Alan D. Altieri – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il fascino antiquario dell’Utopia https://www.carmillaonline.com/2024/05/22/il-fascino-antiquario-dellutopia/ Wed, 22 May 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82492 di Sandro Moiso

German A. Duarte (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, Postafazione di Diego Gabutti, Carlo Pagetti e Giuliano Spagnul, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 480, 30 euro.

Le utopie invecchiano in fretta, spesso anche se ambigue. Ogni età, almeno dalla fine del Medio Evo ad oggi, ha avuto le sue formulazioni ideali di mondi migliori e società possibili: dalla originale Utopia di Thomas More alla Città del sole di Tommaso Campanella fino ai falansteri di Charles Fourier, solo per citarne alcune delle più note. E tutte, inevitabilmente, si sono rivelate insufficienti [...]]]> di Sandro Moiso

German A. Duarte (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, Postafazione di Diego Gabutti, Carlo Pagetti e Giuliano Spagnul, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 480, 30 euro.

Le utopie invecchiano in fretta, spesso anche se ambigue. Ogni età, almeno dalla fine del Medio Evo ad oggi, ha avuto le sue formulazioni ideali di mondi migliori e società possibili: dalla originale Utopia di Thomas More alla Città del sole di Tommaso Campanella fino ai falansteri di Charles Fourier, solo per citarne alcune delle più note. E tutte, inevitabilmente, si sono rivelate insufficienti (nell’analisi), irrealizzabili o superate nel volger di poco tempo, nonostante contenessero talvolta apprezzabili elementi di critica sociale. Così, già nel 1880, Friedrich Engels poteva sottolineare come:

In Francia [prima della Rivoluzione] tutto fu vagliato dalla critica più spietata (religione, concezione della natura, società, governo); tutto doveva giustificare la sua esistenza ante il tribunale della ragione o esser annientato. […] Tutte le forme sociali e statali fino allora esistite, tutte le concezioni tradizionali furono gettate in soffitta come cose irrazionali. […] Ora finalmente sorgeva la luce della Ragione; d’ora in poi la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione sarebbero stati elisi dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’uguaglianza fondata sulla natura, dagli inalienabili diritti umani.
Ora noi sappiamo che tal regno della Ragione fu solo il regno della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna fu realizzata solo come giustizia borghese; che l’uguaglianza andò a finir nell’uguaglianza borghese ante la legge; che la proprietà fu proclamata come il principale diritto umano; e che lo Stato conforme a ragione (il contratto sociale di Rousseau) si realizzò come repubblica democratica borghese (e solo così poteva realizzarsi). Come i loro predecessori, i grandi pensatori del ‘700 non poterono oltrepassare i limiti imposti loro dalla loro epoca.
[…] Nella lotta contro la nobiltà, con diritto la borghesia si proclamò rappresentante delle varie classi lavoratrici di ogni tempo; eppure in ogni grande movimento borghese scoppiavano dei moti autonomi di quella classe che fu l’antecessore più o meno sviluppato del proletariato moderno (la Guerra dei contadini degli anabattisti e Thomas Münzer durante la Riforma tedesca; i Livellatori durante la Gloriosa rivoluzione inglese; Babeuf durante la Prima rivoluzione francese). Tali sommosse rivoluzionarie d’una classe ancora indefinita si espressero pure teoricamente: nel ‘500 e nel ‘600, utopistiche descrizioni di regimi sociali ideali; nel ‘700 teorie già comuniste (Morelly e Mably).
[…] La prima forma della nuova dottrina fu un comunismo ascetico ricalcato su Sparta (spregiatore di tutti i godimenti della vita). Poi seguirono tre grandi utopisti: Saint-Simon; Fourier; Owen. […] Però, al loro tempo la produzione capitalistica (e con essa l’antagonismo fra borghesia & proletariato) era assai poco sviluppata. La grande industria nata in Inghilterra era ancora ignota in Francia. E solo la grande industria sviluppa quei conflitti (nonché fra classi, fra le forze produttive e le forme di scambio) che rendono necessario un mutamento del modo di produzione, l’elisione del suo carattere capitalistico. [Ma] nel 1800 i conflitti scaturiti dal nuovo ordine sociale erano solo sul nascere, così come i mezzi per risolverli.
[…] Tale situazione storica segnò i fondatori del socialismo: a produzione e lotta di classi imperfette corrisposero teorie imperfette. Finché celata nei rapporti economici arretrati, la soluzione della questione sociale doveva uscir dal cervello. La società offriva solo incongruità: eliderle toccava alla ragione pensante. Serviva inventar un nuovo e più perfetto ordine sociale ed imporlo alla società dall’esterno colla propaganda e magari con l’esempio di colonie-modello. Tali nuovi sistemi sociali erano condannati ad esser utopie: più essi erano elaborati nei loro particolari, più dovevano risultar fole.
[…] La concezione degli utopisti segnò a lungo le idee socialiste dell’800, e in parte le domina ancora. […] Il socialismo è per tutti loro l’espressione delle assolute Verità, Ragione, Giustizia. […] Ma la verità, la ragione e la giustizia assolute sono diverse per ogni caposcuola [Da ciò] poteva venir fuori solo un socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna oggi nelle menti della maggior parte degli operai socialisti francesi e inglesi; una miscela che ammette varie sfumature, che risulta dalle invettive critiche meno polemiche, da princìpi di economia e immagini della società futura dei vari fondatori di sette; miscela che si ottiene tanto più facilmente quanto più, durante la discussione, sono smussati gli angoli acuti della precisione dei singoli componenti, come ciottoli levigati nel torrente. Per far del socialismo una scienza, serviva anzitutto porlo su una base reale1.

Il lettore interessato alla fantascienza a questo punto si sarà già chiesto a che dovrebbe servire una così lunga citazione, vecchia ormai di quasi centocinquant’anni, in un contesto in cui, almeno apparentemente, l’attenzione dovrebbe rivolgersi principalmente agli autori e alle correnti critiche di tale genere letterario, eppure, eppure…

E’ proprio l’efficace introduzione di German A. Duarte al volume che raccoglie gran parte dei materiali pubblicati sulla rivista «Un’ambigua utopia» (d’ora in avanti citata come UAU) a dimostrare come anche i migliori tentativi di anticipazione sociale, politica e culturale siano, in qualche modo, tutti destinati a fallire. Proprio per l’imprevedibilità dei processi storici che, pur mantenendo spesso caratteristiche unitarie all’interno di un medesimo modo di produzione, possono riformularsi, espandersi e prendere strade che gli esercizi previsionali precedenti non potevano nemmeno immaginare.

