Alberto Burgio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 15 Sep 2025 22:01:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Razzismo: falsa coscienza della modernità occidentale https://www.carmillaonline.com/2020/09/11/razzismo-falsa-coscienza-della-modernita-occidentale/ Fri, 11 Sep 2020 20:30:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62718 di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle [...]]]> di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle condizioni di possibilità e di realizzazione della razionalità che ha prodotto l’ordine del discorso razzista; in altre parole, del razzismo vuole comprendere la genesi, la ragion d’essere e la morfologia.

Sul piano metodologico Burgio, fin dalle prime pagine, mette a fuoco come si renda necessario procedere preliminarmente ad una definizione del concetto di razzismo, che sia in grado di fuggire i limiti di un approccio meramente “storiografico”, che sembrerebbe intendere il razzismo come l’inventario fenomenologico completo delle sue multiformi manifestazioni. Si ripresenta, insomma, l’annosa questione, ben nota da molto tempo alla riflessione epistemologia, del corto circuito tra concetto (“a priori”, “la parola”) e dato empirico (“a posteriori”, “la cosa”); tra la necessità di una preliminare elaborazione concettuale, che guidi l’atto empirico, rendendolo capace di riconoscere “il dato” e l’altrettanto indispensabile e costante confronto con la concreta realtà dei dati d’esperienza (in questo caso le specifiche forme e manifestazioni particolari del razzismo), che diano sostanza e legittimità alla definizione del concetto.

In altri termini, Burgio esprime il bisogno di un’azione di comprensione “teoretica” del razzismo, che possa fungere da cornice di conoscenza complessiva della sua storia, dalla sua genesi fino alla contemporaneità. Si tratta allora di cogliere le strutture fondanti di quella che Burgio definisce come una «insaziabile fame di discriminazione» (p. 15) che turba la civiltà e la società moderne dal Cinquecento ad oggi, da quando l’Occidente non riesce a «fare a meno di inventare “razze” inferiori e parti infette dei corpi sociali che meritano di essere isolate o amputate». (p. 15)

Una delle tesi portanti di tutto il discorso di Burgio è che tra modernità e razzismo vi siano, per dir così, consustanzialità e consequenzialità: il razzismo è una malattia congenita della modernità e della nostra civiltà. Pertanto, esso va inteso come un fenomeno storico, vale a dire storicamente determinato e la sua storicità coincide con la modernità occidentale. L’autore critica le interpretazioni “metastoriche” del razzismo, che leggendolo come un aspetto congenito della “natura” umana e considerandolo avulso dalla concreta e determinata cornice storica della sua genesi e del suo sviluppo, lo trasformano di fatto in un fenomeno “naturale” e pertanto in qualcosa non solo di inevitabile, ma, alla fine, anche di giustificabile. Lo stesso deve dirsi delle interpretazioni “teologiche”, che, ancora una volta in maniera astorica e “metafisica”, lo leggono come la realizzazione del male assoluto, precludendosi così la possibilità di comprenderlo per ciò che è: un fenomeno storico, prodotto della storia della civiltà umana, insomma un fatto di cultura, non di natura. In quanto fenomeno culturale, il razzismo – spiega Burgio – si configura invece come a) un’organica e specifica struttura discorsiva; b) basata su antropologie di tipo essenzialistico; c) nata tra Sette e Ottocento sullo sfondo dei processi di modernizzazione (definitiva affermazione degli Stati-Nazione, urbanesimo, colonialismo e adozione di politiche imperialistiche, sviluppo dell’economia manifatturiera capitalistica, divisione sociale ed internazionale del lavoro); d) con potenti capacità performative, cioè di produzione di comportamenti collettivi.

Dinanzi ai cambiamenti profondi e sconvolgenti dell’età moderna, l’uomo occidentale ha avvertito il bisogno di nuove granitiche certezze e la ha trovate nel razzismo e nella convinzione incrollabile della propria superiorità essenziale. Molti sono gli intellettuali e numerose sono le opere che hanno posto l’accento sul legame tra modernità e violenza e tra i più significativi Burgio annovera i francofortesi Adorno e Horkheimer con la Dialettica dell’Illuminismo e Zygmunt Bauman con Modernità e Olocausto. Le tesi e le argomentazioni dei due scritti sono troppo note perché occorra qui ripercorrerle, ma entrambe le analisi sono da Burgio giudicate inadeguate, in quanto unilaterali, perciò riduttive e deterministiche. Individuano un solo aspetto della modernità, quasi che fosse l’unica epoca storica ad avere l’esclusiva della violenza e non, al contrario, proprio quella che ha dato il contributo essenziale e decisivo all’elaborazione di principi quali il rispetto della dignità umana, il riconoscimento dei diritti, la ricerca della giustizia, la libertà dell’individuo, insomma proprio quei valori “moderni” che fungono da criteri su cui si fondano i giudizi negativi espressi dai francofortesi e da Bauman sulla “modernità”. La tesi avanzata da Burgio è, potremmo dire, uguale e contraria: uguale, per l’individuazione dello stretto legame che unisce modernità e razzismo (e quindi violenza); contraria, in quanto l’autore ritiene che il razzismo sia nato «proprio perché la modernità non si è mai conciliata con la violenza che la pervade, e che per questa ragione – perché fonte di irrisolti conflitti etici – esige giustificazioni» (pp. 21-22): il razzismo è esattamente questa giustificazione, che permette alla civiltà occidentale moderna di trovare una conciliazione tra il piano intellettuale e teorico dei valori e dei principi che è andata elaborando e quello materiale, concreto, delle forme di violenza, sfruttamento e ingiustizia che ha sprigionato a seguito dei propri processi di sviluppo e di affermazione mondiale. Il razzismo è il lato oscuro della modernizzazione, il prodotto, l’espressione e l’esplicitazione delle sue contraddizioni strutturali.

È sul piano dell’etica, quindi, che l’analisi teoretica dei fondamenti e delle condizioni di possibilità della ragione razzista avanzata da Burgio rintraccia il cuore del problema: il razzismo ha risolto il dilemma etico prodotto dalla natura critica, ossia contraddittoria, della modernità, dalla divergenza tra quanto teorizzato e quanto praticato, tra il piano strutturale dei processi materiali di sviluppo e riproduzione economica e sociale (che hanno causato disuguaglianza, violenza, sopraffazione e sfruttamento) e quello intellettuale e valoriale di una cultura che parallelamente andava codificando i principi di libertà dell’individuo, di uguaglianza tra gli uomini e di fraternità universale. Per reggere il peso di questa palese contraddizione serviva una giustificazione autoassolutoria, un’ideologia adatta allo scopo: il razzismo.

La modernità ha una natura critica (cioè vive di lacerazioni e contrasti) ed è all’interno della contraddizione della modernità che occorre rintracciare la genesi del razzismo. Tra il Cinquecento e il Settecento la cultura moderna ha elaborato e diffuso il principio della “libertà” dell’uomo, inteso come uno di quei diritti inalienabili che tali sono perché naturali, ossia posseduti da tutti gli uomini, propri della sua natura e che pertanto rendono tutti gli uomini uguali; “uguaglianza” che ha senso solo se declinata in termini universali ed estesa a tutti gli esseri umani. Uguaglianza e universalità – dice Burgio – sono «cardini dell’ethos moderno» (p. 23), non di epoche storiche precedenti, fondate su distinzioni e gerarchie sociali essenzialistiche e quindi inattaccabili poiché pensate come – per esempio – parte dell’ordine divino. Con l’Ottocento e il Novecento, poi, la diffusione degli ideali e dei sistemi politici democratici ha ulteriormente sviluppato questo processo. È nella collisione tra principi etici (universalistici ed egualitari) e processi materiali di sopraffazione e sfruttamento che si consuma la tragedia della modernità che ha prodotto il razzismo come soluzione ideologica e come razionalizzazione autoassolutoria.

È la cultura illuministica che fissa definitivamente il binomio «libertà-uguaglianza definito sullo sfondo universalistico, cosmopolitico, dell’universalità» – in sostanza i “principi dell’89” – come cardine della tavola dei valori della civiltà occidentale, ma, al tempo stesso, le modalità della realizzazione materiale del principio della libertà all’interno delle relazioni e dei processi economico-sociali concreti e le dinamiche dei rapporti economico-politici tra l’Occidente e il resto del mondo hanno palesemente contraddetto quella stessa tavola assiologica egualitaria. La libertà è andata realmente configurandosi in termini esclusivamente individuali, particolaristici e privati: essa è la libertà economica dell’individuo della società borghese e capitalistica, che non riesce a trovare un punto di convergenza con il principio dell’uguaglianza. Se la libertà borghese, a seguito delle dinamiche della sua attuazione capitalistica si manifesta come libertà di iniziativa privata, di appropriazione, di imposizione di sé e subordinazione dell’altro, allora essa ripudia ed esclude l’uguaglianza, perché produce disuguaglianze, rinnovate forme di sfruttamento e di esclusione, nuove gerarchie sociali e conseguenti pratiche di sfruttamento e violenza. Se lo slancio e il pieno sviluppo dell’economia capitalistica moderna, mercantile e manifatturiera, determinano sul piano internazionale la corsa imperialistica dell’Occidente alla conquista coloniale e allo sfruttamento di risorse e di popoli lontani, allora il valore universalistico della fraternità si riduce ad una nobile ed elegante parola svuotata di senso.

Sono gli sviluppi stessi del progresso e dell’affermazione dell’Occidente moderno, quindi, che lo conducono di fronte ad una lacerante contraddizione, tutta interna alla modernità stessa: la divergenza tra l’idealità dei valori e la concretezza dei processi materiali, economico-sociali. La libertà borghese si riduce ad essere una libertà formale e giuridica che si regge su nuove disuguaglianze ed ingiustizie, che essa stessa produce, nonostante fosse stata elaborata, sul piano ideale, per sovvertire le disuguaglianze e le ingiustizie feudali dell’antico regime. Si tratta di una contraddizione palese tra ideale e reale, tra valori diffusi e condivisi dal senso comune e comportamenti altrettanto correnti nelle relazioni sociali in genere; un conflitto che ingenera nell’uomo occidentale un disagio morale ed un equivoco etico che richiedono di essere risolti. La disuguaglianza e l’ingiustizia praticate de facto necessitano di una giustificazione de jure, che salvaguardi la tavola dei valori ideali. Il razzismo risponde perfettamente a questa necessità e il caso dello schiavismo coloniale (della tratta dei neri africani, ecc.) è quello più emblematico: trasformare i popoli conquistati o i neri africani deportati in “razze”, renderli diversi ed inferiori in base a teorie (pseudo)scientifiche comporta la loro espulsione dal terreno di applicazione del valore dell’uguaglianza, che può così essere idealmente ribadito e al contempo concretamente e palesemente tradito. Il razzismo, osserva pertanto Burgio, è un potentissimo dispositivo ideologico di giustificazione e di riconciliazione dell’Occidente moderno con se stesso. E per elaborare questo apparato ideologico, la cultura moderna si serve di un altro dei suoi pilastri fondamentali, cioè della razionalità scientifica, ricorrendo ai saperi e alle scienze della vita o inventando nuove discipline, come la craniologia o l’eugenetica e così facendo, attribuisce oggettività, attendibilità e rigore a politiche, metodi e pratiche di sfruttamento, di discriminazione e di violenza.

