Alessandra Sarchi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il cambiamento dello spazio urbano nell’opera di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2024/01/11/il-cambiamento-dello-spazio-urbano-nellopera-di-pasolini/ Thu, 11 Jan 2024 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80726 di Paolo Lago

[Il presente intervento è la traduzione italiana di un testo da me letto in inglese, col titolo Urban space development in Pasolini’s work, il 25 ottobre 2022 nell’ambito delle iniziative “Pasolini 100” organizzate dall’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma (p.l.)]

Per parlare del cambiamento dello spazio urbano nell’opera di Pasolini, vorrei partire da Teorema, sia film che romanzo (1968). Dopo la partenza dell’Ospite sacro (Terence Stamp), i personaggi della famiglia milanese, sedotti e disperati, compiono delle azioni per colmare l’assenza del giovane dio, caratterizzato quasi come un nuovo Dioniso. Emilia (Laura Betti), la domestica della famiglia, sceglie di abbandonare [...]]]> di Paolo Lago

[Il presente intervento è la traduzione italiana di un testo da me letto in inglese, col titolo Urban space development in Pasolini’s work, il 25 ottobre 2022 nell’ambito delle iniziative “Pasolini 100” organizzate dall’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma (p.l.)]

Per parlare del cambiamento dello spazio urbano nell’opera di Pasolini, vorrei partire da Teorema, sia film che romanzo (1968). Dopo la partenza dell’Ospite sacro (Terence Stamp), i personaggi della famiglia milanese, sedotti e disperati, compiono delle azioni per colmare l’assenza del giovane dio, caratterizzato quasi come un nuovo Dioniso. Emilia (Laura Betti), la domestica della famiglia, sceglie di abbandonare la ricca villa borghese per tornare al suo paese di campagna, alle porte di Milano. Da uno spazio chiuso e circoscritto come la villa (che si trova in un “quartiere di morti”), intrappolata nelle sue geometrie fastose, si dirige verso uno spazio, per certi aspetti, sacro, quello della campagna dove sorge la sua casa avita, uno spazio che si contrappone a quello della città industrializzata. Come afferma lo stesso Pasolini in un’intervista a Jean Duflot dal titolo Il sogno del Centauro, con un riferimento proprio a Teorema, “la società industriale si è formata in totale contraddizione con la società precedente, la civiltà contadina (rappresentata nel film dalla serva), la quale possedeva in proprio il sentimento del sacro”. In molte opere di Pasolini è infatti possibile riscontrare una vera e propria opposizione di spazi: da una parte la campagna, simbolo di un universo arcaico e contadino, dall’altra, invece, le nuove costruzioni delle periferie, simbolo della nuova società dei consumi. Il ritorno al paese condurrà Emilia sulla via della santità: ella sceglie infatti di farsi seppellire per ricongiungersi con la terra. Come vediamo nel film, il luogo in cui Emilia viene seppellita, è un cantiere edile e rappresenta un vero e proprio spazio di confine: un incrocio fra la campagna e le nuove periferie avanzanti. In una inquadratura vediamo, da una parte, lo spazio ancora intatto della campagna, aggredito dalla cementificazione, dall’altra, invece, i palazzoni di periferia che, come dei mostri, stanno avanzando per divorare gli ultimi residui della civiltà contadina. È uno spazio liminale dove si avverte la violenza di cui, nell’ottica di Pasolini, è intriso il cambiamento dello spazio urbano. Vicino al luogo dove viene seppellita Emilia c’è una scavatrice, impegnata nei lavori. Nel romanzo, la scavatrice appare prima in movimento e poi ferma: “Preceduta da un parlottare di uomini, e da qualche colpo lontano – lungo i cantieri senza echi – ecco che d’improvviso, con uno stridio assordante, pauroso, pazzo, la scavatrice si risveglia. Gettato quel primo urlo, però, tace”.

Il rumore da essa provocato assomiglia all’urlo “pazzo di dolore” de Il pianto della scavatrice, una poesia del 1956 appartenente alla raccolta Le ceneri di Gramsci (uscita nel 1957). Sono passati dodici anni ma gli spazi in opposizione sono gli stessi: da una parte la campagna e i prati, dall’altra, l’avanzare delle nuove periferie. La scavatrice, nella poesia, urla disperatamente, piange, grida, ma a gridare è anche lo spazio che viene devastato: “Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, / chiuso in un decoro ch’è rancore”. Perché, in definitiva, come sempre leggiamo nella poesia, “piange ciò che muta, anche / per farsi migliore”. Il cambiamento appare sempre come una ferita. Anche se i nuovi palazzoni delle periferie costituiscono un miglioramento della vita di molti proletari e sottoproletari romani, essi sono pur sempre il frutto della violenza operata sugli individui dalla società dei consumi, paragonata al fascismo e considerata da Pasolini addirittura anche peggiore del regime nazista. Non a caso, in Petrolio, alla fine della truce “Visione del Merda”, una vera e propria discesa nell’inferno dei nuovi consumi, modellata sulla catabasi dantesca, la città di Roma, vista dall’alto, assume la forma di una “immensa croce uncinata”. Come il poeta afferma nel documentario La forma della città (1974) ciò che non è riuscito al fascismo, cioè intaccare nel profondo la coscienza degli italiani, è invece riuscito alla società dei consumi, la quale non esita a costruire un palazzone popolare, dalla forma cubica, vicino alle antiche costruzioni medievali della città di Orte. Nello stesso documentario Pasolini afferma che per difendere un vecchio muro antico bisogna battersi con lo stesso accanimento con cui ci si batte per difendere una grande opera d’arte. Il poeta dice che “un casale di contadini va difeso come una chiesa”: quello stesso casale di contadini dove abita Emilia, che sta per essere inglobato dalle nuove costruzioni va difeso come se si trattasse di una grande opera d’arte. Come scrive Serenella Iovino nel suo saggio Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Pasolini cerca di “seguire la vita delle classi subalterne e delle fasce sociali abbandonate dall’incedere dello «sviluppo». Nel far ciò, metterà in luce come i mutamenti della società siano nello stesso tempo mutamenti nel modo di rapportarsi alla natura”. Con lo stesso spirito Pasolini realizza il documentario Le mura di Sana’a, girato nel 1970 in Yemen, con gli stralci di pellicola del Decameron. Il documentario si presenta sotto forma di un appello all’Unesco per preservare la città di Sana’a: nello Yemen del Nord, dove è avvenuta una rivoluzione di tipo socialista appoggiata dall’Unione Sovietica, c’è uno sviluppo economico portato avanti da esigenze di modernizzazione che sta deturpando la struttura medievale della città erigendo palazzoni di cemento, “qualcosa di indefinibile che chiamare brutto è poco”. Pasolini, alla fine, afferma che “per l’Italia è finita ma lo Yemen può essere ancora interamente salvato”.

Il cambiamento del volto delle città, iniziato in Italia negli anni Cinquanta, sta continuando inesorabilmente anche oggi. Come leggiamo in un romanzo di Alessandra Sarchi dal titolo Violazione (2012) (violazione cioè dello spazio della campagna da parte della città), è molto difficile oggi trovare una casa di campagna che non sia vicino a tangenziali o centri commerciali. Con un riferimento all’acquisto delle case in campagna da parte dei cittadini, Sarchi parla significativamente di “possesso del verde”: la campagna e la natura, a partire da quel boom economico che, secondo Pasolini, ha devastato l’Italia, si sono ormai trasformate in merci, acquistabili come i prodotti di un supermercato. L’ideologia del possesso sta ormai invadendo anche gli spazi naturali.

