agricoltura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 La silenziosa coazione verso il baratro https://www.carmillaonline.com/2023/06/21/la-silenziosa-coazione-verso-il-baratro/ Wed, 21 Jun 2023 04:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77383 di Fabio Ciabatti

Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, pp. 511, € 8,36 (edizione cartacea p. 340, € 24,29) 

Il modo più comune per spiegare la riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche fa riferimento al potere delle classi dominanti di fare leva sulla forza e sull’ideologia. L’importanza di queste dinamiche non sarà certo negata da chi scrive su una rivista che parla di immaginario e che da tempo insiste sulla deriva bellica del nostro presente. Se però vogliamo dare una spiegazione [...]]]> di Fabio Ciabatti

Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, pp. 511, € 8,36 (edizione cartacea p. 340, € 24,29) 

Il modo più comune per spiegare la riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche fa riferimento al potere delle classi dominanti di fare leva sulla forza e sull’ideologia. L’importanza di queste dinamiche non sarà certo negata da chi scrive su una rivista che parla di immaginario e che da tempo insiste sulla deriva bellica del nostro presente. Se però vogliamo dare una spiegazione storicamente determinata di queste due dimensioni del dominio, esse devono essere messe in relazione con i fondamenti materiali del nostro mondo e dunque con un altro tipo di potere che Marx definisce la “silenziosa coazione dei rapporti economici”, vale a dire con il potere economico del capitale. Quest’ultimo, contrariamente a quanto accade con la forza e l’ideologia, si rivolge ai soggetti solo indirettamente, riconfiguarndo in continuazione le condizioni materiali,  le attività e i processi necessari per la loro riproduzione sociale e per assicurare la continuazione dell’esistenza della vita collettiva.
Potrebbe sembrare fuori luogo fermare l’attenzione su questo aspetto in un momento storico caratterizzato dall’esplosione della violenza statale nella sua forma più estrema, la guerra, e dall’assordante volume della fanfara ideologica connessa alle vicende belliche. Ma ci troveremmo a questo punto se il sistema capitalistico non fosse in grado di esercitare un potere astratto, impersonale, semiautomatico che spinge i soggetti, anche al di là delle loro convinzioni, a mantenere immutati i comportamenti quotidiani legati alla loro riproduzione materiale nonostante questi ci stiano portando con ogni evidenza sull’orlo del baratro? 

E’ allora utile segnalare il libro Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, scritto dal filosofo comunista Søren Mau, curatore della rivista Historical materialism. Nel pensiero mainstream, sostiene l’autore, la sfera economica è considerata aliena da ogni forma di dominazione perché equiparata al mercato che, a sua volta, sarebbe caratterizzato dall’uguaglianza, in qualità di possessori di merci, degli attori coinvolti, tutti quanti liberi allo stesso modo di scegliere con chi scambiare le proprie merci o anche di sottrarsi a qualsiasi forma di scambio. Il primo passo per demistificare questa concezione è quello di abbandonare l’idea che la sfera economica sia caratterizzata da una razionalità metastorica e considerarla, insieme a Marx, in tutto e per tutto sociale, vale a dire intrinsecamente storica. A tal fine occorre però rigettare anche ogni forma di determinismo tecnologico, cioè ogni idea di progresso storico determinato dal crescente sviluppo delle forze produttive, tipica del marxismo ortodosso.
Tuttavia, precisa Mau, “i concetti che si riferiscono a forme sociali storicamente specifiche portano sempre con sé certe assunzioni sull’ontologia del sociale”,1 su ciò che non è storicamente specifico. Per questo, secondo Mau, la critica marxiana si basa, contrariamente a quello che pensava Althusser, su una determinata concezione della natura umana sebbene, da un certo punto in poi, il rivoluzionario tedesco abbandoni l’idea di un’essenza umana concepibile nei termini di un umanesimo romantico, come sosteneva lo stesso Althusser. Gli esseri umani incominciano a distinguersi dalle altre specie animali quando iniziano a produrre i loro mezzi di sussistenza grazie alla loro organizzazione corporea che gli consente di utilizzare strumenti extracorporei. Strumenti da cui dipendono in modo essenziale perché senza di essi sarebbero null’altro che corpi disarmati. Lo sviluppo intellettuale della nostra specie fa parte dello stesso percorso evolutivo che porta alla produzione di utensili perché la complessità di quest’ultima richiede certe capacità mentali, compresa quella di comunicare informazioni articolate senza la quale l’essere umano non potrebbe caratterizzarsi come l’animale sociale per eccellenza. Queste determinazioni rendono la nostra specie capace di produrre la storia perché le modalità del rapporto con la natura sono estremamente elastiche, biologicamente sottodeterminate.
In breve, gli strumenti umani sono allo stesso tempo parte del nostro corpo e separati da esso e per questo i momenti costitutivi del metabolismo umano possono essere temporaneamente separati. Questo aspetto, sostiene Mau, è fondamentale per capire cosa sia il potere economico del capitale perché i mezzi di riproduzione dell’essere umano possono essere appropriati da un determinato gruppo che può quindi esercitare una mediazione essenziale per la riproduzione di altri gruppi. Se aggiungiamo la capacità delle comunità umane di produrre un surplus rispetto alle necessità strettamente fisiche vediamo sorgere la possibilità (non la necessità) dello sfruttamento di un gruppo sociale su un altro. Queste possibilità sono realizzate al massimo grado dall’attuale modo di produzione perché “separare per riconnettere, rompere per riassemblare, atomizzare per integrare” è forse “la più fondamentale dinamica della ristrutturazione materiale della riproduzione sociale messa in moto dal capitale”.2 