Insomma, il razzismo è un processo di “razionalizzazione”, intendendo il concetto nel suo significato psicanalitico: è un meccanismo inconscio di difesa che consente la giustificazione e quindi l’accettazione di comportamenti altrimenti psicologicamente traumatici, disturbanti o angoscianti. Tale fenomeno di razionalizzazione viene conseguito attraverso la stesura di una narrazione ideologica (le teorie della razza) che funge da “falsa coscienza” dell’Occidente.

Burgio di seguito si occupa della morfologia e della fenomenologia del razzismo, analizzandone le forme fondamentali e le particolari manifestazioni storiche. Una prima tipologia di razzismo, detta poligenetica e sorta principalmente nell’ambito delle relazioni commerciali coloniali con il Nuovo mondo, nega l’esistenza di un’unica specie umana, teorizzando la compresenza di una pluralità di esse, tra di loro incommensurabilmente differenti (e che pertanto dovrebbero evitare ogni tipo di ibridazione o meticciato). Tale forma poligenetica è detta anche (secondo la categorizzazione di Pierre-André Taguieff, a cui più volte Burgio si riferisce) “differenzialistica” e conosce la propria manifestazione storica paradigmatica nell’antisemitismo moderno pseudosceintifico, erede di quello religioso antico e medievale, che ha condotto allo sterminio nazista degli ebrei d’Europa, considerati non tanto e non solo una “razza” non ariana “inferiore” da schiavizzare (al pari di slavi e latini), ma propriamente una razza “diversa”, di fatto disumana, la cui distruzione non comporta quindi l’insorgenza di alcuna resistenza etica.

La seconda fondamentale forma di razzismo è detta monogenetica e gerarchica: essa non nega l’appartenenza all’unica specie umana delle differenti razze, ma le colloca in una rigida gerarchia antropologica che sentenzia l’inferiorità delle une e la superiorità (per intelligenza, sensibilità, capacità, ecc.) delle altre, che possono così sentirsi legittimate a discriminare, segregare, asservire, sfruttare e infine anche sterminare le razze inferiori. Nel linguaggio di Taguieff, si tratta del razzismo “inegualitario”, che conosce la propria manifestazione paradigmatica nello schiavismo coloniale e nella tratta dei neri.

Va per prima cosa sottolineato come, nonostante le differenze, i due modelli possano intrecciarsi e sovrapporsi e come, in secondo luogo, la logica e la sintassi del discorso razzista si articolino secondo le medesime strutture in entrambi i casi e che sostanzialmente uguali sono anche gli effetti, ovverosia la giustificazione teorica di atti e comportamenti crudeli, che dalla discriminazione procedono fino alla possibile eliminazione fisica del gruppo che subisce il processo di trasformazione in “razza”. In linea di principio il razzismo “inegualitario” tende soprattutto a giustificare il dominio e lo sfruttamento, mentre quello “differenzialista” teorizza e prepara il terreno per l’esclusione e lo sterminio. Ma – rileva efficacemente Burgio – «l’ebreo, il non-uomo, può anche servire egregiamente come schiavo» – prima di essere eliminato – e «il nero e il proletario, “schiavi naturali”, possono ben essere sfruttati sino allo sfinimento in quanto, in definitiva, non pienamente umani» (p. 53) perché inferiori.

Per quanto riguarda la struttura logica della narrazione razzista, Burgio individua i seguenti elementi essenziali: la stereotipizzazione olistica, essenzialistica, riduzionistica e fissistica del gruppo che viene definito “razza”. Qualsiasi discorso razzista si regge sulla creazione di uno “stereotipo” fatto di presunti tratti fisici e psichici propri ed esclusivi di quel gruppo, che risulta in tal modo delineato e circoscritto. Fondamentale è il vincolo psico-somatico (in questo senso “olistico”), stretto e necessario, che il razzismo pone tra gli aspetti esteriori del corpo e le attitudini intellettuali, spirituali e morali della persona, che forzatamente ne conseguono. I tratti che connotano una razza vengono ipostatizzati, in sostanza vengono intesi come “essenze” naturali e non più come caratteristiche storicamente determinate di un gruppo umano, vale a dire caratteri culturali. In quanto tali, le proprietà di una razza diventano eterne ed immutabili, permangono “fisse” ed immodificabili nel tempo, vincolando in modo totale ed assoluto l’individuo alla razza di appartenenza. Si tratta di un tratto deterministico e totalitario del razzismo in forza del quale il singolo uomo è “ridotto” ad identificarsi totalmente con il gruppo, perdendo ogni aspetto o tratto individuale e particolare e finendo per essere considerato identico ad ogni altro.

«Lungi dall’essere entità naturali» – riflette Burgio – «le “razze umane” sono il prodotto (artificiale, simbolico) di tale articolato dispositivo. Per ciò stesso […] deve considerarsi oggetto di razzismo (“razzizzato”) qualsiasi gruppo umano nei confronti del quale venga impiegato questo dispositivo». (p. 54)
In altre parole «è oggettivamente razzista ogni discorso che proietti su un qualunque gruppo umano stereotipi olistici, essenzialistici, riduzionistici e fissistici». (p. 53) Pertanto, a nostro parere opportunamente, Burgio sottolinea come le forme di discriminazione e violenza che possono e che devono essere riconosciute come declinazioni particolari del dispositivo razzista siano molto più numerose di quelle “classicamente” considerate tali in riferimento al passato storico o al presente, ma in quanto ricollegabili o eredi di quelle passate. Perché il razzismo, si è visto, è un sistema ideologico di giustificazione e razionalizzazione della violenza dinamico e adattabile a contesti e oggetti differenti, ai quali applica lo stesso dispositivo di procedure. E allora nel corso del Settecento, nel momento della ascesa e dell’affermazione della borghesia europea e del sistema di produzione capitalistico, il sistema logico del razzismo si è rivelato arma potente nelle mani della borghesia nel conflitto sociale che ha condotto alla “razzizzazione” della classe operaia. E medesima sorte è toccata alle donne, ai poveri e alle altre categorie di “asociali” e refrattari all’ordine vigente, ai “delinquenti nati” dell’antropologia criminale lombrosiana e così via.

Osserva Burgio che per un lungo periodo «le classi lavoratrici e le donne sono state escluse dalla cittadinanza e integrate nella popolazione in funzione subordinata. E il discorso razzista ha costituito una risorsa ideologica fondamentale nella gestione di questa dinamica. Per secoli e ancora nella prima metà del Novecento servi, lavoratori salariati e donne furono rappresentati come “razze” a sé stanti, afflitte da specifiche tare fisiche e da insormontabili limiti intellettivi, caratterizzate da odori particolari e dall’insopprimibile vocazione a trasgredire i valori morali della classe media. […] Nei confronti delle componenti più povere delle comunità civili europee fu impiegato lo stesso schema sperimentato tra Sette e Ottocento sugli schiavi “negri” delle colonie» (p. 105). La stessa sorte che oggi tocca a chi occupa l’ultimo gradino della scala sociale, ai reietti delle nostre società di inizio XXI secolo, non più gli operai delle fabbriche, ma i migranti che si avvicinano alle porte dell’Occidente e i nuovi schiavi del capitalismo contemporaneo globalizzato.

Non è possibile in questa sede affrontare in maniera esaustiva la presentazione e il commento dell’intero contenuto del lavoro di Burgio, un libro rigoroso e profondo nell’analisi dell’argomento studiato e molto ricco ed articolato, per la capacità di affrontare i numerosissimi aspetti della storia del razzismo, come la complessa questione dell’antisemitismo, delle sue relazioni con l’antigiudaismo cristiano, che vengono esposte in modo puntuale ed incisivo, seppur necessariamente riassuntivo, nelle pagine centrali del libro, che si conclude con il sesto capitolo dedicato ad un aspetto dell’argomento di grande interesse e che più volte è stato da noi affrontato: il caso del razzismo italiano e della sua quasi totale rimozione dalla coscienza collettiva del nostro paese.

La riflessione di Burgio prende le mosse da una considerazione di Enzo Collotti, che nel suo libro del 2003 – Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza – avanzava l’ipotesi che gli italiani, nell’immediato secondo dopoguerra, avessero rimosso le leggi razziali del 1938 e l’antisemitismo fascista per l’incapacità di affrontare e di elaborare fino in fondo l’enorme responsabilità di quanto accaduto e che per queste ragioni la voce “disturbante” dei testimoni, dei sopravvissuti, fosse rimasta per lo più inascoltata. L’autore opportunamente rileva che se il ragionamento dello storico e tra i massimi studiosi italiani del nazismo può essere considerato valido e pertinente per gli anni di poco successivi alla tragedia della guerra, lo stesso non si può dire per le generazioni di italiani successive e per i nostri giorni, per i quali si rende necessario comprendere come, perché e con quali conseguenze sia stato elaborato il mito collettivo del “bravo italiano”, che mostra una capacità di resistenza nel tempo e di pervasività tali da essere diventato parte essenziale ed inamovibile della coscienza collettiva italiana.

Per ricostruire la genesi e lo sviluppo del processo che ha condotto all’elaborazione dell’inossidabile immagine dell’italiano per indole e natura buono e quindi mai razzista, Burgio risale al lavoro storiografico di De Felice, che già a partire dagli anni Sessanta del XX secolo poneva le fondamenta dell’interpretazione sostanzialmente assolutoria della politica razziale fascista, che presentava le leggi del ’38 come una dettatura di Berlino, recepita e subita da Roma al fine di consolidare l’alleanza italo-tedesca e che non avrebbero però mai trovato un terreno adatto in cui attecchire, essendo il popolo italiano non ostile verso gli ebrei e in generale immune, a differenza di altri popoli e paesi europei, dalla malattia del razzismo; estraneità tra il carattere italiano e le dottrine della razza che sarebbe stata corroborata dalla tradizione cattolica del paese e dall’operato della Chiesa. Si trattava – è facile comprenderlo – di una rappresentazione “riduzionistica” di una delle pagine peggiori della storia della dittatura italiana, che si prestava ad un utilizzo ideologico, teso a diffondere un’immagine bonaria del fascismo e di Mussolini e che consentiva agli italiani di deresponsabilizzarsi e di concepirsi come “buoni” ed incapaci di quegli orrori che venivano imputati completamente ai “cattivi tedeschi”.

Sulla scorta dei risultati a cui, da molti anni ormai, è giunta la storiografia italiana antidefeliciana, Burgio ricorda come le leggi razziali del 1938 abbiano avuto una genesi ed uno sviluppo autonomi ed indipendenti dalle leggi di Norimberga e che i loro presupposti siano da ricercarsi nella legislazione di discriminazione e segregazione razziale in Africa e nelle brutali politiche di polizia coloniale, attuate in Libia e in AOI sia prima sia dopo la guerra d’Etiopia. Come, ben lungi dall’essere per indole estraneo ad ogni forma di razzismo, il popolo italiano abbia recepito la propaganda e la politica razziali volute dal regime, salutando positivamente l’emanazione delle leggi del ’38 ed avvantaggiandosene a scapito dei connazionali ebrei e come, infine, il tutto sia potuto accadere anche grazie ad una robusta e lunga tradizione di antigiudaismo cattolico, teorizzato, predicato e praticato dalla Chiesa e da molti suoi organi ed influenti esponenti.

