Alessandro Portelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Non respiro”: paralipomeni della democrazia ‘made in USA’ https://www.carmillaonline.com/2020/06/17/non-respiro-indagine-sulla-democrazia-made-in-usa/ Wed, 17 Jun 2020 20:20:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60653 di Sandro Moiso

Bruno Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano, DeriveApprodi 2020, 220 pp., 18,00 euro

Mentre sono ancora troppi coloro che, soprattutto a sinistra, ritengono inutile e fuorviante qualsiasi tipo di attenzione rivolta alla società statunitense e alla sua cultura, a meno che non si tratti di condannarne l’azione e le scelte imperialiste su scala mondiale, e alle contraddizioni che la segnano fin dalla sua nascita, i fatti delle ultime settimane, sulla scia della brutale uccisione di George Floyd da parte di alcuni agenti [...]]]> di Sandro Moiso

Bruno Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano, DeriveApprodi 2020, 220 pp., 18,00 euro

Mentre sono ancora troppi coloro che, soprattutto a sinistra, ritengono inutile e fuorviante qualsiasi tipo di attenzione rivolta alla società statunitense e alla sua cultura, a meno che non si tratti di condannarne l’azione e le scelte imperialiste su scala mondiale, e alle contraddizioni che la segnano fin dalla sua nascita, i fatti delle ultime settimane, sulla scia della brutale uccisione di George Floyd da parte di alcuni agenti della polizia di Minneapolis, dimostrano invece come proprio “nel ventre della bestia” sia possibile rintracciare elementi importanti non solo per l’analisi e l’anticipazione di ciò che l’evoluzione dei rapporti sociali e della crisi economica è destinata inevitabilmente a portare alla ribalta qui da noi nel prossimo futuro, ma anche, e forse soprattutto, per la comprensione e la critica del capitalismo attuale e dell’evoluzione (o involuzione) delle sue strutture statuali, giuridiche e socio-economiche.

Questo non soltanto perché, come già Karl Marx affermava nel Capitale, “il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire”, ma soprattutto perché nel corso del XX secolo il modello americano di capitalismo (prima industriale e poi finanziario) ha talmente permeato della propria immagine ogni aspetto delle società occidentali da finire col riflettere non soltanto le proprie contraddizioni, ma anche quelle dell’intero modo di produzione capitalistico nel suo insieme. Sia sul piano economico, sociale e politico, sia su quello dell’immaginario che ne è allo stesso tempo il prodotto e l’elemento fondativo.

Non è quindi un caso che, proprio a partire dagli anni Sessanta, come scriveva trent’anni fa l’autore del presente testo in una premessa ad un’antologia di suoi scritti sul mondo del lavoro americano:

Fu il presente ricco di contraddizioni, di antagonismi sociali e politici, di fermenti culturali degli anni Sessanta a sollecitare una generazione di studenti universitari a porsi domande sugli Stati Uniti e a cercare risposte. […] Fu questo, in buona misura, il caso di chi si avventurò nella ricerca delle radici storiche della rivolta nera e, ancora di più, nello studio della storia del movimento operaio statunitense. Si trattava di sentieri pochissimo battuti, in Italia, eppure erano quelli da percorrere per sapere da dove veniva quel radicalismo che ci aveva attratti: la solidarietà antirazzista e l’egualitarismo dei giovani che lottavano contro l’ingiustizia sociale, l’abnegazione e l’eroismo della gente comune nera nella rivendicazione dei propri diritti civili e umani, l’opposizione attiva contro la guerra del Vietnam, le rivolta dei ghetti. Trovammo che la domanda di trasformazione sociale profonda aveva radici a loro volta profonde e ramificate. Mettemmo a fuoco quella varietà delle componenti culturali che avevamo già intuito dietro alla grande letteratura. Comprendemmo che le forme della politica, da quella istituzionale a quella della protesta, erano tanto diverse dalle nostre.[…] E non fu un fatto solo nostro: quella che si definì fu una «frequenza» su cui avremmo trovato presto sintonizzati anche tanti altri studiosi europei.1

Bruno Cartosio che può essere oggi considerato a pieno titolo, e forse soltanto con Alessandro Portelli, uno dei principali americanisti e studiosi della Storia e della vita politica, sindacale e culturale degli Stati Uniti, nel suo ultimo libro, pubblicato da DeriveApprodi, cerca di cogliere come tale cultura politica, sia sul piano istituzionale che sociale, si sia trasformata negli anni intercorsi, grosso modo, dalla presidenza di Ronald Reagan ai giorni oscuri attuali, contrassegnati dalla presidenza di Donald Trump.

Sono gli anni che, non solo nel pensiero dell’autore, segnano la fine del secolo americano. Anni contraddistinti da convulsioni di carattere economico, politico, sanitario, sociale e militare che manifestano tutte le crepe della crisi di un impero economico, politico e culturale giunto alla fine della sua parabola. Anni che, guarda caso, hanno visto il declino generale dell’influenza del capitalismo occidentale sul pianeta, pur senza far sì che a tale declino di influenza politica ed economica corrispondesse un altrettanto significativo declino della concentrazione delle ricchezze accumulate nelle sue mani. O, almeno, nelle poche mani bianche che ancora ne detengono una significativa porzione.

Per fare questo l’ex-redattore di «Primo Maggio» e docente di Storia dell’America del Nord presso l’Università di Bergamo, deve spingere il suo sguardo ben oltre il periodo storico compreso tra gli anni Ottanta del XX secolo e i Venti di quello attuale, per andare alle radici di quel modello istituzionale di regolamentazione dei rapporti sociali e dei conflitti che ne conseguono che passa sotto il nome di democrazia occidentale o americana.
Regolamentazione e normazione basati sul modello di una carta costituzionale che, proprio nei nascenti Stati Uniti del XVIII secolo, vide la sua prima conferma e affermazione. Vero atto di nascita di quella democrazia occidentale di cui tanto si parla ancora oggi, soprattutto a giustificazione del permanere di un dominio e di un intervento neo-coloniale occidentale in ogni angolo del pianeta, neppure più sostenuto da reali rapporti di forza economico-militari.

Democrazia che dall’irrisolto nodo originario della schiavitù, salariale e non, alla differenziazione di genere, razza e classe si trascina ancora nella promessa di una mai raggiunta eguaglianza dei cittadini davanti allo Stato e alle sue leggi, fatte apposta per conservare tale divaricazione all’ombra di un frondoso e contorto albero i cui rami gemmano di continuo nuove disuguaglianze, mentre le sue radici continuano a sprofondare nelle logiche del dominio e del controllo sociale.

Albero che soltanto, e talvolta, le lotte di classe, sociali, di genere e delle minoranze etniche riescono a sfoltire dei rami morti e decrepiti e a potare per dare spazio ad altri più consoni agli interessi generali, ma che soltanto il lavoro di accetta della rivoluzione potrà far adeguatamente respirare in nome della produzione di altri frutti e di altri interessi, non coincidenti con quelli della produzione, del profitto e della proprietà privata dei suoli, delle risorse naturali e dei mezzi di produzione.

E’ una lunga cavalcata, dalle origini a Trump, che Bruno Cartosio ci offre attraverso le pagine del suo nuovo libro, che ancora una volta prende corpo dalla rielaborazione di testi già redatti o editi per altre occasioni. Un percorso che i lettori potranno seguire dall’eredità culturale e religiosa dei Padri Pellegrini alle politiche repressive e autoritarie varate da George Bush Jr. e dall’idea mitica della Land of the Free (oggi ribattezzata da qualche giornale come Land of the spree – strage o carneficina) a Facebook e al suo implacabile controllo politico e securitario, passando per le reaganomics e le “guerre sporche” di cui i governi americani si sono serviti per il mantenimento del loro dominio su scala mondiale. Un cammino che conduce comunque inesorabilmente a quel ginocchio posto sul collo di uomini, donne, classi sociali e non appartenenti alla “razza” bianca che possono sempre e soltanto dire “Non respiro” oppure rivoltarsi per tornare a farlo. Liberamente. Negli Stati Uniti e in ogni altro angolo del mondo.

The end of an Empire is messy at best
And this Empire is ending
Like all the rest
Like the Spanish Armada adrift on the sea
We’re adrift in the land of the brave and the home of the free
Goodbye
Goodbye
Goodbye

(A Few Words in Defense of Our Country – Randy Newman, 2008)


  1. B. Cartosio, Lavoratori negli Stati Uniti. Storia e culture politiche dalla schiavitù all’I.W.W., Arcipelago Edizioni, Milano 1989, pp. 9-10  

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Voci, suoni e protesta dell’America profonda https://www.carmillaonline.com/2019/05/23/voci-suoni-e-protesta-dellamerica-profonda/ Wed, 22 May 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52633 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, We Shall Not Be Moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), Squilibri, Roma 2019, pp. 340 + 4 cd, 39,00 euro

Basterebbero le sedici tracce di Barbara Dane, in assoluto una delle più importanti rappresentanti della musica folk e di protesta americana, contenute nei quattro cd allegati al testo a giustificare, per chiunque si interessi di musica e cultura popolare e antagonista statunitense, l’acquisto dell’opera in questione. Ma l’autentico scrigno del tesoro, realizzato da Alessandro Portelli per Squilibri, contiene molto di più.

I quattro cd contengono [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, We Shall Not Be Moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), Squilibri, Roma 2019, pp. 340 + 4 cd, 39,00 euro

Basterebbero le sedici tracce di Barbara Dane, in assoluto una delle più importanti rappresentanti della musica folk e di protesta americana, contenute nei quattro cd allegati al testo a giustificare, per chiunque si interessi di musica e cultura popolare e antagonista statunitense, l’acquisto dell’opera in questione. Ma l’autentico scrigno del tesoro, realizzato da Alessandro Portelli per Squilibri, contiene molto di più.

I quattro cd contengono infatti 92 brani registrati, nel corso degli ultimi cinquant’anni, sia durante concerti che manifestazioni oppure “sul campo” ovvero direttamente là dove erano eseguiti (abitazioni private, luoghi di lavoro, campagne, chiese o piazze) da esecutori spesso poco conosciuti oppure anonimi, da New York alla California, dal Kentucky all’Oklahoma, cominciando con le voci dei manifestanti contro Nixon nel 1969 e finendo con quelle dei ragazzi che scendono in piazza contro l’uso indiscriminato delle armi e le stragi nelle scuole, passando per i minatori in sciopero in Virginia e gli studenti nativi americani che rivendicano terra e scuola in Colorado.

E proprio questa caratteristica rivela la grande vitalità e diffusione di una musica popolare che è spesso multietnica, tradizionale e moderna allo stesso tempo. Ovvero proprio ciò che l’autore, ispirato sia dall’opera di raccolta che sia Gianni Bosio in Italia che Alan Lomax negli Stati Uniti e in giro per il mondo hanno impostato (il primo seguendo le indicazioni del secondo durante la permanenza italiana di Lomax negli anni Cinquanta), intende fare con questo lavoro che non esiterei a definire monumentale.

Già docente di Letteratura americana presso l’università “La Sapienza” di Roma, Portelli è presidente del Circolo Gianni Bosio, un’organizzazione indipendente di ricerca, studio e proposta della musica popolare nata a Roma nel 1972. Oltre a ciò l’autore può essere ritenuto uno dei maggiori esponenti della ricerca sulla storia orale a livello internazionale e, sicuramente, uno dei massimi esperti e studiosi della canzone popolare americana. E’ stato collaboratore dell’Istituto Ernesto De Martino e proprio in tale veste ha curato diverse registrazioni e pubblicazioni per I Dischi del Sole.

Proprio dal primo disco curato per quelle edizioni musicali insieme a Ferdinando Pellegrini nel 1969, L’America della Contestazione, provengono le prime 19 tracce del quarto cd, a testimonianza di un interesse e di una passione che hanno accompagnato cinquant’anni della vita dell’autore e della cultura americana, dal folk a Dylan e Springsteen e dal blues rurale e urbano al bluegrass e ai canti di protesta di Occupy Wall Street.

