Alain Delon – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La “malinconia senza rimedio” di Valerio Zurlini https://www.carmillaonline.com/2024/05/06/la-malinconia-senza-rimedio-di-valerio-zurlini/ Mon, 06 May 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82459 di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto [...]]]> di Paolo Lago

Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio. Vita e cinema di Valerio Zurlini, prefazione di Marco Bertozzi, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 193, euro 18,00.

“Non ti ho cercata per passare una serata divertente, queste cose non mi interessano affatto. Ma lo sconforto che hai dentro… la tua malinconia senza rimedio, non riesco a sopportarla”: sono le parole che, ne La prima notte di quiete (1972) di Valerio Zurlini, Daniele Dominici (Alain Delon), il professore di lettere maudit arrivato a Rimini per una supplenza al liceo a bordo di una vecchia Citroën nera anni Cinquanta (come se fosse un epigono decaduto degli eroi dei noir francesi), rivolge alla sua allieva Vanina (Sonia Petrova). Una “malinconia senza rimedio” è anche quella che, al pari della ragazza, prova il professore, è quella che promana da ogni singola inquadratura del film, ambientato in una livida Rimini invernale, fatta di gelide albe e tramonti, di giorni di pioggia che rintoccano nella quotidiana tristezza della provincia, di notti passate a bere e a giocare a carte, di mare in tempesta e di vento incessante, di strade alberate piene di foglie cadute. E, grazie al recente saggio di Federica Fioroni, Malinconia senza rimedio, che proprio dalla battuta di Delon trae il titolo, adesso sappiamo che è anche quella di Valerio Zurlini, regista del film. Un grande autore per lungo tempo ingiustamente dimenticato, ‘riabilitato’ e riscoperto, se così si può dire, soltanto molti anni dopo la sua prematura scomparsa avvenuta nel 1982. Grazie al lavoro della studiosa, riusciamo infatti a scoprire molti lati della vita e dell’attività artistica di Zurlini poco noti al grande pubblico, non da ultime le delusioni e le malinconie derivate dall’impossibilità di realizzare diversi progetti, dal vedere sfumare all’improvviso dei film che erano sul punto di essere realizzati e che avrebbero potuto facilmente essere dei capolavori. Quando l’arte si inzacchera nel fango dell’economia, dei tornaconti delle produzioni e dell’universo aziendalistico della macchina-cinema (spietato oggi come negli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta), le stesse realizzazioni artistiche spesso si bloccano perché sono lontane dai compromessi e dai favoritismi. Zurlini è stato un cineasta libero come pochi: come sostiene anche Fioroni, se un progetto, frutto o meno di un compromesso, non gli andava a genio, era impossibile farglielo realizzare.

Eppure, insieme a molti progetti non realizzati a causa di forza maggiore, il regista bolognese ci ha lasciato diversi capolavori. È il caso, ad esempio, della cosiddetta “trilogia della Romagna” o “trilogia adriatica”, composta da tre film girati sulla riviera romagnola – Estate violenta (1959), La ragazza con la valigia (1961) e, appunto, La prima notte di quiete (1972) – alla quale Fioroni dedica largo spazio. L’ambientazione adriatica, secondo la studiosa, “più che un elemento decorativo facilmente identificabile, è un paesaggio dell’anima, una metafora della condizione umana”. Infatti, “Zurlini è il cineasta dei paesaggi come stati d’animo, ossia in tutti i suoi film l’ambientazione è sempre lo specchio della realtà interiore dei personaggi”. Sembra che la riviera adriatica, più che quella tirrenica, trasudi di malinconia: siamo lontani, in effetti, dall’atmosfera scanzonata della Castiglioncello de Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Si tratta di un paesaggio forse più ‘nordico’ e glaciale rispetto all’altro versante, che ha molto da dire anche nei momenti di fine estate o, addirittura, invernali, dalle toccanti descrizioni della spiaggia in settembre, quando il mare comincia a ingrossarsi e a cambiare colore, che incontriamo ne Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani (1958) fino alle malinconiche tonalità con le quali Pier Vittorio Tondelli lo descrive nell’articolo Fuori stagione (1985), appartenente alla raccolta Rimini come Hollywood e dedicato alla riviera in inverno, quando emerge la “vita segreta delle cose e degli oggetti”. Né bisogna dimenticare che lo stesso Zurlini, come leggiamo nel saggio, d’inverno amava ritirarsi in un albergo di Riccione a lavorare e a scrivere in solitario, assaporando di quel mondo i suoi aspetti più malinconici.