A questo si aggiunga che ben prima del fascismo la pianta venefica del razzismo aveva messo radici in Italia, già a fine Ottocento nell’Italia liberale che si lanciò nelle imprese coloniali in Africa orientale e poi a inizio Novecento in Libia e, prima ancora, anche l’”epopea” risorgimentale del processo di unificazione nazionale non può dirsi esente da evidenti tratti di razzismo, un razzismo tutto interno al paese e diretto nei confronti della sua metà meridionale.

Di grande interesse sono le considerazioni di Napoleone Colajanni, a fine Ottocento, e di Antonio Gramsci, trent’anni dopo, che mostrano come fosse ben chiaro nella mente di entrambi il funzionamento di quel dispositivo di razzizzazione di un gruppo umano, da Burgio descritto nelle pagine e nei capitoli del nostro libro. Per celare la natura “coloniale” del Risorgimento italiano nel Meridione e le vere responsabilità dell’arretratezza del Sud e della sua sottomissione al Nord, furono attuati, nei confronti dei meridionali in genere e delle plebi in particolare, i medesimi processi di codificazione di una “razza”, da considerare inferiore e perciò da sottomettere e sfruttare, già ampiamente praticati da tutto l’Occidente in Africa, nei confronti dei neri.

Negli ultimi anni dell’Ottocento il mondo scientifico italiano fu messo a rumore da una raffica di pubblicazioni di argomento antropologico che prospettavano una precisa interpretazione delle cause del forte divario economico che già separava il nord e il sud del paese. […] La tesi sostenuta da questi autori era chiara, non lasciava margini al dubbio. Il Meridione era arretrato perché i meridionali – i “sudici” – sono un’altra “razza”: renitenti al lavoro; indisciplinati e inadatti a cooperare; propensi a forme brutali di violenza e criminalità. E tali sono perché, come le donne e i selvaggi, prodotti di un arresto evolutivo. (p. 243)

Gramsci constatava che le stesse masse lavoratrici del Nord avevano fatto proprio tale punto di vista razzista e anziché comprendere le reali dinamiche dell’arretratezza del Meridione «il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico[…] non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica [A. Gramsci, Quaderni dal carcere]». (pp. 249-250)

Pertanto, conclude Burgio, «La storia del nostro paese tra il XIX e il XX secolo non si discostò in nulla di sostanziale da quella degli altri paesi europei, Germania compresa. Di questa storia il razzismo fu parte integrante e questa circostanza contribuisce a spiegare l’avvento del fascismo col suo carico di ferocia, di brutalità criminale e di atrocità». (p. 250)

Consideriamo questo bel libro di Alberto Burgio un lavoro fondamentale di uno dei più importanti studiosi italiani del razzismo; un volume prezioso, che merita di essere letto con attenzione da chi voglia avere del razzismo una conoscenza approfondita circa i fondamenti, i presupposti e le condizioni storiche determinate che lo hanno generato, che continuano a renderlo possibile e a conservarlo, purtroppo, in ottima salute. Un contributo, quindi, ad un lavoro di studio del razzismo che più che altrove sarebbe urgentemente necessario promuovere e soprattutto divulgare – affinché si estenda oltre l’ambito comunque ristretto degli addetti ai lavori – proprio in Italia; un passaggio indispensabile per uscire dalle pastoie di quell’approccio opportunisticamente riduzionistico che contraddistingue il modo distorto e falso con cui la coscienza collettiva italiana si rapporta col proprio passato prossimo.

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Italiani… cattiva gente o popolo di giusti? https://www.carmillaonline.com/2016/09/02/32918/ Fri, 02 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32918 di Armando Lancellotti

cover carnefici italianiSimon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 2016, pp. 147, € 8,50

«Io ho fatto questo», dice la mia memoria. «Io non posso aver fatto questo» – dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine – è la memoria ad arrendersi. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 68

Alla fine è la memoria ad arrendersi, dinanzi alla protervia dell’orgoglio, ovvero – potremmo aggiungere – ai calcoli del tornaconto, all’ansia e al peso del senso di colpa [...]]]> di Armando Lancellotti

cover carnefici italianiSimon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 2016, pp. 147, € 8,50

«Io ho fatto questo», dice la mia memoria.
«Io non posso aver fatto questo»
– dice il mio orgoglio e resta irremovibile.
Alla fine – è la memoria ad arrendersi.
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 68

Alla fine è la memoria ad arrendersi, dinanzi alla protervia dell’orgoglio, ovvero – potremmo aggiungere – ai calcoli del tornaconto, all’ansia e al peso del senso di colpa o alla volontà di sfuggire alle proprie responsabilità.
La memoria è fatta di materia facilmente modellabile, ha una natura cangiante, dinamica e sfuggente; può allo stesso tempo essere pietra angolare od ostacolo nel processo di costruzione della coscienza di sé, tanto individuale quanto collettiva, tanto personale ed esistenziale quanto sociale e storica.
Ed è della coscienza collettiva e della memoria storica italiane che, come in altre occasioni, [su Carmilla 1 e 2] torniamo a parlare, proponendo la lettura del libro di Simon Levis Sullam, uscito per la prima volta nella collana Storie di Feltrinelli nel 2015 e nell’Universale Economica nel 2016, in cui lo storico dell’Università Ca’ Foscari di Venezia affronta il tema, ancora oggi (e non a caso!) poco noto all’opinione pubblica, della partecipazione italiana al processo di sterminio degli ebrei italiani nel biennio 1943-’45.

Un libro che può dare un prezioso contributo alla correzione dello strabismo e della miopia della memoria collettiva del nostro paese a patto che i dati, le riflessioni e le conclusioni qui contenute oltrepassino i confini del ristretto ambito di lavoro degli storici, i quali – come è avvenuto anche per altre pagine decisive e controverse della nostra storia/memoria, come il colonialismo e il razzismo africani, i crimini di guerra e le stragi tanto in Africa quanto sui fronti del secondo conflitto mondiale ed in particolare in Jugoslavia e in Grecia – hanno ormai condotto molto avanti la ricerca e gli studi sulla Shoah italiana e di conseguenza anche quelli sull’antisemitismo fascista e sulle responsabilità e complicità dell’Italia fascista, prima e dopo l’8 settembre 1943, nell’azione genocida intrapresa e condotta a fianco dell’alleato nazista.

Ma – ed è questo il punto decisivo – il moltiplicarsi delle ricerche e l’articolarsi sempre più complesso e completo degli studi ancora non sono riusciti a scalfire la corazza di quella falsa coscienza, così radicata e diffusa da essere un vero e proprio abito nazionale, che rappresenta gli italiani come brava gente, incapaci di commettere atrocità o crimini efferati, in quanto per indole, storia e tradizione portati alla mitezza d’animo e all’umanità del comportamento. Una autorappresentazione collettiva, tanto fuorviante quanto autoassolutoria, che immediatamente si riproduce, censurando, rimuovendo, edulcorando e minimizzando, ogniqualvolta venga avanzata la richiesta, resa ormai ineludibile dalla ricerca storica, di riconoscimento delle responsabilità della società e del popolo italiani proprio in quella azione genocida che più di ogni altra ha segnato il secolo da poco trascorso.

E allora di “carnefici italiani” si può, si deve parlare; sebbene – precisa Levis Sullam – «l’atto finale dello sterminio generalmente non avvenne su suolo e per mano italiana – anche gli italiani presero l’iniziativa, al centro e alla periferia del rinato Stato fascista, partecipando al progetto e al processo di annientamento degli ebrei, con decisioni, accordi, atti, che li resero attori e complici dell’Olocausto, seppur con diversi gradi e modalità di coinvolgimento, secondo i differenti ruoli, contributi pratici e forme di partecipazione» (p.11).

Infatti, come hanno recentemente sostenuto nel loro bel libro, Orgoglio e genocidio, Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa, [su Carmilla] la nota e fortunata tipizzazione proposta da Raul Hilberg nel saggio del 1992, Perpetrators Victims Bystanders: The Jewish Catastrophe, 1933-1945 (Carnefici, vittime e spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, ed. italiana 1994), necessita di una fondamentale integrazione o più specifica articolazione che comprenda anche la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (Bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati” (Perpetrators).
Essa comprende quella grande quantità di individui che, pur non commettendo personalmente e direttamente l’atto omicida, collaborarono – più o meno consapevolmente riguardo all’esito finale delle loro azioni, ma di certo volontariamente – al progetto genocida, individuando e schedando le vittime, arrestandole, trasferendole e trasportandole, impossessandosi dei loro averi, imprigionandole e sorvegliandole, denunciandole attraverso ignobili e vigliacchi atti delatori, ecc. E lo fecero per differenti e personali, a seconda di casi e circostanze, motivi e finalità, che andavano dalla convinzione ideologica e dal fanatismo antisemita fino al tornaconto personale in termini di avanzamento di carriera o di arricchimento economico, passando attraverso il conformismo, l’acquiescenza a qualsiasi legge od ordine, la paura, ecc.

Campo di Fossoli - esterno

Campo di Fossoli – esterno

E applicando i modelli di ragionamento hilberghiani al caso italiano, possiamo sostenere, insieme a Levis Sullam, che il coinvolgimento della società e dello stato italiani – in particolare di quello repubblicano di Salò dopo l’8 settembre ’43, ma senza dimenticare quello monarchico dal 1938 in poi – fu globale e complessivo e che diverse istituzioni, vari uffici ed apparati burocratici, numerosi soggetti economici, le forze di polizia e sicurezza nel loro complesso (Carabinieri, Polizia, MVSN e poi GNR e Brigate Nere) e comuni cittadini italiani si accanirono sui loro concittadini ebrei, spianando la strada all’azione di deportazione e sterminio voluta dall’alleato tedesco e in molti casi compiendo in prima persona tutti i concatenati passi dell’azione genocida fino alla spedizione dei prigionieri dal campo di Fossoli, prima e da quello di Bolzano-Gries, poi, verso i campi di sterminio nazisti.

Nel caso italiano e in quello di molti dei paesi occupati dalla Wehrmacht la collaborazione di apparati, istituzioni, forze di polizia, semplici cittadini fu decisiva, come riconobbe – scrive Levis Sullam – un consigliere diplomatico tedesco che, in un appunto per il ministro Ribbentrop, «al principio delle deportazioni del dicembre 1943 […] constatava infatti: “Con le forze che abbiamo a disposizione in Italia non è possibile setacciare tutti i comuni minori, medi e grandi”» (p. 47).
A impartire l’ordine di setacciare, rastrellare, arrestare, imprigionare, sorvegliare e inviare verso la morte ci pensarono solerti prefetti e questori italiani – a seconda dei casi, convinti fascisti antisemiti o cinici carrieristi o meschini esecutori della legge – ad attuare gli ordini provvidero uomini e militi delle forze di sicurezza e polizia della Repubblica sociale italiana, i quali – ed è decisivo ricordarlo – avevano a disposizione le liste anagrafiche dei cittadini ebrei censite a seguito delle leggi razziali del 1938 e alle spalle provvedimenti persecutori quali l’arresto e l’invio verso campi di concentramento di ebrei stranieri, prima ed ebrei italiani “pericolosi”, poi, intrapresi a partire dal 1940 e nel corso dei primi anni di guerra; insomma anteriormente al famigerato «primo ordine italiano di arresto generalizzato, emesso dal ministro Buffarini Guidi come ordine di polizia il 30 novembre 1943 […], subito prima o in parallelo con i provvedimenti di confisca dei beni ebraici già sequestrati (4 gennaio 1944), seguiti poi dallo scioglimento delle comunità ebraiche e di sequestro dei loro beni (28 gennaio 1944)» (p.45). E prima anche del Manifesto di Verona del 14 novembre 1943 che al punto 7 definiva così i cittadini ebrei italiani: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.