Secondo Mau, c’è una duplice separazione costitutiva dei rapporti di produzione capitalistici che riguarda l’aspetto oggettivo e quello sociale delle condizioni di produzione. Di conseguenza abbiamo due distinte ma strettamente interrelate forme di dominio. Seguendo Robert Brenner, esse riguardano due tipi di relazioni: quelle verticali tra produttori immediati e sfruttatori e quelle orizzontali che mettono in rapporto gli sfruttatori tra loro, da una parte, e produttori immediati gli uni con gli altri, dall’altra.
Marx, nel Capitale, inizia con l’analisi delle relazioni orizzontali tra distinte unità di produzione. Il fatto che esse siano separate, non coordinate a priori, dà luogo ad un’unità contraddittoria della riproduzione complessiva: il lavoro è privato, ma al tempo stesso deve risultare sociale perché i prodotti del lavoro devono avere quantità e qualità tali da assicurare la riproduzione della società. Attraverso la teoria del valore, Marx dimostra come il capitalismo dia luogo a una peculiare forma di “socializzazione retroattiva” (come la definisce Michael Heinrich) che assoggetta tutti quanti, indipendentemente dal loro status di classe, al potere impersonale del “valore che si valorizza”. La circolazione delle merci e del denaro (che, con il procedere dell’analisi marxiana, assume la forma più concreta della concorrenza) genera standard obbligatori (relativi a produttività, tecniche, forme organizzative ecc.) che tutti i produttori devono soddisfare se vogliono sopravvivere. La relazione esterna tra distinte unità di produzione, però, presuppone sin dall’inizio una certa organizzazione interna di queste stesse unità, cioè la separazione tra produttori immediati e mezzi di produzione e la produzione di plusvalore sulla base dello sfruttamento del lavoro salariato. In estrema sintesi, il valore presuppone le classi e “I proletari sono soggetti ai capitalisti per mezzo di un meccanismo di dominazione che simultaneamente assoggetta tutti quanti agli imperativi del capitale”.3
Il dominio di classe proprio del capitalismo, precisa Mau, non è definito prioritariamente dallo sfruttamento, ma dalla relazione tra chi controlla le condizioni della riproduzione e chi ne è escluso. L’insieme delle persone che il capitale ha bisogno di sfruttare è solo un sottoinsieme di quelle che dipendono dal mercato per la loro riproduzione. Il proletario non è definito dalle condizioni di lavoro, ma dalla radicale separazione tra la vita e le sue condizioni. Uno status che Marx definisce anche come “povertà assoluta”, cioè povertà intesa non come penuria, ma come totale esclusione dalla ricchezza oggettiva; come “mera possibilità” che necessita della mediazione del capitale per tradursi in attualità. Per questo il potere del capitale ha una natura trascendentale, nel senso kantiano del termine, piuttosto che trascendente, come accadeva per il signore feudale che si collegava dall’esterno alla produzione senza intervenire direttamente nel processo produttivo. In questa luce possiamo comprendere anche la nascita della biopolitica di cui ci parla Foucault, cioè il potere dello stato non di decretare la morte dei suoi sudditi (propria del potere sovrano), ma di occuparsi positivamente della gestione, del controllo e della regolazione della vita della popolazione. Con la radicale separazione della vita dalle sue condizioni, con l’indifferenza dell’accumulazione monetaria nei confronti dei bisogni umani, il capitalismo “introduce un tipo di insicurezza storicamente unico al livello più fondamentale della riproduzione sociale e per questa ragione  lo stato deve assumere il compito di la vita della popolazione”.4