Pasolini mostra il progressivo avanzamento dei palazzoni di periferia anche in Mamma Roma (1962). La borgata avanzante è lo spazio di un nuovo benessere borghese che Mamma Roma (Anna Magnani) ricerca, è l’ambiente gretto, meschino e perbenista in cui vige la legge delle raccomandazioni al prete (Paolo Volponi) e in cui vive la famiglia dell’ipocrita padrone del ristorante. Uno spazio dal quale Mamma Roma è inesorabilmente respinta come sarà respinta anche Medea dall’universo razionale della Grecia in Medea (1969). Per entrare nei cortili delle nuove case di periferia, in Mamma Roma, la macchina da presa compie frequentemente un movimento sotto la costruzione di un arco, un movimento che sembra proseguire nello spazio chiuso di un tunnel. Al di fuori di questo tunnel vi sono ancora lembi di prati che assumono valenze quasi demoniche e ‘infernali’, come in Petrolio (1992). Durante la lavorazione di Mamma Roma, Pasolini scrive alcune poesie poi confluite nella sezione Poesie mondane di Poesia in forma di rosa (1964). In esse descrive quegli stessi prati di periferia invasi, nelle belle giornate di primavera, da personaggi borghesi in cerca di svago che sembrano tanti “scheletri col vestito di Toscano” e “la cravatta di Battistoni”. I borghesi si stagliano sullo sfondo dei palazzi di periferia dell’Ina-Case, sugli “accecanti marciapiedi”, come tanti tragici pulcinella. In questi prati di periferia che progressivamente vengono divorati dall’edilizia avanzante, lo stesso poeta si descrive come “una forza del Passato” che gira “per la Tuscolana come un pazzo, / per l’Appia come un cane senza padrone” (versi recitati dal personaggio del regista interpretato da Orson Welles ne La ricotta in quegli stessi prati di periferia durante la lavorazione di un film sulla crocifissione di Cristo) quasi come l’unico sopravvissuto a una vera e propria apocalisse, la stessa che sta distruggendo gli spazi arcaici e contadini delle campagne. Addirittura, poco dopo, il poeta evoca l’immagine della “Bomba” che ha provocato la “fine del Mondo” sullo sfondo di una espressionistica luce del crepuscolo. Gli spazi delle nuove costruzioni degli anni Cinquanta e Sessanta, geometrici, rigidi, bloccati nelle loro cubiche architetture, sembrano quasi destinati ad un’apocalisse atomica, come vediamo anche in alcune immagini de L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni che mostrano nuovi e ordinati palazzi di quartieri residenziali in un’atmosfera dalle tonalità inquietanti.

I rigidi spazi geometrici dei nuovi quartieri residenziali, in Petrolio (Appunto 65, “Prologo al Giardino Medioevale”) sono consacrati a un Potere che – come scrive Pasolini – non lascia nessuno spazio “per qualcos’altro”, sia esso la lotta di classe, il misticismo religioso, la letteratura o l’amore per la cultura. All’inizio dell’Appunto, l’autore scrive che prova una “profonda ripugnanza” a fermarsi con la fantasia, per poterne scrivere, sul quartiere di Roma dove abitava Carlo, Vigna Clara, “la parte nuova dei Parioli” (non troppo diverso dal ricco quartiere residenziale milanese in cui sorge la villa della famiglia del capitano d’industria). Il quartiere, composto di palazzine ricche, sedi di ambasciate, giardini lussuosi in un “mare di cemento”, è descritto come bloccato ed irrigidito in pose geometriche, “con lunghe liste di campanelli luccicanti nell’ottone, e il silenzio ancora più profondo e quasi selvaggio dei garages”. Le nuove eleganti costruzioni che, al pari degli edifici di periferia, hanno sottratto spazi verdi alla campagna si trovano in un luogo quasi fuori dal tempo, perduto, come i palazzi eleganti del film di Antonioni, nell’attesa di una qualche apocalisse. Se l’autore detesta parlare di questo ambiente, in cui vige soltanto la “volontà di potere”, subito dopo scrive: “Dell’erba e delle piante sì che amo parlare”. Dell’erba e delle piante di giardini che, pur essendo ormai intrappolati dalle nuove costruzioni, rappresentano ancora lembi di campagna.

In Petrolio sono presenti anche le descrizioni dei quartieri popolari che fanno da sfondo, ad esempio, all’incontro erotico di Carlo con Carmelo, descritto nell’Appunto 62. Carlo e Carmelo, per recarsi nel prato di periferia, percorrono in macchina una strada che si inoltra in un quartiere “di vecchie case e di miserabili palazzi nuovi, tutto perduto nella polvere secca, nel fango”. Come nella descrizione del ricco quartiere residenziale, anche qui vige una immobilità assoluta dalla tonalità apocalittiche: “L’immobilità era quella che succede a un bombardamento o a un terremoto”. In questo “sconvolgimento divenuto fossile”, gli esseri umani sono condannati a trascorrere la loro vita e a compiere i propri gesti quotidiani. I prati delle periferie, lambiti dai palazzi, assumono connotazioni infernali, come in Mamma Roma, in cui Ettore e la banda di ragazzi (dai quali sarà aggredito), si inerpicano in collinette scoscese come se stessero percorrendo i baratri di un inferno dantesco. Il prato di periferia è pervaso anche di un’atmosfera onirica e allucinatoria, conferita da una “caligine” che aleggia dovunque. Lo scenario assume anche dei precisi rimandi alla tragedia antica: infatti, nel testo, era previsto l’inserimento dei versi dell’inizio dell’Orestea di Eschilo (che Pasolini stesso aveva tradotto nel 1960 col titolo di “Orestiade”) mentre il “quartiere nuovo” appare “lucente sulla caligine, come la muraglia merlata di una antica città”.

Tonalità apocalittiche tratteggiano anche lo spazio urbano nella serie di appunti intitolati “I Godoari”. Dopo la devastazione provocata dallo scoppio di una bomba alla stazione di Torino, Carlo si incammina in uno spazio che, oniricamente, compare tra le macerie della distruzione. Si tratta di un luogo caratterizzato da una natura incontaminata, tratteggiata quasi come un locus amoenus. Lo scenario campestre e le fonti di acqua pura possiedono addirittura dei rimandi letterari a dei paradigmi classici e medievali: il Fedro di Platone, Omero, Salimbene de Adam. Gradatamente, lo spazio naturale si trasforma e cominciano ad apparire le prime tracce degli insediamenti umani. Quella che era natura incontaminata si trasforma infatti in periferia, definita come “una terra anonima” sulla quale stanno bruciando cumuli di rifiuti di plastica. Successivamente, cominciano ad apparire anche i palazzoni di periferia, connotati da inquietanti forme geometriche tutte uguali: i casamenti sono “forme gemelle”, “ripetizioni di una stessa forma”. Il quartiere periferico è connotato da un silenzio profondo, come i Parioli in cui vive lo stesso Carlo o il “quartiere di morti” di Teorema: “Negli enormi cortili di materiale povero, cemento spruzzato per parere marmo, mattoni che parevano finti, il vuoto era assoluto”. Mentre Carlo si avvicina alla città, comincia ad apparire una folla descritta come totalmente omologata ai modelli imposti dalle pubblicità televisive e ormai i gruppi di casamenti appaiono incastonati gli uni dentro gli altri e i soli spazi liberi erano occupati dai cavalcavia percorsi “rabbiosamente da migliaia di automobili e di camion”. La graduale trasformazione della campagna in periferia dove sorgono palazzi tutti uguali sembra quasi la trasposizione spaziale di un processo temporale: lo stesso descritto nel Pianto della scavatrice. Quella campagna che a partire dagli anni Cinquanta si trasforma in spazio cementificato viene ora mostrata in una visione dalle connotazioni oniriche e allegoriche in cui quella trasformazione graduale che avviene nel tempo appare come un unico processo contemporaneo dilatato nello spazio.

Un mutamento dello spazio urbano è poi proiettato da Pasolini nel futuro, in forma utopistica, nella poesia La recessione (ispirata dalla crisi energetica del 1973), appartenente alla raccolta La nuova gioventù (1974, una rilettura ‘in nero’ delle poesie friulane de La meglio gioventù). Nella poesia così leggiamo: “Le città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi, coi vestiti grigi, e dentro agli occhi una domanda, una domanda che è, magari, di un po’ di soldi, di un piccolo aiuto, e invece è solo di amore. Gli antichi palazzi saranno come montagne di pietra, soli e chiusi, com’erano una volta”.

Il cambiamento dello spazio urbano rappresentato da Pasolini si inserisce all’interno di un vero e proprio conflitto di culture: i due tipi di spazio (quello borghese dei nuovi palazzi di periferia, quello arcaico e contadino dei paesi antichi e della campagna) rappresentano due tipi di società che entrano in contrasto fra di loro. L’opposizione fra lo spazio urbanizzato delle periferie e quello della campagna è una opposizione di tipo culturale. E se il nuovo assetto urbano sta inglobando ormai tutti gli altri luoghi, sembra che lo spazio cereo e geometrico della borghesia possa essere annullato da un momento all’altro dallo spazio desertico, simbolo di una sacralità perduta. In Teorema, film dal quale siamo partiti, il personaggio del padre, alla fine, dopo aver donato la sua fabbrica agli operai, prenderà la via del deserto disperdendosi in esso. Il deserto, immagine sacrale, sembra perciò alla fine essere riuscito ad annientare definitivamente il grigio spazio della borghesia, la villa elegante e il suo giardino, il “quartiere di morti” dove essa si trova, i palazzoni delle periferie fra i quali, come automi, si aggirano persone ormai asservite in tutto e per tutto alla civiltà dei consumi.

 

Riferimenti bibliografici:

S. Iovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Edizioni Ambiente, Milano, 2006.
P.P. Pasolini, Romanzi e racconti 1962-1975, vol. 2, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1998.
P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999.
P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. 1 e vol. 2, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 2003.
A. Sarchi, Violazione, Einaudi, Torino, 2012.