Il testo di Portelli costituisce il quinto capitolo, se così vogliamo chiamarlo, della collana I giorni cantati curata proprio dal Circolo Gianni Bosio e che riprende il suo titolo dalla gloriosa rivista trimestrale di cultura popolare e cultura di massa già pubblicata almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Suddiviso in quattro parti, quanti sono appunto i cd che lo accompagnano, il libro analizza nella prima (intitolata We Shall Not Be Moved, dal titolo di una delle più famose canzoni di protesta e di resistenza dal basso della tradizione folk americana:  non ci sposteremo, non cederemo, come un albero piantato sulla riva del fiume) canzoni di lotta e di carattere sindacale, politico e di rivendicazione delle minranze etniche. Nella seconda (Lonesome Dove. Blues, old time e worksongs), il cui titolo è ispirato sia da una delle canzoni in esso contenute che dal romanzo western più famoso di Larry Mc Murtry (qui la sua recensione su Carmilla), sono esplorate la tradizione della canzone popolare americana e la sua trasmissione, fino ai nostri giorni, attraverso voci singole o corali, quasi sempre poco note o sconosciute del tutto.

Nella terza parte (Amazing Grace. Gospel bianco e nero), intitolata ad una delle canzoni più famose e belle della musica religiosa tradizionale degli Stati Uniti (di cui vengono qui riportate diverse versioni), si analizza la presenza della religione e dei temi biblici nella canzone popolare americana; cosa spesso poco considerata, e ancor meno compresa dalla cultura italiana, nei suoi risvolti sociali sia per la cultura afro-americana che per quella dei lavoratori e dei poveri bianchi.
Nella quarta e ultima parte, infine, (L’America della contestazione. Un viaggio nel 1969 e un ritorno) si ricollegano le esperienze personali dell’autore e quelle dei movimenti contestativi americani, di ieri e di oggi.

Le canzoni raccolte nei cd, commentate una per una nelle pagine del libro e accompagnate dalla riproduzione tipografica del testo di ogni singolo brano, sono sia frutto della composizione di autori conosciuti quanto della rielaborazione o dell’inventiva di autori anonimi o collettivi e costituiscono un mosaico sonoro e culturale di grandissimo impatto.
La qualità del suono varia a seconda delle occasioni e delle situazioni in cui i brani sono stati registrati (dallo studio discografico alla piazza o nelle abitazioni private) e l’umore degli interpreti è importantissimo nel definire l’interpretazione (dall’entusiasmo della lotta al feeling che si crea tra reverendi e presenti alle funzioni religiose fino a Barbara Dane che conclude un brano sbattendo la chitarra sul tavolo avendo dimenticato alcune parole del testo).
Come afferma lo stesso Portelli nella Premessa:

Questi quattro CD rappresentano quasi cinquanta anni di registrazioni americane, da gennaio 1969 ad aprile 2018. Sono registrazioni di qualità variabile perché provengono da contesti diversi (in strada, in casa, in chiesa, nelle manifestazioni, nei concerti…) e ne recano il segno, compresi i disturbi e le incertezze […] E sono state realizzate con gli strumenti disponibili di volta in volta, a seconda delle situazioni e delle tecnologie, dal gelosino domestico, rimediato in casa di Ernie Marrs, agli apparati professionali della sessione con Barbara Dane e Mable Hillary a New York, e tutto quello che c’è stato di mezzo.
Il testo che accompagna i CD è un racconto che ripercorre soprattutto il rapporto più con le persone che con i suoni, ed esplora retroterra e ramificazioni. Molly McSweeney ha fatto un incredibile lavoro di trascrizione dei testi, qualche volta ingarbugliati e biascicati al limite dell’incomprensibilità. Le traduzioni sono funzionali alla comprensione del testo, non parola per parola (specie quando le parole si ripetono, come avviene soprattutto nei brani gospel o di derivazione gospel).

Siamo però, in tutti i casi, all’interno di un’autentica fucina della musica popolare americana e tutta l’opera ce ne restituisce la grandiosa e commovente immediatezza.
Il tutto accompagnato da un corredo fotografico dovuto sia agli scatti dello stesso autore che a quelli di  Giovanni e Vilma Grilli che, come afferma ancora Portelli, si sono sempre rivelati

appassionati viaggiatori per le strade e i suoni di un’America vicina alle “radici d’erba” della vita di tutti i giorni e della marginalità sociale, sempre animata da una creatività irreprimibile che si manifesta nelle piccole cose, nei dettagli, come nei capolavori. La loro America è uno spazio di strade, insegne, finestre, murali, edifici, e soprattutto persone, dove lo straordinario sta nel quotidiano e dove individui ordinari e comuni, con le mani su uno strumento, ci fanno intuire quanta meraviglia può esserci in un essere umano. Si tratta solo di essere, come loro, straordinarie persone normali, o almeno di avere come loro occhi per vederlo e cuore per riconoscerlo.

Un’opera unica nel suo genere, almeno in Italia, e assolutamente irrinunciabile per chiunque si interessi, sia per motivi di studio che per piacere personale, al vasto, complesso e polifonico universo di cui è espressione.

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La fine dei tempi e la nave che verrà https://www.carmillaonline.com/2018/07/10/la-fine-dei-tempi-e-la-nave-che-verra/ Mon, 09 Jul 2018 22:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46685 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile. Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile.
Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a livello planetario che sembra aver superato le barriere dello spazio e del tempo, la diffusione della ricezione delle sue canzoni in Italia fin dai primi anni sessanta, il collegamento con la tradizione folklorica e musicale non soltanto anglo-sassone e, infine, l’immancabile richiamo al testo biblico.

A tutto questo, che già potrebbe costituire un materiale enciclopedico intorno alla figura di Dylan, si va ad aggiungere un puntuale e coltissimo riferimento alle origini e ai richiami della tradizione delle ballate popolari all’interno delle sue canzoni e una definizione, credo, finalmente esaustiva di ciò che costituisce una ballata e che la differenzia da altri generi musicali quali, ad esempio, la canzone politica.

Il tutto si articola intorno ad una singola canzone, la celeberrima A Hard Rain’s A-Gonna Fall che, come afferma Portelli, fu anche la prima canzone di Dylan ad essere trasmessa da una radio italiana nel 1964. Affermazione avvalorata dal fatto che fu proprio lo stesso Portelli a trasmetterla nel programma Rotocalco musicale di Adriano Mazzoletti che andava in onda, sul secondo programma della RAI, ogni mercoledì alle 17.

Un legame di antica origine e di lunga durata è quello che lega quindi l’autore del libro, oggi uno degli americanisti e studiosi di storia orale e di cultura e musica popolare più importanti (forse il più importante) d’Italia, al cantautore e poeta statunitense. Legame lungo, appassionato e serio che permette a Portelli di sviscerare autenticamente la canzone, le sue origini e tutti i suoi possibili significati e, allo stesso tempo, fare altrettanto con i suoi riferimenti culturali e musicali.

Se il viaggio con l’opera e il successo di Dylan inizia infatti in Italia nel 1964, esso poi continua nel deserto del Sahara dove una guida tuareg, nel 1969, fa ascoltare al fotografo Mark Edwards la voce di Dylan, attraverso un vecchio mangiacassette a batteria, mentre interpreta proprio Hard Rain. Per continuare poi, nel tempo e nello spazio, fino al festival che si tiene annualmente a Shillong, ex-capitale dell’Assam, in India in occasione del compleanno di Dylan il 24 maggio. Festival rock cui partecipano gruppi e spettatori di mezza India, pur non essendo mai andato il destinatario di quella manifestazione ad esibirsi in quel paese. Oppure a Calcutta nel 2016, dove cantautori locali, giovani o meno, continuano ad interpretare ed inventare canzoni tradizionali sulla base della musica o della poetica dylaniana.

Un viaggio che in Italia ha visto avvicinarsi fin dagli inizi alla medesima poetica, per trarne ispirazione, cantautori ed artisti quali Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, il Nuovo Canzoniere Italiano e molti altri ancora. Ma, come si è già detto, questo viaggio non è soltanto nel tempo delle canzoni di Dylan e della loro ricezione, ma anche nelle radici popolari e storiche delle stesse.

Per fare ciò Portelli utilizza la ballata che maggiormente sembra avere influenzato la struttura di Hard Rain: si intitola Lord Randall, di cui sono state individuate dagli studiosi «versioni e varianti tedesche, olandesi, svedesi, danesi, ungheresi, wendish, irlandesi, americane, boeme, catalane; ma la coesione più stretta e fra le versioni italiane e quelle anglofone».1

Ed è esattamente a questo punto che la storia di Hard Rain/Lord Randall torna ad incrociarsi con la canzone popolare italiana, si potrebbe dire con l’autentica canzone popolare; quella trasmessa oralmente attraverso i secoli, da un esecutore all’altro, e di cui si trovano tracce fin dal 1629. La versione italiana, che potrebbe essere addirittura la prima e la più antica, si intitola Testamento dell’avvelenato ed è ricordata da «un certo Camillo detto il Bianchino, in una raccolta di testi pubblicata a Verona ».2

L’antica ballata, che inizia in media res, racconta la vicenda di un giovane che allontanatosi da casa per trovare la sua bella, tornerà a morire tra le braccia della madre e dei famigliari dopo essere stato avvelenato dalla stessa donna di cui si era innamorato. Non vi sono spiegazioni sui motivi dell’omicidio, ma la metafora dei rischi legati all’abbandono dei luoghi conosciuti e famigliari è potentissima. Infatti, come afferma Portelli

“la pulsione verso il conosciuto, stabile, famigliare in tempi di trasformazioni tempestose ha anche una risonanza con il senso del tempo storico: la sensazione che il «nuovo» possa essere portatore non solo di speranza ma anche di pericolo.
Gli anni in cui fiorisce in Gran Bretagna la ballata epico-lirica sono quelli delle enclosures e delle leggi anti-vagabondaggio, in cui la modernizzazione consiste nella privatizzazione dei beni comuni e nella cancellazione degli usi civici, impoverendo le famiglie rurali o trasformandole in poveri urbani itineranti e vagabondi illegali. Non sempre, per le classi non egemoni, il nuovo ha voluto dire progresso, miglioramento.[…] La canzone popolare è una delle forme che esprimono, per dirla con Vito Teti, antropologo del mondo rurale del Sud, «l’inquietudine di popolazioni mobili rese costitutivamente precarie, melanconiche, ma anche creative e resilienti dall’esperienza prolungata delle catastrofi naturali e dagli stravolgimenti storico-economici, dalla fame e dalla ricerca di un paradiso altrove»”.3

La canzone di Dylan, cantata in pubblico per la prima volta nel 1962 ed uscita per la prima volta su disco il 27 maggio 1963, nel suo primo album di canzoni originali The Freewheelin’ Bob Dylan, parla in realtà del pericolo di un fall-out nucleare destinato a distruggere il nuovo mondo di cui il blue eyed young man protagonista della canzone è andato in cerca incontrando soltanto morte e distruzione, compresa la sua. La canzone riprende i toni apocalittici ereditati dalla Bibbia da blues, gospel e spiritual.

Non è la sola nel disco poiché con essa è presente anche Talkin’ World War Blues che riprende il tema della possibile distruzione nucleare del mondo con versi ora drammatici ora ironici. Ma l’anno è importante poiché si tratta del 1962 e la crisi dei missili di Cuba ne è diventata il simbolo. Il senso del vivere sul limite di una catastrofe nucleare pervade le folk songs, i primi movimenti di protesta giovanili anti-militaristi e precederà di poco lo sviluppo dei movimenti per i diritti civili e di lì a poco il 1968.

Ma Dylan può affermare, a ragione, di non aver mai scritto una canzone politica, anche se molt, ieri e ancora oggi sono state accolte e sono ancora interpretate come tali. In questa affermazione l’autore americano non solo conferma la sua volontà di non essere mai inquadrato in un cliché, ma rivendica indirettamente il suo essere scrittore ed interprete di ballate epico-liriche tipiche della cultura popolare.