La gestione della vita lavorativa, prosegue Mau, è invece presa direttamente in carico dal capitale che ristruttura continuamente gli aspetti sociali e materiali del processo produttivo, anche i più minuti, esercitando una vera e propria microfisica del potere, per utilizzare ancora i termini foucaultiani. Stiamo parlando di ciò che Marx chiama la sussunzione reale del lavoro mettendo in evidenza lo sviluppo di una nuova sfera del potere, accanto a quella propriamente politica, derivante dalla privatizzazione della regolazione sociale dell’attività economica, fenomeno specifico del capitalismo, come ha evidenziato Ellen Meiksins Wood. Due sono le principali cause della sussunzione reale che corrispondono ai due tipi fondamentali di separazione già menzionati: data la loro separazione dai mezzi di produzione, i lavoratori esercitano una resistenza nel processo lavorativo che deve essere piegata con la continua introduzione di nuove tecnologie, forme di sorveglianza, divisioni del lavoro ecc.; in conseguenza della separazione delle unità produttive la pressione della concorrenza forza i singoli capitalisti a raggiungere determinati standard di produttività. In altri termini “la sussunzione reale  non è solo una questione di efficienza tecnica; è una tecnica di potere, un meccanismo per la riproduzione delle relazioni di produzione capitalistiche”.5
Un potere che viene esercitato in forma dispotica anche se si tratta di un dispotismo di natura essenzialmente diversa rispetto a quello espresso, per esempio, dal signore feudale. Il singolo proletario non appartiene infatti al singolo capitalista, ma alla classe capitalistica complessiva perché, a differenza del servo della gleba, può liberarsi dal giogo di un padrone ma poi, se vuole sopravvivere, deve vendersi a un altro e sottomettersi alla sua autorità, data la sua separazione dai mezzi di riproduzione. L’autorità del singolo capitalista, dunque, non deriva da un’investitura personale di tipo politico, militare o religioso che lega a sé il singolo lavoratore, ma dal suo essere “personificazione” delle condizioni del lavoro di fronte al lavoro, cioè del capitale in quanto tale. È l’incarnazione di una razionalità economica che non avrebbe modo di affermarsi se il singolo capitale non fosse assoggettato esso stesso alla logica del valore che si valorizza.
Questa razionalità mostra però tutti i suoi limiti per il fatto che il capitalismo è intrinsecamente soggetto a crisi ricorrenti mostrando con chiarezza il carattere impersonale, astratto del potere del capitale. Nel corso della crisi non esiste un centro da cui si irradi il potere e per questo la società perde il controllo sulla sua riproduzione complessiva, mostrando nel modo più evidente l’incompatibilità tra le convulsioni dell’accumulazione e il bisogno di una vita sicura e stabile, in particolare dei proletari. Nessuna sorpresa, dunque, se la crisi porta con sé conflitti e disordini sociali. Ma, al tempo stesso, la sua tendenza immanente è quella di mettere in moto potenti dinamiche che, se non contrastate, finiscono per restaurare e espandere il potere del capitale. La distruzione del capitale in eccesso e la centralizzazione delle forze produttive, la crescita della disoccupazione e la svalorizzazione della forza lavoro pongono le basi per una ripartenza dell’accumulazione. Anche in questo modo si conferma una delle caratteristiche principali del potere capitalistico, la sua circolarità. Il fatto, cioè, che “una delle fonti del potere del capitale è l’esercizio stesso di questo potere”6 perché esso tende a riprodurre i suoi stessi presupposti in modo semiautomatico e su scala allargata. 

Per questo si può dire che oramai difficile trovare sulla terra qualcosa che non sia in qualche modo condizionato dal potere del capitale anche se ciò non significa che il capitale stesso abbia preso il controllo di tutte le dimensioni della vita sociale. Finché non interferiscono con il suo vero scopo, la produzione di plusvalore, non ha motivo di eliminare o cambiare norme, pratiche, ideologie, processi naturali, stili di vita ecc. Differenze di genere, “razza”, religione, nazionalità ecc. possono essere per di più funzionali al divide et impera del capitale nei confronti del proletariato, anche se la scelta su quali fratture puntare dipende dalle condizioni contingenti in cui si trova ad operare (fatto salvo che un’eccessiva divisione può essere disfunzionale impedendo la necessaria collaborazione tra lavoratori). L’universalizzazione del lavoro astratto, tipico del capitalismo, non coincide con la scomparsa delle specificità dei differenti lavori concreti e dei loro esecutori, ma con la loro manipolazione e/o subordinazione al processo di valorizzazione. Se, per esempio, è vero che la sussunzione reale porta con sé la tendenza alla dequalificazione del lavoro (oltre che alla sua specializzazione e alla separazione tra esecuzione e ideazione), è altrettanto vero che il capitale non ha la necessità di eliminare il lavoro qualificato in sé e per sé, ma solo quello che può essere monopolizzato dai lavoratori e dunque utilizzato per contrastare il potere imprenditoriale.
La sussunzione reale non è dunque onnipervasiva per quanto essa possa arrivare a toccare ambiti differenti dal processo lavorativo in senso stretto, come accade con la natura. Uno degli aspetti più interessanti in questo ambito riguarda l’agricoltura, fino a metà 900 sostanzialmente refrattaria alla sussunzione reale nei confronti del capitale in quanto la produzione intensiva tendeva a minare la fertilità della terra. Questa situazione cambia come risultato di tre processi strettamente interrelati: primo, l’introduzione di un insieme di cambiamenti tecnologici legati alla meccanizzazione, ai fertilizzanti chimici, alla manipolazione biotecnologica; secondo, la ristrutturazione organizzativa legata alla nuova divisione del lavoro che porta alla crescita della specializzazione e delle monoculture; terzo, la mediazione sempre più pervasiva delle forze di mercato dovuta alla cosiddetta rivoluzione verde postbellica, alla rivoluzione logistica e ai programmi di aggiustamento strutturale degli anni Ottanta. Quello che era un sistema sostanzialmente chiuso in cui le fattorie producevano i propri mezzi di produzione diventa un ramo dell’industria dipendente dagli input che devono essere comprati sul mercato. Aumenta così la produttività, ma al tempo stesso crescono i disastri ecologici, nonché l’impoverimento e la proletarizzazione di ampie masse di contadini soprattutto nel Sud Globale. L’ultimo gradino di questo processo è raggiunto dalla manipolazione biogenetica con la produzione di piante completamente sterili dal momento che “la biotecnologia mira a inscrivere la logica della valorizzazione nel codice genetico del seme, al punto che la pianta non può crescere senza la mediazione del capitale“.7
Questo è forse il caso più estremo che mostra come, una volta affermatasi, “la sussunzione reale rende più difficile dissolvere la morsa del capitale”.8 Un altro esempio è rappresentato dalla rivoluzione logistica che ha incrementato a livello planetario l’integrazione geografica dei network produttivi. Allo stato attuale la rottura con il capitalismo dovrebbe avvenire su una scala spaziale sufficientemente ampia da evitare l’interruzione delle catene produttive essenziali per la riproduzione di una società post-capitalistica.