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Un incubo ad alta tecnologia https://www.carmillaonline.com/2023/07/11/un-incubo-ad-alta-tecnologia/ Tue, 11 Jul 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78209 di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene [...]]]> di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene di montaggio si assemblano appunto i “ciberneti”, automi che percepiscono ed elaborano informazioni che arrivano dall’ambiente. La parola di Terzago riesce a trasferire sulla pagina una dimensione di disumanizzazione senza precedenti: ogni singolo fonema scorre freddo, incastonato perfettamente in quello che segue e in quello che precede, come se formalmente, appunto, intendesse ricreare l’andamento di una catena di montaggio del futuro. Lo stesso operaio che deve seguire tutte le operazioni, e che spesso prende la parola, sembra pervaso della medesima disumanizzazione che grava ogni dove, su ogni spazio che lo circonda, in una dimensione metafisica ma continuamente sofferente a causa di uno spento dolore che sembra covare silenzioso sotto uno strato di cenere.

La parola di Ciberneti appare quindi meccanizzata, inserita nella macina polverizzante di un nuovo capitalismo che, come un Frankenstein ipermoderno (“surmoderno”, direbbe Marc Augé), diventa il creatore di tecnologici automi probabilmente destinati a trasformarsi a loro volta in forza lavoro, come i “replicanti” di Blade Runner di Ridley Scott, il cui assemblatore, l’ingegnere genetico J. F. Sebastian, conduce anch’egli una vita immiserita nella solitudine e nella disumanizzazione. Si potrebbe pensare a una costruzione di una poesia ‘operaia’ antitetica a quella allestita da Joseph Ponthus in Alla linea (Á la ligne. Feuillets d’usine, 2019) in cui emerge invece una personale dimensione corporea che coinvolge il lettore nella propria sofferenza fisica e psicologica. Se Alla linea è il lascito di un corpo sofferente che si rivolge a noi nella sua dimensione profondamente umana, Ciberneti è il resoconto macchinico di un perfetto congegno a orologeria che sembra essere riuscito ad annientare qualsiasi dimensione umana, rendendo simile agli automi gli stessi lavoratori impegnati nell’assemblaggio. Ciberneti racconta con grande maestria la glaciale freddezza del congegno del capitale: ogni parola si muove come una macchina e spesso le parole usate appartengono ad un gergo tecnico, come ad esempio “scialitico” o “derma”. Anche le parentesi che incontriamo nel testo assumono una forma meccanizzata e geometrizzata: nella poesia di Ciberneti non esistono infatti parentesi tonde ma solo quadre. Se la parentesi quadra può rimandare ad un altro contesto ‘tecnico’ come quello della filologia, si può pensare piuttosto che esse rappresentino l’avvenuta ‘robotizzazione’ delle parentesi tonde. Sembra che nel mondo di Ciberneti non ci sia posto per le linee curve e sinuose, ma solo per quelle rigide e geometriche.

In un mondo siffatto, gli ultimi lembi di natura rimasta non possono che spaventare e sconvolgere ma anche offrire una dimensione più umana e ‘confortevole’; così leggiamo in Il bisogno di energizzare il sistema albero: “Distraggono e spaventano, le foglie. Il verde inatteso: / distraggono dall’entità degli stipendi, dalla voce lunare / in radio, dalla subordinazione, dalla gerarchia. / Stavamo aspettando questo segnale, dice il neo-assunto: / deve essere la nostra via di esodo: galleggia verde su di noi / tangibile fantasma negli interminabili spazi della produzione”. Una “via di esodo” è allora forse possibile negli “interminabili spazi della produzione”? quegli spazi che riecheggiano forse in versione ipermoderna (o “surmoderna”, per utilizzare ancora il termine di Augé) gli “interminati spazi” che si trovano al di là della siepe dell’Infinito di Leopardi. La “via di esodo” potrebbe anche far pensare al “varco” montaliano ma, ancora una volta, l’ambiente naturale appare stravolto: non è più quello imprigionante ma comunque ancora incorrotto di – ad esempio – Meriggiare pallido e assorto.

Nella poesia successiva, intitolata Tosaerba automatici a guida satellitare, lo spazio naturale assomiglia a quello marittimo delle Cinque Terre descritte da Montale (Terzago, come leggiamo nella nota biografica, vive a La Spezia, porta d’ingresso delle Cinque Terre) mentre una serie di infiniti sostantivati (come nella citata poesia di Montale) scandiscono le azioni che devono essere compiute dall’operaio nei rari momenti di ferie e di tempo libero offerti dall’azienda (“…tra pini e castagni / raccogliere quelle tre varietà di funghi che conoscono tutti quanti. Concedersi tepidari; cercare asparagi / selvatici e staccare, dagli alberi, i frutti / non ancora maturi”). Tra l’altro, queste incursioni nello spazio naturale dovrebbero facilitare l’operazione dei tosaerba del titolo, il cui unico scopo è quello di antropizzare l’ambiente in maniera indiscriminata. Se al giorno d’oggi l’antropizzazione e la distruzione dell’ambiente naturale hanno già raggiunto livelli esorbitanti, fino a provocare tragedie come quella recente in Emilia Romagna (e a questo proposito si legga Violazione di Alessandra Sarchi, un romanzo che già nel 2012 scopriva scheletri negli armadi dei potenti, allestendo una storia di disboscamento e di cementificazione di corsi d’acqua nella campagna vicino a Bologna), nel futuro prossimo di Ciberneti l’ambiente naturale sembra essere ormai già stato allontanato in una dimensione irreale e fantasmatica.

In La terra del prato, infatti, “la terra del prato è stata messa / da un’altra parte. Adesso c’è impermeabilità”. Là dove c’era un prato adesso c’è una colata di calcestruzzo sormontata da “cespi di corrugato indeperibile”. La natura è stata sostituita da un ambiente artificiale: sembra quasi una rilettura “surmoderna” del processo descritto da Pier Paolo Pasolini ne Il pianto della scavatrice, ne Le ceneri di Gramsci. “Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore”, scrive Pasolini descrivendo la cementificazione degli spazi verdi attorno a Roma avvenuta nel corso degli anni Cinquanta. Ciberneti parla di una contemporaneità che è già futuro, una contemporaneità in cui quegli anni Cinquanta sembrano già preistoria come sembrano già preistoria le lotte operaie della fine degli anni Sessanta. In Un sogno a occhi aperti lo stesso abbrutimento procurato da un ciclo quasi ininterrotto di lavoro sfuma nell’irrealtà e nel sogno, perché “abbiamo / lasciato le nostre case quando era buio, sarà buio / quando ritorneremo e questo ci darà la sensazione / che sia stato tutto un sogno ad occhi aperti”. Lo stesso avveniva negli anni Sessanta e Settanta ma sembra che allora le azioni fossero immerse in una realtà fatta di corpi e di lotte; adesso, invece, nella ‘robotizzazione’ iperbolica dell’esistenza, ciò che è reale sfuma nel sogno e in una onnipresente dimensione virtuale. Più che a un sogno, allora, ci troviamo di fronte a un incubo: un incubo ad alta tecnologia.

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«Io sono una forza del Passato»: accenti ambientalisti in Pasolini https://www.carmillaonline.com/2022/07/24/io-sono-una-forza-del-passato-accenti-ambientalisti-in-pasolini/ Sun, 24 Jul 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73076 di Paolo Lago

Se permettete, comincio con una piccola osservazione personale: penso che nella tipologia A della prova di Italiano dell’ultimo esame di maturità, un brano di Pasolini non ci sarebbe stato male (visto che quest’anno ricorre anche il centenario della nascita). Invece, gli studenti si sono ritrovati Verga e Pascoli. È bene chiarire: non ho niente contro Verga e Pascoli, un grande scrittore (un po’ conservatore e destrorso, ma vabbè) e un grande poeta, tra l’altro uno dei più amati dallo stesso Pasolini (che su Pascoli fece anche la tesi di laurea) [...]]]> di Paolo Lago

Se permettete, comincio con una piccola osservazione personale: penso che nella tipologia A della prova di Italiano dell’ultimo esame di maturità, un brano di Pasolini non ci sarebbe stato male (visto che quest’anno ricorre anche il centenario della nascita). Invece, gli studenti si sono ritrovati Verga e Pascoli. È bene chiarire: non ho niente contro Verga e Pascoli, un grande scrittore (un po’ conservatore e destrorso, ma vabbè) e un grande poeta, tra l’altro uno dei più amati dallo stesso Pasolini (che su Pascoli fece anche la tesi di laurea) e, tra parentesi, anche da me. L’aspetto più inquietante è che siamo nel 2022 e quelle tracce potevano essere tranquillamente le stesse di cinquant’anni fa. Inutile rinnovare le modalità dell’esame, inutile guardare continuamente al nuovo, quando al livello contenutistico dei testi proposti si rimane inesorabilmente indietro, in un ‘vecchio’ che non finisce mai di perseguitarci. Chi ha preparato quelle prove, evidentemente, proviene da luoghi ammuffiti e rivestiti di cancerosa burocrazia, la stessa dell’Italia degli anni Cinquanta. Quelle stesse prove puzzano di muffa e di cantina. Del resto, anche i programmi ministeriali puzzano di muffa: si potrebbe obiettare che, nei programmi di scuola, a Pasolini non ci si arriva nemmeno, per mancanza di tempo. E allora sarebbe venuto il momento di rivedere quelle programmazioni una volta per tutte. Non possiamo fermarci a Verga e Pascoli come cinquanta, sessanta, settanta anni fa.

