Alfred Tennyson – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche del potere. La “modernità contemporanea” di James Bond, l’agente segreto che combatte affinché il presente si mantenga nel futuro https://www.carmillaonline.com/2015/12/23/estetiche-del-potere-la-modernita-contemporanea-di-james-bond-lagente-segreto-che-combatte-affinche-il-presente-si-mantenga-nel-futuro/ Tue, 22 Dec 2015 23:01:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27285 di Gioacchino Toni

007coverAlberto Abruzzese, Gian Piero Jacobelli (a cura di), Bond, James Bond. Come e perché si ripresenta l’agente segreto più famoso del mondo, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 131 pagine, € 12,00

Anche se non si prova particolare interesse per l’agente segreto creato da Ian Fleming e rilanciato dai film che continuano ad uscire nelle sale cinematografiche con una certa regolarità, poi riproposti pressoché ininterrottamente in televisione, risulta difficile dirsi del tutto immuni dalla presenza del noto 007 sul grande e sui piccoli schermi (tv e web). In un modo o [...]]]> di Gioacchino Toni

007coverAlberto Abruzzese, Gian Piero Jacobelli (a cura di), Bond, James Bond. Come e perché si ripresenta l’agente segreto più famoso del mondo, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 131 pagine, € 12,00

Anche se non si prova particolare interesse per l’agente segreto creato da Ian Fleming e rilanciato dai film che continuano ad uscire nelle sale cinematografiche con una certa regolarità, poi riproposti pressoché ininterrottamente in televisione, risulta difficile dirsi del tutto immuni dalla presenza del noto 007 sul grande e sui piccoli schermi (tv e web). In un modo o nell’altro, prima o poi, ci si trova a dover fare i conti con lui e, soprattutto, col successo dell’immaginario da lui incarnato e supportato. Il saggio curato da Alberto Abruzzese e Gian Piero Jacobelli per Mimesis Edizioni affronta il successo della celebre spia, evidenziando, nell’Introduzione, come, nel bene e nel male, «Bond, non è più “scritto” su una pagina o su uno schermo, ma è “inscritto” in ciascuno di noi, come vero e proprio “soggetto di riferimento”» (p. 8). Risulta talmente pervasiva la presenza nei media dell’agente 007 che, indipendentemente dal fatto che ci si identifichi o meno con i valori da lui messi in scena, non ci si può permettere di far finta che non esista.

Se in ambito anglosassone sono davvero numerosi gli studi relativi al fenomeno James Bond – tra questi vale la pena citare almeno: T. Benennett, J. Woollacott, Bond and Beyond: Political Career of a Popular Hero (1987), E.P. Comentale, S. Watt, S. Willman, Ian Fleming and James Bond. The Cultural Politics of 007 (2005) e J. Black, The Politics of James Bond: From Fleming’s Novels to the Big Screen (2005) -, anche in ambito italiano non mancano pubblicazioni a proposito del famoso agente segreto ed il primo studio sistematico di rilievo si deve ad un saggio pubblicato poco dopo la scomparsa di Ian Flaming: O. Del Buono, U. Eco (a cura di), Il caso Bond. Le origini, la natura, gli effetti del fenomeno 007 (1965).
Turner Bond and QNell’ultimo studio sistematico italiano sulla celebre spia, in libreria da poche settimane, qui preso in esame, emerge come Bond non debba essere inteso come simbolo vintage della modernità ma come simbolo di una “modernità contemporanea” «che ci impone di continuare a fuggire da noi stessi (…) perché non riusciamo più a riconoscerci, non sappiamo chi siamo, né dove siamo, né tanto meno dove andiamo» (p. 10).
Dopo l’Introduzione il saggio si apre con un brevissimo intervento di Valerio Magrelli che, facendo riferimento al film Skyfall (di Sam Mendes, 2012), celebra l’intrecciarsi dei versi dell’Ulysses di Alfred Tennyson, recitati nel film da Judy Dench, con le vicende di «uno 007 già in disarmo (che) resiste, stringe i denti, corre in soccorso della patria, sospinto dalla sua inflessibile tenacia» (p. 17), identificando in tale sequenza un felice caso di fusione tra cinema e letteratura.

Alberto Abruzzese ripropone un suo scritto del 1968 – tratto da “Cinema e politica” n.1, La Nuova Italia – che risente fortemente del contesto militante dell’epoca in cui è stato steso, tanto che lo stesso autore si sente in dovere di avvertire il lettore come quelli fossero anni in cui, scrivendo, intendeva «combinare l’immaginario hollywoodiano con Marx, Benjamin e l’operaismo» (p. 21). Detto che rispetto a quelle finalità giovanili e, da quel che si legge tra le righe, forse non solo da quelle, Abruzzese, con una nota introduttiva, ci tiene a prendere le distanze, lo scritto viene, probabilmente, riproposto con l’intenzione di mostrare al lettore come, da un punto di vista militante, veniva letto il fenomeno James Bond quando, nel corso degli anni ’60, il personaggio aveva ormai conquistato uno spazio di tutto rilievo in ambito cinematografico. Nell’intervento di Abruzzese si legge: «L’unico film politico propriamente detto – che raggiunge cioè il suo scopo – è quello tendenzialmente tecnologico-ideologico-fantascientifico. Non a caso viene prodotto nei paesi a capitalismo avanzato. È l’unico – tra l’altro – che rappresenta una vittoria oggettiva sul reale. L’eroe cinematografico attuale non lotta contro una realtà presente, ma contro una prospettiva futura. James Bond sconfigge una macchinazione che si presenta sempre come un danno per la realtà presente, per il sistema dato (…) la sua “licenza” si traduce nella conferma di tutto ciò che lo precede. Il futuro contiene una minaccia “negativa” costante. L’eroe non combatte per un futuro migliore, ma affinché il presente si mantenga nel futuro» (p. 27). Dunque, secondo lo scritto giovanile dello studioso, l’intenzione dell’agente 007 è quella di evitare che il potere tecnologico passi nelle mani di chi, capendone le potenzialità, intende sfruttarle in pieno ed “innanzi tempo”; «La vittoria “oggettiva” di James Bond consiste nel confermare filmicamente la logica “democratica” del sistema capitalistico. Magnifico rappresentante dell’ideologia, ne sfrutta ogni possibilità» (p. 27)