In tutti i film della trilogia (l’unico ambientato in estate è, ça va sans dire, Estate violenta) si narrano amori impossibili portati avanti da personaggi maschili che ridisegnano una nuova concezione di eroe: “un uomo trasognato, sensibile, vicino all’universo femminile con cui vuole entrare in contatto profondo, e ineluttabilmente destinato al fallimento”. La malinconia appare perciò come “un rifiuto consapevole del machismo e di una virilità grossolana, che sfocia in una rappresentazione queer cioè non normativa né tantomeno canonica della mascolinità”. Carlo Caremoli (Jean-Louis Trintignant), in Estate violenta, si innamora di Roberta (Eleonora Rossi Drago), ma sarà un amore impossibile a causa dei disastri della guerra e delle convenzioni sociali come impossibili saranno anche quelli che vedono coinvolti Lorenzo (Jacques Perrin) e Aida (Claudia Cardinale) ne La ragazza con la valigia e i già ricordati Daniele e Vanina ne La prima notte di quiete.

Nel libro di Federica Fioroni incontriamo però un’accurata analisi anche degli altri film di Zurlini, vale a dire Le ragazze di San Frediano (1955), Cronaca familiare (1962), entrambi tratti da romanzi di Vasco Pratolini, Le soldatesse (1965), Seduto alla sua destra (1968), Il deserto dei Tartari (1976), dal romanzo di Dino Buzzati. Sono film, tra l’altro, come Cronaca familiare in special modo, intrisi di fitti rimandi all’arte pittorica: di essa, Zurlini era un esperto ed un appassionato e allora, nel lungometraggio tratto da Pratolini, la fotografia si arricchisce di rimandi all’opera di Ottone Rosai come La prima notte di quiete ci offre un “momento di sospensione diegetica” (allo stesso modo di Nostalghia di Tarkovskij) dedicato alle inquadrature della “Madonna del Parto” di Piero della Francesca. Anche ne Il deserto dei Tartari la macchina da presa indugia spesso sui quadri appesi alle pareti instaurando altri momenti di pittura diegetica. Quest’ultima è presente altresì in Estate violenta, nel momento in cui Carlo e Roberta, nella casa del primo, ballano volteggiando vicino a un quadro di Carlo Carrà, Atleti in riposo (1935) e ad “un affresco che rappresenta la famiglia alla maniera di Picasso”.

È necessario ricordare che, oltre che da una bella prefazione di Marco Bertozzi, il libro è corredato da una interessante intervista a Francesco Zurlini, figlio di Valerio, il quale ci rivela – insieme ad altri episodi e aneddoti della vita del padre – che il cappotto cammello indossato da Delon ne La prima notte di quiete era del regista ed è stato successivamente indossato a lungo anche dal figlio Francesco. Come già accennato, il saggio, oltre che un rigoroso percorso di analisi attraverso l’opera del regista bolognese, è anche un prezioso e discreto avvicinamento al travaglio esistenziale dell’autore e, al pari dei film realizzati, vengono passati sotto setaccio anche i diversi ‘sogni infranti’ di Zurlini, cioè i progetti non realizzati. Se ne possono ricordare alcuni: un film su Arthur Rimbaud; un’opera dal titolo La zattera della Medusa, in cui il rimando al celebre dipinto di Géricault doveva tratteggiare metaforicamente l’esistenza di un gruppo di intellettuali americani che aveva ritrovato a Roma una “zattera di salvezza”; un altro film dal titolo Verso Damasco, incentrato su un’inchiesta sulla morte di Cristo realizzata da Saulo di Tarso (poi San Paolo), un progetto che sarà ripreso da Damiano Damiani nel 1986 con L’inchiesta.