Alla fine di questo lungo resoconto possiamo andare al di là del testo di Søren Mau tornando al nostro punto di partenza, la guerra. Come abbiamo visto il potere del capitale non si esercita solo sui proletari, ma anche sui singoli capitalisti. Questi ultimi sono letteralmente costretti a perseguire il profitto con crescente rapacità nell’ambito di un processo storico caratterizzato, secondo Marx, da crescenti difficoltà per la riproduzione allargata del capitale. La rapacità del capitale è, inoltre, sempre più difficile da contrastare, data la presa vieppiù intensa della sussunzione reale sul processo riproduttivo della società. Quando le leggi astratte del modo di produzione capitalistico possono esplicarsi senza particolari impedimenti determinati dalla congiuntura spazio-temporale in cui opera, la coazione esercitata dalle dinamiche economiche è quella prevalente nel consolidare il potere del capitale, almeno all’interno delle nazioni imperialiste. È questo tutto sommato il livello su cui si attesta il libro di Mau. Anche in tempi di crisi generalizzata della valorizzazione, possiamo aggiungere da parte nostra, le medesime dinamiche economiche spingono gli individui a proseguire sempre nello stesso modo le attività necessarie per assicurare la continuazione della loro esistenza, ma questo non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione ordinaria né dei singoli né del sistema complessivamente inteso. È vietato cambiare strada anche se ci porta a sbattere contro un muro! Il capitale, incapace di superare con le buone i propri limiti intrinseci, deve cercare di abbatterli con un uso sempre più generalizzato della forza, violenza bellica compresa.
Per questo l’opposizione alla guerra non può essere delegata a un pur rispettabile pacifismo. Contrastare la guerra significa opporsi al potere del capitale, smantellando sin dalle sue radici la silenziosa coazione a ripetere determinata dai rapporti economici che ci sta portando sull’orlo di una nuova guerra mondiale. Un precipizio, è necessario sottolineare, sempre più vicino anche a causa dello stato di catalessi del sentire comune occidentale che, sebbene appaia al momento poco propenso a farsi sedurre dagli ardori bellici, rimane dominato dalla rassegnazione. Per questo, per contrastare la muta costrizione dei rapporti di produzione è necessario fare appello alla rumorosa liberazione di un immaginario collettivo in grado di oltrepassare le colonne d’Ercole del realismo capitalista.


  1. Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, p. 88. 

  2. Ivi, p. 269. 

  3. Ivi, p. 231. 

  4. Ivi, p.161. 

  5. Ivi, p. 258. 

  6. Ivi, p. 264. 

  7. Ivi, p.288. 

  8. Ivi, p. 314. 

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Homo Sapiens, piante e CO2 https://www.carmillaonline.com/2017/09/21/homo-sapiens-piante-co2/ Wed, 20 Sep 2017 22:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40558 di Sandro Moiso

Luigi Mariani, Origini e viaggi avventurosi delle piante coltivate, Mattioli 1885 2017, pp. 90, € 9,90

L’agile, sintetico e, talvolta, problematico testo di Luigi Mariani, docente di Storia dell’agricoltura presso l’Università di Milano, può costituire un’interessante integrazione al testo di Nikolaj Ivanovič Vavilov sulle origini delle piante coltivate recensito qualche tempo fa proprio qui su Carmilla. Certamente tra le due pubblicazioni sono trascorsi almeno novant’anni, ma i riferimenti che l’autore fa, soprattutto all’inizio del testo, all’opera al genetista e botanico sovietico rende questa pubblicazione di Mattioli 1885 iscrivibile nella grande ricerca iniziata, ormai più di un secolo [...]]]> di Sandro Moiso

Luigi Mariani, Origini e viaggi avventurosi delle piante coltivate, Mattioli 1885 2017, pp. 90, € 9,90

L’agile, sintetico e, talvolta, problematico testo di Luigi Mariani, docente di Storia dell’agricoltura presso l’Università di Milano, può costituire un’interessante integrazione al testo di Nikolaj Ivanovič Vavilov sulle origini delle piante coltivate recensito qualche tempo fa proprio qui su Carmilla. Certamente tra le due pubblicazioni sono trascorsi almeno novant’anni, ma i riferimenti che l’autore fa, soprattutto all’inizio del testo, all’opera al genetista e botanico sovietico rende questa pubblicazione di Mattioli 1885 iscrivibile nella grande ricerca iniziata, ormai più di un secolo or sono, sull’interazione tra uomo, ambiente e sviluppo dell’agricoltura.