Nello Barile, nel suo intervento, ricostruisce come James Bond si trasformi da icona della società dei consumi ad espressione culturale della “sorveglianza liquida”. Nel passaggio dagli anni ’50 agli anni ’60 lo studioso individua il momento in cui si forma un «nuovo immaginario dominato dai media, ove il valore dell’informazione prima e della conoscenza poi, risulta essere sempre più strategico» (p. 33). Nell’epoca della Guerra fredda la spia rappresenta il mezzo per far circolare informazioni e stili di vita innovativi da un paese all’altro; da un certo punto di vista anticipa la globalizzazione ma, continua Barile, nonostante ciò, «il successo di James Bond come protagonista dell’immaginario spionistico degli anni Cinquanta-Sessanta ha molto più da spartire con il moderno che con il suo superamento» (p. 34). Il personaggio 007, a differenza di molte altre spie comparse in letteratura ed al cinema, sin dagli esordi è decisamente connotato dal punto di vista sociale e culturale. Ad una precisa definizione identitaria, pur non priva di contraddizioni, di Bond, corrisponde invece una maggior opacità nella descrizione dei nemici.
Barile, nel suo scritto, evidenzia anche come la produzione di genere spionistico occidentale in generale, ed in James Bond in particolare (i cui film sono stati vietati oltrecortina fino al 1974), nell’Europa dell’Est ha contribuito a rafforzare un certo spirito nostalgico-identitario. Tali produzioni, secondo lo studioso, «hanno saputo sublimare il fascino di una resistenza radicale al capitalismo, che era già pronta per essere rivenduta all’industria culturale occidentale, alla pubblicità e alla moda. In un certo senso il brand Bond, costruito per esaltare la primazia dell’identità europea e britannica sul resto del mondo, non ha fatto altro che preparare la formazione di una nostalgia dell’Est comunista» (p. 37).
James Bond è un brand a tutti gli effetti, sostiene Barile, in quanto è riuscito a mantenere una certa fissità visiva nonostante il variare dei contenuti e delle interpretazioni dei diversi attori che si sono susseguiti. Ogni epoca storica ha avuto il James Bond che serviva; con Sean Connery si è rappresentato il modernismo anni ’60, con Roger Moore lo stile più edulcorato filo-americano del decennio successivo, con Timothy Dalton è andato in scena l’edonismo degli anni ’80 e con Daniel Craig l’eroe ha finito col celare, sotto alla solita eleganza, un concentrato di rude violenza. In tutti i casi Bond sembra incorporare i valori della società inglese del dopoguerra in una «visione conservatrice che avversa il cambiamento sociale e si esprime negativamente nei confronti delle classi più basse o addirittura nei confronti delle distinzioni di gender» (p. 38)
In molte avventure l’agente riesce a penetrare nel cuore del processo produttivo del nemico con l’intenzione di smantellarlo, a tal proposito Barile riprende le analisi sviluppate da Slavoy Žižek, nel suo Welcome to the Desert of the Real – Reflections on WTC (2001), ove si sostiene che nonostante Bond incarni i valori borghesi, egli si contrappone alla sfera produttiva svelandola al pubblico e distruggendola. Si tratterebbe dunque, secondo Barile, di un borghese che disprezza il «sommo valore protestante della produzione, preferendo a esso quello distruttivo e dissipativo del consumo» (p. 35).
Lo studioso sottolinea come il formarsi dell’icona Bond coincida con l’inizio degli anni ’60, quando, sull’onda del boom economico, si afferma un fenomeno di modernismo volto ad offrire la ribalta al ceto medio. Per certi versi, con l’inizio del decennio prende il via quel processo che sancisce il passaggio dal tradizionale, ed inarrivabile, lusso ostentativo aristocratico ad un lusso più “a portata di mano”. Si sviluppano così i desideri di poter soggiornare nelle nascenti catene di alberghi di prestigio, una maggior propensione alla mobilità turistica internazionale, di avere accesso a consumi tecnologici e di poter seguire la moda. Per certi versi l’icona James Bond è davvero espressione dei mutamenti indotti dal capitalismo degli anni ’60. In un modo o nell’altro l’agente segreto 007 “doveva” essere inventato.
Concludendo il suo intervento, Barile, si sofferma sia sulle riflessioni di Andrew Keen, che sottolineano come la contemporaneità sembri avverare «il sogno più recondito della CIA: conoscere tutto di tutti, anzi attendere che gli “altri” si auto-denuncino» (p. 45), che sulle riflessioni di Zigmunt Bauman, che parla dell’attuale società definendola “confessionale”, votata cioè all’auto-sorveglianza indotta da diversi dispositivi di confessione. Mentre la spia classica «era metafora di potere, comunicazione e consumo di quell’epoca, oggi le nuove forme di protagonismo diffuso, di trasparenza delle informazioni e di tracciamento ubiquo degli utenti del Web riproducono la medesima convergenza al di là di un vetusto regime spettacolare, bensì all’interno di un quotidiano sempre più modificato dalla pervasività dei media digitali» (p. 46).

Nel suo intervento, Massimo Negrotti, si occupa delle “interfacce tecnologiche del vecchio Bond” e sottolinea come l’apparato tecnologico di cui dispone il celebre agente segreto sia «coerente con il modello della tecnologia tradizionale e dei suoi rapporti con l’essere umano che la impiega» (p. 63); i dispositivi utilizzati da Bond risultano fortemente “dedicati”, cioè finalizzati al perseguimento dell’obiettivo specifico: “una macchina, una funzione”. Bond davvero non ha nulla a che fare con l’uomo bionico potenziato, egli, dopo aver fatto uso di un dispositivo, lo abbandona e torna ad essere un normale essere umano.