Siamo nel 2022, anno che può riecheggiare il titolo del film 2022 I sopravvissuti (1973, di Richard Fleischer) e che ha già superato il futuristico 2019 in cui si ambienta Blade Runner (1982, di Ridley Scott). Ma siamo in un 2022 ben reale (in cui non sfrecciano astronavi e non si sono colonizzati nuovi mondi), afflitto da numerose problematiche che non lasciano indifferente nemmeno la letteratura, problematiche che Verga e Pascoli non si sognavano nemmeno. Forse chi ha preparato le prove di maturità non ha mai sentito parlare di ecocritica o ecocriticism, una nuova branca della critica letteraria di provenienza anglo-americana, che si occupa delle tematiche legate all’ambiente e all’ecologia. Siamo in un momento cruciale, in cui di fronte al surriscaldamento del Pianeta, di fronte all’inquinamento e all’emissione indiscriminata dei gas serra i governanti del mondo dovrebbero prendere decisioni immediate e irremovibili, smettendola di giocare alla guerra (che, tra l’altro, oltre a provocare la perdita di innumerevoli vite umane, sta devastando ancora di più l’ecosistema della Terra). Adesso, nel momento in cui sto scrivendo, l’Italia è investita da un’ondata di caldo e di siccità, il Po e i suoi affluenti sono in secca e la Pianura Padana sta sempre di più assomigliando allo scenario distopico, brullo e inaridito, descritto da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori  (2016). Inutile dire che l’inquinamento ambientale è un problema particolarmente sentito dalle giovani generazioni che, giustamente, se la sono presa con i cosiddetti ‘adulti’ (soprattutto i governanti di cui sopra, che sanno investire il denaro pubblico solo in cacciabombardieri) perché stanno facendo poco o niente per un mondo nel quale loro, i ragazzi di adesso, saranno gli adulti di domani. Ma gli adulti di oggi non sono stati capaci – sembra – di farsi «acrobati del tempo», come, in modo suggestivo, ha scritto Carla Benedetti1. E poi, c’erano tutte le proteste dei Fridays for Future, un grande movimento degli studenti delle scuole medie e superiori, che stava montando e si sarebbe ingrandito a dismisura se non fosse stato inesorabilmente interrotto dall’emergenza Covid, dal lockdown, dai vari divieti di ‘assembramento’. Tutto finito, tutto imploso in un mondo devastato da un incubo. Anche nelle programmazioni scolastiche, nonché nei testi da proporre alla maturità, non si può più fare finta che questi problemi non esistano e vivere, come abbiamo fatto fino a adesso, in una sorta di aurea età dell’innocenza, in una inconsapevolezza separata dalla realtà. E la scuola non dovrebbe mai essere separata dalla realtà.

Ma allora, che c’entra Pasolini con l’ambiente e l’ecologia? C’entra, eccome se c’entra. D’altra parte, ogni volta che si voleva ricollegare Pasolini a tematiche ecologiche e ambientaliste, si è sempre tirato in ballo il famoso riferimento alla scomparsa delle lucciole, contenuto nell’articolo uscito sul «Corriere della Sera» il primo febbraio 1975 col titolo Il vuoto del potere in Italia e poi ribattezzato, nella raccolta degli Scritti corsari, come L’articolo delle lucciole. Certo, il riferimento all’inquinamento c’è ma si tratta solo di un fugace accenno in forma metaforica. Perché per Pasolini, qui, la scomparsa delle lucciole è soltanto una metafora per indicare la trasformazione del potere in Italia, prima della scomparsa delle lucciole e dopo la scomparsa delle lucciole2. Gli accenti ambientalisti in Pasolini, dei quali però qui possiamo offrire solo un rapido affresco, vanno ben al di là di questo articolo. Tali accenti prendono forma soprattutto nell’interesse per la trasformazione dello spazio, dell’ambiente italiano operato da un «Potere senza volto»3 fautore di rapide trasformazioni sociali. Il poeta e scrittore si concentra sul periodo del cosiddetto boom economico, che investe l’Italia nel secondo Dopoguerra. La società dei consumi, secondo Pasolini, appare apocalitticamente come un «nuovo fascismo» il cui «fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»4. Come accennato, questo «Potere», oltre che omologare le coscienze degli italiani, secondo lo scrittore, distrugge anche lo spazio agrario e contadino dell’Italia preindustriale.

Nel titolo di questo intervento è riportato il verso «Io sono una forza del Passato», tratto dalle Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa (1964). Leggiamo i versi successivi: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli»5. Da questi versi, Pasolini potrebbe apparire come un reazionario, un conservatore. D’altronde, il suo immaginario poetico ha creato due veri e propri universi in contrapposizione: da una parte, un universo arcaico e mitico, altamente idealizzato, dall’altra la modernità industriale e lo sviluppo, condannati senza requie. Addirittura, in una poesia appartenente alla raccolta La nuova gioventù (1975), dal titolo La recessione, composta nel 1974, inneggia alla recessione economica provocata dalla crisi petrolifera del 1973 (con tonalità che ci fanno pensare alla lontana alla «decrescita» di Serge Latouche): un mondo senza più automobili, perduto nel silenzio, con la gente che va a piedi, con gli antichi palazzi che torneranno al loro antico splendore, con le fabbriche inquinanti che crolleranno. Eppure, se guardiamo al di là delle apparenze, il pensiero di Pasolini potrebbe apparire molto simile a quello di un lucido e disincantato studioso della contemporaneità come Robert Kurz. Per il benessere degli individui, per la loro liberazione dalla ‘gabbia’ astratta del valore e della merce (si tratta, in fin dei conti, della stessa società dei consumi criticata da Pasolini, delineata dallo studioso tedesco in termini più strettamente marxisti), secondo Kurz, «è necessaria un’anti-modernità radicale ed emancipatoria, che non si limiti ad idealizzare qualche epoca del passato o qualche ‘cultura diversa’, conformemente all’antiilluminismo o all’antimodernità borghese, occidentale e ‘reazionaria’, ma che tagli i ponti una volta per tutte con la storia fin qui data, una storia di rapporti feticistici e di dominio»6.

Questa contrapposizione di universi – da una parte quello arcaico e contadino, dall’altra quello industriale e dello sviluppo – nell’opera di Pasolini assume diverse tonalità di tipo ambientalista. Ad esempio, nella poesia Il pianto della scavatrice, appartenente alla raccolta Le ceneri di Gramsci (1957), a piangere e a urlare è la scavatrice, cieco strumento di quel «Potere senza volto», che sta modificando il paesaggio italiano: «piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, / chiuso in un decoro ch’è rancore»7. Il poeta fa riferimento alla costruzione dei nuovi quartieri alla periferia di Roma negli anni Cinquanta, alla distruzione della campagna, alla trasformazione dell’«area erbosa» in «cortile, bianco come cera». Questi sono anni in cui l’Italia ha veramente cambiato volto, è stata ricoperta di cemento ogni dove: un processo che poi ha continuato inesorabilmente anche negli anni successivi e che non ha lasciato indifferenti neppure altri scrittori e intellettuali come, ad esempio, Italo Calvino che, tramite la scomparsa delle foreste descritta ne Il barone rampante (1957), intendeva denunciare quella stessa cementificazione selvaggia presa di mira da Pasolini. Del resto, anche nel cinema dell’autore bolognese c’è sempre una contrapposizione di spazi: da una parte la campagna, dall’altra la città che sta inesorabilmente avanzando, con le sue mostruose periferie. Basti pensare a molte sequenze di Accattone (1961) o Mamma Roma (1962), in cui i personaggi sottoproletari si muovono in spazi quasi ‘infernali’ lambiti dai nuovi palazzoni (ambienti in mutamento presenti anche nella narrativa pasoliniana di quegli anni, soprattutto in Una vita violenta, del 1959). Si può ricordare anche Uccellacci e uccellini (1966), in cui i personaggi di Totò e Ninetto percorrono lembi di periferia romana solcati da nuove strade e circonvallazioni in costruzione, frammenti di collegamenti stradali che, probabilmente, andranno a costituire il nuovo «Grande Raccordo Anulare».