Il contributo dato da Mariani si fonda soprattutto sulle conoscenze metereologiche sviluppate nel corso del suo precedente insegnamento di Agrometereologia presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Milano e questo lo contraddistingue dall’opera di Vavilov citata,1 per l’ampio spazio dato, nella prima parte del testo, alla metereologia, alle correnti atmosferiche e all’importanza dell’anidride carbonica (CO2) per lo sviluppo della vegetazione sulla terra.

Anche se l’autore si concentra in particolare sull’Olocene, l’ultima fase del Quaternario che ha avuto inizio dai 10 agli 11.000 anni fa e che corrisponde grosso modo al Neolitico, il periodo in cui ha avuto inizio e si è sviluppata l’agricoltura, non manca di spingersi più indietro nel tempo fino a milioni di anni fa per rilevare i ripetuti periodi di riscaldamento e di glaciazione del pianeta che hanno di volta in volta favorito o rallentato lo sviluppo della vita sulla terra.

Utilizzando, fin dove è possibile, le serie storiche e i dati accertati e affidandosi, in altri casi, alle testimonianza degli scrittori antichi oppure dei testi mitologici, non ultima la Bibbia, Mariani riesce, in maniera convincente, a tracciare l’intricata interazione tra ere geologiche, modificazioni climatiche e successive attività umane.

Soprattutto prendendo a modello la vite da uva e la sua diffusione verso il Mediterraneo a partire dal Caucaso come case study , Mariani riesce a riunire tra di loro le comuni memorie mitiche del Diluvio Universale, appartenenti a popoli e culture estremamente diverse e lontane tra di loro, collegandole tutte al momento in cui l’innalzamento di circa 120 metri del livello dei mari e degli oceani ebbe luogo tra i 14.000 e egli 8.000 anni fa al termine dell’ultima grande glaciazione.

Sembra giusto parlare di “grande glaciazione” poiché nei secoli seguenti si alternarono periodi in cui secoli di siccità anticipavano e avrebbero poi seguito periodi di nuove, piccole glaciazioni. L’ultima delle quali, studiata in particolare dallo storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie, sarebbe avvenuta tra la metà del XIV secolo e la metà del XIX.2 Tale periodo, legato probabilmente ad una minore attività del Sole e delle macchie solari,3 seguì infatti ad un periodo in cui sulle Alpi era possibile trovare vigneti fino ad un’altezza di 1250 metri slm, mentre ancora oggi l’altezza massima a cui è possibile rintracciare la viticoltura si aggira intorno agli 800 metri.

La vite coltivata (Vitis vinifera) afferisce al genere Vitis, le cui impronte fossili sono state reperite nel Nord Europa e risalgono al Terziario antico, intorno a 65 milioni di anni fa. Durante il Terziario recente, iniziato 23 milioni di anni fa, la separazione tra l’America e l’Eurasia favorì la speciazione degli antenati della vite, per cui in America e in Asia Orientale si registrò l’evoluzione di diverse specie mentre in Europa e Asia Occidentale si affermò un’unica specie, Vitis vinifera ssp. sylvestris, antenato selvatico della vita domestica.
Nel corso delle glaciazioni quaternarie (ultimi 2,5 milioni di anni) la zona mite a sud del Gran Caucaso fu un’importante zona rifugio per molte specie tra cui la vite. Ciò probabilmente promosse il consumo di uva selvatica da parte dei cacciatori- raccoglitori ponendosi all’origine della successiva valorizzazione di questa pianta da parte delle popolazioni neolitiche insediatesi in ambito sub-caucasico
4 Ecco fin dove si spinge la storia del bicchiere di vino che magari sta accompagnando chi legge queste poche righe.

Il libro di Mariani costituisce una lettura che, nonostante il numero limitato di pagine, farà fare al lettore un’incredibile ed emozionante cavalcata attraverso le culture, le vie (non ultima quella della Seta), i traffici, i contatti, le navigazioni e gli scambi che hanno accompagnato l’interazione tra Homo Sapiens e piante da coltura fin da prima della Rivoluzione Neolitica.
Come afferma l’autore, infatti, “la dispersione delle piante e dell’uomo nel nostro pianeta è un vero viaggio nel tempo5

Oggi siamo per lo più abituati a considerare che sia l’uomo ad «imporre» alle piante i caratteri «domestici» (dimensione, colore, sapore, etc.) ma un ruolo di rilievo può essere stato giocato anche dagli animali consumatori. Un esempio in tal senso è offerto dal melo, che nell’areale di origine (il Kazakistan) sarebbe stato selezionato dall’orso, il quale avrebbe scelto individui con grandi frutti, sapore dolce (accumulo di amido e poi di glucosio), un calendario di maturazione amplissimo e che si estende da luglio a novembre con varietà precoci e medie da consumare in estate e varietà molto tardive che si conservano fino a fine inverno per cui possono essere consumate all’uscita del letargo (le odierne mele invernali da cuocere). Il melo si sarebbe poi diffuso dal kazakistan verso occidente e verso oriente lungo la via della seta, grazie alla diffusione dei semi con le feci degli esseri umani e dei cavalli che si nutrivano di mele passando per il Kazakistan6