German A. Duarte, nato a Bucaramanga (Colombia) nel 1983, dopo aver frequentato la Scuola di Cinema e Nuove Tecnologie di Lione (ARFIS) si è trasferito in Italia, dove attualmente è ricercatore presso la Libera Università di Bolzano. I suoi interessi di ricerca si muovono tra il cinema, le nuove tecnologie, la fantascienza, la produzione di valore nell’era digitale. Tra le sue pubblicazioni: Fractal Narrative. About the Relationship Between Geometries and Technology and Its Impact on Narrative Spaces (Transcript, 2014), La scomparsa dell’orologio universale (Mimesis, 2009); ha curato Reading Black Mirror. Insights into Technology and the Post-media Condition (Transcript, 2021). Ha inoltre pubblicato su «Carmillaonline»: West World: la valle della disrupzione, diviso in tre parti uscite nel marzo/aprile 2023.

Per DeriveApprodi ha curato questo «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, rendendo più agile la consultazione di una rivista che, inizialmente in formato di fanzine, tra il 1977 e il 1982, in soli nove numeri, diede vita ad una riflessione sul ruolo della fantascienza nel ridefinire oppure soltanto definire un’immagine del futuro anticipatrice dei cambiamenti oppure della continuità dell’esistente e del modo di produzione di cui era espressione.

La rivista era già stata ristampata integralmente in due volumi dalle edizioni Mimesis nel 20092, ma quella attuale (che pure contiene ancora una postfazione di Spagnul in appendice) risulta di più facile consultazione, sia per la scelta di testi operata che per il fatto di non essere in “copia anastatica” come quella precedente, piuttosto difficile da consultare visto il carattere di fanzine ciclostilata dei primi numeri della stessa. Ma al di là degli aspetti puramente formali, è proprio il discorso di “indirizzo” sviluppato dal curatore a rendere interessante questa nuova edizione.

Il volume che avete tra le mani […] sofferma lo sguardo sui modi in cui l’era industriale ha immaginato l’era post-industriale al fine di contribuire a rendere intelligibili alcuni elementi di quello che abbiamo chiamato al di là della prassi. Il testo aspira a fare luce su alcuni aspetti del meccanismo che permette, in maniera collettiva, di immaginare un futuro che non è chiaramente tracciato o inserito in una serie lineare di causa-effetto. In altre parole, il testo vorrebbe esplorare quell’entità astratta che chiamiamo immaginario e i modi in cui, attraverso questo, sia possibile territorializzare un futuro non tracciato, un futuro che sembra sfuggire una sorta di sequenzialità apparente. È da lì che nasce l’interesse per le esperienze degli anni Settanta.
[…] UAU è senza dubbio una testimonianza rilevante della forma in cui i movimenti di sinistra si sono appropriati delle narrazioni popolari di questo genere con l’intenzione di «occupare l’immaginario». Eppure, occupare l’immaginario non era altro che il tentativo di immaginare il futuro; immaginare un futuro non tracciato. Bisogna ricordare che nel secolo delle ideologie l’unico tempo modificabile era il passato; il futuro era semplicemente un virtuale ormai coniugato dal presente. Lo mostrava chiaramente Orwell nel suo fondamentale 1984. Di conseguenza l’occupazione dell’immaginario sostenuta dal movimento coincideva nella pratica con una agrimensura di un nuovo immaginario che si sovrapponeva a quello che aveva prodotto l’età industriale. Inoltre, l’occupazione dell’immaginario richiedeva il completo abbandono delle ideologie novecentesche e della loro visione di progresso (da lì il desiderio di voler «distruggere la fantascienza»). Usando la fantascienza come serbatoio di immagini e di fenomeni non ancora esistenti, UAU finì per mettere in luce i limiti di tutto l’apparato teorico ereditato dal Novecento.
Infatti, il radicale materialismo storico del collettivo lo poneva di continuo di fronte all’impossibilità di capire le relazioni sociali che il nuovo contesto tecnologico iniziava a delineare3.

Sostanzialmente, attraverso i nove numeri della rivista, è possibile analizzare sia la generosità di un periodo di lotte, penetrato in profondità nell’immaginario culturale e nella critica che ne scaturiva, che i limiti di ciò che più volte, nel corso del Novecento e, talvolta, già nell’Ottocento, ha voluto definirsi come avanguardia. Termine cui proprio l’editoriale del primo numero della rivista rinviava più meno indirettamente. In quel tentativo di modificare il futuro (della società, dell’arte o dell’immaginario non importa) distruggendo il presente condiviso e il passato degli stessi fattori. Dai quali, sostanzialmente, modificandone l’ordine, non si sarebbe dovuto ottenere lo stesso risultato. Ideale che ha animato tutti i movimenti d’avanguardia, e i loro manifesti, dal Manifesto del Partito Comunista del 1848 fino al Surrealismo e alle successive neo-avanguardie, ma che ne ha segnato irriducibilmente la caducità.

