permanenza nello spazio, problemi già segnalati dalla letteratura scientifica degli anni ’50 e oggi ancora largamente irrisolti.5
Pertanto tutto tenderebbe a confermare che l’attuale attenzione allo sviluppo capitalistico extra-terrestre non sia che un altro tentativo, come quello degli anni ’50 e ’60, di sviluppare nuove tecnologie e pratiche militari adatte ad essere applicate in maniera profittevole e duratura ancora una volta su questa vecchia esosfera che abitiamo da centinaia di migliaia di anni.

Pratiche di sfruttamento e di controllo di territori ricchi di materie prime importanti che potrebbero rivelarsi particolarmente utili nei conflitti, non solo politici, che la progressiva riduzione dei ghiacciai artici e antartici sta già portando alla ribalta e che vede impegnate, per il controllo dei giacimenti artici, fin da ora cinque nazioni: Stati Uniti, Russia, Canada, Danimarca e Norvegia. Cinque paesi che rivendicano, grazie alla loro posizione geografica, una sorta di monopolio delle riserve di materie prime che gli oceani di quelle regioni, in cui già sono cominciati rilevamenti e trivellazioni, ancora nascondono.6

Insomma il gran parlare di conquista dello spazio e del suo sfruttamento, fatto dalle grandi agenzie di ricerca tecnico-scientifica e finanziaria, forse ancora una volta, come già anticipò in alcuni suoi scritti Amadeo Bordiga, servono a rilanciare l’immagine molto terrena di un capitalismo vivo e vegeto, sostanzialmente indistruttibile ed illimitato nelle sue possibilità di soddisfare i bisogni della specie. Soprattutto dopo averli creati e irrorati con enormi sforzi propagandistici.
Ricordiamoci dunque sempre e comunque che: “I racconti-balle preferiscono operare stando a terra”.7

La lettura di Marte oltre Marte può rivelarsi pertanto molto utile per leggere la materialità terrestre dei fatti e dei progetti, che l’autore esplora comunque con una vena critica oggi assolutamente necessaria, per separare, come si diceva un tempo, il grano dalla pula ovvero le possibilità concrete che la scienza e la tecnica potrebbero offrire nel mettersi oggi al servizio dell’umanità e dell’ambiente dall’uso che intendono invece farne il capitale e suoi scherani. Una sorta di grande opera inutile e dannosa come sempre, anche se spaziale.


  1. Ridley Scott, Alien, 1979  

  2. In effetti la capsula dell’Apollo 11 era stata lanciata da Cape Kennedy il 16 luglio alle ore 13:32, per mezzo di un razzo Saturn V, ed era allunata il 20 luglio alle ore 20:17:40, mentre gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin erano scesi sulla supperficie lunare sei ore dopo, il 21 luglio alle ore 02:56.  

  3. Il testo di Wolfe narra la storia del programma spaziale americano attraverso le interviste a piloti, astronauti e tecnici in esso coinvolti. Dal libro il regista Philip Kaufman, nel , 1983, trasse il film The Right Stuff (noto in Italia come Uomini veri)  

  4. Sarah Scoles, Idee pazzesche in senso buono, Le Scienze n°614, Ottobre 2019, pp. 72-79  

  5. Si veda, solo come esempio, V.I. Levantoski, Dagli sputnik al pianeta artificiale, Editori Riuniti 1959  

  6. Si vedano in proposito: Mark Fischetti, Condividere o conquistare e Kathrin Stephen, Uno scontro inevitabile? Entrambi gli articoli sono contenuti nel dossier Ambizioni Artiche, Le Scienze n° 614, cit. pp. 44-63  

  7. A. Bordiga, Selene incocciata e scocciata?, Il programma comunista n° 17 del 1959. Tra il 1957 e il 1967 Amadeo Bordiga scrisse per il giornale “Il programma comunista” una cinquantina di articoli critici nei confronti di quella che allora, in tale contesto, era definita “questione spaziale”. Articoli nei quali l’autore sollevò serissimi dubbi anche solo sul fatto che gli esseri umani potessero, con le tecnologie messe a disposizione dal capitalismo dell’epoca, giungere a toccare il suolo lunare.  