L’analisi proposta da Gian Franco Lepore Dubois segnala come il personaggio James Bond si sia conquistato, successo dopo successo, una vita autonoma in grado di andare oltre al suo creatore, ai registi che lo hanno messo in scena ed agli attori che lo hanno impersonato. Il personaggio James Bond si è rivelato in grado di vivere la contemporaneità del suo pubblico adeguandosi ai cambiamenti; è un personaggio in sintonia col suo presente che è riuscito ad attraversare la guerra fredda, la società dell’opulenza e dell’edonismo, il crollo dei muri e delle ideologie senza spettinarsi, verrebbe da dire.
Dubois, nell’analizzare gli elementi che circondano il “mondo Bonds”, sottolinea come la spia prediliga gli elementi prestigiosi ma non i più ovvi: nel bere champagne 007 preferisce il Bollinger al Don Perignon ed a proposito di automobili, ha una Bentley del 1935 ma è un modello decapottabile, ha una spider nei primi anni ’60 ma è l’insolita Sunbeam Alpine, poi la serie di Aston Martin a partire dal 1965, la prima supercar Toyota nel 1967 e via dicendo. Le stesse località frequentate dall’agente nelle varie puntate sembrano scelte per far sognare agli spettatori nuove mete turistiche esotiche. Certo, non di rado le scelte sono state concordate con gli sponsor ma è fuori dubbio che è stato creato un personaggio con uno stile di vita ed un carattere decisamente ricercato e ciò, suggerisce Dubois, ha contribuito a far sì che al pubblico piaccia il personaggio più che le storie di cui è protagonista. L’indubbia abilità del fenomeno cinematografico James Bond, secondo lo studioso, consiste nel riuscire a rivolgersi ad un pubblico davvero ampio sia per età che per cultura.

Gianni Scipioni analizza l’estrema disinvoltura con cui 007 attraversa le tante località in cui si trova catapultato nelle varie avventure. Si tratta, secondo lo studioso, di un eroe senza frontiere a cui le nuove tecnologie consentono di viaggiare senza staccarsi mai completamente dai suoi superiori e, soprattutto, dal suo amato mondo occidentale: la spia, al pari di Ulisse, torna sempre a casa a fine avventura. Scipioni, nell’analizzare le località che di volta in volta fanno da scenario alle avventure dell’agente segreto sottolinea come i sogni degli spettatori siano figli del tempo e come la scelta delle località messe in scena non sia certo casuale. James Bond si trova in Giamaica quando questa può essere identificata con Cuba alle prese con la crisi dei missili, certo, sottolinea lo studioso, non è che il pubblico scambi la Giamaica per Cuba ma il paesaggio caraibico, nell’immaginario collettivo che intende strutturare il potere dominante in occidente, deve essere visto, in quel momento storico preciso, come il luogo in cui si nasconde il nemico che dovrà essere sconfitto con ogni mezzo necessario. In un’altra occasione si sceglie di mostrare 007 ad Istambul e di farlo incontrare con una bellissima spia russa, con la quale non mancherà di fare l’amore. Un segnale dell’auspicata distensione tra i due blocchi potrebbe essere suggerito, seppure ad un livello culturalmente ricercato, più che dalle effusioni amorose tra i due, riferibili più facilmente alle ostentate capacità seduttive dell’eroe, dal luogo in cui le due spie si incontrano: Santa Sofia, crocevia di fedi e potentati che si sono alternati sino a diventare una sorta di museo neutro.
A proposito di Missione Goldfinger (di Guy Hamilton, 1965), Scipioni sottolinea come 007 si trovi impegnato in mirabolanti inseguimenti lungo le tortuose strade svizzere ove, nonostante la folle velocità, si sembra sempre fermi al punto di partenza, quasi a voler alludere ad un’epoca incerta e confusa. L’agente segreto pare però poco interessato alle incertezze dell’uomo comune, per lui «tutto è più semplice. Il buono e il bello da una parte, cioè egli stresso, e il cattivo e il brutto dall’altra, anche se ricoperto d’oro» (p. 88).
È con Thunderball. Operazione tuono (di Terence Young, 1965) che, secondo lo studioso, la filosofia dell’agente segreto inizia lentamente a cambiare: «Non più luoghi-segno che soffiano sul nostro inconscio, ma luoghi evidentemente turistici (…) Con questo film si oltrepassa il confine sconosciuto, quello che si nasconde dietro l’evidenza, e si mostra la fotografia dell’esistente. Bond diventa un tour operator» (p. 89). Da questo momento in poi i luoghi sembrano davvero scelti in favore dell’industria del turismo ma, anche in questo caso, il tour operator Bond si preoccupa di accontentare tutti i gusti. In Una cascata di diamanti (di Guy Hamilton, 1971) viene accontentato sia il viaggiatore avventuroso che il turista che ama visitare luoghi lontani senza abbandonare le proprie sicurezze domestiche, il turista da crociera.
A partire dal 1977, quando i panni dell’agente 007 vengono indossati da Roger Moore, si inaugura il “sistema Arlecchino” (marea di località che si susseguono a ritmo sempre più vertiginoso) che resterà in vigore anche nei film con altri attori che interpretano la spia. Nel caso dei film Casino Royale (di Martin Campbell, 2006), Quantum of Solace (di Marc Forster, 2008) e Skyfall (di Sam Mendes, 2012), interpretati da Daniel Craig, il sistema Arlecchino sembra scegliere le località con la finalità di «trovare luoghi esclusivi, fuori catalogo turistico per ambientare sparatorie e inseguimenti che, a differenza dei siti messi a disposizione di Sean Connery, ugualmente belli e appetibili, non hanno doppie letture o segni nascosti. Non raccontano altro che la particolarità dei luoghi proposti» (p. 92). Certo è, però, che in Skyfall il nostro 007 non manca di fare una vista in Oriente, forse da considerarsi come «la nuova frontiera, il luogo dove far sentire il suono delle pallottole» (p. 92).