Scopriamo perciò come i film di Zurlini rappresentino tante tappe autobiografiche del suo personale tormento, “un oscuro fardello che lo accompagna fin dalla sua nascita, una macchia di nera malinconia che si allarga sempre di più fino a inghiottire lo splendore di una vita destinata al successo, processo di cui lui stesso è lucidamente consapevole”. Ecco perché quella “malinconia senza rimedio” da cui siamo partiti – e da cui il saggio di Fioroni trae il titolo – non è soltanto quella di Vanina, o di Daniele, o degli altri personaggi zurliniani. Essa appare radicata nel profondo del suo cinema, nelle scelte artistiche ed estetiche, e trova il suo corrispettivo più riuscito nel paesaggio di Rimini e della riviera adriatica in inverno. Come Vanina, i personaggi zurliniani (e probabilmente lo stesso autore), immersi nella solitudine degli inverni sul mare, per esprimere la loro malinconia potrebbero usare anacronisticamente le parole de Il mare d’inverno, la canzone di Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone portata al successo da Loredana Bertè nel 1983, un anno dopo la morte di Zurlini: “Mare mare / qui non viene mai nessuno a trascinarmi via / Mare, mare / qui non viene mai nessuno a farci compagnia”.

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Clima e letteratura: è finita l’età dell’innocenza https://www.carmillaonline.com/2023/10/24/clima-e-letteratura-e-finita-leta-dellinnocenza/ Tue, 24 Oct 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79669 di Paolo Lago

La società attuale lacera gli ultimi brandelli di innocenza rimasti a qualsiasi espressione culturale; ormai è stato definitivamente strappato anche il sottile velo che avvolgeva la letteratura. Lo chiarisce in modo esemplare Maurizio Bettini all’inizio del suo saggio Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, quando afferma che oggi non possiamo più leggere i versi del libro I dell’Eneide relativi al naufragio di Enea e compagni nel canale di Sicilia analizzandone stile e figure retoriche, come faceva lui quando era studente universitario. Se allora pareva ovvio e normale sondarli soltanto attraverso la lente della filologia, oggi, che in [...]]]> di Paolo Lago

La società attuale lacera gli ultimi brandelli di innocenza rimasti a qualsiasi espressione culturale; ormai è stato definitivamente strappato anche il sottile velo che avvolgeva la letteratura. Lo chiarisce in modo esemplare Maurizio Bettini all’inizio del suo saggio Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, quando afferma che oggi non possiamo più leggere i versi del libro I dell’Eneide relativi al naufragio di Enea e compagni nel canale di Sicilia analizzandone stile e figure retoriche, come faceva lui quando era studente universitario. Se allora pareva ovvio e normale sondarli soltanto attraverso la lente della filologia, oggi, che in quello stesso luogo trovano la morte innumerevoli nuovi profughi in fuga da guerre e distruzioni, non è più possibile. Come scrive Bettini, “inevitabilmente leggendo le parole di Ilioneo il pensiero corre ai nuovi profughi che, come i Troiani dell’Eneide, cercano di varcare il canale di Sicilia per raggiungere (come allora) l’Italia, fuggendo da morte e distruzione; e come i Troiani sono vittime di un naufragio. Ci sono troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a mezz’acqua perché quei versi si possano ancora leggere solo come poesia. Sono diventati cronaca. Gli orrori del Mediterraneo hanno tolto all’Eneide qualsiasi innocenza letteraria”1.