Infatti, ci spiega Portelli

“La ballata si occupa di quelle opposizioni in cui schierarsi non è possibile. Ciascuna ballata, o il sistema delle ballate nel suo insieme, enuncia un dilemma ma non lo risolve perché, come nella tragedia, le ragioni sono divise, sono tutte sia giuste, sia fatali: il nuovo è minaccioso ma come possiamo rinunciare al futuro? […] Ascoltare le ballate e prenderle sul serio ci aiuta a conoscere meglio Bob Dylan e a capire anche perché non sia solo il Dylan giovanile ma anche quello più recente a esserne intriso, come se quelle canzoni che esplorava come riproposta tornassero decenni più tardi, interiorizzate in forma di memoria.”4

L’argomento delle ballate, scrive ancora l’autore, sono le domande, non le risposte e questo può spiegare la loro sopravvivenza nel tempo e nello spazio poiché spesso fanno riferimento ai grandi temi e ai grandi archetipi dell’agire umano e dell’inconscio collettivo. Potendo essere di volta utilizzate e riutilizzate in contesti sempre nuovi, sempre diversi e allo stesso tempo costanti.
Cosa che le avvicina alla lirica e alla poesia e che in Dylan vede accumularsi, insieme alla tradizione folk, blues, gospel, biblica e tradizionale, elementi della poesia moderna dal Bateau ivre di Rimbaud a Howl di Allen Ginsberg, passando per la ribellione giovanile dell’autentico drop out quattrocentesco François Villon. Ed è stato proprio questo approccio che ha, di fatto, contribuito all’assegnazione del Nobel a Dylan proprio nell’anniversario della morte di un altro premio Nobel, questa volta italiano, che dell’unione tra colto e popolare aveva fatto il centro del suo Mistero buffo: Dario Fo.

Poiché un viaggio deve per forza concludersi con una nave che entra in porto, se nella canzone Hard Rain a trionfare può essere l’apocalisse, in un’altra canzone famosissima la speranza può arrivare con una nave, un’arca della salvezza oppure carica di angeli sterminatori per i malvagi: When The Ship Comes In. Inserita in The Times They Are A-Changin’, del 1964 e terzo lp del giovane Dylan, in essa si afferma che

“Tempo verrà; non se ma quando arriverà la nave.[…] When The Ship Comes In è un’altra profezia che rovescia e bilancia A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Siamo in quel momento sospeso in cui la pioggia sta per cadere, ma stavolta non è la fine del tempo: è un prodigioso tempo nuovo, un avvento liberatore che apre l’oceano e scuote la sabbia; persino i pesci e i gabbiani sorrideranno, persino le rocce si ergeranno orgogliose sulla riva, il sole finalmente non brucerà più i visi dei naviganti e le parole usate per confondere la nave si riveleranno in tutta la loro incomprensibile insensatezza. E’ una canzone intrisa di echi biblici. Ma quelle catene che si spezzeranno fanno pensare anche ad un altro testo sacro […] Quando arriva la nave non è più il tempo dei compromessi, delle mediazioni, delle concessioni; dalla prua della nave grideremo (ai nostri potenti nemici) «your days are numbered», i vostri giorni sono contati. «We’ll shout from bow» – Noi grideremo dalla prua; la nave non è un prodigioso deus ex-machina che viene a salvarci; sulla nave ci siamo noi; siamo noi, tutti insieme, la nostra salvezza”.5

Sarebbero ancora tantissimi i temi, le canzoni, i collegamenti contenuti nel libro, ma credo sia giusto chiudere qui, con un messaggio che è allo stesso tempo di vendetta e di speranza, esattamente come fa l’autore, che rinvia più ai drammi dell’odierno Mediterraneo colonizzato e insanguinato dall’imperialismo europeo che ai versi tratti dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini: «Un bel dì, vedremo levarsi un fil di fumo, sull’estremo confin del mare. E poi la nave appare. E poi la nave appare».


  1. A. Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, pag. 29  

  2. A.Portelli, op.cit., pag. 27  

  3. ibid. pp.120-121  

  4. ibid. pp. 124-125  

  5. ibid. pp.143-144  

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Memoria e immaginario. Storia orale tra racconto degli eventi e racconto come evento https://www.carmillaonline.com/2018/01/30/memoria-immaginario-storia-orale-racconto-degli-eventi-racconto-evento/ Mon, 29 Jan 2018 23:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42783 di Gioacchino Toni

Alessandro Portelli, La città dell’acciaio. Due secoli di storia operaia, Donzelli editore, Roma, 2017, pp. XII-452, € 32,00

Il volume di Alessandro Portelli La città dell’acciaio (2017), nato dall’accorpamento di Biografia di una città (1985) e Acciai Speciali (2008), riesce a dar conto di diverse trasformazioni: dell’universo ternano che da rurale diviene prima industriale poi postindustriale; della storia orale che nel periodo che intercorre tra i due saggi qui riuniti da marginale è stata prima accettata e poi, forse, suggerisce l’autore, persino eccessivamente celebrata; del linguaggio degli intervistati che da [...]]]> di Gioacchino Toni

Alessandro Portelli, La città dell’acciaio. Due secoli di storia operaia, Donzelli editore, Roma, 2017, pp. XII-452, € 32,00

Il volume di Alessandro Portelli La città dell’acciaio (2017), nato dall’accorpamento di Biografia di una città (1985) e Acciai Speciali (2008), riesce a dar conto di diverse trasformazioni: dell’universo ternano che da rurale diviene prima industriale poi postindustriale; della storia orale che nel periodo che intercorre tra i due saggi qui riuniti da marginale è stata prima accettata e poi, forse, suggerisce l’autore, persino eccessivamente celebrata; del linguaggio degli intervistati che da «epico, vernacolare, intriso di politica, di identità e organizzazione di classe» dei più anziani, alcuni nati nel lontano 1890, diviene «ironico, disincantato, spoliticizzato, più istruito ma non meno arrabbiato» nei più giovani, specie quelli nati dopo il 1980; del registro orale che muta in scrittura e che da privato, nel divenire libro, si trasforma in racconto pubblico; dei nudi fatti storici che si modificano mescolandosi con i sogni e i desideri di chi li racconta.

Se la prima parte di questo immenso lavoro è incentrata su Terni, la seconda si apre ad una dimensione globale che tocca anche gli stabilimenti ThyssenKrupp di Nashik in India, di Ibirité e San Paolo in Brasile e di Johannesburg in Sudafrica. Nelle oltre quattrocento pagine del volume si dipana un affascinante e coinvolgente lungo viaggio tra i racconti operai meritoriamente e sapientemente raccolti e tradotti in forma scritta da Portelli che dedica l’apertura agli aspetti metodologici su cui è costruito il lavoro e ad alcune problematiche inerenti la storia orale.

Lo studioso sottolinea sin dalle prime pagine che il suo ricorrere alle fonti orali non deriva da alcuna pretesa di superiorità o autenticità di queste rispetto ad altre fonti, «ma perché la parola delle classi non egemoni e della gente comune, per sopravvivere e funzionare in condizioni di dislivello di cultura e di potere, ha dovuto e saputo attrezzare l’oralità con forme e modalità più articolate e coerenti di quelle per molto tempo conseguite nell’appropriazione della scrittura» (p. 5).

Se la parola operaia in quel di Terni si forma in continuità con la tradizionale cultura orale contadina, sono soprattutto le strutture organizzate comuniste ad insegnare a questo mondo operaio a leggere e discutere i giornali e i libri. «Le classi popolari hanno ricevuto l’accesso non a tutta la scrittura, ma solo a una sua parte: hanno imparato a leggere, ma ci si è preoccupati meno di porle in grado di scrivere. La cultura si riceve, non si produce: perciò la cultura che si riceve è solitamente quella di qualcun altro […] La produzione non egemonica di discorso resta così affidata un’oralità svalorizzata agli occhi dei suoi stessi portatori e attraversata da livelli e gerarchie, o a una scrittura posseduta in modo imperfetto» (p. 4).

Nel caso della storia orale il ricercatore non si limita a reperire i dati ma, inevitabilmente, contribuisce a formarli. «La storia orale comincia nel momento in cui l’incontro tra ricercatore e narratore produce un discorso a due voci che verrà poi elaborato, interpretato e pubblicato. I dati nascono dunque già come prodotto di un’interferenza» (p. 6). All’intervista prendono parte un osservatore e un osservato, con tutti i rischi di distorsione dei dati che questo rapporto fondato sulla diseguaglianza comporta. Non di rado, ad esempio, l’osservato, sentendosi in posizione subalterna nei confronti dell’osservatore, adotta pratiche di compiacimento e dissimulazione. Siccome «uguaglianza non significa assimilazione […], la parità mancante va denunciata come una condizione da costruire ai fini della trasparenza e dell’attendibilità dei dati. È questo il nocciolo duro di politicità implicito in ogni incontro su campo» (p. 6). Se l’intervista non viene pensata e costruita come scambio «di sguardi tra soggetti diversi ma uguali», continua Portelli, allora l’osservato è ridotto ad oggetto, appendice degli strumenti dell’osservatore.

Il racconto orale deve poi essere tradotto in testo scritto per essere trasmesso attraverso il libro e il passaggio dall’oralità alla scrittura apre diverse problematiche. La trascrizione fedele del contenuto dei nastri risulta spesso inefficace in quanto incapace di rendere il senso di quanto trasmesso nel racconto orale. Portelli ricorda come diversi intervistati, nel momento in cui hanno avuto modo di leggere la trascrizione di quanto raccontato oralmente, siano restati delusi per l’eccesso di esattezza riscontrato, aspettandosi, probabilmente, nel passaggio alla forma scritta, un miglioramento formale a cui avrebbe dovuto ottemperare l’intellettuale. Vivendo il racconto colloquiale come racconto privato, gli intervistati si aspettavano che lo studioso, nel trasformarlo in forma scritta, si preoccupasse anche di renderlo più presentabile. Lavorare con le fonti orali costringe a fare i conti con molte ambivalenze e contraddizioni; se esiste una fedeltà alle fonti, consistente nel garantire il diritto all’autorappresentazione, esiste anche la fedeltà che il ricercatore deve a se stesso, alla descrizione fedele di ciò che ha visto e sentito.

Esattamente come avviene per ogni altra traduzione, anche la trascrizione non può essere intesa come riproduzione meccanica del testo di partenza. Si tratta piuttosto di una sua rappresentazione in un medium diverso e occorre tener presente che rispetto all’orale la scrittura è maggiormente standardizzata. «L’ambivalenza della storia orale si esprime dunque anche nella doppia forma di rispetto del testo: mantenerlo intatto e/o farlo funzionare per iscritto; rispettare la lettera e salvarne la qualità (un “bel” discorso orale può diventare insensato in una trascrizione meccanica; e anche la falsificazione della qualità è un’infedeltà). Trascrivere significa stare in un spazio intermedio dove vengono rispettate e violate al tempo stesso le leggi dell’oralità e quelle della scrittura, cercando di stabilire fra i due poli una tensione costante, che a suo modo rispecchia anche l’ambiguità culturale delle fonti» (p. 11). Inoltre, occorre tener presente che mentre l’oralità quotidiana è un discorso in fieri, spesso riaggiustato in corso d’opera, nella sua trascrizione si rende spesso necessario intervenire ripulendo il testo da ripetizioni, affermazioni restate in sospeso ecc. Ciò risulta necessario, sostiene lo studioso, sia per dare maggior leggibilità e coerenza al testo scritto che per rispetto nei confronti dell’autorappresentazione dei narratori.

Esiste poi la questione del montaggio in fase di trasformazione in scrittura dei testi registrati. «La storia orale è un tessuto di racconti: considerarla dal punto di vista dell’arte del raccontare può servire a recuperare una parte della fluidità che il passaggio della scrittura congela […] Guardiamo questi discorsi come narrazione, anziché come informazione: vi riconosciamo le manipolazioni creative nel rapporto tra tempo della storia e tempo del racconto; la focalizzazione limitata e il punto di vista circoscritto come limite di prospettiva ma anche come tenace difesa della presenza del soggetto narrante; un solido senso della struttura; un uso consapevole dei simboli. Costringere questo discorso nella sintassi del discorso storiografico significa rischiare di violarne la forma e il senso; si tratta piuttosto di far entrare la dimensione romanzesca dei materiali orali dentro il testo storiografico e lasciare che questo – pur mantenendo tutta la propria affidabilità referenziale – sia contaminato dall’impurità letteraria delle sue fonti» (pp. 12-13).