Andrea Miconi analizza le strutture narrative nei film di Bond giungendo a definirle “anti-narrative”. Sostiene lo studioso che dal punto di vista del genere cinematografico i film di 007 non sono propriamente film di spionaggio in quanto mancanti di molti elementi propri del genere: l’identità dell’eroe non è segreta, l’avversario viene individuato immediatamente senza dover scoprire alcunché su di lui ecc. Riprendendo la distinzione proposta da Seymour Chatman che vede il racconto narrativo organizzato su una precisa gerarchia tra nuclei (momenti narrativi cruciali) e satelliti (eventi secondari che potrebbero essere omessi senza inficiare la logica della trama), Miconi nota come i film di 007 invertano la gerarchia dando priorità ai satelliti sui nuclei. Lo stesso Umberto Eco, nell’analizzare i romanzi di Fleming metteva in luce come questi erano costruiti su estenuanti descrizioni prive di valore al fine della vicenda narrata. Non a caso buona parte dei testi usciti su James Bond riguardano proprio tali satelliti (champagne preferito, automobili utilizzate, abiti indossati ecc.).
Anche dal punto di vista della politica internazionale messa in scena dai film su Bond, sostiene Miconi, le cose lasciano parecchio a desiderare; la stessa guerra fredda più volte evocata dalle pellicole pare più «uno sfondo di cartone su cui proiettare le vicende» (p. 100). Anche come eroe, 007, è di difficile definizione. «Bond è certamente un uomo d’azione, eppure, appena ne ha l’occasione, scappa e si sottrae al combattimento; uccide senza riserve uomini disarmati, picchia le donne (…) Un eroe che diffida di tutto, tranne che di se stesso e della propria efficacia (…) è un eroe che in testa ha una sola cosa, sopravvivere e pensare a se stesso» (p. 102). Concludendo il suo intervento lo studioso, nel definire la serie cinematografica Bond, la descrive come «un prodotto isomorfo al clima culturale dei media, in cui la storia dei personaggi e quella dei brand di consumo si intrecciano come mai prima era accaduto (…) più che film (si tratta di) una lunga serie di spot, infilzati nella sceneggiatura e ricomposti in un racconto perfino un po’ pretestuoso» (p. 103).

boat-in-skyfallL’intervento di Paolo Fabbri si sofferma soprattutto sul film Skyfall (di Sam Mendes, 2012) a partire dalla scena in cui 007 incontra il nuovo Q alla National Gallery londinese di fronte al celebre dipinto di J.M.W Turner, The Fighting Temeraire tugged to her last berth to be broken up (1839). L’opera, conosciutissima dal pubblico inglese, celebra la nave che si è battuta nella battaglia di Trafalgar mentre viene trainata da un rimorchiatore a vapore verso la demolizione. È certamente la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova era quella messa in scena dal grande pittore inglese, segno della crisi dell’impero inglese e delle trasformazioni tecniche, ma nel contesto del film evoca anche la «crisi fisica e morale di Bond. Scompare infatti il gentiluomo inglese, viaggiatore esperto e seduttore raffinato (e) gli succede un killer tenace e violento, ma meno individualista (…) Alla sprezzatura un po’ dandy dei primi 007 succede, in Skyfall, una perdita di capacità operative, una spossatezza e noia di vivere, una depressione e difficoltà di ruolo» (p. 108).
Fabbri sostiene che Skyfall è un film noir in cui 007 sembra voler tornare indietro: «recupera la vecchia Aston Martin e va alla riscossa back to the past (…) Con amara nostalgia, l’agente segreto internazionale ritrova, in un prequel, la dimora scozzese di famiglia e le tombe dei genitori (…) Un cupo ritorno alla Temeraria Gran Bretagna, prima della rottamazione?» (108).
Rispetto ai primi successi di Bond il mondo è davvero cambiato e con esso, continua lo studioso, è cambiata anche al cultura bellica: «Guerre (paradossalmente) umanitarie a zero (propri) morti, combattute con tecniche hard gestite da micidiali tecnologie soft. Guerre ibride e tridimensionali – estraterritoriali ed extra-atmosferiche – e soprattutto asimmetriche (…) la Rivoluzione negli Affari Militari ha preso atto della fine del confronto duale – la grand strategy della lunga guerra fredda –, della sparizione del nemico parallelo e del moltiplicarsi di avversari in condizioni di disparità, impegnati imprevedibilmente in scontri a bassa intensità. Vincere non è più trovare il centro di gravità del nemico, ma scongiurare la sconfitta o convincere di aver vinto: ribaltare narrativamente, con i media o la storiografia, i risultati sul campo. Una condizione post-eroica i cui stili strategici accrescono il valore dell’HUMINT, i servizi di Human Intelligence. Cambiano i connotati della spia, che combatte il cyber-terrorismo con le armi dei segni e del segreto, della sorpresa e dell’inganno. Skyfall realizza con il linguaggio raffinato del noir questa guerra di ombre nell’ombra» (p. 109)

Gian Piero Jacobelli, nel suo intervento, segnala come nel primo dei romanzi di Ian Fleming siano già presenti tutte le caratteristiche del personaggio James Bond, tanto che lo stesso Umberto Eco, nel suo studio del 1965, aveva individuato le unità semplici che, combinate secondo regole precise, permettevano, ed avrebbero permesso, di dare, e mantenere in vita l’agente 007. Jacobelli ritiene che il segreto di Fleming consista nel suo aver inserito un personaggio tutto d’un pezzo in un contesto narrativo composto da molteplici pezzi ricombinati in vari modi. «Perciò, per capire chi sia davvero Bond, sarebbe importante capire chi non sia, togliergli la maschera delle sue imperturbabili certezze, per riconoscere in lui l’uomo qualunque che sa e non sa, che dice e non dice, che vuole e non vuole. “Qualunque” (…) nel senso che sotto molti aspetti ci rassomiglia, che rappresenta un riflesso del nostro quotidiano, faticoso, esasperante e spesso deludente sopravvivere a noi stessi. Anche Bond, infatti, nello svolgere il suo farraginoso e improbabile mestiere di spia, appare sempre impegnato in un dispendioso ed estenuante riscatto di se stesso, che lo costringe ogni volta a risalire la china del proprio paradossale “dover essere” per “non essere” davvero» (p. 116). Per certi versi Bond non può dirsi tanto un personaggio contraddittorio, quanto piuttosto ossimorico, che può essere insieme tutto e il contrario di tutto e se «tutto deve cambiare perché nulla cambi, anche per Bond, nonostante gli incalzanti processi di globalizzazione e di mediatizzazione, proprio perché tutto è cambiato, nulla cambia» (p. 119).
Concludendo, Jacobelli afferma che il personaggio cinematografico, nel susseguirsi di attori che lo hanno interpretato, «si è andato progressivamente trasformando in un feticcio, come avviene per ogni segno che, rimediandosi, assume un valore fuori contesto, diventando credibile proprio per la sua sempre più radicale incredibilità, nel senso correlato di una decrescente referenzialità e di una crescente autoreferenzialità» (pp. 123-124).