Pensiamo poi a Teorema, un film che esce nel 1968 contemporaneamente anche come romanzo. Il personaggio di Emilia (Laura Betti), la domestica della famiglia dell’alta borghesia milanese destrutturata dall’arrivo dell’Ospite sacro (Terence Stamp), una sorta di nuovo Dioniso, dopo la seduzione di quest’ultimo, abbandona lo spazio borghese della villa per recarsi al proprio paese di origine. Il piccolo paese appare come un lembo di campagna sopravvissuto all’edilizia avanzante, uno spazio che presto verrà sommerso e distrutto. Metaforicamente, Emilia si farà seppellire proprio in uno spazio liminale, là dove la campagna sta per essere aggredita dai palazzoni di periferia. Siamo in un cantiere edile, tutto d’intorno palazzi in costruzione e una scavatrice ferma, pronta a riprendere il suo lavoro di devastazione, una scavatrice che tanto somiglia a quella della poesia sopra citata. Sono passati poco più di dieci anni ma il processo di devastazione, per Pasolini, appare come interminabile. Un processo che ancora oggi sta continuando perché, come leggiamo in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, nei pressi delle grandi città, è praticamente impossibile trovare una casa di campagna che non sia vicino a tangenziali o centri commerciali: «Il possesso del verde, anche quello della propria casa, aveva a che fare molto di più di quanto la gente non volesse ammettere con tangenziali, centri commerciali, lottizzazioni insensate e quartieri dormitorio. Questa era la realtà»8. Emblematica è anche l’espressione «possesso del verde» usata da Sarchi: la campagna e la natura, a partire da quel boom economico che, secondo Pasolini, ha devastato l’Italia, si sono ormai trasformate in merci, acquistabili come i prodotti di un supermercato. L’ideologia del possesso sta ormai investendo anche gli spazi naturali.

Anche in Petrolio (postumo, 1992), il romanzo a cui Pasolini stava lavorando al momento della morte, vi sono diversi accenni a questa mutazione di spazi, foriera di sempre maggiore inquinamento. Nell’Appunto 3 d, Prefazione posticipata (Petrolio, non concluso dall’autore, è infatti costituito da una congerie di appunti), il personaggio demonico di Tetis inizia un lungo viaggio, dapprima a piedi e poi in treno. A un certo momento giunge lungo le rive di un fiume «dai rapidi argini pieni d’immondizia, che puzza acutamente. È tuttavia un’immondizia organica: mancano ancora completamente la plastica e il polistirolo»9. La scena è ambientata nel maggio 1960 e Pasolini tiene a precisare che, in quel tempo, ancora mancavano elementi inquinanti come la plastica e il polistirolo. Successivamente, nell’Appunto 62, Carmelo: la sua disponibilità e la sua dissoluzione, in una sequenza narrativa ambientata all’inizio degli anni Settanta, i personaggi di Carlo e Carmelo si ritrovano in un prato della periferia di Roma, descritto come pieno di immondizia e di rottami di macchine, intorno al quale si stagliano i palazzoni delle nuove periferie, tratteggiati come anonimi cubi di cemento, perduti nella caligine invernale. Si tratta di uno spazio descritto quasi come un nuovo inferno: «Più indietro ancora c’era un capolinea pieno di autobus, un cinema e, insomma, l’inferno»10. Anche l’Appunto 70, Chiacchiere notturne al Colosseo, mostra le strade romane notturne intorno al Colosseo come attraversate da immondizia e cartacce sporche trascinate dal vento. Le stesse immagini di una Roma notturna, percorsa da spazzatura vagante, vengono offerte da Goffredo Parise ne L’odore del sangue, scritto nel 1979 ma pubblicato solo molti anni dopo la morte dello scrittore. Parise offre uno scenario davvero ‘infernale’, uno spaccato di violenza urbana in cui il degrado ambientale diventa anche degrado sociale e morale, attuando anche un riferimento all’uccisione di Pasolini: «Erano non so più se le tre o le quattro, e Roma mostrava il suo volto notturno fatto sostanzialmente di spazzatura vagante, di qualche pantera della polizia, urlante, di ragazzi in giubbotti di cuoio che sfrecciavano rombando in motocicletta. Eccoli, erano loro i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini, quelli che avevano stuprato le ragazze del Circeo, quelli che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni “per scherzo”»11.

In Petrolio, l’Appunto 70 introduce la lunga catabasi infernale che l’autore descrive nella sequenza di appunti denominata come Visione del Merda. Il «Merda» sarebbe un giovane di borgata ormai completamente abbrutito dalla società dei consumi dei primi anni Settanta. Nel momento in cui il protagonista Carlo affronta questa «visione», appaiono nuovamente le immagini di palazzoni di periferia, costruiti in lembi di spazio che prima erano campagna. La stessa spazialità rigida e geometrica dei palazzi, dei cortili e delle strade che li accompagnano e che formano percorsi obbligati da seguire, sembrano contribuire a manovrare le coscienze degli italiani, ormai abbrutiti dalla civiltà dei consumi. Le stesse immagini ritornano in una serie di appunti (121-124) intitolati La nuova periferia: palazzoni allineati gli uni agli altri «in forme gemelle»12, «ripetizioni di una stessa forma»13, i cui cortili sono caratterizzati da «vuoto assoluto». Del resto, sia in Petrolio che in molte altre sue opere, Pasolini tratteggia l’immagine quasi apocalittica di un mondo che sembra giunto alla sua fine: a partire da La Rabbia (1963), un documentario di una straordinaria forza poetica e tragica in cui, fra le immagini documentaristiche montate, ritorna ossessivamente lo scoppio della bomba atomica, fino a certi scorci paesaggistici di Roma in Poesia in forma di rosa, ad esempio ne La realtà, in cui leggiamo: «Poi compare Testaccio, in quella luce / di miele proiettata sulla terra / dall’oltretomba. Forse è scoppiata, / la Bomba, fuori dalla mia coscienza. Anzi, è così certamente. E la fine / del Mondo è già accaduta: una cosa / muta, calata nel controluce del crepuscolo»14. Se le immagini della Rabbia raccontano una bomba ben reale e terribile, che ha seminato morte e devastazione, i versi della poesia riecheggiano una bomba metaforica, che sta cambiando ambienti, spazi e coscienze degli individui.

L’inquinamento ambientale, per Pasolini, è anche inquinamento estetico. In un documentario dal titolo Pasolini e… la forma della città (1974), il poeta inquadra con la macchina da presa l’antica città di Orte. Muovendo l’obiettivo della macchina, a un certo punto, compare nel campo visivo un palazzo cubico, di nuova costruzione, che rovina la silhouette degli edifici medievali di Orte. La massa della città – dice Pasolini – è deturpata da qualcosa di estraneo, qualcosa che violenta in maniera abnorme quel paesaggio che, come molti altri scorci medievali in Italia, è stato dipinto dai grandi pittori del Trecento e del Quattrocento. Quegli scorci, ma anche qualsiasi insignificante vecchio muro appartenente ad epoche passate – afferma il poeta nell’intervista – andrebbero difesi con lo stesso accanimento con il quale ci battiamo per difendere un’opera di Dante, Petrarca o Boccaccio. Come scrive Serenella Iovino, «lo sguardo di Pasolini al paesaggio è cioè quello di un’etica dei luoghi, alla ricerca dei valori che vi si sono depositati nei secoli»15.

Per concludere, tornando al filo conduttore da cui siamo partiti, cioè la prova di italiano della maturità 2022, penso che di tematiche legate al pensiero di Pasolini (in relazione o no a temi ecologici) da proporre a un giovane studente ce ne sarebbero state tante, eccome. Ma, forse, di fronte alla gravità di molte problematiche che investono la società attuale, quel «Potere senza volto» – per utilizzare la definizione di Pasolini – continua a nascondere quel suo volto inesistente sotto la sabbia, come uno struzzo. Riproporre un testo di Pasolini avrebbe voluto dire anche riproporre la figura di un intellettuale disposto a lottare sempre e a non accettare nessun tipo di compromesso con qualsiasi potere, una figura che nell’Italia di oggi assomiglia sempre di più a quella di un latitante. E poi, a quel «Potere senza volto», intriso di oscuri rigurgiti di fascismo, credo che la figura di Pasolini, al di là delle facili ‘santificazioni’ e ‘riabilitazioni’, risulti ancora alquanto indigesta. Qualsiasi potere tende sempre a manipolare le menti dei cittadini per allontanarle dai veri problemi, seri e stringenti (e qui torna fondamentale la lezione di Pasolini), ora più che mai, in un universo digitalizzato in cui gli intellettuali, se ci sono, sono troppo impegnati ad autopromuoversi sui social. Siccità, caldo, fiumi in secca, alluvioni, eventi climatici estremi: sembrano lo scenario perfetto che, in molti film e romanzi distopici e apocalittici, prepara la catastrofe finale. Ma è estate, divertiamoci e, se dobbiamo pensare a un serio, stringente problema, c’è sempre la crisi di governo a tenerci compagnia.