Riferendosi alle modalità con cui nel volume ha tentato di dare forma narrativa ad una città intera, intrecciando storie individuali e collettive, documenti d’archivio e frammenti giornalistici, Portelli sostiene si possa effettuare una similitudine con la struttura adottata dalla trilogia USA di John Dos Passos che presenta «un montaggio basato su una logica associativa di accostamenti sincronici attraversati da fili di biografie di personaggi riconoscibili nella folla delle voci della città» (p. 14). Portelli sostiene di avere la sensazione di avere così trasformato Terni nella sua Yoknapatawypa personale, soltanto che, a differenza di quella di William Faulkner, non è immaginaria.

«Quasi tutte le interviste, e soprattutto le più significative e complete, procedono per grosse unità temporali disposte in ordine cronologico; ma all’interno di ciascuna unità il racconto si muove liberamente avanti e indietro, spesso addirittura a ritroso, molte volte partendo da un episodio centrale che dà il senso del tutto per poi tornare indietro e andare avanti. Questa struttura ha finito per diventare la struttura complessiva del libro: leggerlo è, in qualche modo, come ripercorre un’unica grande intervista. L’isomorfismo tra interviste e montaggio segue anche le trasformazioni generazionali della memoria. Fino, all’incirca, alla seconda guerra mondiale i racconti sono filtrati dalla dimenticanza e levigati dalla ripetizione, costituendo un repertorio in cui ogni affermazione è corredata dal suo racconto, che viene richiamato in forma in gran parte combinatoria. Dalla generazione degli anni quaranta in poi, non c’è più il tempo di dimenticare e selezionare; la grande massa di informazioni ricordate produce un flusso verbale ancora in gran parte in cerca di forma, nel quale i “materiali preparatori” prevalgono sugli elementi strutturati. Mentre i racconti più antichi si avvolgono della memoria dell’arte dell’oralità preindustriale, questi sono attraversati dalla perdita graduale di riferimenti precisi nella struttura industriale, urbanistica, politica della città – a partire dal “taglio netto” dei licenziamenti del 1953. Infine, avvicinandosi alla contemporaneità, si incontra una parola più riluttante, tesa e nervosa, che non si distende quasi mai in una forma ampia, ma procede per unità sminuzzate, serrate, incompiute, o per i cicli seriali che torno ossessivamente su se stessi (e i tempi verbali adesso sono quelli dei mass media, dell’elettronica, del Rock). Anche le unità del montaggio del testo seguono questo andamento, facendosi (solo in parte dalle scelta consapevole) sempre più frammentarie ed ellittiche a mano a mano che ci si avvicina al presente e che un tipo di narratore prende gradatamente il sopravvento su un altro» (pp. 15-16).

Una riflessione fondamentale Portelli la dedica alla questione dell’attendibilità della storia orale e, soprattutto, alla sua capacità di accrescere i freddi e nudi fatti con l’apporto caldo dei sogni e dei desideri dei soggetti intervistati. «Non tutto quello che si racconta in questo libro è vero; ma tutto è stato veramente raccontato. Il rapporto fra racconto dell’evento e racconto come evento sottolinea la funzione della memoria non come magazzino di fatti ma come matrice di significati […] Ciò che mi ha coinvolto nella storia orale non è la sua attendibilità, ma la frequenza e ricchezza degli scarti e delle invenzioni, dove si addensa la funzione valutativa del racconto, il giudizio, il sogno, il desiderio. Perciò, quello che segue non è tanto la ricostruzione di quasi due secoli di storia di una città attraverso la nascita, il fulgore e la crisi della civiltà industriale, quanto una ricerca del rapporto della gente con questa storia» (p. 16-17).

Ai fini dell’opera di Portelli nei racconti degli intervistati quel che poteva succedere è altrettanto importante di quello che è successo «questa storia fatta coi “se” e coi “ma”, che intreccia alla memoria dei fatti le ipotesi del desiderio, affonda le radici in una delle grandi forme del rifiuto dell’esistente, l’ucronia» (p. 17). Secondo lo studioso, «I racconti immaginari e ipotetici costituiscono il grado più alto d’intermediazione della soggettività tra evento e racconto (già implicita nella manipolazione della sostanza fonetica, nelle variazioni di registro linguistico, nell’articolazione delle forme retoriche e narrative). Sapremmo molto di meno su tutta questa storia, senza gli errori creativi della memoria e della fantasia che ne salvano il senso» (p. 18).

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La cultura altra e l’intellettuale rovesciato / seconda parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/29/la-cultura-altra-lintellettuale-rovesciato-seconda-parte/ Mon, 28 Aug 2017 22:01:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40067 di Fiorenzo Angoscini

Il Nuovo Canzoniere Italiano e l’Istituto Ernesto de Martino

Come organizzatore di cultura, Bosio, ha promosso, proposto e realizzato molti progetti. Sicuramente, i due più significativi, tra loro collegati e interdipendenti, conseguenti con tutte le iniziative ‘pensate’ in precedenza, sono il “Nuovo Canzoniere Italiano”, che non è stato solo il nome di una rivista, e l’ “Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”.

Il ‘Canzoniere’ è stato un agglomerato di solisti: Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Luisa Ronchini, Pino Masi, Rosa [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Il Nuovo Canzoniere Italiano e l’Istituto Ernesto de Martino

Come organizzatore di cultura, Bosio, ha promosso, proposto e realizzato molti progetti. Sicuramente, i due più significativi, tra loro collegati e interdipendenti, conseguenti con tutte le iniziative ‘pensate’ in precedenza, sono il “Nuovo Canzoniere Italiano”, che non è stato solo il nome di una rivista, e l’ “Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”.

Il ‘Canzoniere’ è stato un agglomerato di solisti: Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Luisa Ronchini, Pino Masi, Rosa Balistreri, Gualtiero Bertelli, la mondina Giovanna Daffini e suo marito Vittorio Carpi (suonatore ambulante di violino), reggiani di Santa Vittoria di Gualtieri, Caterina Bueno, Ciccio Busacca, Sandra e Mimmo Boninelli1 , gli ex Cantacronache2 Fausto Amodei-Michele Luciano Straniero-Emilio Jona-Sergio Liberovici-‘Margot’, Alberto D’amico, Giorgio Gaslini, Sandra Mantovani ; mentre nella fase iniziale d’attività anche Dario Fò ed Enzo Jannacci sono stati canzonieri militanti e gruppi musicali (Canzoniere del Lazio, Nuovo Canzoniere Bresciano, Canzoniere Popolare Veneto, Gruppo Padano di Piadena, Canzoniere Pisano, I Giorni Cantati di Calvatone e Piadena, Canzoniere di Rimini, Canzoniere Popolare di Bergamo, Canzoniere Popolare della Brianza, Canzoniere Popolare Romano, Canzoniere Popolare Modenese) hanno raccontato, affiancato, sostenuto, con ballate, lettere musicali, racconti orali, canzoni, rappresentazioni teatrali, la vita, le lotte, le storie della classi subalterne. Anche Franco Fortini e Umberto Eco sono stati ispiratori pratici di questo progetto. Oltre ai protagonisti, anche alcune delle loro realizzazioni-rappresentazioni hanno inciso sul tessuto socio culturale di quest’Italia. Si sono già ricordati gli allestimenti di ‘Bella Ciao. Un programma di canzoni popolari italiane’ e ‘L’altra Italia. Prima rassegna italiana della canzone popolare e di protesta vecchia e nuova’. Altrettanto importanti sono stati ‘Pietà le morta. La Resistenza nelle canzoni 1919-1964 ‘, ‘Ci ragiono e canto’ (Rappresentazione popolare in due tempi su materiale originale curata da Cesare Bermani e Franco Coggiola) e’La grande paura. Settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche’ (Rappresentazione teatrale in due tempi su materiale raccolto da Cesare Bermani, Gianni Bosio, Franco Coggiola con allestimento, testo e interpretazione del Collettivo Teatrale di Parma). Infine, ‘Il bosco degli alberi. La storia d’Italia dall’ Unità a oggi attraverso il giudizio delle classi popolari’ (Rappresentazione in due tempi a cura di Gianni Bosio e Franco Coggiola).

Già sul finire degli anni cinquanta (1957) Gianni Bosio e Alberto Mario Cirese, pensavano di costituire una struttura stabile e polifunzionale dove far convergere, organizzare, raccogliere e conservare tutto il diverso materiale (libri, riviste, pubblicazioni sparse, dischi, manifesti, spettacoli teatrali-musicali, fotografie e filmati) frutto del lavoro già compiuto e di quello futuro ancora da svolgere. Il “Centro di documentazione e studio delle arti e tradizioni popolari” è stato (anche se solo in bozza) il precursore ed anticipatore dell’ Istituto Ernesto de Martino.

Bosio e Cirese costituiscono ‘legalmente’ l’Istituto il primo gennaio 1966, convenendo di affidare la direzione a Roberto Leydi.3 Divergenze di opinioni e metodologie distinte portano al distacco di Leydi dai due promotori del progetto e rallentano l’inizio delle attività dell’Istituo, che slitta al primo luglio dello stesso anno. Nel 1965 era morto Ernesto de Martino 4 antropologo,5 etnologo,6 storico delle religioni, studioso, professore universitario, uomo di cultura nel senso più ampio del termine. Tra lui e Cesare Pavese intercorre un corposo carteggio relativo a come impostare e gestire la mitica Collana Viola dell’ editore Einaudi (poi passata a Bollati Boringhieri) “collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici7 . La ‘viola’, riuscì a far appassionare lettori ed esperti, veicolando nel paese scienze fino ad allora semi-sconosciute: etnologia e storia delle religioni, conferendo tagli ed impostazioni disciplinari particolari: psicologia religiosa e studio dei dislivelli culturali.

Ma de Martino è stato anche un militante politico che affrontava rilevanti questioni teoriche e ne discuteva con, ad esempio, Pietro Secchia8 , il ‘rivoluzionario eretico’ che dialogava con molti, nonostante gli sciocchi appellativi con cui veniva etichettato: l’ uomo che sognava la lotta armata, l’ultimo stalinista, l’amico di Giangiacomo Feltrinelli (sottinteso in odore di guerriglia).

Gli uomini, le donne, i collettivi citati non sono tutti i protagonisti di questo viaggio culturale-umano-storico-musicale-teatrale-letterario e politico. Ci sono stati abbandoni, distacchi e, in alcuni casi, ritorni. Alcuni hanno compiuto solo un breve tratto di strada comune, altri un tragitto più lungo, i più convinti il percorso completo. Così come non è stato ‘ricostruito’, in maniera totale, tutto il ‘movimento’ che, partito dalle intuizioni-elaborazioni-realizzazioni di Gianni Bosio si è organizzato attorno a lui. Si è voluto, però, offrire un panorama il più rappresentativo possibile.
Oggi, l’Istituto, è un insieme di “…gruppi collegati: dalla Lega di Cultura di Piadena, al Circolo Gianni Bosio di Roma, alla Società di Mutuo Soccorso Ernesto de Martino di Venezia, ad altre nate negli ultimi anni come gli Archivi della Resistenza di Fosdinovo o la recentissima L’altra Cultura di Orta San Giulio9
Di seguito, per completezza parziale, alcuni esempi di ‘eredi’ non diretti, esperienze cioè che, con il lavoro dell’innovatore culturale mantovano, hanno tratti comuni. Ad esso, sostanzialmente, si richiamano o ispirano. Oppure compiono una traiettoria simile.