Nell’Editoriale di quel primo numero, pubblicato nel dicembre del 1977 e a cui avevano collaborato Marco Abate, Giancarlo Bulgarelli, Gerardo Frizzati, Danilo Marzorati, Giugliano Spagnul, Michelangelo Milani e Vittorio Curtoni, si affermava:

Apriamo questo editoriale del primo numero di «Un’ambigua utopia», ponendoci una domanda d’obbligo. Definire cos’è la fantascienza [ma] lo diciamo già da subito, le nostre risposte a questa e ad altre domande, le nostre critiche, analisi, sono di parte. Non cerchiamo la verità assoluta, il Santo Graal. Cerchiamo di fornire una risposta di classe. Una risposta che parte dalle nostre esigenze, dalla nostra scelta di lavorare per l’una o per l’altra classe.
A seconda del proprio pensiero politico allora? Ma cosa c’entra la fantascienza con la politica? […]
Non sono le scommesse sul futuro quelle che ci interessano […] è una scommessa sull’oggi. Scienza, strumento, indagine per riappropriarci della fantasia, della creatività, del godimento. Ecco, ci siamo. Questa è la nostra verità, la verità che ci interessa. La nostra fantasia, la creatività, la spontaneità, il gioco, il piacere il godimento. Tutto questo è stato occultato, seppellito, represso dalla scienza ufficiale, che ha assunto il proprio idolo nel cosiddetto «principio di realtà».
La fantascienza è invece portavoce del «principio del piacere». In pratica i bisogni del capitale, contro i bisogni dell’uomo.
Il capitale deve, per sopravvivere e svilupparsi reprimere i veri bisogni dell’uomo, per sostituirli con i suoi bisogni (creare nuovi prodotti e creare l’esigenza di consumarli), con un modello di vita e di società a lui congeniale (la famiglia, la scuola, la caserma, il lavoro salariato ecc. ecc.).
La fantascienza è un segno di rivolta a tutto questo, è la riscossa del principio del «piacere» sul principio di «realtà».
[…] Noi non siamo dei sostenitori della SF, non siamo dei fans. Non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza. Vogliamo distruggerla.
Nel senso che vogliamo rompere questo involucro questo contenitore che si chiama
fantascienza, e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro
che quello che si trova fuori.
[…] La parola fantascienza sancisce la non veridicità di quello che essa ingloba. La non realtà.
La presenza della parola fantasia, annulla l’ufficialità e pertanto la realtà della scienza. La politica è la vita e perciò la realtà. La fantascienza, essendo la non-realtà, non può quindi essere politica. Quale miglior travestimento per una politica reazionaria.
Se, ad esempio, Heinlein, Anderson, Vance e altri facessero letteratura «normale » o filosofia invece di SF o fantasy, la loro linea politica sarebbe scoperta, palese e il loro pubblico sarebbe solamente quello che già in partenza è d’accordo con loro. Con la copertura della fantascienza, e perciò della neutralità dal politico, essi possono arrivare a un pubblico ben più vasto (anche di sinistra) e propagandare la loro bieca filosofia reazionaria.
[…] E, pertanto, modelli, parametri di interpretazione della realtà, falsi bisogni, vengono introiettati e messi in grado di operare a livello inconscio.
Per i contenuti rivoluzionari o solo progressisti, invece, il discorso è l’opposto. Qualunque proposta di un mondo, di vita alternativa, è fantascientifica.Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può soltanto sognare e non praticare.
[…] Quale in concreto allora il nostro compito?
Noi crediamo che sia il ripercorrere a marcia indietro la strada che intercorre tra una ben precisa ideologia, il pensiero e l’opera di fantascienza, svelando così, da una parte, i contenuti reazionari, e dall’altra contribuendo a realizzare un’analisi scientifica sui problemi di un modo di vita alternativo, per imparare a praticare l’utopia, anziché sognarla 4.

La dichiarazione d’intenti era chiara, ma come ogni manifesto o altra iniziativa tesa a definire un canone o un modello interpretativo, in questo caso di lettura classista del “genere fantascienza”, una volta per tutte, avrebbe finito con lo scontrarsi con la realtà dei fatti. Come sottolinea ancora il curatore nelle pagine finali dell’introduzione.

Il numero nove, apparso nel secondo trimestre del 1982, segnerà la fine di questa esperienza.
[…] Si percepisce in qualche modo che il serbatoio d’immaginario della fantascienza si era ormai esaurito, come il secolo che si stava chiudendo. Come qualche anno dopo avrebbe affermato James Ballard: «Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. Ha creato la letteratura popolare più importante del XX secolo. L’immaginario fantascientifico che vediamo nel cinema, nella televisione, nelle pubblicità e così via, è l’immaginario più potente che il XX abbia creato. Si potrebbe dire che la fantascienza è morta proprio perché ha trionfato. Non è morta perché ha perso, è morta perché ha vinto».
Come ben sintetizza Ballard, il successo della fantascienza non è stato nel prevedere un futuro, ma nel generare il nostro presente, oltretutto un presente che il collettivo di UAU rifiutava. Allo stesso tempo, le parole di Ballard ci mostrano che l’obiettivo originale di UAU, «il voler distruggere la fantascienza» si è risolto in un fallimento5.

E questo non soltanto perché quel concetto di scientificità della previsione, già rivendicato nel testo di Engels citato in apertura, avrebbe finito col far nuovamente precipitare nell’Utopia (quindi in ciò che deve essere forzatamente superato dagli eventi e dai conflitti reali) ciò che avrebbe voluto superarla, e neppure per quanto afferma Diego Gabutti, nella seconda delle tre postfazioni, ovvero che:

A descrivere il futuro non provano neanche più le allegorie utopistiche (ma anche distopiche, è lo stesso) d’un tempo più felice, quello dei movimenti radicali e delle teorie politiche ed escatologiche ottimiste, positive. A parlarci di futuro oggi è il cyberpunk, o il ciclo dei Terminator cinematografici, dove il futuro pesa come un incubo sul presente, oppure dove uomo e macchina si fondono tra loro e a chi entra nei mondi virtuali della rete agognando sollievo dal tempo presente conviene lasciare «ogni speranza», come a Dante giunto alle porte dell’inferno. Oggi l’utopia, lungi dall’essere soltanto ambigua, come sui pianeti gemelli di Ursula Le Guin e nella ragion sociale del collettivo e della rivista che qui ricordiamo, è sprofondata in mare, al pari d’Atlantide e Mu e d’ogni altro continente perduto […] A spiegarci quanto sia oggi inimmaginabile e indescrivibile il futuro sono le versioni cinematografiche delle storie di Philip Dick, delle quali (esagerandone un po’ l’importanza) negli ultimi anni si è celebrato il culto: Blade Runner, A Scanner Darkly, Minority Report, Radio Free Abemuth.
Dal futuro, d’un tratto, si deve distogliere lo sguardo, come a Los Alamos dall’orizzonte, prima che esploda la Bomba devastratrice e che Shiva Distruttore di Mondi cominci a danzare sulle rovine del mondo6.