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Hard Rock Cafone #2 https://www.carmillaonline.com/2015/09/10/hard-rock-cafone-2/ Thu, 10 Sep 2015 20:36:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24770 di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways  California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in [...]]]> di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways 
California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in tempesta ormonale. E non solo: etero e omo, rimangono tutti soggiogati dallo sguardo strafottente e dai corpi in fiore della band, in un’epoca in cui la maggiore età non era considerata un vincolo sessuale. Dopo gli assestamenti iniziali le Runaways presentano in formazione la superdotata (anche tecnicamente) Lita Ford, che secondo il dittatoriale producer è “Ritchie Blackmore e Sophia Loren fuse in un’unica persona”. Alla voce c’è Cherie Currie, una minorenne che sale sul palco vestita soltanto di sottoveste e calze con giarrettiera. All’altra chitarra Joan Jett che tutti conosciamo per l’inno universale che ha regalato qualche anno dopo: la cover di I Love Rock’n’Roll. Completano basso e batteria di Jackie Fox e Sandy West. L’impatto visivo e musicale è clamoroso e anche le polemiche e le virgulte rispondono alle accuse di bieco marketing sessista con un rock semplice e trascinante: vagamente punk e con la schitarrata hard quando serve. Vanno in tour coi grandi dell’epoca, fanno le cattive ragazze e finiscono in carcere in Gran Bretagna e diventano big in Japan dove registrano anche il loro album migliore, un live. Poi la rottura col maligno produttore guru, che sarà anche accusato a più riprese di abusi sessuali (con le ex Runaways reticenti o mute, anche se la violenza carnale sulla Fox, drogata, sembrerebbe inequivocabile) e il via alle defezioni, a partire dalla Currie. Che oggi fa la scultrice con la motosega (potete verificare su chainsawchick.com) ma è stata anche attrice e ha scritto un’autobiografia che non le ha però evitato di essere mandata a cagare dalle altre ex compagne. La band va in malora nel 1978 e Joan Jett prova la carta solista. Deve insistere un po’ ma poi ottiene successo con i suoi Blackhearts e ancor oggi – da autentica icona – è spesso in tour. Intanto la chitarrista Lita Ford, da ragazzina che era, diventa una bella donna con abnorme testata di capelli vaporosi e orecchini simili a lampadari, e si dedica al metal per scalare le classifiche col disco di platino Lita dove duetta con Ozzy Osbourne. Oggi omaggiate da biopic vezzose e assurte a status di superstar post-mortem, durarono poco, le Runaways, ma ruppero apparentemente il tabù machista del rock, anche se esattamente plagiate da quell’atteggiamento. La recente morte della batterista Sandy West sembra aver riavvicinato quelle che fecero da battistrada a tutto il rock femminile di là da venire, buono o cattivo, Bangles, Hole, L7 e Bikini Kill comprese, ma ci sono ancora troppi scheletri nell’armadio e non c’è da temere alcuna reunion nostalgica.
(Marzo 2007)

hrc202Milano imbevibile 
Milano la cosmopolita, Milano al centro dell’Europa, Milano ombelico del Mondo. Ha il traffico di Calcutta, l’inquinamento di Shangai, l’allegria di Bucarest e i servizi di Kinshasa. Senza offesa (per gli abitanti di Kinshasa, ovvio). È amministrata da decenni da gente che non ha mai preso un tram in vita sua e che pensa solo a riempire i vuoti urbanistici e gli ultimi residui di verde (avete capito di cosa canta Elio in Parco Sempione?) per fare felici palazzinari, archistar cialtroni e complici e pure i poveri muratori che, se non muoiono prima in cantiere, almeno hanno un po’ di lavoro. Avrà le sue ragioni Manuel Agnelli degli Afterhours a dirci che Milano è una città vitale, ma, sarà che non porto pantaloni attillati di pelle e non uso creme di bellezza, io l’unica vitalità che vedo è quella del sacco edilizio continuo di questa metropoli. A scapito di spazi, anche musicali. Nel mio isolato hanno appena riempito un vuoto tra due case e abbattuto una costruzione aerea ed elegantissima di fine anni Sessanta. Adesso ci sono un 5 piani terrazzato come se fossimo a Miami e un 6 piani monolitico che starebbe bene a Berlino. Gli stessi che grufolano contro le moschee, autorizzano poi questi scempi. L’ultimo assessore all’urbanistica, tal Milko Pennisi assurto a gloria nazionale, ha patteggiato due anni e dieci mesi per tangenti: ma chi patteggia i reati contro la logica e l’estetica? Ma il vero problema è che a un isolato dal mio hanno chiuso il vecchio Transilvania che, dopo un’agonia di neanche tre anni come MusicDrome, tornerà ad essere un’autorimessa. Nessuno mi ridarà la comodità di intervistare un artista e invitarlo a casa a prendersi un caffè, magari avendo nascosto prima i bootleg e i cd masterizzati. Non vedrò più aggirarsi nel mio quartiere gli ultimi dark con gli occhi cerchiati come opossum o i metallari tutti borchie e catene (ed educatissimi). Mi mancherà anche l’invasione degli springsteeniani di tutta Italia come la sera in cui suonò Southside Johnny con gli Asbury Jukes. E per la strada, davanti al cancello del locale, non incontrerò più J. Mascis o Ed Wynne, impegnati a bersi una birra e a parlare coi fan venuti a sentire il soundcheck. Oggi su quel cancello c’è solo un malinconico cartello: ultimi box in vendita. Riposa in pace, Transilvania, garage eri e garage tornerai a essere. Intanto è evaporato anche lo storico Rolling Stone, perché lì conviene tirarci su sei piani, altro che concerti. E prima o poi toccherà al Palasharp, perché anche là c’è la sua convenienza (e pure dell’amianto da smaltire). E in compenso allo stadio di San Siro non si può far casino se non per le partite di calcio, una ogni quattro giorni. Ma il rock no, perché fa rumore. Sporca. Non so cos’abbia in testa il sindaco Moratti – a parte la cofana catarifrangente simil-Mirigliani – ma nella metropoli dell’Expò gli spazi da concerto ormai si contano sulle dita di una mano e il Comune, figurarsi, non ne ha uno suo. Tutto questo mentre il promoter Claudio Trotta rischia una sanzione pesantissima, grazie a fantomatici comitati di quartieri guidati da invasati che lamentano insonnie e crisi di panico per i 22 minuti di rock extra, regalatici dal Boss una sera del 2008, alle 23 e 30, mica alle 4 del mattino. La Milano da bere, decennio dopo decennio, è solo un bel bicchiere di merda.
(Giugno 2010)