Ciò che rende invece il libro problematico, senza per questo renderlo meno interessante, è il fatto che l’autore sembra voler far dipendere l’attuale situazione climatica quasi esclusivamente dai fattori di lungo termine (ad esempio l’attività solare) e troppo poco dalle scelte fatte dall’uomo e dal modo di produzione vigente, anche là dove si afferma che “il trend di crescita delle temperature in atto dalla fine della piccola era glaciale è probabilmente influenzato dalle attività umane. In tal senso Ziskin e Shaviv, applicando un Energy Balance Model, hanno stimato che il 60% del trend crescente delle temperature globali osservato nel XX secolo è di origine antropica ed il 40% sarebbe di origine solare. Al riguardo si deve considerare che nel XX secolo il sole ha fatto registrare uno dei periodi di maggiore attività dalla fine dell’ultima glaciazione, tanto che per trovarne uno analogo occorre portarsi a oltre 8800 anni or sono e cioè all’inizio del grande optimum post-glaciale7

Gli altri due punti, ad avviso di chi scrive, discutibili riguardano l’eccessiva fiducia riposta nell’importanza dell’anidride carbonica per lo sviluppo delle piante, senza tenere sufficientemente conto dei danni provocati da questa a livello respiratorio per la specie umana, anteponendo, probabilmente involontariamente, la redditività degli investimenti nell’agricoltura alla salute. Come pure, sempre anteponendo l’aumento della produttività alle sue conseguenze, la fiducia riposta in quella che l’autore definisce come la decima rivoluzione tecnologica tra quelle che più hanno segnato la storia dell’agricoltura: quella genetica.

Per eccesso di entusiasmo, forse tipico degli ambienti universitari se si prendono ad esempio i suggerimenti dell’Università di Bari a proposito della coltura dell’ulivo nel Salento,8 le modificazioni genetiche introdotte industrialmente per aumentare la produttività (quasi mai la qualità) agraria, vengono messe sullo stesso piano delle modificazioni apportate sì dall’uomo sulle piante da coltura attraverso la loro domesticazione e selezione, dimenticando però che tale processo si è svolto nell’arco di secoli e millenni ed è stato sperimentato sempre a partire da areali ridotti prima di essere riconosciuto come valido, utile e non dannoso per l’applicazione successiva e vantaggiosa in altre aree coltivate.

Detto questo, il testo rimane di grande utilità per chi si interessi, non solo a livello professionale o di studio, di agricoltura, ambiente e dei rapporti che questi intrattengono con la specie umana di ieri, oggi e (speriamo) soprattutto domani.


  1. Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona 2016  

  2. E. Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi 1982 (prima edizione francese 1967)  

  3. Anche se attualmente non è noto nessun collegamento diretto tra basso numero di macchie solari e basse temperature terrestri (Radiative Forcing of Climate Change: Expanding the Concept and Addressing Uncertainties, National Research Council, National Academy Press, Washington, D.C., 2005)  

  4. pag.69  

  5. pag.7  

  6. pag.15  

  7. pp. 42-43  

  8. Cfr. https://www.carmillaonline.com/2017/09/03/guerra-agli-ulivi/  

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Haiti e l’industria della fame https://www.carmillaonline.com/2016/01/12/haiti-e-lindustria-della-fame/ Mon, 11 Jan 2016 23:00:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27560 di Fabrizio Lorusso

Haiti food aid[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Haiti food aid[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie di Haiti, 5 anni dopo il terremoto”. Il numero attuale di NRL è dedicato a “nazionalismi, populismi di destra e razzismi”. Lo trovi qui e puoi leggerne una recensione su Carmilla qui. Sulle nuove e vecchie schiavitù e la migrazione dei lavoratori haitiani nelle coltivazioni di canna da zucchero della vicina Repubblica Dominicana segnalo l’uscita del bel libro di Raùl Zecca Castel Come schiavi in libertà, Ed. Arcoiris, Salerno, 2015]

Aggiornamento introduttivo (12/01/2015). Gli effetti del devastante terremoto del 12 gennaio 2010 ad Haiti furono e sono tuttora amplificati da una lunga lista di fattori storici, politici, economici e sociali. Sei anni dopo il sisma, che fece circa 250mila morti, il paese più povero delle Americhe vive una profonda crisi politica e non è avventato ricorrere alla definizione di “Stato fallito” per parlare del suo sistema di governo e istituzionale. Il quadro è fosco: le elezioni parlamentari, che erano state rimandate per ben tre anni, si sono svolte (primo turno) il 9 agosto in un clima da guerra civile; pacifico, invece, lo svolgimento del secondo turno delle parlamentari e il primo delle presidenziali, il 25 ottobre, anche se da settimane i partiti sconfitti protestano nelle strade denunciando brogli per cui il Consiglio Elettorale ha dovuto posticipare il ballottaggio per l’elezione del presidente dal 27 dicembre al 17 gennaio; l’epidemia di colera, scoppiata a fine 2010, ha fatto 9.000 vittime fino ad ora e nel 2014 era praticamente sotto controllo, mentre nel 2015 c’è stata una nuova impennata dei contagi; il parlamento è rimasto praticamente inoperante e l’esecutivo ha governato via decreto nell’ultimo anno; continua la crisi diplomatica e umanitaria con la Repubblica Dominicana, che sta espellendo in massa haitiani dal suo territorio in base a risoluzioni giudiziarie dal tenore palesemente razzista; le proteste e le manifestazioni post-elettorali denunciano anche cooptazioni massicce del voto e la strategia governativa in favore del suo “candidato ufficiale” (Jovenel Moïse, delfino del presidente Michel Martelly, del partito PHTK, Parti Haïtien Tet Kale); il rinvio del voto al 17 gennaio è anche conseguenza di questa situazione e si sfideranno il governativo Jovenel Moïse e il rappresentante d’una opposizione moderata, Jude Celéstine; anche il nuovo parlamento s’insedierà dunque in ritardo, in attesa dei risultati elettorali].