A superare le previsioni del collettivo di UAU sarebbero stati proprio alcuni scrittori italiani che, al contrario del nichilismo che caratterizzava secondo i suoi rappresentanti scrittori come Lino Aldani o Vittorio Curtoni, proprio a partire dagli anni in cui si chiudeva l’esperienza della rivista avrebbero saputo lanciare lo sguardo sul futuro di guerre che oggi ci ha “finalmente” raggiunto e il passato che ha contribuito a determinarlo: Sergio Altieri (meglio conosciuto come Alan D. Altieri)7 e Valerio Evangelisti8.

Il volume curato da German Duarte si rivela comunque estremamente utile per ripercorrere le tappe di un’esperienza che, per quanto superata, nasconde ancora tra le sue pagine motivi di grande interesse analitico sull’immaginario di un’epoca e allo stesso tempo godibilissime dal punto di vista letterario. Di fatto imperdibile per chiunque si interessi di critica radicale e letteratura d’anticipazione.


  1. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1880), versione di Leonardo Maria Battisti, novembre 2017 (qui)  

  2. A. Caronia, G. Spagnul (a cura di), Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70, Edizione integrale, voll. I e II, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2009.  

  3. G. A. Duarte, Un’Ambigua Utopia. Mappatura di un “al di là della prassi”, in G.A. Duarte, (a cura di), «I reietti dell’altro pianeta». Un’Ambigua Utopia e le società del futuro, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 10-11.  

  4. Editoriale, «Un’ambigua utopia» n.1, dicembre 1977, ora in G. A. Duarte (a cura di), op. cit. pp. 20-22.  

  5. G.A. Duarte, op. cit, p. 15.  

  6. D. Gabutti, Guardando avanti, in G. A. Duarte, op. cit., p. 473.  

  7. In particolare con i due romanzi Città oscura (Dall’Oglio, 1981) e L’occhio sotterraneo (Dall’Oglio, 1983)  

  8. In particolare con i romanzi del ciclo di Eymerich, iniziatosi con straordinario successo nel 1994 con Nicolas Eymerich, inquisitore (Urania 1241, 2/10/1994.)  

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Sulla linea d’ombra dove Storia e storie si fondono e confondono https://www.carmillaonline.com/2023/07/09/sulla-linea-dombra-dove-storia-e-storie-si-fondono-e-confondono/ Sun, 09 Jul 2023 20:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77993 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Segretissimo. Una storia del Novecento da Kim a Le Carré, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 316, euro 22,00

In un recente articolo sul “fallito golpe” russo del giugno di quest’anno, il giornalista Domenico Quirico ha scritto: «Non si sa mai quando la Storia cessa di essere un romanzo». Ed è proprio da una considerazione del genere che occorre partire nell’affrontare l’ultima fatica editoriale di Diego Gabutti, ispirata almeno nel titolo, ma non solo, alla più famosa collana italiana di “spy stories” da edicola.

Edita da Arnoldo [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Segretissimo. Una storia del Novecento da Kim a Le Carré, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 316, euro 22,00

In un recente articolo sul “fallito golpe” russo del giugno di quest’anno, il giornalista Domenico Quirico ha scritto: «Non si sa mai quando la Storia cessa di essere un romanzo».
Ed è proprio da una considerazione del genere che occorre partire nell’affrontare l’ultima fatica editoriale di Diego Gabutti, ispirata almeno nel titolo, ma non solo, alla più famosa collana italiana di “spy stories” da edicola.

Edita da Arnoldo Mondadori editore, «Segretissimo» vide il suo primo numero uscire nell’ottobre del 1960. Il numero 12, nel settembre del 1961, chiuse la prima serie della collana. Dal numero 13, il mese successivo, la collana cambiò veste grafica e scelta di autori. Mentre infatti i primi 12 romanzi erano tutti di Jean Bruce, la seconda serie vide l’arrivo di vari autori del genere. Anche se il primo, non a caso esaminato con attenzione nel quindicesimo capitolo dell’opera di Gabutti, è stato forse uno dei più conosciuti e prolifici autori del genere spionistico.

Al secolo Jean Brochet, classe 1921, membro attivo del «maquis» durante l’occupazione tedesca, per un po’ fu conosciuto (fonte lui stesso) come l’«agente 11173» dell’Oss (per esteso Office of Strategic Service, l’agenzia segreta che sarebbe poi diventata la Cia). Nel dopoguerra, come si legge su Wikipedia, fu «dipendente del municipio, agente d’una rete d’intelligence, ispettore della sicurezza, impresario, attore in una troupe itinerante, gioielliere e segretario d’un maharajah». Nel 1949, la metamorfosi: Jean Brochet si trasforma in Jean Bruce. È infatti con questo nom de plume che l’ex agente OSS 11173 firma il suo primo romanzo, un polar spionistico intitolato Tu parles d’une ingénue, la prima avventura di Hubert Bonisseur de la Bath, agente segreto americano con antenati francesi e domicilio aristocratico a Baton Rouge, Louisiana. In codice OSS 117, Hubert Bonisseur de la Bath non mena le mani né punta la pistola contro gli agenti nemici o seduce fanciulle a raffica per conto della Cia ma è al servizio d’un secondo Oss: l’Organizzazione Speciale per la Sicurezza – «un’associazione pacifista», scrive Giuseppe Lippi nella prefazione a un’antologia di storie di OSS 117, «formata dalle più potenti madri di famiglia del mondo che si preoccupano per l’escalation dei conflitti nei cinque continenti». Ciò all’inizio, per lo meno. Poi passa alla Cia vera e propria (è diretta da «Mister Smith», una specie di Grande Incognito). O forse è la Cia che, per venirgli incontro, passa al pacifismo. Fermare le guerre, impedire che siano anche solo minacciate, è un lavoro da professionisti e da supereroi1.