Eredi ‘paralleli’

Nel dicembre 1963 nasce a Reggio Emilia con un primo numero ciclostilato ‘Il Cantastorie. Rivista di tradizioni popolari’, come continuazione di un saggio monografico di Giorgio Vezzani, fondatore e attuale direttore, dedicato ai cantastorie allora numerosi e presenti sul territorio emiliano. Con l’anno successivo la rivista viene stampata in tipografia e continua fino ad oggi con periodicità semestrale.10

Dopo il 2000 si sono formate, oltre alla direzione centrale di Reggio Emilia, altre due redazioni a Milano e a Roma. Il 2013 segna la chiusura definitiva della storica Rivista per decisione del suo fondatore che continua la sua attività di ricerca. I cinquantanni di attività sono certificati con un convegno. “I cinquant’anni della rivista ‘Il Cantastorie’ (1963-2012)” i cui atti e relazioni sono stati raccolti e pubblicati nel 2012, come quaderno n. 13, da “Il Giorno di Giovanna”.
Ed inizia la pubblicazione di ‘Foglio Volante’ nuovo strumento ‘elettronico’ informativo della rivista di tradizioni popolari “Il Cantastorie on line”11 che continua tutt’oggi. Ultimo numero diffuso è il 13 dell’aprile 2017.

A Montecchio Emilia, paese reggiano al confine con la provincia Parmense, Bruno Grulli stampa, nel maggio1979, il numero 1 di “La Piva dal carner. Foglio volutamente rudimentale di cultura popolare, ricerca, comunicazione e dintorni a 361°”. La prima serie prosegue fino al n. 74 dell’ottobre 2012 che pubblica la ricerca sulle 18 pive emiliane superstiti e che di fatto avviava il nuovo corso della PdC. Nell’aprile del 2013 viene pubblicato il primo numero della nuova serie e viene leggermente modificato il sottotitolo: ‘Foglio rudimentale di comunicazione a 361°’. In questo n. 1 si segnala un saggio di Gianpaolo Borghi: “Due recenti studi sui cori delle mondine”. Nel n. 7 (ottobre 2014) Franco Piccinini, in ‘Non solo folk’, racconta la storia di Ferruccio Reggiani, migrante per reato di antifascismo, e del suo salone da parrucchiere in rue Faubourg St. Denis a Parigi: “Un covo di antifascisti, boxeurs, magnaccia e prostitute”.
Sul n. 8 del gennaio 2015, un contributo di Stefania Colafranceschi racconta di “Sant’ Antuone, Sant’ Antuone, lu nemiche de lu demonie”. “La copertina è dedicata a Sant’Antonio Abate, santo col quale la PdC intrattiene uno speciale rapporto nella ricorrenza del 17 gennaio consumando il “tradizionale” ZAMPETTO che quest’anno raggiunge la 30^ seduta. Lo zampetto è connesso con la pratica della macellazione del suino che culmina in questo periodo secondo l’ operatività di una cultura materiale antichissima. «Tradizionale» è una parola della quale andrebbe chiarito il significato. Gli attribuiamo semplicemente il valore «…che avviene calendarialmente e regolarmente da tanto tempo…». Oggi però si inseriscono nel tradizionale anche cose di recente origine, prive di un reale retroterra e fissate da esigenze commerciali o ludiche e pertanto ci chiediamo quale veramente sia la portata di quella parola. Optiamo dunque per una distinzione tra ciò che deriva dalla «cultura popolare operativa» e ciò che è «qualcosa d’ altro». Le feste patronali, i balli antichi, la fiaba, ecc. a quale categoria appartengono?” E’ quanto chiariscono in presentazione d’opuscolo, GianPaolo Borghi e il direttore di testata Bruno Grulli. Il n. 9 (aprile 2015) titola: “Cantar bisogna. Canto sociale e canzoni partigiane a Reggio Emilia”. Sull’ultimo numero, luglio 2017, Riccardo Varini ricorda cosa si fa “Nelle ultime osterie del medio Appennino Reggiano”.

Nel 1984, Saverio Tutino, giornalista, ex inviato de ‘L’Unità’ e di altra stampa comunista, ha l’idea di fondare a Pieve Santo Stefano (Ar) un luogo in cui accogliere le scritture autobiografiche degli italiani, per concedere il diritto di parola ai ‘senzastoria’. Lo chiama Fondazione Archivio Diaristico Nazionale12 ed istituisce il Premio letterario ‘Pieve’. “Cercate nelle soffitte e nei cassetti i carteggi d’amore dei nonni, le lettere d’emigrazione, i taccuini dalle trincee di guerra, il diario di un vecchio antenato, inviateci le pagine personali che avete scritto durante la vostra vita, le memorie autobiografiche di eventi passati, ma anche i vostri diari intimi giovanili: raccoglieremo questo materiale in una sede pubblica e lo metteremo a disposizione delle generazioni future. Naturalmente cerchiamo documenti autentici, non rielaborati né corretti da altri”.13 Il premio si svolge dal 1986, ed è giunto alla 33° edizione. Dall’edizione 2012 è diventato Premio Pieve Saverio Tutino-Diritto di memoria, in omaggio al suo fondatore, scomparso nel novembre 2011. L’autore vincitore, viene premiato ogni anno con la pubblicazione del ‘diario’ prescelto. L’efficace motto che accompagna il ‘Premio’ è: ‘sostieni la causa della memoria’.

La ricerca folklorica, contributi allo studio della cultura delle classi popolari’, è la rivista trimestrale che La Grafo Edizioni di Brescia, con direttore responsabile Glauco Sanga, inizia a pubblicare dall’aprile 1980. Il n.1, dedicato a ‘La cultura popolare’, contiene contributi dello stesso Sanga, ‘Due note sulla cultura contadina’, di Diego Carpitella, ‘Comunicazione e mentalità orale’ e Bruno Pianta, ‘Ricerca sul campo e riflessioni sul metodo’. Collaborano a questo primo numero anche, ma non solo, Umberto Cerroni, Alberto Mario Cirese, Roberto Leydi. Il n° 70 (2015) è l’ ultimo numero rintracciato. Dal numero 41 (aprile 2000) ha modificato denominazione, grafica e ‘testata’: non più il precedente titolo per esteso, bensì le iniziali ‘pronunciate’ di R(icerca) e F(olklorica). Ed è diventata ‘ErreEffe’.

A Motteggiana (Mn) dal 1994 si svolgono gli incontri denominati “Il Giorno di Giovanna”, dedicati alla mondina-cantastorie mantovana Giovanna Daffini. Nata, il 22 aprile 1914, esattamente a Villa Saviola frazione di Motteggiana, anche se, dal 1936, dopo essersi sposata con il violinista di strada Vittorio Carpi, si stabilisce a Gualtieri (Re) dove muore il 7 luglio 1969. Contemporaneamente agli incontri, vengono consegnati i premi ai vincitori del ‘Concorso nazionale Giovanna Daffini per testi inediti da cantastorie’. I premiati andrebbero ricodati tutti, purtroppo per esigenze di spazio, e notorietà, citiamo i ‘conosciuti’: Franco Trincale, nel 1997 con ‘La Resistenza’, Sandra Boninelli, nel 2004 per ‘Con te’ e nel 2011 con ‘O rondinella se passi di qua’. Nel 2016 lo speciale premio della giuria è stato conferito a Mehta Jagjit Rai (amico-collaboratore della Lega di Cultura di Piadena) per “melismi di altre terre che narrano il dramma degli emigranti” . Il 4 giugno 2017, durante il 23° Concorso Nazionale sono stati attribuiti questi riconoscimenti. Premio speciale fuori concorso a ‘Lega di Cultura di Piadena’ “nel 50° della sua fondazione”; a ‘I Giorni Cantati’ il “premio continuità e tradizione”. Ancora a Meha Jagjit Rai il 1° premio per “Nessuni mi ha detto spegni la luna’ “tra memoria e ironia”.

Dal 2001, il Comune di Motteggiana-Archivio Nazionale “Giovanna Daffini”, in occasione de “Il Giorno di Giovanna”, diffonde un quaderno monografico con, oltre al programma della giornata, nomi dei vincitori e loro composizioni e contributi e notizie varie sul mondo dei cantastorie e degli ‘ambulanti’ delle note.
Dei ‘quaderni’, giunti al 17 numero (tutti preziosi e dal n. 7, del 2007, con allegato Cd contenente l’esecuzione, da parte degli autori stessi, dei brani vincitori) si segnalano il n. 14 del 2014: “Giovanna Daffini: celebrando il centenario della sua nascita nel ventennale del suo giorno” e il ‘fuori collana’, “Giovanna Daffini. L’amata Genitrice. Le canzoni di Giovanna Daffini dall’archivio di Roberto Leydi (1963-1965)” con Cd allegato. Ristampa della precedente edizione storica registrata da “I Dischi del Mulo”.

L’ultimo richiamo, forse atipico, è riservato ad un gruppo musicale di ‘combat-rock’, i Gang dei fratelli Severini14. Amici e collaboratori di Alessandro Portelli ed Ambrogio Sparagna si rifanno a “Quella scuola cha ha radici nei lavori di De Martino, di Carpitella, di Alan Lomax, di Gianni Bosio fino appunto a ‘I Giorni Cantati’ (la rivista, nda). Portelli è stato e resta il guru dei Gang, una guida spirituale e scientifica”. 15
Del resto “sono solo dei vecchi Comunisti”.

Io e Bosio

Saranno circa vent’anni, forse meno/e proprio a casa mia/c’era il Gianni Bosio/che io chiamavo Giuan/gli occhiali sul naso/gli scivolavano via/fumava e chiaccherava/il Bosio, il mio Giuan/E io per fare il grande/restavo lì a guardare/e mi rompevo le palle/di tutto quel gran parlare/tra il Gianni e mio fratello/e gli altri che erano lì/ma quello che loro dicevano/non potevo capire”.
Così, nella primavera del ’72 (non ancora diciottenne) ad un anno dalla sua morte, ho conosciuto Gianni Bosio. Attraverso quelle ballate che Ivan Della Mea aveva raccolto e inciso nel disco “Se qualcuno ti fa morto”. Dopo averlo ascoltato, e riascoltato, mi sono detto: “non ho capito nulla”. Della Mea era, per me, colui che aveva scritto e cantato “Cara moglie” e proprio non riuscivo a capire quel suo poetare e mischiare Giuan con i socialisti, i Maggi di Costabona e Che Guevara. Ma è stato proprio da lì, dalla prima volta che ho sentito parlare di quell’ animale strano che ho imparato a conoscerlo.

Gianni Bosio, me l’hanno insegnato : Ivan, attraverso le sue canzoni e scritti, Cesare Bermani, il curatore privilegiato della pubblicazione dei suoi scritti postumi, gli animatori della Lega di Cultura di Piadena, con cui collabora strettamente. Per un’altra realtà di base piadanese, il Gruppo Padano, cura la pubblicazione in vinile di “I Giorni Cantati”. Un disco in cui sono raccolte canzoni e comportamenti delle genti che abitano quella porzione di terra racchiusa fra due fiumi, il Chiese e l’Oglio, “paesi come Calvatone, Piadena, Voltido, San Paolo, Canneto, Vho, Bizzolano, Acquanegra con tante osterie, differenti situazioni di lavoro e uomini incerti tra l’antica fatica dei campi e la pressione che viene dai nuovi insediamenti industriali”.

E’ ancora Ivan Della Mea che, pochi mesi dopo (maggio 1972) aver cantato “Se qualcuno ti fa morto”, riprende e prosegue, per me, il dialogo ‘a distanza’ con Gianni. Con lui ripercorre idealmente gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra, quelli della ricostruzione, i bei tempi di buriana (bufera) che contraddistinsero il ’48, gli anni del Fronte Popolare, dell’illusione della sinistra (PCI-PSI) al potere e dell’effige di Giuseppe Garibaldi che, soprattutto nella Padania lombarda ed emiliana, campeggiava ovunque: edifici di città, baite di montagna, cascine, fienili. Con ‘Sent un po’, Giuan te se ricordet…‘ racconta otto anni della nostra storia (‘dalla parte del torto’) dal 1948 al 1956 , e canta le speranze dei giovani che, in qualsiasi occasione e situazione, abbracciati, cantavano Bandiera Rossa ed esternavano le loro aspirazioni. Ma anche allora e proprio in quel mese primaverile “han vint i pret cont i bali e i orazion”. Questo, d’altronde, era stato l’epilogo del 18 aprile 1948.