Haiti e l’industria della fame. Flashback (inizio 2010)

Claire indossa una camicia bianca elegante, i jeans puliti e le scarpe da tennis nuove, adatte alle lunghe camminate. E’ uscita di fretta, il passo deciso. Brilla in mezzo alle macerie. Trotta in salita evitando immensi cumuli di mattoni, tombini scoperchiati e pali della luce divelti in mezzo al marciapiede. Stanca di questa gincana senza scopo, si siede sullo spigolo di un macigno che invade la carreggiata rallentando il traffico. Lungo la Rue Delmas si boccheggia, il sole sembra rimanere fisso allo zenit per tutta la giornata, portando l’asticella del termometro sopra i 30 gradi. Lo smog tipico di una caotica metropoli caraibica si mischia alla polvere della distruzione, al vagare disperato di moltitudini alla ricerca di un motivo per spiegare la tragedia e di un pezzo di pane per palliare i morsi della fame.

Sono passate tre settimane dal terremoto, una tremenda scossa che in 39 secondi ha fatto 250mila vittime nella capitale di Haiti, Port-au-Prince (colloquialmente, PAP). Il 12 gennaio, giorno della catastrofe, Claire era fuori di casa e s’è salvata. A suo cugino, sua zia, a molti amici del quartiere e a tantissime altre persone non è toccata la stessa fortuna. Lei ha ancora una casa e una madre. Un milione e mezzo di suoi concittadini invece dormono nei giardini pubblici, sui marciapiedi o nei campi di accoglienza allestiti alla buona in oltre mille siti d’emergenza sparsi per la città.

Claire, però, ha fame. Sua madre non si fa vedere da un paio di giorni. Qualsiasi bene di prima necessità è diventato un lusso inaccessibile. Solo chi vive nelle tendopoli può accedere a qualche razione di riso e fagioli. Gli altri devono arrangiarsi, ingegnarsi, cercare lavoretti giornalieri o chiedere la carità. Sì, ma a chi? La ragazza osserva i passanti da dietro lo scoglio su cui s’è accovacciata, che in realtà è ciò che rimane del secondo piano di un piccolo albergo. Claire è in attesa d’incrociare qualche blanc, qualche straniero a cui parlare e chiedere aiuto. Siamo in due, in esplorazione nel mezzo delle macerie e della confusione, a pochi giorni dall’arrivo sull’isola. Due sconosciuti di nome Diego e Fabrizio che Claire avvista e segue. Trenta, quaranta, cinquanta passi accelerati dietro di noi, e poi effettua il sorpasso. Gentile, domanda se abbiamo da mangiare. Semplicemente, con lo sguardo abbassato e il tono risoluto. Le offriamo dell’acqua e la invitiamo ad accompagnarci.

La chimera della ricostruzione

Subito dopo il terremoto partì un’ipocrita e sfrenata gara per la solidarietà. Chi offre di più? ONU, governi, impresari, cittadini, siti web, associazioni e ONG riversarono una massa di promesse e buone intenzioni monetizzabili in circa 11 miliardi di dollari. Di questi, a oltre un anno dal sisma, solo il 5% era stato stanziato e “messo a budget”, cioè destinato a opere di ricostruzione. La vera gara, allora, diventò quella per gli appalti, la cui gestione fu affidata all’ex presidente USA Bill Clinton, a capo della CIRH (Commissione Interina per la Ricostruzione di Haiti) insieme al Primo Ministro haitiano. Questa carica, tra l’altro, rimase per più di un anno scoperta per via dell’impasse politica in cui si trovò il presidente-cantante Michel Martelly dopo il suo insediamento nel 2011. E’ allora facile immaginare chi fosse a prendere realmente le decisioni sul destino delle donazioni.

Haiti cite-soleilNei primi due anni di “ricostruzione” la situazione è rimasta stabile, stagnante, identica a quella che imperava nel febbraio 2010, il mese in cui sono stato a PAP. In quel periodo il presidente René Préval dovette consegnare il paese “chiavi in mano” a un consorzio di banche e governi che avrebbero deciso come (e se) ricostruirlo. Oggi l’80% delle macerie è stato rimosso, ma gli sforzi per la ricostruzione sembrano essersi orientati più all’edificazione di hotel di lusso, impianti d’assemblaggio e fabbriche di indumenti, in beneficio di compagnie e investitori in prevalenza stranieri, che ai bisogni della gente. Tra il 2010 e fine 2012 i fondi stanziati dalla comunità internazionale per Haiti hanno raggiunto la cifra di 6,43 miliardi di dollari, ma solo il 9% di questi è passato in qualche modo dal governo locale. L’ammontare dei contratti concessi dall’agenzia americana UsAid è stato di 485,5 milioni di dollari di cui solo l’1,2% è andato a imprese haitiane.