Al primo romanzo ne seguiranno altri ottantotto, tutti quanti contenenti nel titolo il nome di qualche località geografica che, in tempi in cui i voli low cost per qualsiasi angolo del mondo ancora non esistevano, era in grado di far sognare i lettori. Novello Salgari delle storie di spionaggio a buon mercato, Jean Bruce, indefessamente fa compiere ai suoi lettori voli di fantasia tra complotti, armi spianate e spesso usate, belle ragazze (spesso poco vestite) e località celebrate nei depliant turistici.

OSS 117 a Tokio, a Manila, a Karachi, in Birmania, in Libano, in Iran, a Mosca, al Pireo e sull’Acropoli, nel Kashmir, a Singapore, a Las Vegas, in Patagonia, a Caracas, a Calcutta, a Formosa, a New York e al Bosforo, a Bangkok, a Vienna e in Messico, alle Bahamas, Finlandia, le Bermudas. Quando, per trascuratezza o altro, il nome della località esotica non compare in copertina, allora lo trovate immancabilmente nel risvolto: Roma, il Cairo, Odessa, l’Avana, Londra, Damasco, Buenos Aires, Washington, Calcutta, Nicosia, New Orleans, l’Angola, Cape Canaveral, Dakar, Rio, Montreal, Ibiza, il Perù, la vecchia Jugoslavia, Rangoon.
[…] Non sembra vero, ma c’è anche un’avventura extraplanetaria di Hubert Bonisseur de la Bath (da noi OSS 117 Missione dischi volanti, in originale Arizone zone A, 1959). Brutta gente, gli alieni. Niente smancerie tipo E.T. o Incontri ravvicinati. Gli alieni di Jean Bruce sono pacifisti, che orrore le armi, ma di scuola machiavellica.

Intendiamo installarci su questo pianeta. La natura stessa degli uomini che abitano questo pianeta e la loro intolleranza ci autorizzano a pensare che non accetteranno di buon grado la nostra sistemazione e che, come minoranza, subiremo tutte le angherie e vessazioni riservate sulla Terra alle minoranze… Poiché i nostri principi ci proibiscono l’uso della forza, dobbiamo usare l’astuzia, ossia servirci della nostra intelligenza per spingere gli abitanti di questo pianeta a distruggersi da soli. Il nostro piano, come sapete, è convincere il governo degli Stati Uniti che i russi hanno deciso di attaccare. Se ci riusciamo, gli americani lanceranno i loro missili un quarto d’ora prima dell’ora H e devasteranno la Russia. Attaccati, i russi reagiranno, e gli americani, convinti da noi di non aver nulla da temere, non ricorreranno alle necessarie misure di protezione. Noi non avremo che da contare i colpi e aspettare che sia tutto finito.

OSS 117 riesce a raggiungere la loro base segreta (altro viaggio guidato, stavolta in una riserva navajo dell’Arizona) dove il nostro finisce subito a letto con una bella aliena («drappeggiata in una stupenda vestaglia trasparente che sembrava uscita fresca fresca da Rue de la Paix, la bellissima Allalila» si dice «molto curiosa», sfilandosi la vestaglia, di conoscere meglio «le usanze terrestri»). Nonostante questa manifestazione di simpatia reciproca tra aliens e umani, tutti gli extraterrestri del romanzo – che sono detti gl’Intrusi, e che al pari di OSS 117 apprezzano l’inguacchio extraspecie e pertanto rapiscono allo scopo donne umane – vengono eliminati dal primo all’ultimo senza esitare. «È stato un atto abominevole, lo so benissimo…» dice il capo della Cia (pacifista machiavellico anche lui) senza dare alcun segno del «profondo disgusto» che dovrebbe provare secondo le regole della casa. «Ma è stata legittima difesa, vecchio pirata, ed è stato comunque meglio di Hiroshima e Nagasaki»2.

Frutto di tempi in cui la guerra fredda lasciava lentamente il campo alla coesistenza pacifica, ma in cui i cattivi (di vario colore, anche politico) continuavano a minacciare il genere umano anche dall’outer space, le opere di Jean Bruce-Brochet oggi farebbero sorridere i lettori più smaliziati, ma ciò non toglie che anche se l’autore morì in un incidente stradale dopo l’ottantottesimo romanzo, il 26 marzo 1963, la sua opera (stesso personaggio, stesso taglio turistico-spionistico) fosse continuata, prima dalla

vedova, Josépha Pyrzbil, polacca, che per una ventina d’anni, dal 1966 alla metà degli anni ottanta firma come «Josette Bruce» oltre un centinaio di nuove avventure dell’agente segreto. Che torna così, dopo un breve intervallo, a rimbalzare come una pallina nel flipper da un capo all’altro del mondo, pistola sotto l’ascella, tutte le donne (d’ora in poi soltanto terrestri) ai suoi piedi: Los Angeles, il Congo, Bucarest, Tangeri, Madrid, Amburgo e Francoforte, Malta, Costa d’Avorio, Tirana, Libia, Brasile, Santo Domingo, Portorico, Pechino, Portogallo e Malesia, Mykonos, il Gabon, Bombay, Pretoria, Bahrein, Nepal e Thailandia, Hanoi, Mauritius, l’Isola di Pasqua e l’isola di Wight, il Camerun, l’Alaska, Venezia, Osaka, la Danimarca, il Sahara, San Diego, Varsavia, Dublino, il Siam (c’era ancora il Siam) e Ceylon, Miami, il Senegal, Teheran, Reunion, Giava, il Marocco, l’Armenia, il Venezuela e via così, un’etichetta d’hotel dopo l’altra. Josette Bruce muore nel 1996. OSS 117 sopravvive anche a lei: il testimone delle sue storie passa alla figlia e al nipote, Martine e François Broche, nom de plume «François e Martine Bruce», che a partire dal 1985, e fino al 1992, firmano un’ulteriore trentina di nuove avventure dell’agente Cia di Baton Rouge, Louisiana3.

E’ valsa la pena di dedicare spazio ad un autore “minore” come Jean Bruce proprio perché con il suo primo romanzo aveva battuto tutti sul tempo: Ian Fleming, John Le Carré e tutti gli autori che si sono occupati di spy stories (a diversi livelli di complessità e di credibilità) nella seconda metà del ‘900, secolo delle spie e dei complotti (veri, ma quasi sempre presunti) per antonomasia. Padre di tutti gli agenti seriali da 007 a George Smiley, Jean Bruce con OSS 117 anticipa l’avventura moderna e, nonostante tutto, costituisce ancora una lettura divertente.