hrc203Frate Metallo: pace e bene 
Un anno fa, Frate Metallo non se l’è fatto mancare nessuno, la stampa italiana, quella straniera e perfino il perfido Lucignolo televisivo. Ma messi da parte sensazionalismo e bigottismo musicale, che fine ha fatto il fratacchione? Lo chiamo e scatta la segreteria telefonica, la meno ansiosa che abbia mai sentito: “Sono Frate Cesare, pace e bene!”. Qualche giorno dopo sono nel convento dei frati minori a Musocco, Milano. Gli occhi chiari, sinceri, le mani robuste, una certa somiglianza col Santa Claus della Coca Cola, Fra Cesare ha l’entusiasmo di un ragazzino e la saggezza di un uomo che è stato operaio, bersagliere, vagabondo scalzo e infine missionario e cappuccino francescano. Riavvolgiamo il nastro: come giovane assistente spirituale dei tranvieri milanesi capisce che dove non arriva una predica può arrivare la musica. Lui ha una bella voce e un certo orecchio e comincia a scrivere canzoni, alcune religiose, ma perlopiù laiche (nel senso che può intendere un religioso, eh?). Quando canta raccoglie un sacco di offerte ma in cambio dei soldi preferisce dare delle cassette prima e dei Cd poi. 10 anni fa Costanzo lo chiama al suo show e l’esperienza è salutare: da allora rifiuta qualunque apparizione televisiva, rifiutando il ruolo della scimmietta. Ha le idee chiare su tutto: sulla beneficenza (“Vado al concerto se mi piace, non per aiutare qualcuno”), sugli autori musicali cattolici (“Che cosa significa, scusa?”) e sul successo (“Non me ne frega niente: sai quante volte mi hanno offerto Sanremo?”). È sanguigno e pacifico e il rock lo fa scattare in piedi, roteando il cingolo che gli stringe il saio, in estasi metallica. Ma ha cantato anche altri generi, ammettendo il fallimento solo quando ha sperimentato anche il liscio (!). Il suo disco metal è un’opera curiosa dove non senti il Padre nostro o l’Ave Maria al contrario, bensì Cesare che incattivisce la voce su ritmiche hard. Quando ringhia il growl sembra una parodia fatta da Elio, però lode al tentativo, senza pretese e senza presunzione, per divertirsi. Mangiamo assieme (e in modo parco) al refettorio del convento. I confratelli di Cesare sono tutti sorprendentemente simpatici, più o meno coinvolti dalla sua attività canora e c’è chi lo sfotte amabilmente in nome di altri credo musicali. Da questo incontro esco con la convinzione che Frate Metallo non è un furbetto, tutt’altro. Quelli sono gli artisti indie nerovestiti, che poi a Sanremo ci vanno eccome facendo la faccia contrita, o i giornalisti che non potevano credere di avere per le mani un francescano metallaro, due freak in uno. Il top sarebbe stata anche una disgrazia fisica, ma per fortuna Cesare è perfettamente integro. In tutti i sensi. Pace e bene.
(Giugno 2009)

HRC204Aphrodite’s Child: tzatziki rock!
Caldo. Spiagge. Massì, vi racconto due o tre cose della Grecia diverse da quelle che rimbalzano dai giornali, ma prima faccio un brevissimo ma palloso preambolo: il rock progressivo è un’astrazione terminologica. Per alcuni – detrattori ma anche ammiratori – significa solo supergruppi con assoli lunghissimi e clamorose capacità strumentali; per altri critici più elastici è quella musica che progrediva, nel senso che bruciava tappe e superava i confini temporali dei 3 minuti e quelli stilistici del beat. All’origine di tutto ciò ci sono pionieri come Moody Blues, Colosseum o Procol Harum e quando la sbobba non s’è allungata o è diventata autocelebrativa, si sono avuti autentici colpi di genio dove il rock incontrava tempi dispari, nuovi strumenti e contaminazioni coraggiose. Tra i pionieri di questa musica, nel bene e nel male, prima con singoli smielati poi con un’opera epocale, ci sono gli Aphrodite’s Child, trio di figli d’Afrodite che nasce nella Grecia dei Colonnelli e subito si trasferisce a Londra. Vi consiglio di cercarne delle foto, perché per sottolinearne la provenienza ellenica un P.R. in acido fece conciare i tre corpulenti e irsutissimi musicisti come delle comparse di Troy, con tuniche, foglie d’acanto in testa e cetre in braccio. Il gruppo conquista la Francia in rivolta del Sessantotto con Rain and Tears, singolo con più di un’assonanza con A Whiter Shade of Pale. Anche questa è una rilettura di un’aria barocca (là Bach, qui Pachelbel; e – scoop! –gli stessi accordi di Albachiara!) e l’effetto in classifica è immediato. Dopo altri singoli pop di successo, si decide per l’opera definitiva, turgidamente rock: l’album 666, prima bloccato dalla casa discografica, infine uscito a gruppo sciolto nel 1972. Affascinante, eterogeneo e inventivo, spazia dai Beatles a momenti pesanti come un capitello dorico sulle palle: è un sinistro concept sull’Apocalisse che nel tempo otterrà un successo clamoroso, diventando uno dei capisaldi del prog, altro che il sirtaki. E ora la carrambata per i meno avveduti: degli Aphrodite’s Child erano leader il romantico Demis Roussos che ha poi venduto 50 milioni di dischi in Francia, e soprattutto Evangelios Papathanassiou, cioè Vangelis, l’uomo che ha scritto score immortali per Momenti di gloria e Blade Runner o jingle ipnotici per la Barilla. E forse era meglio l’Apocalisse. Ah: se volete altri greci rock settantini, consiglio i santaniani (!) Peloma Bokiou. Buone vacanze.
(Agosto 2010)