]]>
Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

]]>
Dove la terra scotta: intervista a Mauro Gervasini https://www.carmillaonline.com/2016/03/24/29105/ Thu, 24 Mar 2016 21:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29105 di Dziga Cacace

Mauro Gervasini, amico e collaboratore di Carmilla, dirige dal 2013 FilmTV, l’unico settimanale italiano che si occupi esclusivamente di cinema. Abbiamo parlato con lui dello stato attuale della settima arte.

d_Ra8LXN_400x400Partiamo con un argomento che a Carmilla sta molto a cuore: esiste ancora un cinema di genere o ormai s’è rimescolato tutto? Esiste, ma il problema è che – specialmente nel cinema americano – alcuni generi sono stati fagocitati dalla tivù. Pensa al noir poliziesco o a quello che un tempo si chiamava “Serie B”, cioè quel [...]]]> di Dziga Cacace

Mauro Gervasini, amico e collaboratore di Carmilla, dirige dal 2013 FilmTV, l’unico settimanale italiano che si occupi esclusivamente di cinema. Abbiamo parlato con lui dello stato attuale della settima arte.

d_Ra8LXN_400x400Partiamo con un argomento che a Carmilla sta molto a cuore: esiste ancora un cinema di genere o ormai s’è rimescolato tutto?
Esiste, ma il problema è che – specialmente nel cinema americano – alcuni generi sono stati fagocitati dalla tivù. Pensa al noir poliziesco o a quello che un tempo si chiamava “Serie B”, cioè quel cinema col coltello tra i denti, fatto con budget risicati ma che era la palestra e il luogo della sperimentazione per un sacco di registi… ecco, quello oggi lo trovi nelle serie televisive, meno sul grande schermo.
Per il poliziesco il problema è cominciato negli anni Ottanta. Se penso a cos’è stato il poliziesco negli anni Settanta, c’è da mettersi le mani nei capelli. Vale anche per la fantascienza… forse l’unico genere cinematografico che può permettersi qualche sperimentazione è l’horror, che ha un andamento ciclico: l’horror estremo intanto non può andare in televisione. Poi in questi anni c’è stato un boom di certo horror francese, titoli come Martyrs, a Frontiere(s), tutti film abbastanza tosti… e devo dire che mi capita ogni anno – soprattutto grazie al festival di Torino – di vedere due o tre film horror che mi fanno alzare un sopracciglio… penso a Babadook o allo strepitoso It Follows, grandissimo.
Essendo un genere antitelevisivo, ecco, l’horror resiste. Certo, poi in tivù ci sono The Walking Dead o The Strain di Guillermo Del Toro, ma questo mi pare un genere che ha ancora cartucce da sparare e che non è stato ancora dissanguato. In crisi, invece, è – come dicevo – il poliziesco americano. Per fortuna che c’è ancora il noir francese, che ha una sua dignità e distinzione rispetto al genere televisivo. Un film come Le resistance de l’air è un ottimo polar, fatto e finito.
Il problema vero è che Hollywood lavora moltissimo sui brand consolidati. Adesso avremo un nuovo Alien. Una saga che ha 35 anni… cosa si può aggiungere di nuovo, a quel film?

Dicevi della tivù: ecco, possiamo considerare le serie televisive una nuova forma di racconto cinematografico?
Assolutamente no! Sono una cosa diversa, e vanno valutata per quel che sono: un campo da gioco differente con linguaggio e regole differenti. Ce ne sono di strepitose e anche di bruttissime ma insomma reputo fuorviante e anche un po’ pretestuoso questo dibattito sulle serie che stanno soppiantando il cinema.
C’è piuttosto un discorso da fare sul cinema americano che sta vivendo una profonda crisi identitaria, dovuta appunto al fatto che molti generi che erano tipicamente hollywoodiani sono stati demandati a una produzione di tipo televisivo, ma questo è ben diverso dal dire che le serie tv sono il nuovo cinema.

Presenza di ganci narrativi a profusione, trame orizzontali distese, ritmo continuo… la tivù sta cambiando comunque il linguaggio a cui siamo abituati? E cambierà anche come raccontare sul grande schermo?
I linguaggi sono diversi ma naturalmente si compenetrano e dal punto di vista narrativo ci sono stati sicuramente nuovi stimoli. Più che altro sono e saranno una componente sperimentale. Perché le serie hanno nella sceneggiatura il vero punto di forza.
Prendiamo i Soprano – la serie che io ho preferito: ricordo delle sequenze strepitose, ma è il testo la cosa più sconvolgente, l’elaborazione narrativa… Se vogliamo da questo punto di vista c’è un rapporto molto stretto tra cinema e tv, e penso al lavoro di Aaron Sorkin, però qual è la differenza? Nelle serie di David Chase ogni puntata viene diretta da un regista diverso, ma la serie rimane di David Chase.
The Social Network e Steve Jobs, sono due film interamente scritti da Aaron Sorkin ma il primo, girato da David Fincher, è un gran film, mentre il secondo asseconda in modo più fedele Sorkin e dal punto di vista cinematografico è molto meno interessante.