Certo il testo di Gabutti parte da ben più lontano con un romanzo come Kim di Rudyard Kipling, che è il primo a trasportare sulle pagine gli avvenimenti, gli intrighi, le guerre legate al Grande Gioco ovvero alla competizione tra Russia e Regno Unito per il controllo dell’Asia Centrale e del sub-continente indiano. Poi verranno altri autori e altri protagonisti, ma nelle vicende narrate poi da Conrad e infiniti altri non verrà mai a mancare l’ombra minacciosa della Russia, prima zarista, poi bolscevica, leniniana o staliniana sul destino del mondo occidentale.

Anche se il 1989, che ha lasciato apparentemente orfani del villain principale gli scrittori di storie e avventure di spionaggio occidentali, non ha fatto altro che aprire le porte di quelle vicende ad altri “avversari” più subdoli e folli (principalmente per il motivo di essere difficili da inquadrare in un canone riconosciuto, come ad esempio poteva essere quello del comunismo russo d’antan), di cui, forse, soltanto Alan D. Altieri, compianto autore e curatore della collana “Segretissimo”, ha saputo talvolta anticipare o immaginare le mosse, insieme a quelle delle corporation, ormai senza volto e senza nazionalità, e delle zaibatsu dell’immaginario cyberpunk che hanno iniziato a giocare la loro partita a Risiko sia nel mondo reale che in quello virtuale della rete.

Gli autori di spy stories, che avevano così bene illustrato e interpretato il mondo nei giorni del Grande Gioco, dell’equilibrio nucleare, delle guerre tra superpotenze combattute per procura nel terzo e quarto mondo, non sanno affatto che cosa sta succedendo adesso e qui. Fingono di saperlo, si danno un tono navigato da competenti saccheggiando Wikipedia, ma i risultati sono per lo più imbarazzanti. Sono passati trent’anni dal fallimento in diretta tv del golpe moscovita, quando le truppe corazzate del Kgb tentarono di sbalzare Él’cin dal trono. A New York sono crollate le Torri Gemelle; la jihad islamista ha soffiato il posto alle satrapie nazionalsocialiste arabe e mediorientali; da un pezzo non si parla più d’«imperialismo americano» ma di «Grande Satana»; già colonia inglese, Hong Kong è passata ai «musi gialli» (come direbbe Nayland Smith, l’arcinemico di Fu Manchu) e Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina. Ma loro, gli autori di spy stories, niente, il vuoto. Sono passati trent’anni e ancora non si è letta una sola spy story memorabile.
Spaesate, perplesse, le firme per lo più ignote che appaiono sulla copertina delle ultime spy stories, si guardano intorno cercando paesaggi e figure noti. Invano. Non c’è più niente di riconoscibile. Tutto è un enigma. Per quanto si sforzino, inventando trame sempre più elaborate e smargiasse, non c’è una delle loro storie che dica qualcosa di utile, di sensato o di verificabile sullo stato di cose presente. Vale per i romanzi come per il cinema d’azione, dove i buoni sono improbabili quanto i cattivi, le circostanze ridicole e le sceneggiature, peggio che zoppicare, inciampano su se stesse, come gli ubriachi nelle comiche finali. Chi c’è dietro? Cui prodest? Mafia russa? Al Qaeda? QAnon? Fratellanze ariane? Muslim? Multinazionali? Tycoon della Silicon Valley? Vai a capire che roba è, che storie sono, cosa c’è in ballo. Gli autori di spy stories e i registi di serie tivù non ne sanno niente, zero […]
Ian Fleming aveva raccontato le fantasie voodoo di Mr. Big, la bramosia per l’oro di Auric Goldfinger, il debole per i calamari giganti del Dottor No, la smania di distruggere Londra con un missile (per di più finanziato dalla Corona) di Hugo Drax in Moonraker. Già questi erano bei fenomeni da baraccone. Renderli credibili e allegorici era roba da grandi narratori. Ma come raccontare Donald Trump, per metà palazzinaro, per metà ringhioso intrattenitore televisivo, che prima conquista la Casa Bianca, poi tenta d’espugnare il Campidoglio con i forconi e che infine, mai pago, imbosca scartoffie top secret in cassaforte? Ian Fleming non si sarebbe mai spinto così lontano con la caratterizzazione. Impossibile, avrebbe pensato, rendere credibile e allegorico un villain così iperbolico. […] Da «Donnie» Trump – dal suo parrucchino, dai suoi pretoriani e sciamani e survivalisti che tirano su una forca all’ingresso del Congresso per impiccarci i deputati democratici, dal loro amour fou per le armi d’assalto, dalle loro fantasie ufologiche sull’Area 51 e sulla presenza di microchip per il controllo mentale nei vaccini – non c’è da spremere nulla. Peggio: c’è da spremerci troppo. Difficile, anche per un romanziere à sensation, ricavarne qualcosa di buono, o anche solo di ragionevole.
Qui – tocca ammetterlo – la fine della storia evocata da Francis Fukuyama un po’ vacilla: l’aristocrazia delle metafore spionistiche è definitivamente uscita di scena insieme alla lotta di classe, diventata un fenomeno sociologicamente vintage. Al suo posto, «piccola e brutta» come la teologia secondo Walter Benjamin, una parata di seguaci di qualche piccolo Hitler slavo e di tifosi della cancel culture, di fanatici del gender, d’antiabortisti, di leader carismatici senza un filo di carisma. Tutti costoro occupano lo stesso spazio. Sono abitanti d’una Terra ucronica capitati qui attraverso qualche falla dimensionale da videogame. Di questi Visitors gli autori moderni di spy stories non hanno ancora carpito i segreti. Forse perché non ci sono segreti da carpire, e senz’altro perché, a differenza delle vecchie obbedienze, queste nuove sette apocalittiche non hanno nemmeno l’ombra d’una plausibile dimensione metafisica da cui ricavare un normale repertorio romanzesco di tradimenti, vocazioni e fedeltà. Sta di fatto che gli autori di spy stories stentano a cucire una qualunque trama intorno alle guerre palesi e segrete del nuovo millennio. Stanno lì, come pugili suonati, trasformati da romanzieri e registi – eredi di Kipling, di Eric Ambler, di Alfred Hitchcock, di Le Carré e di Len Deighton, di Fritz Lang e di Don Siegel, di Peter O’Donnell e di Jean Bruce – in gazzettieri e moralisti abbacchiati e perplessi. Oggi il Gioco, riflesso d’un mondo pericoloso e comatoso insieme, non è più una Grande Avventura, come all’origine, ma un Lungo Impasse: il Novecento dietro le spalle, il Deserto dei Tartari davanti a sé4.