  1. Cfr. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi, Torino, 2021, p. 4. 

  2. Cfr. P.P. Pasolini, Scritti sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 199, p. 404 e seguenti. 

  3. Cfr. ivi, p. 313, l’articolo dal titolo Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, uscito sul «Corriere della Sera» il 24 giugno 1974 col titolo Il Potere senza volto. 

  4. Cfr. ivi, p. 318. 

  5. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 2003, p. 1099. 

  6. R. Kurz, Ragione sanguinaria, trad. it. Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 20-21. 

  7. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 848. 

  8. A. Sarchi, Violazione, Einaudi, Torino, 2012, p. 69. 

  9. P.P. Pasolini, Petrolio, ora in Id. Romanzi e racconti, vol. II, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, p.1180. 

  10. Ivi, p. 1496. 

  11. G. Parise, L’odore del sangue, Rizzoli, Milano, 1997, pp. 90-91. 

  12. P.P. Pasolini, Petrolio, cit., p. 1765. 

  13. Ibid. 

  14. P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 1100. 

  15. S. Iovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Edizioni Ambiente, Milano, 2015, p. 105. 

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L’uomo, l’ambiente e la letteratura. Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura https://www.carmillaonline.com/2018/03/01/luomo-lambiente-e-la-letteratura-le-relazioni-narrative-fra-ecologia-e-letteratura/ Thu, 01 Mar 2018 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43990 di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le [...]]]> di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le sue memorie, gli alberi non ci sono più o si sono drasticamente ridotti: «Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure» (I. Calvino, I nostri antenati, Mondadori, Milano, 2003, p. 303). Dopo la morte di Cosimo, il ragazzo e poi l’uomo che ha vissuto sugli alberi, gli stessi alberi sembrano non aver resistito, sono morti, sono stati tagliati. Il «barone rampante», infatti, era stato un po’ un simbolo della sinergia uomo-natura: come nota Gregory Bateson, almeno a partire dal XVIII secolo, si è creata una profonda frattura fra coscienza individuale umana e natura. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda del romanzo di Calvino si ambienti proprio nel Settecento, quell’epoca dei lumi in cui tale frattura ha iniziato a prodursi. Cosimo, diverso da tutti, è l’uomo che va in direzione opposta, che ‘ritorna’ alla natura. Bisogna inoltre ricordare che il romanzo è del 1957, in un periodo in cui l’Italia stava inesorabilmente e rapidamente mutando sotto la spinta del benessere e delle ricostruzioni postbelliche, e la penna di Calvino non è certo immune da uno spirito di denuncia nei confronti della società contemporanea, denuncia un po’ nascosta sotto il piglio fiabesco della narrazione.

Adesso, a schiarirmi le idee c’è un interessante e rigoroso saggio di Niccolò Scaffai che illumina in modo adeguato le complesse relazioni fra ecologia e letteratura, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, uscito recentemente per Carocci. Come spiega l’autore nell’introduzione, uno degli intenti principali del libro è quello di porre «al centro la relazione tra ecologia e letteratura facendo reagire la tematica ambientale con i dispositivi formali che ne definiscono la presenza nelle opere d’invenzione» (p. 14). Un importante dispositivo è, ad esempio, lo straniamento: per illustrare i danni prodotti dall’inquinamento sull’ambiente, un autore può farci guardare con occhi diversi gli effetti di alcune nostre abitudini quotidiane facendocele osservare dalla prospettiva di altri esseri, animali o creature fantastiche. Dispiegando su letteratura e ecologia uno sguardo comparatistico, Scaffai sottolinea dunque l’importanza, fra gli studi culturali, dell’ecocriticism, disciplina che, da una parte, interpreta la relazione tra uomo e natura presente in un testo, dall’altra tende a fare dell’opera letteraria uno strumento di diffusione per la coscienza ambientale. Basti pensare alla letteratura americana: opere importanti in questo senso sono Foglie d’erba (1855-92) di Walt Whitman o Walden ovvero Vita nei boschi (1854) di Henry D. Thoreau. All’interno della cultura americana, infatti, è presente in profondità l’aspirazione alla vita in una natura incontaminata, la wilderness. Un autore americano contemporaneo in cui è presente una forte componente ecologica è poi Jonathan Franzen, in cui grande rilievo ha l’esperienza stessa della natura. Ad esempio in Libertà (2010), la coppia protagonista, appartenente alla classe borghese, decide di trasferirsi in una località a diretto contatto con la natura all’insegna della riscoperta dei valori fondamentali, sulla scia del grande archetipo thoreauviano. La critica ecologia può poi fondersi con la geocritica, la quale studia la rappresentazione dello spazio nella letteratura. Ogni ambiente è infatti prima di tutto uno spazio e, come scrive il maggior esponente della geocritica, Bertrand Westphal, un punto d’incontro fra spazio e ambiente può essere intravisto nel momento in cui entrano in sinergia la «cultura guardata» e la «cultura guardante», in modo da creare uno spazio coabitato da una multifocalità di prospettiva.

La natura è poi presente all’interno della letteratura sotto forma di diversi topoi, come ad esempio il locus amoenus. Quest’ultimo è uno spazio caratterizzato da una vegetazione fresca e ombrosa, un corso d’acqua, il tutto attraversato da una leggera brezza e dal canto degli uccelli. Il locus amoenus è presente in tantissime opere della letteratura classica e medievale: in Virgilio, ad esempio, il paesaggio ben regolato assume quasi il simbolo del buon governo, all’interno di un gioco di metafore assai presente non solo nelle letterature classiche. Un altro importante topos è quello della primavera, connotato contemporaneamente da angoscia e bellezza, il quale vede la sua più importante presenza nelle letterature romanze. Se la natura si risveglia in aprile (il mese “che apre”), spesso e volentieri il poeta è angosciato e soffre per le pene d’amore infertegli da una insensibile dama. Si tratta comunque di una rappresentazione topica di lunga durata, se esso è presente, mutando nella forma, in poeti contemporanei come Montale, Pasolini o Zanzotto. Ad esempio, L’arca di Montale si apre con l’immagine di una tempesta – una vera e propria catastrofe atmosferica – la quale «ha sconvolto / l’ombrello del salice, / al turbine d’aprile». In Pasolini, invece, la primavera assume connotazioni dolorose soprattutto per la lontananza della persona amata, soprattutto nelle giovanili poesie in friulano e ne L’usignolo della chiesa cattolica. In Zanzotto, lo spazio del locus amoenus diviene poi lo spazio eletto dell’otium cum litteris, consacrato all’«autocoscienza della poesia» (Galateo in bosco).

Un capitolo del saggio di Scaffai è successivamente dedicato alla letteratura distopica e al tema dell’apocalisse. Quest’ultima è rappresentata in moltissimi romanzi contemporanei come un disastro ecologico che colpisce la terra, mentre gli esseri umani superstiti sono costretti a muoversi in uno spazio devastato e contaminato. Un genere contemporaneo in cui letteratura e ecologia entrano in stretta correlazione è l’ecothriller: «Il protagonista di un eco thriller, spesso un giornalista o uno scienziato (talvolta una coppia, in cui uno dei due personaggi, per lo più quello femminile, ha lo scontato ruolo di deuteragonista) deve fronteggiare e possibilmente sventare un’emergenza biologica e ambientale, scatenata, favorita o sfruttata da un antagonista (un’associazione segreta o semplicemente criminale)» (p. 114).

Un importante tema che attraversa la relazione fra letteratura e ecologia è poi quello dei rifiuti, intesi come oggetto di straniamento che porta a concepire l’esistente in forma di spazzatura. Ad esempio, in un romanzo in cui la tematizzazione dei rifiuti assume un ruolo preponderante, Underworld (1997) di Don DeLillo, il protagonista percepisce ogni oggetto, anche nuovo, «in termini di spazzatura», mentre quest’ultima assume connotazioni sacre e quasi feticistiche. Nella pièce teatrale di Daniel Pennac, Il sesto continente (2012), un personaggio intende trasformare la famigerata, gigantesca «isola dei rifiuti», (realmente esistente, individuata nell’Oceano Pacifico e composta per l’ottanta per cento da materiale plastico) in una attrazione turistica organizzando delle crociere. Essa viene così offerta al voyeurismo di massa dei croceristi, «testimoni di un “naufragio” ecologico di cui sono responsabili e vittime, oltre che spettatori» (p. 142). Anche Italo Calvino, ne Le città invisibili (1972), tematizza l’invasione della spazzatura all’interno dello spazio cittadino, anche stavolta con uno spirito di denuncia: come egli stesso scrive a proposito del libro, «Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili».