Insomma, l’antisemitismo fascista, che nella Rsi conobbe il suo apice, già aveva una lunga storia alle spalle e aveva conosciuto una genesi ed uno sviluppo autonomi rispetto a quello nazista, essendosi inizialmente innestato sul tronco del precedente razzismo coloniale africano – che già in Libia, e ancor di più in Etiopia, aveva condotto gli italiani ad introdurre ed applicare leggi razziste e segregazioniste e ad attuare operazioni criminali e stragiste – e dell’antigiudaismo tradizionale di matrice religiosa cattolica.

Lager Bolzano-Gries

Lager Bolzano-Gries

Chiarito quale fosse il quadro complessivo entro il quale si svolsero i fatti che Levis Sullam fa oggetto della sua indagine, occorre precisare che il libro si concentra esclusivamente su quanto accadde nei due anni scarsi di vita della Repubblica sociale italiana e cioè sul momento finale e più tragico della persecuzione degli ebrei italiani ad opera di fascisti ed alleati nazisti. E lo fa in poco più di cento pagine e pertanto in modo sintetico, ma puntuale e comunque esauriente, sviluppando un discorso accuratamente circostanziato e in alcuni casi anche “drammatizzando” con efficacia le situazioni, gli episodi, gli attori – vittime e carnefici – di queste – come recita il sottotitolo del libro – “scene dal genocidio degli ebrei”.
Come, a titolo d’esempio, nelle pagine del Prologo (Una sera del 1943): «La sera di sabato 5 dicembre 1943, alcune ore prima della retata di ebrei che a Venezia avrebbe condotto all’arresto di oltre centosettanta tra uomini, donne e bambini, il giovane pianista Arturo Benedetti Michelangeli teneva un concerto al Teatro La Fenice. L’indomani, poche ore dopo che gli ebrei arrestati fossero stati provvisoriamente consegnati alle carceri locali, la squadra cittadina di calcio disputava un incontro alla stadio di Sant’Elena. Gli arresti erano avvenuti nottetempo, in una città avvolta dall’oscuramento, nel cuore di un inverno piuttosto rigido. Mentre prendeva avvio anche a Venezia il genocidio degli ebrei, le giornate scorrevano come sempre, in un intreccio indissolubile di vita e di morte: forse il prefetto che aveva dato l’ordine di arresto degli ebrei aveva poi assistito al concerto di Benedetti Michelangeli. E qualcuno, tra i poliziotti o tra i volontari fascisti che avevano partecipato agli arresti, poche ore più tardi si era recato allo stadio per assistere alla partita domenicale» (p. 9).

Sul piano dei riferimenti teorico-storiografici il discorso di Levis Sullam esplicitamente richiama le analisi del prevalente funzionalismo di Raul Hilberg, che legge la Shoah come un processo di radicalizzazione cumulativa che si nutrì di molteplici e svariati apporti della società e dello stato tedeschi nel loro insieme (e di quelli alleati e fiancheggiatori, possiamo aggiungere), a cui si sommano le note riflessioni di Zygmunt Bauman riguardo i legami tra il funzionamento della macchina genocida e quello degli apparati burocratico amministrativi degli stati moderni ed infine le altrettanto note e fortunate pagine di Claudio Pavone sulla “guerra civile” italiana, combattuta tra il 1943 e il 1945.

E proprio la “guerra civile”, che comporta definizioni e distinzioni identitarie nette ed assolute tra “amici” e “nemici”, contribuì – pensa Levis Sullam – in maniera decisiva allo sterminio degli ebrei italiani, che per il rinato fascismo di Salò rientravano nella categoria degli “odiati nemici traditori”, insieme ad antifascisti e partigiani, disertori, renitenti alla leva e badogliani. E sempre all’interno della cornice di una guerra fratricida si inscrivono i numerosissimi ed odiosi casi di delazione e denunce, così come i frequenti tradimenti e le imboscate compiuti da guide e “passatori” che consegnavano alla polizia della frontiera italo-svizzera gli ebrei che a loro si erano incautamente affidati, intascando tanto il denaro pattuito con uomini disperati in fuga quanto la taglia fissata per ogni ebreo catturato.

Nelle Conclusioni (Amnistie, rimozioni, oblio), Levis Sullam ricorda che «Nessuno [dei carnefici italiani] fu processato nel dopoguerra per la partecipazione alla politica antiebraica del fascismo: né quella risalente al 1938, né quella della Repubblica sociale italiana […]. Generalmente la persecuzione degli ebrei non venne ritenuta un reato o una colpa specifica, né un’aggravante di altri reati, nel più ampio contesto di una complessiva sottovalutazione delle responsabilità del fascismo italiano del Ventennio e di Salò» (pp. 111-112).
Come ha spiegato – tra gli altri – Claudio Pavone, fu la continuità tra stato monarchico e fascista da un lato e stato postfascista, repubblicano-democratico dall’altro a prevalere sulla discontinuità, come la cosiddetta amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 oppure il comportamento nei processi postbellici della magistratura italiana – a sua volta «rimasta largamente ingiudicata [e] quindi in assoluta continuità con quella fascista» (p. 112) – comprovano.

«Anche volendosi limitare alle politiche razziste del fascismo», fa notare puntualmente Levis Sullam, «risulta evidente come proprio nella magistratura figure direttamente implicate nell’applicazione della legislazione razziale proseguirono nel dopoguerra con onorate carriere […]» (p. 113). Tra i casi considerati dall’autore, ricordiamo come esempio quello di «Gaetano Azzariti che, già presidente del Tribunale della razza dal 1938 al 1943, fu ministro di Grazia e Giustizia di Badoglio, quindi capo dell’ufficio legislativo di Togliatti presso il medesimo ministero, e concluse infine la sua carriera come presidente della Corte Costituzionale negli anni cinquanta» (p. 113).

Pertanto, il mancato riconoscimento delle responsabilità italiane, innanzi tutto sul piano giudiziario, è da considerarsi – ritiene lo storico – il primo passo, a cui se ne aggiunsero poi altri di tipo «politico, militare, diplomatico, memorialistico, storiografico» (p. 114), verso quel «vuoto conoscitivo» (p. 113) riguardo alle responsabilità italiane nello sterminio degli ebrei che ha caratterizzato, dall’immediato dopoguerra e che ancora oggi fatica a tramontare, la memoria e la coscienza collettive del nostro paese.
Un “vuoto di memoria” dentro al quale ha trovato il suo habitat naturale lo stereotipo, di per sé risibile se non fosse così pernicioso e venefico, del bravo italiano, alla cui elaborazione, rispetto a Shoah ed antisemitismo, nell’immediato dopoguerra ha contribuito anche – secondo Levis Sullam – l’atteggiamento della «medesima classe dirigente ebraica italiana. La diminuzione delle responsabilità italiane da parte ebraica rispondeva da un lato ad esigenze di allineamento e riconciliazione degli ebrei con la società italiana che nuovamente li aveva accolti; dall’altro esprimeva la sincera gratitudine da parte di coloro che erano stati salvati dalla deportazione. Vi era, su un altro piano, una cancellazione delle corresponsabilità di molti ebrei nel sostegno al regime fascista fino al 1938, sostanzialmente identiche a quelle della maggioranza degli italiani» (p. 115).

Si diffondeva in tal modo una interpretazione riduzionistica e giustificazionistica del ruolo del fascismo e del popolo italiano nella Shoah che di seguito trovò in ambito storiografico l’equivalente nella lettura proposta da De Felice per la prima volta nel 1963 che sosteneva «la tesi di un rifiuto italiano della politica di sterminio» (p. 116). Se sul piano degli studi i lavori dei – per citarne solo alcuni – Sarfatti, Picciotto Fargion, Collotti e tanti altri hanno da alcuni anni fatto luce sui fatti, i contesti, le responsabilità e i diversi aspetti dello sterminio degli ebrei italiani, dal punto di vista dell’opinione e della consapevolezza pubbliche diffuse le cose sono rimaste pressoché immutate.
Negli anni ottanta– scrive l’autore – paradossalmente in corrispondenza con la crescente attenzione a livello internazionale per lo sterminio degli ebrei d’Europa, in Italia si è ulteriormente radicato lo stereotipo riduzionistico ed innocentista dell’italiano “amico dei concittadini ebrei”.
«Gli anni novanta e i primi anni duemila furono poi il periodo di trasmissioni divulgative, libri giornalistici e serie tv come quelli dedicati al Giusto Giorgio Perlasca», che corroborarono il mito collettivo del non coinvolgimento italiano nella “brutta faccenda” del genocidio, che poteva così essere imputato tutto quanto e solamente ai “cattivi tedeschi”.

E per concludere con le parole di Simon Levis Sullam: «Per molti versi l’Italia è passata dall’”era del testimone”, che ha dato centralità all’esperienza e memoria delle vittime, a quella che potremmo chiamare l’”era del salvatore”, che celebra i soccorritori. Senza passare per alcuna “era del carnefice”, che ne esaminasse a fondo i misfatti, su cui è sceso anzi un colpevole oblio» (p. 119).

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Etica e/del genocidio: i crimini nazisti e la responsabilità morale https://www.carmillaonline.com/2016/08/04/32322/ Thu, 04 Aug 2016 21:30:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32322 di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895). Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia [...]]]> di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).
Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale crimine.
Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato – secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica (nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una (contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio di milioni di uomini.

Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann, constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”, “inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui solitamente considerabili come “persone per bene”.