Il sipario cala dunque sullo scenario del ‘900, sul liberalismo come sul comunismo. Il grande romanzo della Storia e delle sue storie vacilla, con tutte le categorie che ne giustificavano le scientifiche ancorché rigide certezze narrative. Rileggere nelle pagine di Gabutti le vicende vere o immaginarie che hanno nutrito fantasie, complotti e scrittori di serie A, B e Z, potrebbe però stimolare l’immaginazione a ritrovare un filo che, per quanto mai realmente esistito, potrebbe tornare a srotolarsi nelle fantasie dei lettori e degli scrittori (o presunti tali) di oggi e domani. Buona lettura.

N. B.
Il libro, pubblicato nella collana Dissipatio, non è reperibile presso le librerie, ma può essere acquistato online o presso il sito dello stesso editore.


  1. D. Gabutti, Segretissimo, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 224-225  

  2. D. Gabutti, op. cit., pp. 226-227  

  3. ivi, p. 228  

  4. ivi, pp. 310-313  

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La guerra degli animali https://www.carmillaonline.com/2021/08/16/la-guerra-degli-animali/ Mon, 16 Aug 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67516 di Sandro Moiso

Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori, Milano luglio 2021, pp. 281, 14,00 euro

Solo chi conosce il potere della violenza e sa come disobbedirgli, può amare e praticare la giustizia. (L’Iliade, poema della forza – Simone Weil)

L’ultimo romanzo di Serge Quadruppani pubblicato in Italia da pochi giorni, ma in realtà uscito in Francia nel corso del 2017, conferma l’autore francese come il vero erede di Alan D. Altieri. Il caso ha voluto che il libro sia comparso in lingua originale proprio nell’anno in cui l’autore italiano dava inizio al [...]]]> di Sandro Moiso

Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori, Milano luglio 2021, pp. 281, 14,00 euro

Solo chi conosce il potere della violenza e sa come disobbedirgli, può amare e praticare la giustizia.
(L’Iliade, poema della forza – Simone Weil)

L’ultimo romanzo di Serge Quadruppani pubblicato in Italia da pochi giorni, ma in realtà uscito in Francia nel corso del 2017, conferma l’autore francese come il vero erede di Alan D. Altieri. Il caso ha voluto che il libro sia comparso in lingua originale proprio nell’anno in cui l’autore italiano dava inizio al suo ultimo viaggio verso quelle città oscure descritte nei suoi formidabili libri di azione e riflessione sul divenire di un mondo crepuscolare, in cui a dominare sono soltanto i quattro cavalieri dell’Apocalisse continuamente resuscitati dagli interessi e dalle attività del capitale monopolistico e finanziario.

Quadruppani (classe 1952), autore di diversi romanzi noir (ma non solo) di cui molti editi in Italia, è anche traduttore in francese dei romanzi di Andrea Camilleri, Valerio Evangelisti, Sandrone Dazieri e Massimo Carlotto. La sua anima “nera”, però, frequenta gli stessi topoi che furono di Altieri, mescolando tensione, azione, geostrategia e geopolitica degli imperialismi, minuziosità tecnica nella descrizione delle armi usate, una certa dose di cinismo dei personaggi (indipendentemente dalla “squadra” o al campo cui appartengono) e una dettagliata descrizione delle conseguenze sui corpi umani dell’uso di armi mortali e violenza, mai intimidita dal timore di mostrarle fino in fondo.

A differenziarne, però, stile e scrittura è una certa dose di ironia e i riferimenti metaletterari che Serge Quadruppani inserisce nel corso della narrazione oltre che le allusioni all’attualità, molto più evidenti e precise di quelle contenute nei romanzi di Altieri. Anche se nell’ultimo romanzo, infatti, a dominare sono la jihad islamica e l’azione dei servizi segreti dedita a contrastarla e a deviarne gli obiettivi per finalità più consone agli interessi del capitalismo francese e statunitense, non mancano i riferimenti al movimento No Tav valsusino, all’esperienza della Zad di Notre Dame des Landes, all’inchiesta sul presunto affaire di Tarnac, agli scontri tra casseur provenienti dalle banlieue e studenti delle scuole superiori che caratterizzarono le manifestazioni che si svolsero a Parigi nel 2005, e a molto altro ancora.

Le stesse parole che chiudono il romanzo, che oltre che noir potrebbe anche essere definito distopico, se non fosse che molte delle azioni descritte, sia in Medio Oriente che in Francia, potrebbero benissimo appartenere all’attualità politico-militare degli anni recenti, tirano in ballo la triste vittoria di Emmanuel Macron alle ultime elezioni presidenziali, pur senza nominarlo direttamente. «Tutto ciò è una storia ormai nota. La ricordiamo soltanto per chiedere al lettore uno sforzo di immaginazione. Che per un attimo provi ad immaginare come sarebbe stato più brutto e triste il mondo se le elezioni presidenziali previste per l’aprile-maggio 2017 si fossero svolte davvero!»1

Si può cogliere il sorriso sulle labbra dell’autore mentre immagina, dopo aver descritto il ritorno di un agente speciale da una guerra crudele ed inutile (elemento fondante di tante storie di Altieri costruite intorno a personaggi traditi e disillusi) e gli sfortunati eventi che ne derivano, che in fin dei conti non tutto il male vien per nuocere, a patto, naturalmente, di saper ripagare gli avversari con la stessa moneta e magari anche con gli interessi.