Il 14 luglio sparano a Togliatti in parlamento. Si è, forse, sull’orlo della guerra civile. Ma a Parigi Bartali taglia per primo il traguardo. Si aggiudica il Giro di Francia e così il vicino di casa che il pomeriggio caldeggiava l’occupazione delle piazze, la sera, ascoltata la radio, urla Viva Bartali! Come ricorda Della Mea, “i democristi han vinciu i elezion”.
Poi, ancora, il ’50, Anno Santo, con Pacelli (Papa Pio XII) che dispensa scomuniche e anatemi anticomunisti, e la statua della Madonna Pellegrina vaga in lungo e in largo per la penisola. Ma il ’50 è anche un anno maledetto : il 29 agosto, in un albergo di Torino, Cesare Pavese muore suicida. Pone così fine al suo difficile ‘mestiere di vivere‘.

Dopo i fatti politici gli eventi ‘naturali‘. Nell’inverno a cavallo tra il ’51 e il ’52 la grande alluvione nel Polesine. Il fiume Po straripa e allaga mezza pianura del basso Veneto. “Case allagate dispersi a centinaia. E poi le foto, Giuan, ti ricordi? Galline e cani e vacche nella fanga, la gente acquattata sui tetti, è un grande silenzio di acqua e di dolore”.
Lo stesso silenzio che abbiamo sentito nel Vajont (9 ottobre 1963).

Ancora la politica nel ’53, con la ‘Legge Truffa’, e sempre in quegli anni, agosto ’56, un’altra tragedia della fame e del lavoro, che in Italia non c’è. A Marcinelle,16 in una miniera del Belgio, perdono la vita 262 lavoratori, 136 sono italiani. Vittime della miniera, dell’emigrazione, della miseria.
Gianni Bosio muore, Mantova, il 21 agosto del 1971. I Compagni che lo accompagnano, ricoprono la sua bara con una bandiera rossa, senza nessun simbolo o marchio di partito.
“L’Unità” ne da solo un laconico annuncio tramite un trafiletto anonimo nell’edizione del giorno successivo. Ivan Della Mea, sempre su “L’Unità”, ma di sabato 17 agosto 1985, sostiene:“Gianni Bosio misconosciuto in vita. Misconosciuto dopo la sua morte. Non dovrebbe succedere, ma succede”.17


  1. Il Nuovo Canzoniere Italiano dal 1962 al 1968 reprint, con prefazione di Cesare Bermani, Istituto Ernesto de Martino-Gabriele Mazzotta Editore, Milano, novembre 1978; Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997. Trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino, Jaca Book-Istituto Ernesto de Martino, Milano, marzo 1997  

  2. Emilio Jona e Michele Luciano Straniero (a cura di) Cantacronache. Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta, Scriptorium & Ddt Associati, Torino, novembre 1995 – Giovanni Straniero-Carlo Rovetto, Cantacronache. I 50 anni della canzone ribelle. L’eredità di Michele L. Straniero, Editrice Zona, Civitella in Val di Chiana (Ar) maggio 2008  

  3. Ivrea (To) 1928-Milano 2003, cultore di musica contemporanea e jazz, poi ricercatore di musica popolare, nella più ampia accezione del termine. Dal 1973 docente di etnomusicologia al DAMS di Bologna  

  4. Napoli 1908-Roma 1965, nel 1948 pubblica ‘Mondo magico’, testo fondamentale delle sue esperienze e convinzioni. Iscritto al Psi, è segretario di federazione in Puglia, lì approfondisce le ricerche ed indirizza i suoi interessi verso lo studio etnografico delle comunità contadine del meridione d’Italia. Di questa fase sono le sue opere più conosciute: “Morte e pianto rituale”, “Sud e magia”, “La terra del rimorso” incentrata, quest’ultima, sul fenomeno del tarantismo e realizzata con ricerche sul campo in Salento, la collaborazione di Giovanni Jervis (psichiatra), Letizia Comba Jervis (psicologa), Amalia Signorelli (antropologa culturale) Diego Carpitella (etnomusicologo), Franco Pinna (fotografo) e la consulenza di S. Bettini, medico. Nel 1950 aderisce al Partito Comunista Italiano. Nel 1962 pubblica “Furore Simbolo Valore”, forse il suo contributo più importante alla comprensione degli ‘episodi di costume dell’Europa contemporanea‘  

  5. Amalia Signorelli, Ernesto de Martino, Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro edizioni, Roma, maggio 2015  

  6. Clara Gallini e Francesco Faeta (a cura di) I viaggi nel sud di Ernesto De Martino, fotografie di Arturo Zavattini, Franco Pinna e Ando Gilardi, Bollati Boringhieri, Torino, maggio 1999  

  7. Pietro Angelini (a cura di) Cesare Pavese-Ernesto De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950. Storia di una battaglia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, gennaio 1991  

  8. Riccardo Di Donato (a cura di) Compagni e amici, Lettere di Ernesto De Martino e Pietro Secchia, La Nuova Italia, Firenze, dicembre 1993  

  9. Istituto Ernesto de Martino, Un laboratorio sul mondo oppresso e antagonista, Gli uomini, le opere, i giorni, Il de Martino. Rivista dell’Istituto n. 25 del 2015  

  10. https://www.rivistailcantastorie.it/pagina-iniziale/  

  11. https://www.rivistailcantastorie.it/  

  12. http://www.archiviodiari.org/index.php/home.html  

  13. Salvate dalla distruzione i diari e le lettere, Premio Pieve  

  14. Marino e Sandro Severini (The Gang), Banditi senza tempo, prefazione di Alessandro Portelli, Selene Edizioni, Milano, settembre 2003  

  15. Lorenzo ‘Lerry’ Arabia e Gianluca Morozzi (a cura di), Le Radici e le Ali. La storia dei Gang, Associazione Culturale Musica e Idee – Ferenandel, Ravenna, aprile 2008  

  16. https://www.carmillaonline.com/2016/08/08/marcinelle-8-agosto-1956-carbone-cambio-vite-umane/  

  17. Maurice Mariani (F.A.), L’intellettuale rovesciato, BresciaOggi, 21 agosto 1985  

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La cultura altra e l’intellettuale rovesciato / prima parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/22/la-cultura-altra-lintellettuale-rovesciato-parte/ Mon, 21 Aug 2017 22:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40048 di Fiorenzo Angoscini

La ristampa anastatica di “Il trattore ad Acquanegra” e l’anniversario della prematura scomparsa dell’autore, Gianni Bosio (Mantova, 21 agosto 1971) offrono l’occasione per approfondire la sua traiettoria umana, culturale e politica.

Gianni Bosio nasce ad Acquanegra sul Chiese, nella provincia mantovana, il 23 ottobre 1923. Primogenito di Lorenzo Barbato Bosio e Ida Pellegrini, Gianni frequenta le scuole elementari nel paese d’origine. I primi anni delle scuole di avviamento li compie invece a Brescia e Cremona. Successivamente si ‘trasferisce’ al Liceo Scientifico ma, quando viene estromesso dal Convitto Arcivescovile di Cremona, per incompatibilità ideologica, è costretto a ‘migrare’ [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

La ristampa anastatica di “Il trattore ad Acquanegra” e l’anniversario della prematura scomparsa dell’autore, Gianni Bosio (Mantova, 21 agosto 1971) offrono l’occasione per approfondire la sua traiettoria umana, culturale e politica.

Gianni Bosio nasce ad Acquanegra sul Chiese, nella provincia mantovana, il 23 ottobre 1923. Primogenito di Lorenzo Barbato Bosio e Ida Pellegrini, Gianni frequenta le scuole elementari nel paese d’origine. I primi anni delle scuole di avviamento li compie invece a Brescia e Cremona. Successivamente si ‘trasferisce’ al Liceo Scientifico ma, quando viene estromesso dal Convitto Arcivescovile di Cremona, per incompatibilità ideologica, è costretto a ‘migrare’ a Bergamo presso il Liceo Classico ‘Paolo Sarpi’, dove conseguirà la maturità. Nello stesso anno della maturità (1943) si iscrive all’Università di Padova: facoltà di Lettere e Filosofia.

A Padova completa il piano di studi sino all’inizio del quarto anno allorché si trasferisce alla Statale di Milano. Proprio a Milano, e in seguito ai contatti con Antonio Banfi, accresce il proprio interesse per la storiografia. A 23 anni, con tutti gli esami superati e la tesi di laurea preparata (“Storia del marxismo in Italia sino al 1862”), decide di non discutere la tesi e non conseguire la laurea. Nel corso della propria attività, Bosio ha dato vita e collaborato a numerose pubblicazioni. Anche durante “l’era fascista”. Sono di quel periodo ‘Noi Giovani’- organo dell’omonimo gruppo clandestino di Acquanegra; ‘Chiaroscuri’ – Bergamo ’40; ‘Eccoci’-Cremona ’43; per l’Editrice «Terra nostra» di Mantova pubblica “Il Manifesto dei comunisti”.

L’attività politico-culturale

Nel dopoguerra collabora a: ‘Terra Nostra’, settimanale del Socialismo mantovano, all’edizione milanese de “L’Avanti!”, all’organo della federazione milanese del Psi ‘Il Proletario’. Nei primi mesi del ’46 è redattore di “Quarto Stato”, pubblicazione fondata e diretta da Lelio Basso. Nell’inverno ’49 ‘fonda’ “Movimento Operaio”. Nel ’62, dopo aver ridato fiato alle Edizioni Avanti!, riesce ad ottenere, per le stesse, una autonomia formale ed economico-amministrativa dal Psi.

Al momento della scissione (1964) del Psi, e conseguente nascita del Psiup, aumenta gli sforzi per ottenere totale autonomia dal partito di Nenni; ciò gli riesce e con i colleghi delle Edizioni Avanti!, che proseguiranno la loro attività con il nuovo nome di “Edizioni del Gallo”, approfondisce e riconduce nell’alveo della cultura proletaria nuovi filoni di ricerca.

Per raggiungere tali obiettivi fonda l’”Istituo Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario” e parallelamente ad esso si esibisce con il “Nuovo Canzoniere Italiano”.
Bosio cercò di coniugare alcune delle sue feconde intuizioni con la realtà concreta del movimento d’opposizione antagonista: “Il lavoro culturale non può che trasformarsi in lotta politica”, afferma Bosio. E la cultura è soprattutto quella del popolo: le mascherate, i maggi, ma anche e più semplicemente, il gioco della morra o i canti in osteria con il solo accompagnamento di fisarmoniche e posate da cucina; oppure ancora il ‘fischio della beverata’ attuato dai paesani durante le lotte agrarie condotte cascina per cascina, nella Padania verso la fine degli anni quaranta, e altre iniziative attuate in anni più recenti dagli operai in lotta: l’occupazione delle fabbriche, lo sciopero selvaggio o il ‘salto della scocca’.

L’attività di scandaglio di Bosio è ancorata alla metropoli, alla città, alla classe operaia; questo perché egli partiva dall’assunto che il capitalismo perseguiva ”con coerenza spietata lo spopolamento delle nostre campagne”. Questa teorizzazione trova più chiara esplicazione in un suo scritto del 1966: “Le ricerche e gli studi sul mondo popolare si muovono all’interno del mondo contadino; un mondo destinato a perire in quanto autonomo e determinante della società italiana […] L’egemonia della città sulla campagna, come forma adatta di dominio e di espansione del capitalismo contemporaneo, pone questi studi di fronte ad una scelta: o si riducono a disciplina tradizionale, cioè si atrofizzano, o si trasformano in mezzo per la conoscenza della società contemporanea […] La campagna, dissolta, può servire a far capire la città: ma la città fa giustizia della campagna. La città è dominata, diretta e organizzata dal profitto”.1

Bosio è il precursore – insieme, ma in maniera diversa e distinta, a Danilo Montaldi –2 della ‘ricerca sul campo’, dell’ inserimento della ‘storia orale’, del recupero e riproposizione dei canti popolari (quelli di piazza/strada e d’osteria) operai-contadini, politici e sociali, tra gli strumenti di lotta, sviluppo e progresso, delle classi subalterne.