Fatto questo che aggiunge sconcerto all’orrore dinanzi alla vastità senza precedenti e senza pari della violenza scatenata nel dodicennio nazista, da molti interpretata come una cesura assoluta nel corso degli eventi umani e storici, uno scisma che ha prodotto uno iato, una soluzione di continuità non ricomponibile e che ha azzerato le capacità cognitive ed interpretative della ragione, con il conseguente approdo ad una sorta di “ermeneutica negativa” dinanzi alla indicibile incommensurabilità del male. Posizione questa della indicibilità meta-storica della Shoah che ha trovato uno dei più convinti sostenitori nel recentemente scomparso Elie Wiesel, ma che gli autori di Orgoglio e genocidio rifiutano con decisione, assumendo piuttosto un punto di vista che ci sembra riconducibile a quello adorniano della Dialettica negativa. Come diceva il pensatore francofortese, il fatto che Auschwitz sia potuta accadere in mezzo a tutta la tradizione dell’arte, della filosofia, della scienza europee, dimostrando il fallimento della cultura illuministica, non deve però condurre al disarmo della ragione, la quale conserva, anzi amplifica, la propria funzione critica e pratica, nel momento in cui deve abbandonare la pretesa panlogistica di essere riconosciuta come sostanza della realtà. «È hybris il fatto che ci sia l’identità, che la cosa in sé corrisponda al suo concetto. Ma non si dovrebbe semplicemente buttarne via l’ideale: nel rimprovero che la cosa non è identica al concetto, vive anche la speranza che lo possa diventare» (Th.W.Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1982, p. 134). Alla capacità critica della ragione è demandato quindi il compito di comprendere l’assurdo, di analizzare al fine di giudicare. Se infatti, come vogliono i sostenitori della indicibilità meta-storica del genocidio, quest’ultimo permanesse immobile nella sua tetragona incomprensibilità, allora verrebbe meno anche la possibilità del giudizio – il che equivarrebbe ad una paradossale ed ingiustificabile assoluzione dei colpevoli – essendo analisi e comprensione le condizioni ed i presupposti di ogni atto valutativo, anche di quello morale.

copertina BurgioDal punto di vista della metodologia seguita e degli strumenti applicati gli autori intendono fare interagire i contributi della storiografia, della sociologia storica, della psicologia sociale (ma anche della antropologia, della psichiatria e della psicanalisi), rifiutando gli insufficienti approcci monocausali in ragione della complessità dell’argomento affrontato e la compresenza e la convergenza di molteplici chiavi di lettura contribuiscono a rendere il libro ricco e molto articolato, complesso e completo, cioè capace di fornire un quadro d’insieme dettagliato dei risultati raggiunti, nei differenti ambiti disciplinari, nello studio del nazismo, dei suoi crimini e della Shoah e soprattutto della questione della responsabilità e della colpa tedesche.

Ma Burgio e Costerbosa – ed è questo uno dei tanti temi interessanti ed originali del libro – ritengono che spetti propriamente alla filosofia il compito della ricostruzione dell’intero, della sintesi complessiva e della comprensione alla luce di un punto di vista “universale”, superiore a quello delle singole scienze umane, vincolate alla parzialità di uno sguardo che deve attenersi ai limiti “scientifici” della verifica empirica, seppur secondo le modalità proprie delle scienze dello spirito. Questo non vale per la filosofia, sia per l’universalità della sua prospettiva sia perché alla ragione filosofica spetta il compito dell’indagine sul perché, sul senso complessivo sulla «forma della mente o dell’anima degli attori di questa vicenda [per arrivare] al fondo ultimo dei loro pensieri […] dal quale scaturiscono i giudizi, nel quale si strutturano le scelte, le decisioni e le azioni». (p. 10)
L’interesse della filosofia è per l’intero; il suo fine è euristico e conoscitivo; gli strumenti sono polivalenti e la sua natura è “modestamente” aporetica, non pretendendo la ragione filosofica di formulare ipotesi falsificabili, cioè scientificamente oggettive e pertanto è in grado di avventurarsi in un terreno «che né la storiografia né gli altri saperi accettano di percorrere: lo spazio della soggettività […] intesa come ciò che dà logica e senso alla vita conscia e inconscia della mente». (p.10) Spetta quindi alla filosofia tracciare un coerente quadro d’insieme e, soprattutto, disegnare il contorno della forma mentis genocida.

Tra i tanti individuabili all’interno del libro, tre ci sembrano i punti di riferimento teorici che accompagnano costantemente il dipanarsi del ragionamento e del discorso di Burgio e Costerbosa: Raul Hilberg, Hanna Arendt e Immanuel Kant.
Hilberg perché, nonostante – secondo Burgio – il tratto tendenzialmente deterministico del suo approccio prevalentemente funzionalista (determinismo che, come vedremo, gli autori del libro sottopongono a puntuale critica), il suo modello analitico ed interpretativo, per la prima volta proposto nell’ormai lontano 1961, mantiene la sua validità ed affronta il problema delle responsabilità tedesche attribuendole alla società, alle istituzioni e allo stato tedeschi nel loro insieme, evidenziando anche come ogni componente di essi abbia dato un proprio fondamentale contributo attivo, fattivo, se non addirittura solerte, e quindi non solo meramente passivo, alla realizzazione dello sterminio.

Delle riflessioni di Hanna Arendt sul nazismo e la Shoah i due studiosi utilizzano soprattutto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, considerato da Burgio un lavoro talvolta riduttivamente interpretato, ma ancora insuperato dal punto vista – che è proprio quello che Orgoglio e genocidio ripropone – di un approccio cognitivo di tipo filosofico alla questione del genocidio e della responsabilità morale. Perché è nel campo dell’etica che gli autori collocano la materia del loro discorso ed è all’individuazione delle responsabilità individuali e collettive di coloro che in misura differente parteciparono allo sterminio e alla comprensione delle ragioni e delle dinamiche della loro scelta (im)morale genocida che si indirizzano le finalità del libro.
Autonomia del soggetto morale, consapevolezza della scelta, responsabilità rispetto alle conseguenze e moralità dell’azione: sono questi i “paletti” dentro ai quali dobbiamo collocare l’azione dei carnefici e dei tanti altri che in modi estremamente diversi parteciparono alla politica genocida del Terzo Reich.

Infine, proprio l’attenzione per la questione della “responsabilità” e della “scelta” come istanze imprescindibili per la retta comprensione del genocidio nazista conduce ad un costante riferimento ai principi fondanti dell’etica kantiana (l’autonomia del soggetto morale; la libertà come condizione e sostanza dell’agire; la dignità dell’uomo e il suo rispetto come elementi costitutivi dell’imperativo etico) e alla frequente riproposizione di stilemi di pensiero kantiani.

Il libro si compone di sei capitoli, di cui il primo, il quarto e il sesto scritti da Alberto Burgio, il secondo, il terzo e il quinto da Marina Lalatta Costerbosa.
Nel primo capitolo (Crimini condivisi), il discorso di Burgio prende le mosse dall’intento di sottoporre ad una generale e complessiva critica quelle interpretazioni – soprattutto storiografiche – del nazismo (e dei suoi crimini) che nell’insieme si possono considerare viziate da un comune determinismo. Come è noto, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la storiografia del nazismo si è articolata e divisa nelle due grandi correnti degli intenzionalisti e dei funzionalisti, a loro volta poi internamente articolate in un ventaglio di diverse posizioni a seconda del radicalismo o della moderazione con cui l’idea portante delle rispettive posizioni viene proposta. Impostazioni critiche che, per quanto nel corso degli anni sostituite da altre, costituiscono due contrapposti macro paradigmi interpretativi del regime hitleriano, ma convergenti su un punto fondamentale: una lettura deterministica dei meccanismi e delle modalità di funzionamento del regime, delle sue istituzioni e dell’intera società tedesca e, nella fattispecie che interessa a Burgio, del comportamento dei carnefici e dei loro collaboratori. In queste letture prevale la forza del condizionamento esogeno (di volta in volta il volere del Führer, la catena di comando, il fascino seducente dell’ideologia, la pervasività della propaganda, l’inflessibilità della repressione, gli effetti atomizzanti della società di massa, le dinamiche spersonalizzanti delle pratiche burocratico-amministrative dello Stato moderno, ecc) che si traduce nella equazione totalitarismo = eterodirezione assoluta dell’individuo, attore pressoché inconsapevole di comportamenti prevalentemente indotti, rispetto ai quali, conseguentemente, è da ritenersi scarsamente responsabile.

Fatto salvo l’assunto che a tutti i fattori sopra elencati occorre riconoscere pro quota un ruolo ed un’importanza rilevanti in relazione all’affermazione e al funzionamento di un regime totalitario in generale e di quello nazista nel particolare e che – riteniamo – anche le dinamiche esogene siano da tenere nella giusta considerazione, condividiamo, con Burgio, l’opportunità di indebolire il paradigma eterodirettivo e di riportare al centro dell’attenzione l’analisi delle intenzioni, delle motivazioni, delle scelte libere e consapevoli e quindi responsabili che, comunque e sempre, stanno alla base del comportamento umano, anche di quello più esternamente e strutturalmente condizionato.
A ciò si aggiunga che le letture di tipo deterministico rischiano, ben al di là delle loro intenzioni, di fare propri o di avvallare i teoremi giustificativi o autoassolutori dei carnefici stessi che ricorrono sempre agli argomenti della necessità o inderogabilità degli ordini, della inconsapevolezza circa le conseguenze della loro azione, o della cosiddetta “obbedienza cadaverica”, cioè l’esecuzione di un ordine in quanto ordine (Befehl ist Befehl), argomentazioni nelle quali i principi del determinante condizionamento situazionale e della spersonalizzazione della scelta fanno da denominatore comune.

Burgio si rifà al noto saggio di Hilberg, Carnefici, vittime e spettatori, ma integra la tipizzazione dello storico austro-statunitense inserendo la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati”. Per quanto riguarda questi ultimi, si devono considerare innanzi tutto gli uomini delle SS, dei battaglioni di polizia, delle Einsatzgruppen, i soldati e gli ufficiali della Wehrmacht, ai quali poi si aggiungono tutti gli uomini e le donne di quei ministeri, apparati, istituzioni, uffici dello stato tedesco che attivamente e assiduamente presero parte (ancora una volta il riferimento è allo schema hilberghiano di La distruzione degli Ebrei d’Europa) alla identificazione, all’espropriazione, alla ghettizzazione e infine allo sterminio degli ebrei. Un totale di – calcola Burgio – 200/500 mila tra tedeschi, austriaci e Volksdeutsche (tedeschi etnici), per i quali le argomentazione deresponsabilizzanti prima riportate non reggono dinanzi ad una dettagliata analisi dei casi e alla luce dei documenti e delle testimonianze. Ciò che invece sempre emerge è che costoro «seppero e vollero compiere i propri crimini» (p. 40) nei lager o altrove, infierendo sulle loro vittime.
Si trattò di una libera scelta all’interno di un ventaglio di possibili opzioni di comportamento; gli unici che – ricorda Burgio – non avevano scelta, che si trovarono di fronte a “scelte senza scelta” furono le vittime, non certo i carnefici.

L’inconsistenza degli argomenti dell’inconsapevolezza, dell’impossibilità di fare altrimenti et similia si applica anche al caso della “zona grigia” dei “collaboratori”, che Burgio, facendo propria la tesi di Hilberg della consustanzialità e coincidenza di stato e società tedesche e regime nazista, individua nelle élites militari (grate a Hitler per l’eliminazione delle S.A. e per la politica di riarmo); negli esponenti del mondo accademico e universitario (profondamente coinvolto nell’opera di elaborazione e divulgazione della Weltanschauung nazista e razzista) e in particolare nella categoria dei medici (il cui contributo alla criminale politica eugenetica di salute e difesa della razza germanica fu essenziale); nel personale dell’apparato burocratico del Reich («una massa di normali burocrati ambiziosi ed accondiscendenti» (p.47) nonché solerti e competenti); negli imprenditori privati (che non si lasciarono sfuggire l’occasione di fare affari, che fiutarono come conseguenza della politica antisemita del governo); ed infine nei delatori, cioè «quanti permisero alla Polizia politica del regime di invadere ogni spazio […] e di stendere sull’intera società tedesca una pervasiva rete di controllo» (p.50).