Penso che le osservazioni di Bettini riguardo alla perdita dell’innocenza della letteratura possano valere – mutatis mutandis – anche per il clima. Qui non si tratta, come nel caso analizzato dallo studioso, di letteratura classica che, inevitabilmente, si trasforma in “cronaca”. Si tratta, comunque, sempre di cambiamento di prospettiva di lettura. Mi spiego: oggi – in un momento in cui il clima, a causa delle emissioni inquinanti, sta mutando nella direzione di un surriscaldamento globale e in cui molte stagioni intermedie, come l’autunno, stanno sparendo – non possiamo più leggere poesie o brani di racconti o romanzi del passato (anche i cosiddetti classici), dedicati al susseguirsi ‘tradizionale’ delle stagioni, con la stessa ottica di trenta o quarant’anni fa. Se, leggendoli, non rileveremmo le differenze fra allora e oggi, saremmo colpevoli. Colpevoli di ignorare i cambiamenti climatici e non provarne dolore. Quelle poesie e quei brani che parlano di un susseguirsi ‘normale’ delle stagioni sono ormai separati da noi da uno spazio temporale incolmabile. Uno spazio in cui i cambiamenti avvenuti, provocati dal cinismo meccanico e autoreferenziale del capitale, hanno fatto perdere ad essi qualsiasi possibilità di essere rivissuti. Per cui, non li possiamo più studiare ed analizzare, anche in ambito scolastico o universitario, senza porre l’accento sul fatto che quei testi ci parlano ormai di un altro tempo, di un’altra era.

Dal momento che stiamo vivendo un ottobre caldissimo, con trenta gradi in molte località italiane durate almeno fino alla metà del mese, vorrei concentrarmi soprattutto su come l’autunno e l’inverno sono stati cantati, con un’innocenza che ormai ci dobbiamo dimenticare, in alcune poesie e romanzi del passato. E ci dobbiamo dimenticare anche delle stagioni delineate in queste poesie e in questi romanzi, o dobbiamo ricordarle come qualcosa che mai più rivedremo. Mi viene subito in mente, però, non un esempio letterario ma uno tratto dal cinema, il quale potrebbe apparire emblematico del mutamento del clima avvenuto anche in tempi relativamente recenti. Il film La prima notte di quiete (1972), di Valerio Zurlini, racconta l’arrivo del professore di Lettere Daniele Dominici, interpretato da Alain Delon, in una Rimini livida e invernale. Come spesso succede, il film, distribuito in vari paesi europei, ha subito, nelle traduzioni, un vero e proprio stravolgimento del titolo. Ad esempio, in Francia venne rititolato Le professeur mentre in Germania Oktober in Rimini (anche se il film venne girato in febbraio). Ebbene, l’immaginario tedesco del 1972 associava al mese di ottobre un paesaggio della riviera adriatica malinconico e gelido, con i personaggi del film perennemente avvolti in sciarpe e cappotti. Si tratta di un abbaglio? Forse i tedeschi hanno pensato a una Rimini ottobrina più vicina al loro clima continentale o forse nel 1972 le condizioni climatiche erano tali che, in alcuni giorni, potevano avvicinarsi a temperature prettamente invernali. Fra le due ipotesi propenderei di più per la seconda, anche tenendo conto del fatto che due anni dopo, nel 1974, dati alla mano, si ebbe un ottobre freddissimo. Di sicuro, sarebbe impensabile un titolo del genere per la prima metà dell’ottobre 2023 (e, diciamocela tutta, anche per questi giorni): altro che cappotti e gelo invernale, a Rimini le spiagge saranno state ancora affollate come ad agosto. Il film di Zurlini ci può portare direttamente anche ad un esempio letterario. Ne Gli occhiali d’oro (1958), Giorgio Bassani racconta il mutamento stagionale dall’estate alle prime avvisaglie d’autunno proprio sulla riviera adriatica: lo scrittore descrive come, ai primi di settembre, il mare comincia a cambiare colore, divenendo più cupo e agitato e annunciando così il mutamento di stagione. L’Oktober in Rimini dell’immaginario tedesco assomigliava molto di più a un ciclo stagionale non ancora stravolto dal riscaldamento globale. E comunque, già nel 1958, ma ancora di più nel 1972, l’Antropocene2 stava già gettando solide basi per il surriscaldamento del clima.