Nel Novecento letterario italiano un autore che ha affrontato da vicino tematiche ecologiche è senza dubbio Pier Paolo Pasolini. Oltre ad aver rappresentato poeticamente la trasformazione dell’Italia, anche in termini ecologici (basti ricordare il «pianto della scavatrice», nell’omonima poesia delle Ceneri di Gramsci, in cui la scavatrice ‘urla’ di dolore devastando i prati per la costruzione di nuovi quartieri di periferia, oppure la descrizione delle ‘devastate’ periferie romane nel postumo e incompiuto Petrolio), Pasolini, in un celebre articolo degli Scritti corsari, utilizza la metafora della «scomparsa delle lucciole» per indicare il mutamento del potere in Italia. Il potere che spadroneggia dopo la «scomparsa delle lucciole» è quello dei nuovi consumi, un regime forse più terribile di quello fascista, irreggimentatosi con il tacito consenso della classe politica democristiana degli anni Sessanta e Settanta.

Anche Paolo Volponi possiede uno spiccato sguardo ‘ecologico’, soprattutto ne Il Pianeta irritabile (1978), in cui è evidente il richiamo di scrittori come Huxley, Orwell, Asimov e Bradbury. La vicenda del romanzo si svolge a partire dall’anno 2293 nel territorio marchigiano caro all’autore ma il paesaggio è ormai irriconoscibile poiché il mondo è stato devastato da una grande esplosione atomica. I protagonisti di questa sorta di favola ecologica sono un babbuino, un’oca ammaestrata, un elefante e un nano. Quest’ultimo, l’unico umano del gruppo, si convertirà verso l’animalità rinunciando al linguaggio e estraniando in questo modo la dimensione umana da una natura che proprio dall’uomo era stata devastata.

Anche nei risvolti più contemporanei del romanzo italiano – ai quali è dedicato l’ultimo capitolo del ricco saggio di Scaffai – è possibile incontrare tematiche ecologiche. Ad esempio, in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, in cui il ‘ritorno’ alla natura dei protagonisti è oscurato dalla violazione e dai gravi danni inferti al territorio da parte del proprietario della casa che essi vogliono acquistare. Fra recenti esempi di fiction distopica si può invece ricordare Sirene (2007) di Laura Pugno, in cui la razza umana è costretta a rifugiarsi sott’acqua per sfuggire alle radiazioni solari che provocano terribili cancri alla pelle, o Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante, in cui in un futuro imprecisato, dopo la «sciagura» provocata forse da una grave crisi economica, quello che resta dell’umanità deve rifugiarsi in sperdute e incontaminate valli alpine o, ancora, Qualcosa là fuori (2016) di Bruno Arpaia, che racconta una Italia del futuro devastata apocalitticamente dal surriscaldamento globale.

Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura continuano perciò anche nella contemporaneità, anzi, sembra che si stiano intensificando sempre di più. E questo non può essere che un bene perché la letteratura, sfoderando la propria vocazione fantastica, onirica e visionaria forse riesce gradualmente a ricucire la frattura di matrice illuministica e tecnica creatasi fra coscienza umana e natura e a migliorare la vita in comune degli individui ricreando nuove e inedite relazioni d’amore fra di esse. Perché, come scrive Giorgio Caproni in Versicoli quasi ecologici, se «l’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore», dove ricomincia l’erba e l’acqua rinasce, l’amore ricomincia.

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Monica Pareschi: traduttrice, editor e scrittrice https://www.carmillaonline.com/2014/06/21/monica-pareschi-traduttrice-editor-scrittrice/ Fri, 20 Jun 2014 22:01:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15326 di Roberto Sturm

PareschiSturmMonica Pareschi è una delle più importanti traduttrici italiane e ha tradotto, tra gli altri, autori del calibro di James G. Ballard, Doris Lessing e Bernard Malamud. Lavora nel campo dell’editoria anche come editor freelance e cura una collana di classici femminili per Neri Pozza. Recentemente ha esordito nel campo della narrativa con un’antologia di racconti, edita da Italic Pequod, di qualità sorprendente dal titolo È di vetro quest’aria.

Monica, cosa ti ha spinto al debutto come scrittrice? Credo che per alcuni traduttori tradurre sia come aggirare il problema, come [...]]]> di Roberto Sturm

PareschiSturmMonica Pareschi è una delle più importanti traduttrici italiane e ha tradotto, tra gli altri, autori del calibro di James G. Ballard, Doris Lessing e Bernard Malamud. Lavora nel campo dell’editoria anche come editor freelance e cura una collana di classici femminili per Neri Pozza. Recentemente ha esordito nel campo della narrativa con un’antologia di racconti, edita da Italic Pequod, di qualità sorprendente dal titolo È di vetro quest’aria.

Monica, cosa ti ha spinto al debutto come scrittrice?
Credo che per alcuni traduttori tradurre sia come aggirare il problema, come prendere voce senza essere autorevoli. Conosco anche persone che hanno fatto il percorso inverso, per esempio Tommaso Pincio con cui parlavo pochi giorni fa. I traduttori sono i lettori per eccellenza e credo che spesso siano scrittori mancati o timidi che scrivono con parole altrui: una traduzione letteraria di alto livello s’inscrive nella cifra della scrittura, quindi scambiare le parti ritengo sia una cosa abbastanza naturale. Forse l’aver fatto del tradurre il mio mestiere ha a che fare con il desiderio di scrivere: una cosa un po’ vicaria. Di fatto ho sempre pensato di avere i tic e le idiosincrasie dello scrittore. Un modo esagerato e per certi versi perverso di vedere le cose.
Devo dire che ho cominciato a scrivere con una certa cautela, io sono anche editor, e penso e spero di avere un editor interno che funziona un po’ da super io: mi ritengo una scrittrice molto trattenuta e ciò credo derivi dal fatto che lavoro con le parole. In questi casi forse ci si accosta alla scrittura con una consapevolezza diversa. Con meno libertà, anche.

Quanto conta all’interno della tua attività di scrittrice il lavoro di traduttrice ed editor?
Non vorrei continuare a tradurre a tempo pieno, adesso avrei voglia di scrivere e dedicarmi all’editing, nonostante sia stato difficile pubblicare l’antologia. Gli editori vedono sempre con diffidenza i racconti. Sono belli, mi hanno detto in diversi, ma torna con un romanzo. A me però interessa esplorare questa misura narrativa forse anche perché non troppo pubblicata in Italia. Personalmente sono dubbiosa riguardo alle operazioni editoriali che confezionano un romanzo partendo da una raccolta di racconti. Spesso vedo che certi prodotti editoriali, nati per essere qualcos’altro, vengono trasformati in romanzi ma io non ho voglia di sperimentare questa strada.
Avrei voglia di scrivere, ti dicevo, e staccarmi dalle traduzioni perché noto che occuparmi della lingua altrui disturba la mia scrittura autoriale: oltre alla stanchezza alla fine di una giornata dedicata alla traduzione, ho bisogno di fare silenzio – anche letterario, far tacere la scrittura altrui – per scrivere. Anche perché, per forza di cose, credo, la mia scrittura è comunque molto legata alla mia attività di traduttrice: un’influenza digerita e metabolizzata che proviene dagli autori su cui ho lavorato c’è senz’altro, e io mi sono misurata principalmente con scrittori che hanno una voce molto potente avendo fatto poca gavetta in questo campo. E una voce letterariamente potente occupa molto spazio mentale, creativo, psicologico. Occorre metabolizzarla e, in qualche modo, liberarsene, prima di scrivere qualcosa di originale.

Hai un punto di vista privilegiato per illustrarci lo stato attuale dell’editoria italiana. Crisi persistente, ristagno o parvenza di ripresa?
Sono molto pessimista, mi dispiace. Negli ultimi due anni ho vissuto le cose un po’ più dall’interno rispetto a quando facevo soltanto la traduttrice e vedo un’editoria molto incerta e disordinata nelle proprie scelte, non riesco a individuare delle linee editoriali precise oltre alla corsa al si salvi chi può. Vedo come le cose non funzionano, le case editrici riducono il personale e sono sempre più frettolose, più oberate e quindi più disattente: questo fa male ai libri e a chi ci lavora. Anche il versante economico è sempre più difficile. Dirò una banalità, ma si pubblica tantissimo e gli editori con cui lavoro mi dicono che se non pubblicassero così tanto non potrebbero sopravvivere. Sono felice di occuparmi di una collana di classici perché mi sembra che sia il momento di rallentare e oltre che leggere occorrerebbe rileggere per tornare ai tempi naturali della fruizione del libro. Questa riproposizione dei classici spero che abbia, oltre a una motivazione economica, dato che sui classici non si pagano i diritti che scadono dopo settanta anni dalla morte dell’autore, l’idea del testo che rimane sullo scaffale della libreria per più di due mesi, al contrario della vita dei libri che escono oggi.