hrc205aL’hard de noantri
Nell’Italietta delle bombe fasciste c’è – tra le tante – anche un’esplosione gioiosa, il corrispondente musicale della meglio gioventù, il cosiddetto “pop” o “progressive” italico, quando, a fianco di formazioni come PFM, Banco e Orme, cresce una generazione di rocker, l’hard de noantri: uno spaghetti-rock casereccio ma energico e senza mandolino, se non pesantemente elettrificato. Qui non si rischia l’orchite ascoltando pensosi concept che parlano di un pinguino (esiste, eccome, e non è neanche male); qui si picchia duro: tra riffoni, schitarrate, power chords e cavalcate solistiche, in 35 minuti di LP trovate idee che oggi coprirebbero cinque anni di carriera. Del resto l’imperativo musicale e ideologico era l’originalità e niente era peggio dell’accusa di “venduto”. E mancando il “venduto”, qualche gruppo durava lo spazio di un album… Il primo vagito è del Balletto di bronzo che con Sirio 2222), disco ricco di chitarre e assoli mordaci, cerca un’ingenua ma personale via italiana all’ombra del dirigibile di piombo. Più o meno contemporaneamente, il virtuoso tastierista Joe Vescovi espande volume e improvvisazioni con i suoi Trip, influenzato dai Vanilla Fudge, gruppo seminale che introdusse il concetto della cover stravolta e dell’utilizzo di pieni e vuoti strumentali. Joe compone album bellissimi (partite da Caronte), tant’è che anni avanti verrà convocato a Los Angeles da sua maestà Blackmore per suonare nei Rainbow. “Ma ero troppo morbido!”, mi confessa telefonicamente.
hrc205bUn altro che il rock duro l’ha sempre costeggiato è Alberto Radius, sia con la Formula 3, sia a fianco di Battisti. Radius (1972), prodotto dal Lucio nazionale sotto lo pseudonimo Lo Abracek, è forse il più compiuto hard rock nostrano, registrato in tre giorni di furiose jam con i futuri Area, la sezione ritmica della PFM e altri amici assortiti: rock senza frontiere attraversato da lampi di psichedelia, jazz e boogie, con la chitarra che fa di tutto. Come avrebbe poi continuato a fare, contribuendo in maniera fondamentale al successo di Franco Battiato a inizio anni 80. A chi dubita dell’essenza rock di quei lavori, solo una dritta: la micidiale outro solistica di Strade dell’Est, ne L’era del cinghiale bianco. Oggi Radius è un giovane molto cool di 62 anni con più capelli di Tina Turner. Lo incontro nel suo studio e mi presenta Please My Guitar, il suo ultimo disco. Lo definisce “Un album stradale!”. Mi fa sentire alcune tracce: canzoni solide, senza troppi assoli; per l’improvvisazione c’è tempo dal vivo e del resto Alberto si fa oltre un centinaio di concerti ogni anno, con la Formula 3 o con la Notte delle Chitarre.
Ora dimenticate certe recenti oxate o alcuni coretti beegeeseggianti: i New Trolls sono stati il gruppo che, a tratti, ha saputo fare l’hard italiano più maturo. Hanno flirtato col sinfonico e col beat, ma a trent’anni di distanza la chitarra del “Piccolo Hendrix” Nico Di Palo e la furiosa carica del gruppo genovese bruciano ancora. L’apice improvvisativo è nel lato live del Concerto grosso (1971) quando i nostri eroi fan profumare di basilico il verbo dei Deep Purple. Diverse spinte (hard contro pop e, si dice, anche divergenze politiche) portarono il gruppo a una scissione durata due anni, nei quali Di Palo diede sfogo alla sua Les Paul nei massicci Ibis, prima della riconciliazione con Vittorio De Scalzi e nuove separazioni.
hrc205cAddirittura heavy erano i Rovescio della medaglia che ci han lasciato una Bibbia (1971) registrata in presa diretta e tostissima. Al virulento chitarrista Enzo Vita si attribuisce l’immortale affermazione: “Mo’ che è morto Hendrix, semo rimasti in tre: Page, Blackmore e io!”. Dimenticava per esempio i Campo di Marte (Lp antimilitarista e durello del 1973) o anche Mario Schilirò, uscito da una cantina romana con i ventenni Teoremi, quartetto di geometrica potenza. Il chitarrista – oggi anche produttore – ha poi suonato a lungo con Venditti e da anni presta servizio con Zucchero. L’album eponimo (1972) è una bella botta, per niente derivativo e con una chitarra potente. Un solo album (1973) anche per il Biglietto per l’inferno ed è probabilmente uno dei più bei dischi italiani di sempre, ripubblicato recentemente con Dvd, album inedito e testimonianza live. Il tastierista “Baffo” Banfi ricorda con ironia i suoi vent’anni, quando “In mancanza di una motocicletta, rimorchiavi solo se suonavi in una band”. La sua era formata da cinque amici, trascinati dall’eccezionale frontman Claudio Canali, oggi frate benedettino ma trent’anni fa, altro che Fra Cionfoli: una furia sul palco e in studio.
C’è poi chi al vinile non arrivò neppure, come gli zeppeliniani Crystals (album del 1974 stampato solo ora dalla Akarma) o i Moby Dick, anch’essi profondamente influenzati dal Martello degli dei. Incontro il loro batterista, Adriano Assanti a Chiasso (e dove, se no, per parlare di hard rock?) e davanti a una pizza Adriano ricorda: c’erano una volta quattro ragazzi di Napoli, del Vomero, stufi marci dei soliti tre accordi e abbastanza matti da lasciar perdere le remunerative serate nei night. Altro che Rose rosse con Ranieri, l’imperativo stilistico del gruppo era suonare così forte da incrinare la ceramica dei water (in lingua: spaccamm’ ‘o cess!). Mica facile però: nel 1968 non ci sono Internet né tutorial. Per imparare la “nuova” musica devi svegliarti alle tre di notte, captare Radio Luxembourg e il giorno dopo affidarti alla memoria. Ma suonare i Led Zep nell’Italia del 1970, è come provare a vendere oggi i libri della Fallaci in Iran. Allo storico festival di Caracalla, per dire, gli staccarono l’amplificazione al secondo pezzo. E un disco? I Moby Dick avevano idee molto chiare: o lo si registra a Londra, come si deve, oppure meglio lasciar stare. E accadde il miracolo: il quartetto volò in Inghilterra e in una settimana incise l’album della vita, potente, bellissimo. Solo che l’abitudine di arrangiarsi e farsi prestare gli strumenti, all’Olympic Studios non funzionava: il conto divenne salatissimo e il manager non riuscì a vendere subito i nastri. Passano giorni, mesi, anni e poi c’è la vita, che è dura, con i membri della band ormai sparsi per il mondo e con altri mestieri, pur senza mai abbassare le chitarre. Oggi l’album dei Moby Dick c’è (di nuovo Akarma) ed è un po’ l’epilogo classico di tutte queste vicende: da metà anni Settanta in poi il rock italiano entrò in crisi, tramortito dalle discoteche, falcidiato dal servizio militare o da micidiali furti di strumenti e amplificazioni (giuro). Ma fu solo una ritirata strategica, credetemi: i dischi son lì ad aspettarvi e i musicisti li trovate ogni sera sui palchi di tutt’Italia. A suonarvele.
(Dicembre 2004)