Facciamo adesso un salto indietro nel tempo e andiamo, in pieno Romanticismo, a leggere l’Ode al vento occidentale di Percy Bisshe Shelley che venne scritta in un bosco sulle rive dell’Arno, vicino a Firenze, il 25 ottobre del 1819. Shelley descrive il “Vento selvaggio occidentale” come “alito della vita d’Autunno” mentre le foglie, con accenti romantici, diventano “spettri in fuga da un mago incantatore”. Il vento è anche colui che guida “i semi alati ai loro letti oscuri / dell’inverno”. La poesia riecheggia di tonalità cupe venate però di una speranza, il ritorno della Primavera; il finale, infatti, così suona: “Oh, Vento, / se viene l’Inverno, potrà la Primavera esser lontana?”3. Il poeta, all’arrivo del vento occidentale che porta l’autunno, rimpiange la primavera e il calore dell’estate. Lo stesso rimpianto lo incontriamo nel Canto d’autunno, appartenente ai Fiori del Male (1857) di Charles Baudelaire, il cui incipit è questo: “Ancora un poco e c’immergeremo nelle fredde tenebre, / e, allora, addio viva luce di un’estate troppo breve!”4. Estate troppo breve? Forse nel 1857 ma non davvero ai giorni nostri: almeno personalmente, non vedo l’ora che il caldo anomalo cessi per dare l’avvio a temperature più consone al mese di ottobre, senza magari provocare nubifragi forieri di danni (e bisogna dire che in questo caso, l’operato umano, con le sue cementificazioni indiscriminate, aiuta tantissimo i fenomeni metereologici estremi a provocare danni e tragedie). La stessa malinconia e lo stesso rimpianto per l’estate li incontriamo anche nella Canzone d’autunno di Paul Verlaine, appartenente alla raccolta Poèmes Saturniens del 1866, in cui, di fronte ai “singhiozzi lunghi / dei violini / dell’autunno” il poeta ricorda “gli antichi giorni” e piange5.

Anche Giovanni Pascoli, in Novembre, appartenente alla raccolta Myricae (1891) ricorda l’estate e la primavera con malinconia mettendo in scena l’illusione della breve “estate di San Martino”. La poesia è incentrata sui falsi segnali che farebbero pensare a una nuova primavera: il sole è così splendente e il cielo è così chiaro da far credere che ci possano essere gli albicocchi in fiore da qualche parte (ma è solo un’illusione, non c’è nessuna fioritura fuori stagione come oggi), mentre invece ci sono solo rami spogli e tutto d’intorno campeggia uno scenario invernale. La chiusa è cupa come un tetro suggello: è solo “l’estate, / fredda, dei morti”6. Vincenzo Cardarelli, addirittura, nella sua poesia Autunno, appartenente alla raccolta Giorni in piena del 1934, scrive che “già lo sentimmo venire nel vento d’agosto, / nelle piogge di settembre / torrenziali e piangenti”7. Certo, al giorno d’oggi non possiamo dire la stessa cosa. Come già accennato, se fino a trenta o quarant’anni fa questi testi potevano essere letti senza ulteriori precisazioni dal momento che conservavano intatta la loro innocenza, oggi sarebbe opportuno fermarci un attimo e riflettere che nella contemporaneità il clima non è più quello che hanno vissuto questi poeti. Potremmo anche chiederci se ai giorni nostri i poeti proverebbero la stessa malinconia per l’estate oppure, dal momento che quest’ultima sembra protrarsi all’infinito, non cambierebbero le carte in tavola dicendo: “dolce autunno sospirato, quando arriverai?”. In questo caso, esso non rappresenterebbe più una cupa immagine di morte ma il tanto agognato refrigerio dopo un’estate troppo lunga.