Anche dall’altra parte dello schermo sta cambiando la percezione: si vedono sempre più film in televisione, sul computer, sui tablet. Come crescono le nuove generazioni di spettatori?
Allora, bisogna stare attenti ai luoghi comuni: la maggior parte degli spettatori che si recano al cinema, in sala, ha meno di 25 anni. Il vero problema è la generazione dai 40 anni in su, che si è impigrita.
Il pubblico di massa più giovane comporta anche il successo di un cinema tagliato su quel gusto. Fa fatica il cinema più classico, più adulto e che magari ha una seconda vita in sale d’essai, nei cineforum… la filiera è lunga, per fortuna.
18655Il consumo su piccolo schermo ha certamente portato a una minore attenzione a quello su schermo grande ma è un problema antico. Da spettatore, io ricordo molto di più un film visto al cinema di uno in tivù, ed è raro che mi appassioni a un film visto in televisione – a meno che non sia un classico che magari non posso rivedere su grande schermo, con rammarico.
Ti faccio un esempio: Dove la terra scotta, è un cinemascope di Anthony Mann del 1958. L’ho visto su un 32” con un dvd che rispettava la ratio, un’ottima edizione. Ecco: è un capolavoro di cui mi rimarrà però il dispiacere di non averlo visto proiettato.
Prendi poi l’ultimo Tarantino: è un 70 mm – che non è un formato, attenzione – e se non lo vedi nelle condizioni giuste perdi tutto il lavoro sulla profondità che quella definizione consente…

Come ha reagito il cinema italiano in questi ultimi anni: la crisi ha attivato energie? O date mazzate finali?
Allora: nel 2013 ho fatto un gioco in cui ho chiamato i lettori di FilmTv a votare il loro film italiano preferito dal 2000 in poi. Poi ho ripetuto questo gioco negli anni successivi su altri temi, ma la partecipazione sul cinema italiano è stata veramente straordinaria. Attenzione: chiedevo non solo un voto, serviva anche un testo breve. Il film più votato dei primi 12 anni del secolo è stato Le conseguenze dell’amore di Sorrentino, del 2004; il secondo più votato è stato Pane e tulipani di Soldini, del 2001, con uno scarto veramente minimo. Guarda caso film d’inizio millennio. Pochissimi i film recenti. Forse non rappresenta nulla ma credo che il cinema italiano abbia avuto una forte crisi nei primi anni del Duemila, crisi da cui credo stiamo uscendo solo adesso. C’è grande fermento e disordine. Si continua a fare cinema d’autore e negli ultimi 3, 4 anni, un documentario come Sacro GRA ha incassato più di un milione di euro. Ha vinto a Venezia, certo, ma non è così automatico che questo significhi incassi sicuri. E, ripeto, è un documentario.
Il giovane favoloso, su Leopardi, ha avuto un successo di pubblico inatteso per un film con quella difficoltà, se vuoi.
E secondo me c’è un fermento anche nel cinema più popolare. Penso a Smetto quando voglio, che è una commedia intelligente lontano dalla piattezza di altre commedie banali, piatte. Sono segnali disordinati, frammentati – quest’anno ci sono le sorprese di Lo chiamavano Jeeg Robot o Perfetti sconosciuti – ma, forse anche grazie al successo internazionale di film come La grande Bellezza, c’è finalmente un’attenzione diversa nei confronti del nostro cinema.

FilmTv 2013-39Senti, come sei arrivato alla direzione di FilmTV?
Io ho collaborato a FilmTV nelle sue varie fasi, dal 1998: ero un collaboratore con intensità variabile! Poi tre anni fa mi hanno fatto la proposta di diventare direttore e mi sono resettato nei confronti del giornale: ho dovuto reinventarmi perché la responsabilità e le mansioni sono chiaramente diverse.

E lo hai cambiato molto, FilmTV?
L’ho cambiato, sì. Il mandato era di non stravolgerlo: FilmTV vive di uno zoccolo duro molto fedele, affezionato e consolidato che non avrebbe apprezzato delle rivoluzioni strutturali esagerate, per cui l’ho cambiato un po’ secondo i miei gusti e la mia idea di giornale. Credo anche di averlo semplificato, spero nella migliore accezione del termine.
Noi purtroppo non riusciamo a fare abbonamenti fisici, solo digitali – in crescita, molto – comunque vendiamo tra le venti e le venticinquemila copie settimanali, certificate ADS.