Infine gli “spettatori”, cioè coloro che non parteciparono ai crimini, ma che comunque per lo più «condivisero e sostennero. E parteciparono anche evitando di agire quando avrebbero potuto farlo». (p. 57) In questo caso, per spiegare il comportamento dell’”uomo della strada” si rende necessario affrontare – sostiene Burgio – la questione del consenso politico, problematica particolarmente complessa e di difficile analisi soprattutto quando assume la forma del “consenso totalitario”, ma che nella Germania del dodicennio nazista, di fatto, fu raccolto in modo solido e consistente dal regime. Si trattò di una adesione diversamente motivata ed estremamente differenziata per tipologia e grado, ma che produsse l’effetto di una condivisione di massa, da parte di molti milioni di tedeschi, dei programmi e delle azioni politiche del regime e quindi anche delle sue pratiche criminali e genocide, che il popolo tedesco, forse non nei minimi particolari, ma certamente nella sostanza, conosceva e che quindi – ancora una volta – volle, decise liberamente di appoggiare o almeno di non ostacolare.

Se uno degli alibi preferiti dai criminali nazisti o una delle argomentazioni autoassolutorie più frequenti era quella secondo cui “la legge è la legge” e ad essa si deve obbedire comunque, indipendentemente dal contenuto che ordina, allora risulta di cruciale importanza prendere in considerazione – come fa Marina Lalatta Costerbosa nei capitoli secondo (Il cavallo di Troia della legalità) e terzo (Legalità e consenso. I capi e la società) – le modalità e le conseguenze dei processi di ridefinizione dei concetti e dei principi di legalità e giustizia e di stravolgimento del diritto che si verificarono in Germania successivamente alla ascesa al potere del partito nazionalsocialista. Ridefinizione dei fondamentali principi giuridici che agì da supporto alla politica criminale del regime, legittimandone la catena delle norme e dei comandi e rassicurando i destinatari dei medesimi ordini circa la legittimità dell’operato conseguente, anche di quello criminale. Lo studio di queste problematiche e di queste dinamiche può contribuire – secondo la studiosa – alla comprensione della complessa questione del consenso di massa, di milioni di uomini comuni, ai regimi totalitari.

Centrale nella disamina del problema proposta da Costerbosa è la tesi per cui il nazismo adottò, piegandoli alle proprie necessità, i concetti giuspositivistici di legalità e giustizia, che si definiscono sulla base dell’assunto fondamentale del giuspositivismo stesso, che pone una irriducibile differenza tra il diritto e la morale, in quanto quest’ultima è esterna ed estranea al diritto; diritto che ha natura imperativa, coincidendo col comando del potere sovrano a cui si deve obbedienza. Come vuole Kelsen, il diritto è moralmente neutro ed indipendente dal giudizio morale e la giustizia si identifica con la legalità, ovvero l’applicazione di una norma positiva, che non riguarda il contenuto della norma medesima.

Se da un lato non è difficile comprendere come le istanze fondamentali della teoria giuspositivistica del diritto si prestassero ad essere estremizzate e strumentalizzate dal nazismo, dalla sua visione gerarchico-militare della società e dei rapporti sociali, dalla sua idea totalitaria del potere, da quell’essenziale Führerprinzip che considera il Führer fonte di diritto e di giustizia, per diventare infine parte integrante della dottrina nazionalsocialista del diritto; dall’altro è indispensabile riconoscere che il regime fu capace di recuperare, stravolgendoli al punto da capovolgerli, anche principi e idee della dottrina del diritto naturale, per i quali la legalità va messa in relazione alla legittimità, cioè con la giustizia intesa come moralità dei contenuti della norma positiva.
Il nazismo quindi elaborò propri contenuti (a)morali che fecero da fondamento della legittimità delle leggi e delle norme emanate, ma mentre qualsiasi forma di giusnaturalismo si incardina sull’idea essenziale che prioritaria e assoluta sia la difesa dei diritti soggettivi, in quanto per l’appunto naturali, il “giusnaturalismo nazista” considerò “naturali” dei (non)diritti razzisti e disumani che violavano e negavano i diritti soggettivi. «Si pensi che si giunse addirittura a qualificare il Naturrecht (diritto naturale) come völkisch (nazionalistico) oppure nationalethnisch (etnonazionalistico): una palese contraddizione in termini». (p. 111)

Ne conseguì un violento stravolgimento del diritto e della legalità, preparato e permesso anche da quei prodromi negativi che erano presenti nella Costituzione di Weimar: Marina Lalatta Costerbosa si riferisce (p.121) in particolare a quell’articolo n.48 della Costituzione repubblicana che agì da condizione di possibilità della Ermächtigungsgesetz (la Legge dei pieni poteri) del 28 febbraio del 1933, in quanto, consentendo, in condizioni eccezionali, al presidente di sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, permise al Cancelliere da un mese in carica, Adolf Hitler, di cancellare lo stato di diritto e tra le altre cose di istituire i campi di concentramento. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», aveva scritto nel 1922 Carl Schmitt in Politische Teologie.

Quanto arrogante era stato lo sfregio del diritto nel dodicennio nazista tanto profondi dovettero essere il ripensamento e la riformulazione dei principi giuridici fondamentali dopo il 1945. A tal proposito l’autrice si riferisce in particolare all’opera di Gustav Radbruch che nel 1947 ritenne necessario riproporre con forza la teoria secondo cui vi è un diritto oltre e al di sopra della legge positiva, rispetto al quale quest’ultima può risultare un “torto legale”. Al fine di fissare un criterio sostanziale ed universale che fosse in grado di dirimere tra legge legittima e torto legale, Radbruch – ricorda Costerbosa – definisce il concetto di “equità”, che significa «giustizia essenziale, il requisito minimo di moralità che una norma, una legge, un istituto, una sentenza deve esibire per potersi dire tale. […] Funziona al negativo: tutto rientra nella sfera scarna ma costitutiva dell’equità, salvo ciò che manifesta un grado di ingiustizia, appunto di iniquità, non sopportabile, palese, al di là di ogni ragionevole dubbio, con ogni evidenza, secondo ogni intuizione razionale». (pp. 90-91)
Pertanto Radbruch parlò di “ingiustizia legale” e di “giustizia sovralegale”: la prima sistematicamente perpetrata, la seconda regolarmente ignorata dai nazisti.

Sempre Radbruch scriveva, anticipando – fa notare Lalatta Costerbosa – Hanna Arendt di quindici anni: «Fu grazie a due principi che il nazionalsocialismo seppe incatenare a sé i suoi seguaci, da un lato i soldati, dall’altro i giuristi: “Un ordine è un ordine!” e “La legge è la legge”». (p. 97) E proprio il secondo principio, secondo l’imperante pensiero giuspositivistico, valeva incondizionatamente.
Per Radbruch invece tre sono i valori che conferiscono validità alla legge: in ordine di importanza, la giustizia, la certezza del diritto e l’utilità o conformità allo scopo. Per il filosofo del diritto tedesco, pertanto, «giusta è la legge certa che sancisce l’uguaglianza tra le persone entro la comunità umana». (p. 100) Ma anche alla certezza del diritto, come vuole la tradizione del giuspositivismo, vanno riconosciuti valore ed importanza e pertanto, secondo Radbruch, in caso di conflitto tra giustizia e certezza del diritto occorre individuare un criterio-soglia al di sotto del quale è opportuno far prevalere la certezza anche a fronte di inutilità ed ingiustizia della legge, ma al di sopra del quale la certezza non ha più valore e la legge diventa un torto, o meglio si capovolge nel suo opposto, in non-diritto.

Questo criterio-soglia, questo limite fu violato sistematicamente per tutta la durata del Terzo Reich, che si presenta quindi come un esempio nella storia dei sistemi giuridici di “Stato del non-diritto”.
Osserva infine Costerbosa: «Ma se non erano leggi [quelle naziste], non era scontato il dovere di sottomissione e a decadere sarebbero stati anche gli effetti giuridici da esse generati». (p. 98)
Milioni di tedeschi, invece, assolutizzarono dogmaticamente il precetto giuspositivistico della legge per la legge e nascondendosi dietro questo paravento di immorale ed illegale legalità prestarono al regime la loro disponibilità al male e al crimine genocida.

Nel capitolo quarto (Il problema delle motivazioni) è di nuovo Alberto Burgio a portare avanti l’interessante ed approfondita analisi sull’etica del genocidio nella Germania nazista, affrontando la questione decisiva delle intenzioni e dei motivi, delle convinzioni e dei pensieri che mossero la volontà di tanti tedeschi a seguire e a realizzare i programmi omicidi del governo. La storiografia, pur non potendo eludere completamente il problema, fatica a formulare una risposta e pertanto il discorso si estende ad altri approcci, alla sociologia storica, alla psicologia sociale, ma anche alla antropologia, alla psichiatria e alla psicanalisi.

Secondo Burgio, come è importante tenere conto del fatto che il nazismo ha rappresentato una cesura epocale che ha marcato una discontinuità profonda nella storia contemporanea, così lo è altrettanto cogliere i nessi e le relazioni di continuità con il contesto storico di lungo periodo nel quale si colloca, con la tradizione della storia, della cultura e della mentalità tedesche, cioè considerare la «capacità che il regime ebbe non solo di intercettare bisogni della popolazione, ma anche di porsi in comunicazione con il senso comune del tedesco medio». (p. 164) In queste pagine Burgio si serve soprattutto di Norbert Elias che nel suo I tedeschi definisce «l’”habitus nazionale” tedesco, segnato in modo particolare da due corollari del militarismo: il bisogno di ordine (la deferenza verso l’autorità, la gerarchia, la disciplina e l’obbedienza) e il nazionalismo aggressivo (a sua volta risultante dalla combinazione di comunitarismo e imperialismo)». (p. 165)

nazi0009Il principio dell’autorità e di conseguenza quelli della incondizionata sottomissione, della esecuzione scrupolosa degli ordini, del rispetto delle gerarchie costituite (dallo Stato all’esercito, dalla scuola alla famiglia, ecc) erano componenti essenziali e determinanti della mentalità e del costume medi dei tedeschi nati a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La tipologia di relazione interpersonale e sociale paradigmatica divenne quella gerarchica (in sostanza militare) che si estese a tutti i settori della società. Questo fenomeno da un lato produsse la tendenza dei tedeschi ad affidarsi agli ”ordini superiori”, a delegare al più alto per grado o per ruolo l’onere e la responsabilità della decisione; dall’altro – osserva Burgio – produsse «con ogni probabilità anche l’assunzione feticistica del principio di prestazione, in base al quale non conta cosa l’autorità ordini di fare ma il farlo bene, fino in fondo, soddisfacendo le aspettative dei superiori». (p. 166)
Conseguenza del principio di prestazione, come modalità di approccio al proprio lavoro o alla azione in genere che si è chiamati a svolgere, è da ritenersi anche la «peculiare Gründlichkeit tedesca», ossia la “maniacale scrupolosità”, consistente nel “bisogno” di portare fino in fondo l’incarico assunto, di svolgere a tutti i costi il compito assegnato, quasi identificandosi completamente con quell’incarico. Come fece notare Arendt, per un tedesco «essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce». (p. 95)