A proposito della collana di Neri Pozza?
I primi tre titoli della collana, quelli già usciti, sono stati scelti in modo molto idiosincratico e, diciamo, affettivo. Jane Eyre è un libro che ho letto in diverse età della vita, e ogni volta mi ha parlato in modo diverso. La piccola Fadette di George Sand l’avevo letta da bambina, e me lo ricordavo in modo nitido, in un qualche modo quella fiaba un po’ edificante mi aveva turbata – e infatti di motivi perturbanti ne contiene a iosa. La casa della gioia, di Edith Wharton, meno famoso dell’Età dell’innocenza, è un romanzo per certi versi più moderno, e aveva indubbiamente bisogno di una nuova traduzione che mettesse in luce questa grande attualità. Per quanto riguarda il futuro, insisterò con le Brontë, tutte e tre, e ci sarà una nuova Princesse de Cléves di Madame de La Fayette – un libro lontanissimo dalla mia sensibilità un po’ tempestosa (nel senso delle Cime!) – ma che mi affascina per l’esattezza geometrica con cui tratta i sentimenti, in particolare quello amoroso. E se me lo lasceranno fare, cercherò di espandermi geograficamente a nord, e temporalmente avanti, nel Novecento, e indietro, nel Medioevo.

Parliamo di editing: mi capita spesso di leggere romanzi – di esordienti ma anche di autori più affermati – che hanno delle ottime potenzialità che, se rese esplicite, avrebbero dato una qualità maggiore al testo. Nelle altre lingue come va?
Occupandomi di traduzioni, quando lavoro su autori contemporanei un editing, bene o male, è già stato fatto. Anche fuori dall’Italia credo che ci sia questa malattia della fretta perché mi capita di trovare veri e propri errori o magari delle piccole cose che se non danneggiano la qualità letteraria del testo danno fastidio.
Ho anche storie divertenti in merito, di cui una riguarda Ballard: ho tradotto Super Cannes e nell’originale a un certo punto c’è un rapporto sessuale tra i due protagonisti, Paul Sinclair e la giovane moglie Jane, e lei va in bagno a mettersi la spirale. Ho fatto un salto nella sedia perché la spirale in genere si mette dal ginecologo e non è una cosa piacevole. Ballard aveva già una certa età e sicuramente l’editor era un uomo e non ha pensato al diaframma, ha scritto proprio coil… Chiaramente i lettori italiani non hanno trovato alcuna spirale nel testo.
È anche vero che a volte si vedono vere e proprie lacune sull’impianto del testo: ho tradotto La casa rossa di Mark Haddon, dopo il successo de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, ed è stato molto faticoso perché il romanzo non comincia mai, ci vogliono cento pagine… Qui c’è stata una mancanza sulla struttura e questo libro, che pure secondo me aveva grandi potenzialità, non è andato per niente bene, infatti.

Le ambientazioni dei racconti di È di vetro quest’aria mi hanno colpito molto: rarefatte ed evanescenti, immobili come i protagonisti che sembrano in eterna attesa. Il tuo stile è molto essenziale e rigoroso. Giochi con le parole in maniera precisa, cercando di usarne il meno possibile. Non ci sono quasi mai riferimenti spazio–temporali che definiscano con precisione un luogo o un’epoca. Queste caratteristiche danno un taglio particolare ai racconti e secondo me rendono i testi più universali e, credo, più fruibili nel tempo, nel senso che manterranno più a lungo una loro attualità.
Cominciamo da quando dici che le vicende non sono situate in una situazione spazio–temporale precisa. È vero, non so quanto l’abbia fatto consciamente o quanto per un’idiosincrasia mia rispetto a certe narrative italiane… spesso sono infastidita dal regionalismo, dall’eccessiva attenzione di alcuni autori a una realtà molto locale, molto provinciale. Certo, m’interessa leggere ciò che accade in provincia però mi piacerebbe leggerlo come leggo Balzac, che sia applicabile alla provincia del mondo. Certe narrative italiane sono molto calate nel “territorio”… c’è tutta una linea di scrittura di giovani autori romani, per esempio, che ambientano le loro vicende nelle borgate, in una Roma di un certo tipo e io non riesco più a distinguere questi autori l’uno dall’altro. Trovo piccole marche di regionalizzazione che non mi piacciono. Per questo ho cercato altro, ma forse c’entra anche la mia storia personale di apolide, di sradicata.
Per quanto riguarda la lingua, è un po’ il discorso che facevo prima: auspicabilmente ho un editor interno, una specie di super io letterario molto cattivo che non mi permette di scrivere quanto vorrei. Il mio agente- editor, infatti, non è intervenuto sulla lingua: abbiamo discusso sulla successione dei racconti ma mi ha sempre detto che la lingua funziona, forse anche per il duro e umile lavoro quotidiano del tradurre, sicuramente una gran palestra per ogni scrittore.

Dopo aver letto Il progetto, il racconto dell’antologia che mi è piaciuto di più, sono andato a prendere nella mia libreria Super Cannes di Ballard, convinto che lo avessi tradotto tu e trovando conferma. Questo tuo racconto è molto ballardiano, sia come ambientazione (un’enclave supertecnologica) che come trama, ma sei riuscita a rielaborare il grande scrittore britannico rispetto alle tue esigenze letterarie con assoluta autonomia, con un taglio davvero particolare.
Spero sia così. Questo è stato il racconto più difficile e tormentato essendo il più lungo e il più complesso. Un’ambientazione simile è anche nel racconto Corpo a corpo, in entrambi è in atto una guerra, al proprio corpo in Corpo a corpo e al corpo altrui (o in difesa del proprio) nel Progetto. Spero di essere davvero riuscita a fare qualcosa di originale anche perché conosco questa ambientazione: ho vissuto in un luogo del genere per due anni, poi è chiaro che sia il vissuto sia l’esperienza letteraria siano confluite nel testo. Personalmente ho trovato queste zone terribili, ho sofferto molto e mi sono sentita totalmente estraniata. Questa la genesi autobiografica e letteraria del testo. Però non si è trattato di un fatto programmatico, non ho mai pensato di scrivere “come Ballard”. Però a posteriori ho visto anche io che Ballard c’era, in questi racconti.

Ci sono diversi fili conduttori tra i tuoi racconti. In quelli che mi hanno colpito di più uno è l’amore, direi diversi tipi di amore (copri quasi tutto l’arco di una vita nella raccolta), e il senso di estraniamento dal mondo circostante dei personaggi. L’amore non è mai visto come strumento di redenzione e i protagonisti non vivono vite felici.
Sì, ho messo anche dei versi in testa a un racconto, Come in autunno sul boulevard, di Mariangela Gualtieri, una poetessa che amo molto. Sono personaggi che cercano amore, soprattutto passione, come la protagonista del primo racconto, ma spesso non sanno a chi darlo. Ho pensato molto alla successione dei testi, con la mia agente volevamo fare una cosa organica. Lei era molto preoccupata dalla parola “racconti” e l’ha voluta definire opera. Si parte da un grado zero, dalla protagonista del primo racconto che è completamente separata dalla propria emotività. Ha paura, come molti, della passione ma allo stesso tempo la ricerca e non sa come procurarsela. In questo tema entra anche Come in autunno sul boulevard, in cui la protagonista ha voglia di farsi una storia d’amore. Un desiderio che sento molto nella vita reale, persone che vorrebbero innamorarsi e che non ci riescono e a volte “si fanno un film mentale”, come la protagonista del racconto. Per i miei personaggi spesso l’amore è una velleità e questo credo faccia parte del nostro tempo.

Per chiudere, cosa legge Monica Pareschi nel tempo libero?
Allora, questa traduttrice nel tempo libero legge tanta poesia, perché appunto il tempo libero è poco e la poesia è scrittura altamente concentrata e distillata, quindi dal punto di vista dell’economia del tempo conviene. Benn e Celan tra i tedeschi (con testo a fronte perché il tedesco lo sapevo ma me lo sono un po’ dimenticato, e poi entrambi hanno traduttori bravissimi). Tra gli anglosassoni, che fanno come sempre la parte del leone: Eliot, soprattutto i Quartetti, Dylan Thomas, Plath, Sexton, Bishop, Christina Rossetti, Emily Dickinson. Tra gli italiani contemporanei soprattutto Mariangela Gualtieri e un poeta dialettale secondo me grandissimo, Paolo Bertolani. Poi Sereni e Pagliarani. Cristina Campo, sempre. Ho letto molto Flannery O’Connor e Carver, scrittori che sento affini per il senso di misteriosa religiosità che li pervade. Alice Munro, per gli stessi motivi. Uno scrittore che mi ha colpita tantissimo, anche se frequento di rado quelle latitudini, è Lindgren Torgny, svedese, che ha scritto un romanzo incredibilmente bello, Miele, edito da Giano anni fa. Ultimamente ho letto un bel libro di Alessandra Sarchi, L’amore normale, edito da Einaudi.

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