Nonostante il lavoro politico-culturale del mantovano Bosio e del cremonese Montaldi partisse da presupposti simili, alcuni individuano e colgono nella diversa interpretazione dello stile di lavoro da applicare (non solo pratico ed organizzativo, ma anche politico, metodologico e filologico) le divergenze tra i due ‘intellettuali di campagna’ (questa definizione non vuole essere dispregiativa, nemmeno riduttiva, bensì solo territoriale per indicare i principali luoghi di ricerca: inizialmente Acquanegra sul Chiese, Piadena, Calvatone, Persico Dosimo, Rivarolo del Re, Persichello, Pescarolo, poi il Salento, gli Abruzzi, il Lazio, le zone agricole del nord e sud Italia, per Bosio e collaboratori; tutta la provincia cremonese, ma anche Milano e le città operaie del settentrione per Montaldi).

Così, ad esempio, in maniera molto ‘educata’ Stefano Merli in “L’altra storia”3 coglie e fa notare le diversità e le divergenze tra i due ‘irregolari’ della ortodossia PSI-PCI. “…la critica di Montaldi ha ragione in molti punti, si preclude però la comprensione generale del lavoro di Bosio”. In maniera più ‘volgare’, sia come stile e metodo, la rivista ‘Ombre Rosse’, diretta da Goffredo Fofi, nel suo numero 13, febbraio 1976, sferra un violento attacco a Bosio, utilizzando uno scritto di Danilo Montaldi dell’ autunno 1973 e non destinato alla pubblicazione “Esperienza operaia o spontaneità”.4

Proprio in questa occasione, rispondendo ai rilievi sollevati da Stefano Merli, Cesare Bermani non nasconde o censura le divergenze fra i Compagni padani Bosio e Montaldi, precisando che i rapporti tra i due “… furono aleatori . Montaldi collaborò solo di sfuggita alla rubrica ‘Questioni del Socialismo’ ma nel 1959 si ebbero tra Bosio e Montaldi un paio di incontri e una intensa ma breve corrispondenza epistolare. Dopo di allora i due si ignorarono a vicenda e non si videro più. E’ lo stesso Montaldi a ricordare l’occasione di quegli incontri e l’impressione negativa che ne riportò e che lo spinse a troncare ogni rapporto con Bosio”.

E proprio attraverso le argomentazioni di Bermani si evidenziano le notevoli diversità di vedute dei due organizzatori di culture.
Così, Montaldi, parte dall’inizio: “…si rifece (Bosio, nda) al lavoro svolto da ‘Movimento Operaio’ per illustrare il concetto stesso di cultura delle classi subalterne. In realtà io ero abbastanza critico nei riguardi di ‘Movimento Operaio’: mi era parso che tutti quei ricercatori si fossero buttati a indagare nel passato appunto per non scontrarsi con i dirigenti politici sul presente…Si spinse, allora, in una critica della sociologia a tutto profitto della letteratura e del ‘documento in sé’, rivelando la sua anima assai tradizionale di fronte a questi temi. Che fosse possibile un uso marxista della sociologia nemmeno gli sfiorava la mente (assai diversamente, come è noto, da Panzieri)…” per finire col bollarlo, poi, come “…un crociano di ritorno”.

La rottura definitiva, e finale, si consuma con la mancata (più per scelta di Montaldi che non per volontà comune) pubblicazione, da parte delle Edizioni Avanti!, di “Autobiografie della leggera”.
Dopo di allora, ignorando reciprocamente ciò che facevano, Montaldi continuò a ricercare come se il marxismo fosse un sistema di conoscenza sociologica, Bosio come se il marxismo fosse la concezione materialistica della storia”.

Militante politico5 organizzatore di cultura, dopo essere stato consigliere delegato delle Edizioni Avanti!6 animatore di case editrici non ortodosse (Edizioni del Gallo, Edizioni Bella Ciao), direttore di riviste ‘socialiste’ (Quarto Stato, Il Labriola, Mondo Operaio) poco allineate con la linea ufficiale del Psi, collaboratore di “La Classe” e “Quaderni Rossi”, produttore de “I Dischi del Sole” (il primo disco, DS 1, esce nel 1963) e di spettacoli (all”Umanitaria’ di Milano si allestisce, nel 1962, la prima rappresentazione di “L’altra Italia. Canti del Popolo italiano” curata da Roberto Leydi e Tullio Savi, con Fausto Amodei, Sandra Mantovani e Michele Luciano Straniero. Anche se il più famoso, ed importante, sarà ‘Bella Ciao’, presentato al Festival dei due Mondi di Spoleto nel 1964, e di cui parleremo più diffusamente) musicali e teatrali; fondatore, con Roberto Leydi, del Nuovo Canzoniere Italiano: inteso come rivista (il primo numero è del luglio 1962) e strutturazione di più ‘individui’ e gruppi musicali-teatrali; con il contributo anche di Alberto Mario Cirese,7 dell’Istituto Ernesto de Martino (1967), promotore delle Leghe di Cultura8 .

Nel quaderno si ricorda che “L’aggregazione di questi gruppi ed il loro modo di intervenire sulle realtà di classe locali erano stati suggeriti da Gianni Bosio, con la sua proposta delle ‘Leghe di Cultura’…”. Oltre alla Lega di Acquanegra sul Chiese (Mn) e Piadena (Cr), al Movimento Culturale Giovanile di Calvatone (Cr), al Gruppo Operai-Studenti-Braccianti di Rivarolo del Re (Cr), al Gruppo Lavoratori Studenti di Persico Dosimo (Cr), si segnalano le “Esperienze di ricerca e intervento del Circolo ‘Gianni Bosio’ a Roma e nel Lazio”: “…per un raffronto fra le finalità, la ricerca e l’attività di un circolo che opera in una realtà urbana, anche se periferica, di una grande città e le leghe e i gruppi di una zona ad economia agricola quali sono le provincie di Cremona e Mantova”.9.

Oltre ai molti articoli e collaborazioni con quotidiani, settimanali, riviste con periodicità variabile, è autore di pubblicazioni significative, ormai difficilmente reperibili: “Giornale di un organizzatore di cultura” (27 giugno 1955- 27 dicembre 1955) del 1962; “Elogio del magnetofono. Chiarimento alla descrizione dei materiali su nastro del Fondo Ida Pellegrini” (1966) forse il suo saggio più importante riguardante la cultura orale e una chiave di lettura indispensabile ai 655 nastri del suo fondo di registrazioni, che aveva chiamato con il nome della madre10 ; “L’intellettuale rovesciato. Interventi e ricerche sulla emergenza d’interesse verso le forme di espressione e di organizzazione ‘spontanee’ nel mondo popolare e proletario” che viene pubblicato in primo conio dalla Lega di Cultura di Piadena, come ‘quaderno n. 3-maggio 1967’. Ed è un ciclostilato di 183 pagine. La seconda edizione (che, però, è indicata come prima edizione del novembre 1975) è pubblicata-con una nota introduttiva di Cesare Bermani e Clara Longhini Bosio – nella collana ‘Strumenti della cultura di classe’ dalle Edizioni Bella Ciao di Milano, a cura, si precisa, dell’Istituto Ernesto de Martino per la Conoscenza Critica e la Presenza Alternativa del Mondo Popolare e Proletario fondato da Gianni Bosio. Il titolo è identico a quello scelto anche per il ‘quaderno’ della Lega di Piadena, con la sola aggiunta: gennaio 1963-agosto 1971, mese e anno della sua morte. Una terza edizione, a cura di Cesare Bermani, è stampata nel 1998 dall’Editoriale Jaca Book di Milano.

“Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina” 11 è l’opera postuma, ed incompiuta, ritenuta “…il primo lavoro che Bosio concepì con l’uso di testimonianze orali e poi di narrazioni orali…era quanto ci voleva per tentare di fare ‘storiografia marxista attraverso la ricerca metodica, lo spirito critico, cioè opponendo il fare, la produzione, alla polemica, all’intenzione’12 . Bermani è stato, oltre che curatore, anche uno dei più stretti collaboratori di Bosio, ha raccolto, riordinato, sistemato gli scritti sparsi lasciati dall’autore e che coprono un periodo molto lungo, dal 1962 sino alla scomparsa (1971) e li ha organizzati per questa pubblicazione.

Sempre Bermani ha curato un’ altra pubblicazione postuma di Bosio: Scritti del 1942 al 1948. Da «Noi giovani» a «Quarto Stato».13 L’attività di ricerca, e le pubblicazioni di quello che può essere definito il ‘biografo ufficiale’ di Gianni Bosio, sono numerose ed abbracciano un ampio terreno d’indagine, per questo si rimanda alla biografia e bibliografia completa riportata nel suo sito web.14 Voglio, soltanto a titolo illustrativo dei vasti interessi di Bermani, ricordare alcuni suoi lavori ‘esemplari’. Il monumentale,15 Pagine di Guerriglia. L’esperienza dei garibaldini nella Val Sesia.16

Anche la ricostruzione storico-politica delle vicende relative alla ‘Volante Rossa’, effettuata tramite i resoconti di quotidiani e periodici dell’epoca ma, e soprattutto, grazie alle testimonianze orali dei protagonisti di quelle vicende, è un’altro esempio di ‘storia militante’. Una prima bozza di lavoro con il titolo La Volante Rossa (estate 1945-febbraio 1949) è stata pubblicata sul n. 9/10, inverno 77/78, della rivista Primo Maggio. Ampliata e più strutturata diventa un libro nel 1996,17 con una ristampa nel 2009.18

Un altro argomento di scottante realtà storica e storiografica è quello che, Bermani, affronta in Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945. La vita quotidiana degli emigrati italiani nella Germania nazista. Titolo e sottotitoli chiariscono e spiegano già tutto19 . Sempre in ambito strettamente politico sono anche queste due pubblicazioni: Gramsci raccontato, testimonianze raccolte da Cesare Bermani, Gianni Bosio e Mimma Paulesu Quercioli,20 e una sorta di riedizione, molto ampliata sia nei testi che nelle testimonianze audio-sonore (due cd allegati) è Gramsci gli intellettuali e la cultura proletaria21 con nuove testimonianze.
Completamente diversa rispetto a quelle appena ricordate è la segnalazione relativa ad una ricerca particolare. Si tratta di “Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia”22 .

L’ultimo rimando è relativo ad un vero e proprio manuale pratico-teorico-ideologico di cos’è, e come si conduce, ‘la ricerca orale’: “Introduzione alla storia orale”23 . Due volumi in cui, oltre ad indicare qual’è la metodologia da utilizzare, si dimostra che “…la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è colta per mezzo della comunicazione orale…la comunicazione orale resa permanente dal disco è ‘di più’ della cultura scritta…”.24

I compagni e collaboratori di Bosio furono numerosi. Con alcuni percorse un tratto di strada, poi le vedute e i ragionamenti si divaricarono. Purtroppo non è possibile dedicare attenzione a tutti loro. Oltre a Bermani, i più stretti e fedeli, sicuramente da ricordare, sono Luciano Della Mea, da sempre e per sempre al suo fianco, Franco Coggiola, autore di numerose ricerche a quattro mani condotte proprio con il virtuoso del magnetofono. Le più interessanti e significative sono quelle relative ai ‘Maggi’: “L’avvento della primavera, della stagione che apre un nuovo anno di vita per la campagna e i suoi lavori, è festeggiato nel mondo contadino in vari modi, tutti sostanzialmente pagani e laici: riti di propiziazione, di iniziazione, di fertilità (della terra e della donna) che hanno in comune, nonostante le notevoli differenze, la denominazione di “Maggi”.25

Un altro compagno-collaboratore, ma anche amico e, quasi, compaesano è Giuseppe Morandi (in realtà, Morandi è di Piadena (Cr) e Bosio di Acquanegra (Mn) ma i due piccoli paesi confinano, le abitudini e tradizioni si mischiano, inoltre sono avvicinati da due corsi d’acqua: il fiume Chiese che scorre in territorio mantovano, e proprio a metà strada tra i due centri abitati, si getta nell’Oglio, fiume che, in quel tratto, scorre nel territorio cremonese di Piadena) che, insieme a Gianfranco ‘Miciu’ Azzali (di Voltido-Cr) e Mauro Cesini, costituisce ufficialmente (14 aprile 1967) la Lega di Cultura di Piadena.26 La più longeva, tutt’ora operativa e che ha all’attivo numerosi ‘quaderni’, quasi tutti realizzati tramite interviste, testimonianze e racconti ‘orali’. Nel nucleo fondatore sono da annoverare anche Pierino Azzali ed Eugenia Genia Arnoldi in Azzali. Quest’ultima, attrice in Novecento di Bertolucci dove si esibisce in una struggente ‘Quando Bandiera Rossa si cantava’ .27

Giuseppe Morandi è anche autore di “Spoleto 1964, Bella Ciao. Il diario”,28 in cui, puntualmente, si raccontano le vicende e le polemiche relative allo spettacolo che aveva come sottotitolo “Un programma di canzoni popolari italiane”, presentato, quell’anno, dal Nuovo Canzoniere Italiano al Festival dei due Mondi. Lo ‘scandalo’ scoppia quando Michele Luciano Straniero, interprete di “O Gorizia tu sei maledetta”,29 canta queste strofe: “Traditori signori ufficiali/che la guerra l’avete voluta/scannatori di carne venduta/e rovina della gioventù”.