Evidentemente una mentalità ed un costume di questo genere conducono alla deresponsabilizzazione, alla rinuncia al dovere di giudicare del valore delle cose, del bene e del male delle azioni compiute; produce – dice Burgio – il passaggio dalla “coscienza” alla “coscienziosità”, dalla consapevolezza critica di sé e del proprio agire alla scrupolosa, ma irresponsabile, esecuzione di un compito.
Il militarismo prussiano, ereditato dalla Germania di Bismarck e di seguito guglielmina, esercitò senza alcun dubbio un ruolo determinante nella modellatura di tale forma mentis, prona dinanzi all’autorità, ligia al dovere, solerte e meticolosa nella esecuzione dei compiti, ma è soprattutto al modello educativo che si rivolge l’attenta analisi di Burgio, sulla scorta delle considerazioni di Elias: «un modello educativo mutuato dall’organizzazione militare e teso a consolidare l’autorità costituita e i sistemi gerarchici di comando, inibendo e delegittimando anche sul piano morale l’esercizio individuale dell’autonomia critica e plasmando, tendenzialmente, personalità per le quali le autocostrizioni imposte dalla coscienza funzionano soltanto se assoggettate a loro volta all’”eterocostrizione” di un potere superiore». (p. 167)

Al bisogno di ordine, al feticismo della disciplina e dell’autorità si collegò poi l’altra istanza portante dell’habitus nazionale tedesco, cioè il nazionalismo aggressivo, che soprattutto in età guglielmina divenne il principio guida della politica estera tedesca (Weltpolitik). Burgio considera le ben note differenze concettuali sottese alle due parole che nella lingua tedesca si usano per esprimere il concetto di patria: Vaterland e Heimat.
Vaterland letteralmente significa “padre-patria”, “terra-padre”, è la patria intesa come nazione che assume i tratti autoritari, duri ed impositivi del padre prepotente che pretende di essere obbedito senza remore; Heimat invece e la “piccola patria”, cioè il luogo di nascita, la “terra-madre”, accogliente e rassicurante in quanto custode dell’identità e dell’animo del Volk.
In realtà, al di là delle differenze, i due concetti sono complementari e si cementarono tra loro, creando un’ideologia organicistica e comunitaria (Gemeinschaft) e popolare (Volk), su cui si innestò poi il mito della omogeneità e della purezza della comunità, che presto divenne mito della purezza del “sangue” e del suo vitale legame con il “suolo” e infine mito della razza, della purezza e superiorità della Volksgemeinschaft ariana.

Il bisogno comunitario di sentirsi parte di un corpo organico, di una comunità coesa tenuta assieme dal feticismo della disciplina, dal principio di prestazione e dell’obbedienza cieca produsse – osserva Burgio – «una paradossale etica della responsabilità che tendeva a risolversi nella sua antitesi: in un’etica della “minorità” (del servilismo e della complicità) che nobilitava la rinuncia all’autonomia e induceva alla delega della responsabilità personale a beneficio dei poteri sovraordinati». (pp. 174-175) Non a caso Burgio usa il temine “minorità” per qualificare questa “paradossale” etica, che sorda all’illuministico e liberatorio appello kantiano di abbandonare lo “stato di minorità”, di esso faceva il proprio habitus.
Il logico corollario di una simile ideologia comunitaria fu un’aggressiva mentalità manichea, portata all’esclusione e alla contrapposizione del gruppo di “noi” al gruppo di “loro”, di chi è fuori dalla comunità o, peggio ancora, è ritenuto un pericolo, una minaccia.

Hitler e il nazismo non si limitarono ad ereditare i caratteri dell’habitus nazionale germanico, ma li portarono alla loro suprema espressione e fornirono un codice di (non)valori tagliato e cucito su misura della forma mentis qui descritta: una autentica etica del disumano che la maggioranza del popolo tedesco non faticò particolarmente ad introiettare. In un contesto oltremodo inquieto e problematico, come quello della sconfitta nella Grande Guerra e dei trattati di Versailles, delle crisi economiche ed in particolare di quella del ’29; in un clima di delusione, disorientamento, di esacerbato rancore e di perdita di fiducia nelle istituzioni della repubblica e nei suoi partiti, il nazismo seppe incanalare le angosce dei tedeschi e Hitler compì un lavoro di emersione, estraniazione e ipostatizzazione dei “demoni” che latenti erano cresciuti ed avevano prosperato nell’animo del popolo. I traumi e le paure furono proiettati fuori dalla coscienza collettiva e oggettivati in una serie di nemici concreti contro i quali combattere per la salvaguardia della comunità. Dinanzi al disordine e al caos politico degli ultimi anni di Weimar, «il desiderio di sicurezza e di ordine divenne impellente, e così la domanda di unità, di appartenenza, di protezione e di rassicurazione. Alle paure […] molti tedeschi reagirono invocando lo spirito della comunità germanica. […] Chiedevano nuove certezze, nuovi miti redentivi. […] sulla scelta di consegnare la Germania ai nazisti influì […] una spasmodica attesa di redenzione e di fusione in una collettività mistica». (pp. 180-181)

E il nazismo ed il suo leader carismatico tutto questo furono in grado di fornirlo al popolo tedesco, ma ad un prezzo altissimo, quello della rinuncia alla coscienza e alla volontà individuali in funzione della fusione con una comunità di uomini “minori”, irresponsabili, che hanno rinunciato alla propria autonomia di individui liberi e consapevoli; uomini che furono pronti ad adottare la “tavola dei valori” di una nuova etica che – Burgio sottolinea con forza come questo sia uno degli aspetti distintivi e più significativi del nazismo – il regime pretese di elaborare attraverso la negazione e il capovolgimento dei precetti etici tradizionali ed in particolare cristiani. Nuovi valori nazisti in cui credere, anche solo parzialmente, o in cui fingere di riporre fiducia al fine di innescare un meccanismo di rassicurante autoinganno assolutorio utile per la gestione di un conflitto morale che non poteva non insorgere, anche nei carnefici più violenti, davanti all’orrore da loro stessi prodotto.

Di grande interesse sono le pagine in cui Burgio redige la tavola di questi valori etici nazisti, partendo dall’assunto per cui, come ogni dottrina etica, anche quella nazista associa il bene alla vita, ma il valore della vita non viene più declinato in termini universalistici, ma in termini particolaristici ed esclusivi, compartimentati. A contare è solo la vita del Volk, la sua salute e quella dei Volksgenossen, non quella degli altri, che, al contrario, diviene ostacolo, pericolo da combattere. Pertanto, con un paradossale rovesciamento dei termini, per garantire la vita di alcuni uomini è buono e moralmente legittimo ucciderne altri (altre razze o le vite “non degne” perché malate, ecc). È una «etica etnocentrica e razzista […] intessuta di “valori” correlati alla superiorità dello Herrenvolk». (p. 200) «Giungiamo così rapidamente al cuore dell’etica nazista, dove la distruzione dell’umanità come universale si connette alla eroicizzazione dei “carnefici” e questa alla produzione di un lessico dell’orgoglio genocida» (p. 204), a cui fa da contraltare – ancora una volta per ribaltamento dei criteri morali tradizionali – la colpevolizzazione delle vittime. Ne consegue che la somma virtù divenne la “durezza” – cioè la spietatezza, il disprezzo per la compassione e per ogni altra forma di sentimento umanitario – a cui associare la più ferrea abnegazione nel portare avanti l’opera di realizzazione di una volontà altrui: quella del Führer.
Ancora una volta – come ci insegna Burgio – decisiva fu la scelta, dei carnefici, dei collaboratori e di buona parte dei tedeschi, di non decidere, di “farsi decidere da altri”; ma si trattò pur sempre di una decisone, che richiede l’assunzione di responsabilità.

E sulla natura e sulle diverse tipologie della responsabilità ragiona il quinto capitolo (La molteplice responsabilità) scritto da Marina Lalatta Costerbosa, che, dopo aver ricostruito il panorama completo delle forme di responsabilità, si concentra su quella più pertinente alla problematica affrontata dal saggio: la “responsabilità morale e personale”, imputabile ai perpetratori diretti del genocidio nazista e ai loro collaboratori, innanzi tutto e al popolo tedesco nel suo complesso, di conseguenza. Si tratta – scrive l’autrice – «della responsabilità riferita ad un soggetto umano capace di intendere e di volere, quella responsabilità che ha a che fare con l’agire dell’uomo. E questo non sotto il profilo giuridico (civile e penale) […] bensì dal punto di vista morale e nelle sue diverse gradazioni, ovvero, a seconda dei differenti livelli di coinvolgimento e di intenzionalità nell’azione e nelle condotte d’azione sotto esame». (p. 230)
Fanno da sfondo generale alle considerazioni di Costerbosa le riflessioni di Hans Jonas e del suo Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica in cui il filosofo tedesco chiarisce come la responsabilità, pur non costituendo di per sé ancora la morale e non ponendo da sé degli scopi all’azione, sia la condizione preliminare della morale stessa. La responsabilità, continua Lalatta Costerbosa, significa «capacità di autocontrollo rispetto ad azioni che fuoriuscirebbero dal perimetro di ciò che è ritenuto moralmente lecito» (p. 232), ciò vuol dire «capacità di impedire a se stessi di compiere un’azione determinata, rispettando la norma che la vieta». (p. 239)

Pertanto, la responsabilità, presupposto e condizione dell’azione morale, a sua volta presuppone la deliberazione autonoma, l’autonomia e l’indipendenza del soggetto morale, come bene ha chiarito nella Critica della Ragion pratica Kant, recisamente contrario a letture deterministiche dell’esperienza etica, oggigiorno rilanciate come conseguenza dello sviluppo delle neuroscienze.
Quattro sono secondo Costerbosa le condizioni di possibilità della responsabilità morale: l’assenza di qualsiasi forma di determinismo etico; la consapevolezza, almeno parziale, delle conseguenze dell’azione intrapresa; l’autocontrollo, come sopra definito; la percezione del sentimento di responsabilità.

Ancora il filosofo di Königsberg ed Agostino, letti attraverso Paul Ricoeur, fanno da punti di riferimento essenziali della breve, ma molto interessante, ricostruzione operata dalla studiosa di un problema annoso della riflessione filosofica (e teologica), quello della natura ed origine del male; il problema della teodicea.
La teoria agostiniana della non sostanzialità del male, interpretato come un nihil privativum, come una privatio boni, a cui fa da contraltare l’equazione tra essere e bontà e da corollario l’incommensurabile distanza ontica tra creatore e creatura, causa dell’imperfezione dell’uomo e condizione di possibilità del peccato, cioè del suo libero allontanamento dalla via maestra del bene di dio, trovava una soluzione (che incontrò molta fortuna) tanto sul piano ontologico della spiegazione della natura del male in relazione all’essere e a dio, quanto sul piano morale dell’origine dell’azione malvagia.
Secondo Costerbosa e come osserva Ricoeur, i termini della riflessione filosofica sul male dopo secoli di riproposizione del paradigma agostiniano mutano grazie a Kant, con il quale viene meno l’impostazione onto-teologica della teodicea e il male riguarda solo la sfera pratica e soggettiva dell’azione e della riflessione morale, non più quella oggettiva dell’ontologia; con Kant «non si può più domandare donde viene il male, ma donde viene che noi lo facciamo». (p. 245)
È un processo di laicizzazione (il male radicale prende il posto del peccato originale) e di soggettivizzazione della questione del male quello che avviene con Kant, che pone al centro dell’esperienza morale l’autonomia del soggetto che avverte in sé la propensione al male a fronte della predisposizione al bene come termini estremi della libera scelta individuale.