Se poi dall’autunno ci spostiamo all’inverno, potremmo chiederci se, con la drastica riduzione delle nevicate invernali, molte pagine potrebbero ancora essere state scritte. Pensiamo alla celebre, intensa nevicata (che ha comunque anche un significativo valore metaforico) sulla Dublino del primo Novecento nel racconto I morti, appartenente a Gente di Dublino (1914) di James Joyce oppure, in tempi e in spazi più vicini a noi, a La città smarrita nella neve, racconto di Italo Calvino incluso in Marcovaldo (1963) o alla Torino rivisitata fantasticamente da Furio Jesi ne L’ultima notte (1962-1970, edito postumo nel 1987), rappresa in un freddo e nevoso inverno e attaccata dai vampiri. Forse, fra qualche generazione di narratori, anche la neve in città diventerà un elemento narrativo fantastico alla stessa stregua dei vampiri. Eppure, ci sono diversi scrittori che, anche in passato, non si sono davvero adagiati nell’innocenza della letteratura in fatto di clima: lo stesso Calvino ne è un esempio, il quale, insieme a Pasolini e Bianciardi (ma si potrebbero ricordare altri nomi), ha denunciato l’edilizia selvaggia degli anni cinquanta e l’inquinamento spregiudicato sorto in Italia con il boom economico.

Se non possiamo leggere con la stessa innocenza del passato questi autori ‘classici’ (e, al solito, se ne potrebbero aggiungere altri), è anche vero che potremmo leggere, disincantati e dopo aver buttato via gli ultimi rimasugli di innocenza, molti autori contemporanei che pongono in primo piano le stringenti problematiche legate al cambiamento climatico. Non è necessario che questi autori scrivano per forza testi distopici o popolati di “ibridi, mutanti, teriomorfi, simbionti, megafauna, alieni, materie instabili”8 (come, secondo Matteo Meschiari, dovrebbero presentarsi i romanzi dell’Antropocene) ma basta che rappresentino, anche all’interno di scene quotidiane, un autunno non più autunno, caratterizzato da un caldo anomalo (o un’estate e una primavera eccessivamente calde) come, ad esempio, Sesso più, sesso meno (2021) di Mario Fillioley o La meravigliosa lampada di Paolo Lunare (2019) di Cristò, la cui azione si svolge in ottobri e novembri ancora caldi e quasi estivi. L’ipercontemporaneità di un autore la si percepisce anche da come rappresenta il clima delle stagioni nella sua narrazione. Leggiamo gli autori contemporanei allora, ma leggiamo anche i classici cercando di uscire dall’aura incantata dell’età dell’innocenza che essi hanno vissuto in tema di clima. Altrimenti resteremmo intrappolati in vuoti involucri schematici come se ci trovassimo rinchiusi nei quadri del ciclo delle stagioni di Pieter Brueghel il Vecchio. Constatiamo quindi che la letteratura ha ormai perduto l’innocenza anche in fatto di clima non senza un pizzico di nostalgia, però, per quei (bei) tempi in cui l’espressione “autunno caldo” aveva un significato completamente diverso, e non certo legato al clima meteorologico.


  1. M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino, 2019, p. 4. 

  2. Termine che dobbiamo al biologo Eugene Stoermer e al premio Nobel per la chimica Paul Crutzen e che indica un’epoca in cui la presenza umana sta inesorabilmente mutando il pianeta. 

  3. La poesia è tratta da P.B. Shelley, Poesie, a cura di R. Sanesi, Einaudi, Torino, 1983. 

  4. La poesia è tratta da C. Baudelaire, I fiori del male e tutte le poesie, a cura di C. Rendina, Newton Compton, 1991. 

  5. La poesia è tratta da P. Verlaine, Poesie, a cura di L. Frezza, Rizzoli, Milano, 1986. 

  6. La poesia è tratta da G. Pascoli, Myricae, a cura di F. Melotti, Rizzoli, Milano, 1981. 

  7. La poesia è tratta da V. Cardarelli, Opere, Mondadori, Milano, 1990. 

  8. M. Meschiari, Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo, Armillaria, Milano, 2020, p. 27. 

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