hrc206aIan Gillan, parla con me
Fuori dal camerino, l’avvertimento: “se vi offende la nudità, non entrate!”. Dentro c’è Ian, vestito attillato di nero, come un mimo, che sorseggia una minestra in bicchiere. 61 anni, la faccia stanca di chi sta facendo un tour di successo ma anche il piacere della rivincita.
Com’è che non ti vediamo mai, in tivù?
Sai, le nuove generazioni cresciute con la tivù, la conoscono bene, sanno usarla. E sono giovani e belli. L’idea di un sessantenne sudato che si agita ha senso in un club, non nel tuo soggiorno. Noi siamo un po’ come gli stand up comedian: se vai in tivù a dire una battuta, la bruci per sempre. In un club puoi dirla quante volte vuoi, c’è un’audience diversa ogni sera. Questo è il bello di un tour.
Starai in giro tanto?
Un anno e mezzo, senza mai tornare a casa. Con mia moglie organizziamo delle vacanze sparse qui e là per il mondo, durante le pause del tour. Mi raggiunge lei.
E ti piace visitare altri paesi?
Sí, è molto educativo! Sono cresciuto nei suburbi di Londra e ho amato l’Inghilterra del dopoguerra. Era un paese ospitale. Ora non sono più tanto sicuro di amarla. La successione dei governi ha portato a una separazione culturale, non c’è più un’unità. Come negli USA: entità diverse, gruppi etnici diversi, fratture sempre più profonde.
Parli mai di calcio con Steve Morse (il chitarrista americano dei Deep Purple)?
E come potrei? Non capisce niente! Del resto io non so nulla di football americano. Cos’è un down? Ma dai…
Tolto Pavarotti, conosci qualche altro rocker italiano?
C’è il tizio ubiquo… quello che ha fatto dei duetti…
Ramazzotti?
Ma no, quello che è sempre in giro con tutti e li invita negli album, dai…
Zucchero?
Zucchero! E beh, come fai a non conoscerlo?
Fai ancora una vita da rocker… che gente frequenti?
Io adoro la gente che incontri di notte. Quando ero giovane finivo di lavorare alle tre del mattino, con cinque show sulla schiena, stanco morto ma pieno di adrenalina. E frequentavo chi era ancora in piedi a quell’ora: camerieri, ballerine, strippers e prostitute… Son cresciuto con loro e sono le persone più eccezionali. Sincere, affidabili, meglio di quelle che incontri di giorno.
I Deep Purple non hanno fama di grande profondità, ma forse è perché nessuno s’è mai messo a leggere i loro testi. L’ultimo album (Rapture of the Deep, il più venduto dagli anni Ottanta) ha una qualità spirituale… sei religioso?
Io non sono religioso ma capisco chi lo è. Il senso di appartenenza, di congregazione. È una ricompensa per soddisfare certe curiosità spirituali. Non vorrei essere blasfemo, ma è come un orgasmo collettivo, la religione. Ricordo che da bambino tornavo a casa, dopo la comunione o la messa, e praticamente volavo sul terreno. Ma non era soddisfacente dal punto di visto intellettuale. All’epoca non me ne curavo perché non ci pensavo, ma ora sí. M’interessa molto la metafisica, adesso…
hrc206bMetafisica, una rockstar?
Sí, mi sono appassionato al lavoro dei poeti metafisici o a Tennyson… e trovo eccezionali anche gli scienziati di fine Ottocento, come Charles Darwin. Quello che ha scritto, ora lo leggiamo non solo come testo scientifico ma anche come commento sociale a una società razzista e classista. Darwin ha ritardato la pubblicazione de L’origine della specie per qualcosa come vent’anni, ma a un certo punto era abbastanza anziano da non aver paura delle reazioni della chiesa… E grazie a dio l’ha pubblicato! Sai, la mia vita è quasi finita (vedendolo così vispo, Gillan doppierà i cent’anni, probabilmente sul palco)… non sono religioso, no, ma esaltatissimo dal futuro!
Senti, ti posso chiedere cosa pensi della guerra in Iraq?
Credo che il nostro primo ministro (non si degna neanche di citarlo) dovrebbe essere processato. Ha preso per il culo il parlamento, i reali, l’opposizione e la gente comune, per trascinarci in una guerra di cui non ha minimamente valutato le conseguenze. Abbiamo imposto artificialmente dall’esterno il nostro credo politico, ideologico e religioso ad un paese… quanto è morta la democrazia, così?
Di solito rispondono “Però adesso abbiamo Saddam Hussein”…
E allora? Con le sanzioni, negli ultimi dieci anni Saddam non ha fatto niente! Lo stanno processando per cose più vecchie, come aver trucidato 170 persone in un villaggio… George W. Bush, quando era governatore del Texas, ha firmato senza neanche leggerle le condanne a morte per 273 persone. Okay, erano stati processati, ma in processi dove le prove erano rifiutate nel dibattimento e cose così…
Non hai grande fiducia nei leader occidentali…
I leader dell’ovest sono cresciuti giocando a Monopoli, quelli dell’est giocando a scacchi e sanno prevedere qualche mossa più in là. Questo oltre ad avere una consapevolezza della vita più profonda della nostra.
E tu l’hai capito il senso della vita?
(Gli si illuminano gli occhi) Certo, assolutamente! Devi avere presenti due cose per essere felice, una fisica e l’altra metafisica: il senso di appartenenza e uno scopo. Ricordarti da dove vieni e sapere dove stai andando. Senza, la vita non ha senso.
(2 marzo 2006)

(Continua – 2)

La prima puntata è qui.

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