E ancora a Kant fa riferimento Marina Lalatta Costerbosa per definire il concetto di dignità umana e per ricondurre il discorso al tema delle responsabilità dei crimini nazisti. Il dovere del rispetto della dignità dell’uomo in se stessi e negli altri è imperativo categorico assoluto per Kant e «l’idea kantiana di dignità riesce a spiegare via negationis l’ottundimento della responsabilità» avvenuto in modo generalizzato nella società tedesca del dodicennio nazista: offende e perde la propria dignità di uomo il burocrate che ottusamente esegue il proprio compito senza farsi domande; nega e violenta la dignità dell’altro il carnefice che scarica la sua furia criminale su vittime precedentemente disumanizzate; e la vittima cerca disperatamente di difendere o di trattenere una minima parte di quella dignità umana che le viene strappata dalla violenza altrui.

Laddove e quando l’universale etico del rispetto della dignità umana lascia il posto al disprezzo della vita si producono le condizioni affinché gli uomini possano compiere l’irresponsabile scelta del male estremo. Questo ci fa pensare alle riflessioni che Karl Jaspers nel 1946 propose nel suo La questione della colpa circa le responsabilità del popolo tedesco. Come è noto il filosofo articolava il concetto di colpa secondo quattro tipologie, tutte imputabili ai tedeschi, individualmente e collettivamente – colpa giuridica, politica, morale ed infine metafisica – e l’ultima, la “colpa metafisica”, consiste nella violazione del principio di solidarietà che dovrebbe unire gli uomini tra loro e che rende ogni individuo corresponsabile in parte delle ingiustizie e dei torti subiti dall’umanità, soprattutto quando questi avvengono in sua presenza o quando ne è a conoscenza e pertanto non ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto per impedirli.

Hannah-Arendt009Il riferimento a Jaspers è funzionale al passaggio all’analisi del sesto ed ultimo capitolo di Orgoglio e genocidio (Un’ottusità deliberata), in cui Alberto Burgio fa risalire proprio al confronto tra Hanna Arendt e il maestro Karl Jaspers, interrottosi nel 1933 e ripreso nel 1946, il ripensamento compiuto dalla filosofa di Hannover delle posizioni sul nazismo da lei stessa espresse in Le origini del totalitarismo, nonostante il carteggio tra il maestro e l’allieva di un tempo avvenga cinque anni prima della pubblicazione delle Origini (1951) e non nei dodici che separano questa opera dalla Banalità del male (1963), in cui tale ripensamento produce i suoi principali e più importanti effetti.
Nello scritto del 1951, infatti, il discorso della Arendt muove dall’analisi della società di massa, nella sua versione totalitaria e sfocia in conclusioni rigidamente deterministiche, che, applicando il modello eterodirettivo, pongono l’accento sulla «assoluta subordinazione degli individui assoggettati al potere della dirigenza nazista, ridotti a semplici marionette» sedotte dall’ideologia e mosse dalla pervasiva propaganda capace di creare un mondo fittizio «nel quale milioni di tedeschi sarebbero vissuti per dodici anni come prigionieri ignari» (p. 287) e pertanto anche scarsamente responsabili delle loro azioni; «uomini in senso proprio de-menti, privi di volontà e di coscienza». (p. 289)

Ma Burgio mostra come in uno scritto del 1945, Colpa organizzata e responsabilità universale, e nelle comunicazioni con Jaspers, Arendt avesse già iniziato ad elaborare concetti che, dopo un periodo di latenza di più di quindici anni, sarebbero stati poi alla base del saggio sul processo ad Eichmann. In questo scritto, infatti, troviamo un primo abbozzo del concetto di “normalità” di quegli uomini che si trasformarono in carnefici, grazie alla capacità del regime di sfruttare l’antropologia del “bravo cittadino borghese”, «buon lavoratore e rispettabile “pater familias”, preoccupato del benessere del proprio nucleo famigliare e tendenzialmente indifferente verso la sfera pubblica» (p.295), che in cambio di sicurezza e tutela degli interessi privati prestò al regime la propria disponibilità all’azione criminale, rassicurato dal senso di impunità e dalla irresponsabilità prodotti dall’alibi autoassolutorio della catena di comando, degli ordini superiori ricevuti all’intero dell’apparato burocratico dello stato. E – ribadisce con forza l’autore – si trattò «di uno scambio nel quale il regime aveva concesso vantaggi materiali e ottenuto consenso e complicità. Ma uno scambio del genere […] chiamava in causa la libera scelta dei tedeschi di accettare le proposte del regime […]. Da una parte benessere e sicurezza, con in più la garanzia dell’impunità; dall’altra, la violenza nei confronti dei deboli, dei diversi, degli estranei: una scelta sin troppo ragionevole (propria di accorti homines oeconomici) e persino paradossalmente morale, dettata dal senso di responsabilità verso la famiglia». (p.296)

EichmannNe La banalità del male Arendt sviluppa questa linea di pensiero e la applica allo studio di un caso che intende presentare come paradigmatico, il significato del quale cioè trascende la specificità del caso medesimo e si allarga fino a comprendere e a spiegare il comportamento della maggioranza dei tedeschi: il processo svoltosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann. Per rispondere alla domanda essenziale – che, come abbiamo visto, secondo Burgio solo la filosofia è in grado di affrontare in modo pertinente – “perché Eichmann ha voluto essere un carnefice?”, Arendt enuclea e descrive una nuova e desolante configurazione della mente, quella della “ottusità morale”, della “stupidità”, della Banalität, come già l’aveva definita Jaspers.
Si tratta della questione filosofica dell’enigma della libertà dell’uomo, di un uomo consapevole e libero e al tempo stesso “normale”, cioè non affetto da turbe mentali o mentalmente debole, che prende la decisione autonoma di compiere il male, un male criminale ed estremo. Ne consegue che – dice Burgio – quello che «Arendt elabora è un dispositivo filosofico, teoretico, che non si limita a recepire e riformulare problematiche storiografiche o psicosociali ma le integra con l’analisi dello stile cognitivo e riflessivo del soggetto, e della sua prospettiva morale ed etica […] sulla base del presupposto dell’autonomia e della responsabilità personale». (p. 299)

Il male compiuto da uomini come Eichmann è vuoto, privo di senso e di profondità, superficiale, insensatamente eccessivo e in tal senso “banale”; può distruggere il mondo perché – scrive Hanna Arendt – «si espande sulla sua superficie come un fungo» (p. 303), si propaga come un’epidemia ma non ha la “profondità” del “male radicale” kantiano. E chi è colui che pratica questo male “banale” e nella sua banalità estremo e senza limite? La risposta di Arendt è nota: l’attore di questa esperienza è un soggetto “insulso”, “sconsiderato”, un uomo “privo di pensiero”, thoughtlessness.
Ma il pensiero di cui si denuncia l’assenza non è né quello logico, del calcolo e del ragionamento strumentale – di cui Eichmann diede ampiamente ed indiscutibilmente prova – né quello argomentativo, colto o erudito. A mancare è la capacità di riflessione autonoma, critica e disinteressata sul senso delle cose, sul proprio e l’altrui esserci, sul valore e il senso della vita e del mondo. È la razionalità intesa come capacità di discernimento tra ciò che è giusto ed ingiusto, tra il bene ed il male, tra ciò che è umano e ciò che non lo è; è il pensiero inteso come la capacità di giudicare del valore delle cose e delle azioni.

Se – riflette Burgio – tutti, come voleva il Cartesio del Discorso sul metodo, sono in grado di saper ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, in quanto tutti gli uomini posseggono la quantità necessaria e sufficiente di buon senso per tale scopo, allora ne consegue che chi si astiene dall’esercizio della ragione così intesa, dall’applicazione del buon senso, lo fa per scelta, per volontaria decisione di – potremmo dirlo con Max Horkheimer di Eclisse della ragione – identificarsi totalmente con una “razionalità soggettiva”, meramente calcolistica, utilitaristica ed avalutativa, allontanando da sé la “razionalità oggettiva”, critica e valutativa, che guida l’uomo nell’atto della comprensione e del giudizio.

È in questo modo – secondo Arendt – che l’uomo si predispone all’eterodirezione, all’adesione incondizionata alle regole e ai poteri vigenti, astenendosi dal valutare e dal pensare criticamente ed autonomamente. Ma si tratta comunque e sempre di una libera predisposizione alla sottomissione, di una volontaria decisione di abbandonare la propria volontà per identificarsi con quella altrui, fino al punto che tale condizione di “ottusità della mente”, di “assenza di pensiero”, di “annullamento delle capacità di discernimento e giudizio” diventa un vero e proprio abito mentale, una “seconda natura”, con la quale ci si identifica totalmente.
La “seconda natura” dell’”assenza di pensiero” produce una chiusura narcisistica dell’individuo su se stesso; una fissazione manichea sul proprio gruppo di appartenenza che esclude recisamente gli altri, i diversi; un’incapacità sostanziale di immedesimarsi negli altri e di nutrire compassione.
Si produce un effetto di “compartimentazione” della coscienza morale, che include solo il gruppo di “noi” ed esclude quello degli “altri”; un blocco di quel dialogo interiore che imporrebbe ad ogni individuo il confronto con la propria coscienza; infine lo scivolamento in una condizione di “minorità” morale, cioè di esternalizzazione e perdita della propria coscienza e della propria volontà.

Ora, se il ragionamento paradigmatico ed analogico di Hanna Arendt – come ritiene Burgio – è ancora pienamente valido e pertinente, si deve concludere che nella Germania tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento si sia verificato un vero e proprio “crollo morale”, una “pandemia di ottusità morale”, che, seppur con responsabilità differenti e a livelli di coinvolgimento molto diversi tra loro, ha travolto ed “infettato”, come Eichmann, tanti milioni di cittadini “normali” del Terzo Reich.

Per concludere questa lunga presentazione di un libro ricchissimo ed interessantissimo, pensiamo che – proprio per dare maggiore fondatezza all’idea della valenza paradigmatica della “normalità criminale” di Eichmann e per evitare che la spiegazione del passaggio da “uno” a “molti”, dalla minoranza dei casi esemplari dei grandi criminali alla maggioranza degli “uomini della strada” si trasformi, paradossalmente, in una nuova forma di meccanicismo di tipo analogico (come i pochi… così i molti) – sia opportuno, come d’altra parte anche Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa riteniamo sostengano, fare interagire ed integrare maggiormente i due piani dell’autonomia (cioè della scelta soggettiva, libera e responsabile) e dell’eteronomia (cioè del condizionamento, del contesto, dell’intervento esogeno), della libertà soggettiva e della costrizione oggettiva, dell’individuo e della struttura.

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