Altro cooperatore del ‘socialista anomalo’, decentrato (solo geograficamente) rispetto ai precedenti, è Alessandro Portelli. Quando Bosio lo introduce nei suoi ambiti organizzati, lo presenta così: “E’ romano, ma è serio”. Un complimento che, forse, è anche una critica. Non a lui, ma a certi ambienti della capitale. Portelli è autore di una minuziosa ricostruzione storico-documentale delle atrocità commesse dai nazi-fascisti a Roma con la strage delle Fosse Ardeatine (335 trucidati il 24 marzo 1944) e conseguente smascheramento della mistificazione tentata ed orchestrata, e a tutt’oggi non ancora esaurita, da nazisti, fascisti, reazionari e revisionisti vari, di attribuire la responsabilità politico e morale dell’eccidio al Gap di Roma (Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Franco Calamandrei, Carlo Salinari, Gianfranco Mattei, Marisa Musu, Luigi Pintor) autore di un’azione di Resistenza armata (atto di guerra) contro una divisione di SS italiane, l’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment ‘Bozen’ appartenente alla Ordungspolizei (polizia d’ordine) e composto da reclute altoatesine, compiuto in via Rasella il 23 marzo, in cui persero la vita 33 militi nazi-fascisti. Con questo documento storico, L’ordine è già stato eseguito30 in cui già dal titolo si capisce la sostanza e dimostra come le due cose non siano collegate.

Portelli, con Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, il Canzoniere del Lazio, fonda a Roma, nel 1972, il ‘Circolo Gianni Bosio’. Animatore e direttore della rivista “I Giorni Cantati. Storia-Memoria-Immaginario”, bollettino di informazione e ricerca sulla cultura operaia e contadina.
E’ stato lasciato per ultimo colui che si può definire il ‘pupillo’ di Bosio, l’allievo preferito: Ivan Della Mea. Sicuramente, Della Mea considera Bosio il suo mentore prediletto. Con il quale litiga ma poi, come un figliol prodigo laico, torna alla pratica tratteggiata da Bosio e alla fruttuosa collaborazione-contaminazione.
Coggiola e Della Mea sono stati direttori della creatura più importante del ricercatore mantovano, l’Istituto Ernesto de Martino.

Storici, politici, militanti e anche i collaboratori più vicini, attribuiscono a Gianni Bosio la qualifica di ‘marxista critico’, formato e cresciuto, cioè, nel solco teorico tracciato e sviluppato da Rosa Luxemburg e Karl Korsch. Ma questa collocazione è abbastanza strana e stride con quanto Bosio scrive e teorizza già nel gennaio 1948. Così, dopo aver ribadito che “Oggi è la classe che, come classe dirigente, deve imparare a pensare in termini di massa…Deve agire in termini di massa se vuole trasferire la democrazia su un terreno nuovo, sostanziale oltre che formale, sociale oltre che politico” .31 Bermani, in ‘Attualità di Gianni Bosio’,32 a proposito di questo ‘pensiero’, chiarisce: “Un moderno partito marxista-leninista cioè, basato sul centralismo democratico, che alle sezioni territoriali affianca organizzazioni capillari (nuclei di strada, nuclei di fabbrica)”. Quanto di più ortodosso e in linea con la teoria e la pratica della maggior parte dei Partiti Comunisti, non solo ‘occidentali’.

Anche Emanuele Gino Tortoreto (Milano, 1928-2012), esponente milanese socialista, ricorda: “La sua produzione intellettuale […] e la sua attività politica […] credo che si siano manifestate anche nel richiamo ossessivo al partito (…) al partito e alla sua funzione…”.33

(Fine della prima parte – la seconda sarà pubblicata su Carmilla il 29 agosto)


  1. Gianni Bosio, L’intellettuale rovesciato, introduzione di Cesare Bermani e Clara Longhini Bosio-collana ‘Strumenti della cultura di classe’-a cura dell’Istituto Ernesto de Martino per la Conoscenza Critica e la Presenza Alternativa del Mondo Popolare e Proletario fondato da Gianni Bosio, Edizioni Bella Ciao, Milano,
    novembre 1975  

  2. Cremona 1° luglio 1929-Val Roia (Im) 27 aprile 1975. Autore, con Franco Alasia, della prima ‘scandalosa’ ricerca sugli immigrati (meridionali) in Italia, Franco Alasia, Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Prefazione di Danilo Dolci, Feltrinelli, Milano, marzo 1960; D. Montaldi, Autobiografie della leggera. Vagabondi, ex carcerati, ladri, prostitute raccontano la loro vita, Einaudi, Torino, dicembre 1961; D. Montaldi, Militanti Politici di base. Testimonianze di vita politica nella Bassa padana, dalle origini del socialismo a oggi, Einaudi, Torino, aprile 1971; D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia 1919-1970 (postumo), Edizioni ‘Quaderni Piacentini’, Piacenza, dicembre 1976, ristampato, per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, dalla Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), marzo 2016. Per la cronologia completa della vita e delle opere, nonché bibliografia, vedi D. Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, edito, per conto dell’Associazione Culturale Centro d’Iniziativa Luca Rossi-Milano, dalla Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), luglio 1994  

  3. Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Opuscoli marxisti, Feltrinelli, Milano, aprile 1977  

  4. Cesare Bermani (a cura di) Bosio oggi: rilettura di una esperienza. Testimonianze di Gaetanò Arfè, Cesare Bermani, Eugenio Camerlenghi, Alberto Mario Cirese, Luciano Della Mea, Roberto Leydi, Stefano Merli, Tullio Savi, con un’appendice di scritti di Gianni Bosio, Provincia di Mantova, Biblioteca archivio, Casa del Mantegna, Istituto Ernesto de Martino, Mantova, dicembre 1986. Atti del convegno tenuto al Teatro Accademico del Bibbiena di Mantova, il 3-5 ottobre 1975.  

  5. Cesare Bermani (a cura di), Cronologia della vita e opere, Istituto Ernesto de Martino, http://www.iedm.it/istituto/gianni-bosio-cronologia-della-vita-e-delle-opere/  

  6. Paolo Mencarelli, Libro e mondo popolare. Le Edizioni Avanti! di Gianni Bosio 1953-1964, Biblion Edizioni, Milano, novembre 2011  

  7. Antropologo che scriveva per ‘L’Avanti!’, ‘Paese Sera’, ‘Calendario del Popolo’, ‘Mondo Operaio’, e insieme al padre Eugenio aveva curato la pubblicazione di “La Lapa (‘come l’ape quand’è primavera’) Argomenti di storia e cultura popolare” e svolge attività di assistente volontario presso la cattedra di Etnologia, per la quale collabora anche con Ernesto de Martino  

  8. La Lega. Dieci anni di attività delle leghe di cultura e dei gruppi del cremonese e del mantovano, Quaderni della lega di Cultura di Piadena (Cr), serie terza, a cura di Gianfranco Azzali, Enio Camerlenghi, Gioietta Dallò, Giuseppe Morandi, Silvio Uggeri, n. 5-luglio 1976-ciclostilato in proprio  

  9. Premessa a La Lega, Quaderno n. 5 della Lega di Cultura di Piadena, cit;  

  10. C. Bermani, Cronologia della vita e delle opere, cit;  

  11. Gianni Bosio, Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina, Associazione Postumia Centro Studi e Ricerche di Scienze Lettere Arti, Gazoldo degli Ippoliti (Mn), Quaderni di Postumia 1, stampato da Publi Paolini in Mantova, aprile 2016 – Prima edizione a cura di Cesare Bermani, De Donato, Bari, settembre 1981  

  12. C. Bermani, Gli inizi di una nuova storiografia sociale, in E Gianni Bosio disse, Il de Martino. Rivista dell’Istituto de Martino, n. 19-20, Firenze, marzo 2009  

  13. Cesare Bermani (a cura di), Scritti del 1942 al 1948. Da «Noi giovani» a «Quarto Stato», Mantova-Gianluigi Arcari editore Piàdena-Lega di Cultura, ottobre 1981  

  14. http://www.omegna.net/bermani/  

  15. 1.614 pagine di documenti e testimonianze dirette, raccolte con il magnetofono, distribuite in tre volumi, più 108 pagine (4° volume) di fonti ed indici, e controverso per le polemiche che ha alimentato, tanto che il secondo volume è uscito a distanza di un quarto di secolo rispetto al primo  

  16. Cesare Bermani, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini nella Val Sesia, volume I (Cap. I-XXXV) Sapere Edizioni, Milano, dicembre 1971; volume II (Cap. XXXVI-LII) Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, aprile 1995; volume III (Cap. LIII-LXXIV) Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Biella e Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, dicembre 1996; Volume IV, Fonti e indici, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Biella e Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, aprile 2000  

  17. Cesare Bermani, Storia e mito della Volante rossa, con una testimonianza di Eligio Trincheri, prefazione di Giorgio Galli, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, ottobre 1996  

  18. C.Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di un ‘gruppo di bravi ragazzi’, Archivio Primo Moroni-Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), maggio 2009  

  19. Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945. La vita quotidiana degli emigrati italiani nella Germania nazista, Bollati Boringhieri, Torino, giugno 1998  

  20. C. Bermani (a cura di), Gramsci raccontato, Istituto Ernesto de Martino, Edizioni Associate, Roma, novembre 1987  

  21. C. Bermani, Gramsci gli intellettuali e la cultura proletaria, Archivio Primo Moroni e Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) edito da Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), dicembre 2007  

  22. Cesare Bermani, Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia, Edizioni Dedalo, Bari, novembre 1991  

  23. Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale, vol. I, Storia, conservazione delle fonti e problemi di merito, Odradek, Roma, novembre 1999 ; vol. II, Esperienze di ricerca, Odradek, Roma, giugno 2001  

  24. G. Bosio, L’Italia nelle canzoni, Catalogo I Dischi del Sole prodotti dalle Edizioni del Gallo, Milano, maggio 1968  

  25. Franco Coggiola, in Ivan Della Mea, Se qualcuno ti fa morto -DS 1009/11, libretto allegato al disco omonimo, marzo 1972  

  26. La Lega, cit.; http://legadicultura.it/  

  27. Quando “Bandiera rossa” si cantava, trenta lire al giorno si ciapava e adesso che si canta “Giovinesa” si crepa dalla fame e dala debolessa  

  28. Giuseppe Morandi, Spoleto 64, Bella Ciao, n. 20 dei Quaderni della Biblioteca Popolare di Piadena, Piadena, gennaio 1965; G. Morandi, Spoleto 1964. Bella Ciao. Il diario, Il de Martino, supplemento al n. 21/2012, Istituto Ernesto de Martino, Il Nuovo Canzoniere Italiano, Lega di Cultura di Piadena, Firenze, febbraio 2012  

  29. https://www.carmillaonline.com/2016/08/06/gorizia-lattuale/  

  30. Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma, febbraio 1999  

  31. G. Bosio, Scritti dal 1942 al 1948, cit.;  

  32. Bosio oggi: rilettura di una esperienza, cit.;  

  33. Emanuele Tortoreto, Gianni Bosio: democrazia di base e tradizione socialista, in Socialismo di sinistra. Sei contributi nella storia italiana ed europea, Milano, Quaderni del Centro Rosa Luxemburg, n. 1, 1983  

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