Il web è pieno di appassionati che scrivono di cinema: questi contributi influiscono sul lavoro critico più ufficiale?
Io li chiamo – rubando la definizione a qualcuno che non ricordo! – i cosiddetti saccopelisti della critica, nel senso che purtroppo hanno contribuito a rendere meno autorevole chi scrive di cinema e non lo fa solo a scopo informativo ma anche per fare analisi e critica. Purtroppo è diventata dominante soltanto la cosiddetta “critica impressionista” con questa brevità imposta dai social network, magari con toni accesi, ed è la morte del ragionamento.
Dire se un film sembra bello o sembra brutto è veramente il campo della soggettività più assoluta. Più che critici si diventa tifosi: pensa a La grande bellezza, che sui social è stato visto – e commentato – come una partita di calcio…

Mi stai facendo venire grandi sensi di colpa per le cose che pubblico su Carmilla!
Ah ah! È colpa del Cacace!

Ultima cosa: per una serata ideale, cosa ti regali al cinema?
Ah, non si scappa: I cancelli del cielo… ma oggi voglio consigliare Dove la terra scotta di Mann: recuperatelo, è fantastico!

]]>
Prometeorismo https://www.carmillaonline.com/2012/10/15/prometeorismo/ Mon, 15 Oct 2012 08:37:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4461 di Alessandra Daniele

Benitheus.jpgOltre al franchising ufficiale, il primo Alien (1979) ha generato un intero filone apocrifo di B-movies, grossolane copie sfigate dell’originale. La trama è sempre la stessa, un gruppo di terrestri, caratterizzati dall’idiozia abissale tipica dei personaggi da macello, s’avventura in un labirinto illuminato male, e finisce debitamente massacrato dalla Schifezza Aliena di turno: un calamaro gigante in CGI, un blob di Simmenthal e colla vinilica, o un invisibile virus mutageno (dipende dall’entità del budget). Spacciato come upgrade d’Autore del franchising originale, Prometheus si dimostra in realtà l’ennesimo prodotto del filone sfigato, sicuramente più adatto al palinsesto estivo notturno [...]]]> di Alessandra Daniele

Benitheus.jpgOltre al franchising ufficiale, il primo Alien (1979) ha generato un intero filone apocrifo di B-movies, grossolane copie sfigate dell’originale. La trama è sempre la stessa, un gruppo di terrestri, caratterizzati dall’idiozia abissale tipica dei personaggi da macello, s’avventura in un labirinto illuminato male, e finisce debitamente massacrato dalla Schifezza Aliena di turno: un calamaro gigante in CGI, un blob di Simmenthal e colla vinilica, o un invisibile virus mutageno (dipende dall’entità del budget).
Spacciato come upgrade d’Autore del franchising originale, Prometheus si dimostra in realtà l’ennesimo prodotto del filone sfigato, sicuramente più adatto al palinsesto estivo notturno di Italia Uno, che alla Storia del cinema.
La sceneggiatura raffazzonata da Lindelof, il cialtrone di Lost, è ovviamente una grottesca, pretenziosa poltiglia di incongruenze ridicole, ed espedienti riciclati. La regia di Ridley Scott s’aggira in stato confusionale da un set inutilmente faraonico all’altro, senza traccia di coerenza narrativa, né di originalità stilistica. Due scene su tre sono la brutta copia di qualcos’altro, e c’è di tutto: 2001 Odissea nello Spazio, Star Wars, Shining, Blade Runner, The Thing, Terminator, Star Trek, X Files, Resident Evil, Contact, Minority Report, Mission to Mars, svariati videogame, e naturalmente tutti gli Alien.
Del cast, solo Fassbender riesce a portare a casa un’interpretazione decente, facendo del suo personaggio un sinistro incrocio fra Data e Dexter, un androide al quale anche il Rick Deckard più cagadubbi sparerebbe volentieri. Idris Elba è inscatolato in uno stereotipo razziale con la fisarmonica e il plaid a scacchi. Charlize Theron è persino più schifata del suo odioso ruolo di quanto lo sia il suo personaggio. Noomi Rapace (sempre più somigliante alla perpetua di Don Matteo) è ridotta a semplice scream queen. Sballottata da una sfiga tragicomica all’altra, rimbalza stolida ma indistruttibile come Paperino, fino allo scontato epilogo nel quale, dopo aver recuperato la testa di Fassbender, parte alla conquista dell’inopinato sequel del prequel, quel Paradise cui viene rimandata la soluzione al mistero cialtro-creazionista degli ”Engineers”, i culturisti alieni adoratori del busto di Mussolini.
Perché ci avrebbero creato?
Per sbaglio. L’alieno che all’inizio del film abbiamo visto catafottersi nella cascata è stato evidentemente ucciso da un’overdose di steroidi, e il fatto che il suo cadavere frollato abbia condito il Brodo Primordiale è stato accidentale come un preservativo bucato.
Perché vogliono distruggerci?
Perché facciamo film come Prometheus.

]]>