E’ una fiamma sovversiva quella che pervade la narrazione, condotta sempre con grande maestria e senso della suspense, in cui, nonostante tutto, i possibili tessitori di trame e complotti possono finire sconfitti, a volte anche dall’intervento del caso o, come qui spesso capita, da quello degli animali e nemmeno dei più feroci ma piuttosto di quelli più vicini all’uomo come gatti, asini, api e taccole.

Il bel romanzo di Quadruppani, consigliatissimo per una divertente e intelligente lettura estiva, costituisce anche un canto per la Natura che si ribella, soprattutto nei confronti della sua duplicazione tecnologica, ricca di capitale morto e priva di vita. Facendo riflettere il lettore sul fatto che quelli che chiamiamo sprezzantemente “animali” non dovrebbero essere quelli pennuti, pelosi o piccoli e impegnati in attività utili come quella di produrre miele, molto più coscienti e intelligenti di quanto normalmente si pensi, ma le autentiche belve a due zampe che, in divisa da jihadista o in quella di un esercito nazionale oppure, ancora, vestite in borghese nelle stanze asettiche e fredde delle basi segreta americane sparse per il mondo, convertite per fede o per convenienza, non fanno altro che seminare morte, distruzione, odio e dolore tra gli appartenenti alla proprio specie.

L’unica eccezione la fa il lupo, solitario, braccato, invisibile, imprendibile e, all’occorrenza, feroce e determinato, proprio come il principale protagonista della vicenda: Pierre Dhiboun.
Non perdetevi quindi questa occasione di gustare almeno un’immaginaria e giusta vendetta, lasciandovi trasportare dal desiderio e dal sogno che pervadono tutta la narrazione. Buona lettura!


  1. Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori 2012, p. 278  

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Mauro Baldrati: Professional Killer https://www.carmillaonline.com/2013/09/05/mauro-baldrati-professional-killer/ Wed, 04 Sep 2013 22:42:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8853 Pubblichiamo la prefazione al nuovo romanzo di Mauro Baldrati, Professional Killer, Edizioni Anordest, pag. 304, € 13.90, in libreria dal 5 ottobre 2013

di Alan D. Altieri

cover_professional-killer_RNon ha tempo: nel senso che sconfigge le epoche. Non ha identità: nel senso che potrebbe essere chiunque. Non ha sesso: nel senso che il genere di appartenenza non è un fattore. Non ha padrone: nel senso che ha solo e solamente committenti. Per contro ha molti nomi: esecutore, eliminatore, meccanico, sicario, killer. Già: killer, uccisore. Nella fattispecie: professional killer, assassino di professione. Dalle brume del passato più inconoscibile fino ai riflessi dei grattacieli [...]]]> Pubblichiamo la prefazione al nuovo romanzo di Mauro Baldrati, Professional Killer, Edizioni Anordest, pag. 304, € 13.90, in libreria dal 5 ottobre 2013

di Alan D. Altieri

cover_professional-killer_RNon ha tempo: nel senso che sconfigge le epoche. Non ha identità: nel senso che potrebbe essere chiunque. Non ha sesso: nel senso che il genere di appartenenza non è un fattore. Non ha padrone: nel senso che ha solo e solamente committenti.
Per contro ha molti nomi: esecutore, eliminatore, meccanico, sicario, killer. Già: killer, uccisore. Nella fattispecie: professional killer, assassino di professione.
Dalle brume del passato più inconoscibile fino ai riflessi dei grattacieli più temerari, dalle leggende più oscure fino alle cronache più eccessive, il killer di professione rimane un archetipo e un eroe, un’icona e un demone, un sogno e un incubo.
La storia (in)umana gronda, letteralmente, di killers di professione. In realtà, sono proprio loro ad averla fatta, la storia. E a continuare a farla. Achille Pie’ Veloce e Orazio Coclite, Attila e Vercingetorige, Carlo Magno e Federico Barbarossa, Timur Lenk e il Re Sole, Albrecht von Wallenstein e Adolf Hitler e Osama Bin Laden. Tutti killers, super-killers, meta-killers.
Quanto all’immaginario in ogni sua forma – letteratura, teatro, cinema, fumetti, videogame – bene, senza i killers di professione molto della lista di cui sopra verrebbe… fatto fuori. Oops!

A un’analisi a distanza, questo inaspettato, stupefacente nuovo romanzo di Mauro Baldrati – Autore con la A maiuscola dopo il suo eccezionale La Città Nera – potrebbe apparire come l’ennesima storia dell’ennesimo killer. Gli ingredienti di base ci sono tutti: il cavaliere nero senza paura ma con troppe macchie sull’anima (ancora più nera), la sua letale arte splendidamente specialistica ma immancabilmente fragile, il committente perfettamente informato ma sottilmente ambiguo, le donne immancabilmente sensuali ma inevitabilmente pronte al giro di chiglia, i bersagli costantemente ad alto livello ma sostanzialmente di infima risma. Ingredienti che la già citata lista di cui sopra ha rimescolato, centrifugato, dissezionato o, molto più semplicemente, clonato fino all’assuefazione.
Bene, non c’è nulla di cui assuefarsi nel Professional Killer mandato sul campo da Mauro Baldrati. Meta-assassino senza presente ma con un passato tanto ignoto quanto immane, la sfida più grande che “Lo Specialista” si ritrova ad affrontare è anche la più subdola: quella contro se stesso.

In un mondo – il nostro qui & ora, sia chiaro – dominato dalla legge dello sterminio, in un tempo – sempre il nostro, in questo preciso istante – schiantato dal conto alla rovescia dell’annientamento, il protagonista di Mauro Baldrati è costretto a vedersela con qualcosa di talmente inaspettato, talmente inconcepibile da fare vacillare perfino il più metallico dei sistemi nervosi.

Con Professional Killer, formidabile thriller letterario destinato a diventare un classico, Mauro Baldrati sposta l’archetipo del killer di professione a tutt’altro livello di scontro, scaraventandolo dritto nel campo minato della metafisica. Ma non commettiamo errori, siamo sempre qui & ora. Siamo sempre in questo nostro luogo maledetto dove “nulla esiste, ma tutto è permesso.”
Forse, dove esiste perfino la resurrezione.

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