Nel 2012, quando ancora mezzo milione di persone abitava nelle tendopoli, il “fondo umanitario” per Haiti degli ex presidenti USA Bill Clinton e George Bush (figlio) investì 2 milioni di dollari nell’hotel a cinque stelle Royal Oasis, un’enclave nel mezzo di un’area urbana devastata. Un anno dopo, con 300mila sfollati ancora nelle tende, l’International Financial Corporation (IFC), parte del gruppo della Banca Mondiale, decise di finanziare la costruzione di un nuovo hotel Marriott che avrebbe generato “ben” 200 posti di lavoro dal 2015 e 300 durante la costruzione. L’albergo farà compagnia ad altre strutture dell’americana Best Western e della spagnola Occidental Hotels & Resorts, anch’esse risorte per il benessere turistico dell’isola, anche grazie ai fondi della solidarietà internazionale e a benefici fiscali inusitati di cui godono durante i primi quindici anni di attività. I meccanismi della cooperazione e una bella fetta delle donazioni fungono da ingranaggi e lubrificanti per l’apertura di nuovi mercati, attraenti per le multinazionali americane, giapponesi, latinoamericane ed europee, e per un manipolo di compagnie nazionali in mano alla ristretta élite locale.

haiti pirates“Haiti ha le condizioni fondamentali per una crescita economica sostenuta, incluse una forza lavoro competitiva, la prossimità a grandi mercati e attrazioni turistiche e culturali uniche”, sosteneva Ary Naim, rappresentante di IFC ad Haiti. Probabilmente si riferiva alla schiavizzazione dei lavoratori nelle mine e nelle “fabbriche miserabili”, note in inglese come sweatshops, impiantate dagli investitori statunitensi e poco rispettose del già infimo salario minimo nazionale, fissato a 4 dollari e mezzo. Si tratta, dunque, di una forza lavoro altamente “competitiva”, cioè sfruttata e a basso costo, ma comunque produttiva nonostante la fame, il colera e la precarietà salariale e abitativa imperante nel paese.

Nel 2014, con circa 140mila persone sparse in 243 tendopoli, non s’investe più solo nei progetti alberghieri, ma si punta sull’espropriazione e privatizzazione delle coste e delle isole haitiane, come nel caso della Île à Vache, un piccolo paradiso che  è diventato territorio di conquista per investitori americani, dominicani e di altri paesi. Il Collettivo dei Contadini di Île-à-Vache (KOPI), costituito nel dicembre 2013, lotta per difendere gli abitanti dell’isola dalla migrazione forzata, dall’espulsione dalle proprie terre e dalla crisi alimentare e ambientale che i nuovi megaprogetti turistici stanno provocando: disboscamento, riduzione delle coltivazioni e 20mila persone cacciate via dalle brigate motorizzate della polizia, a cambio di 2000 posti di lavoro promessi dal settore alberghiero e 1500 residence che occuperanno la costa. Il Collettivo non osteggia il turismo in quanto tale, combatte gli effetti nefasti di progetti calati dall’alto e dall’estero, in spregio delle comunità locali, costrette a migrare ingrossando le file dei disoccupati o dei lavoratori sfruttati nelle fabbriche che popolano i quartieri slum delle grandi città.

Flashback (continua)

Haiti tourism-development-projects-haitis-caribbean-coast-2-638Claire si guarda intorno curiosa. Avrà diciott’anni. Ci troviamo a soli tre isolati dalla sede dell’AUMOHD, l’associazione di avvocati per la difesa dei diritti umani che ci ospita. Il suo presidente, Evel Fanfan, usa la casona dell’organizzazione come ufficio, magazzino di viveri e medicine, dormitorio improvvisato, “centro servizi” per gli abitanti del quartiere, e infine come mensa e rifugio d’emergenza per alcuni terremotati e per i cooperanti o i giornalisti in visita. E’ il nostro caso. Claire ha accettato con piacere il nostro invito a pranzo. A sprazzi, in un francese didattico e ben scandito, necessario a farci capire, ci racconta un po’ della sua vita e del giorno del terremoto, le douce janvier, che ha cambiato l’esistenza di tutti e il corso della storia haitiana. Di fronte a noi, adesso, ci sono un muro di cinta bianco e una porta con un cartello in creolo. L’AUMOHD s’è trasformato in un piccolo centro d’accoglienza. Gli operai di un sindacato indipendente usano la sede dell’associazione per fare le loro riunioni e ricostruire vincoli, contare i danni e rimboccarsi le maniche. Le donne e gli uomini incaricati delle pulizie lavorano di mattina e aspettano l’ora di pranzo prima di andarsene.

Instancabile, Evel è sempre indaffarato. Il suo cellulare squilla ogni 5 minuti. Risponde in inglese, in creolo o in francese. Cerca fondi, ascolta racconti, appunta piani d’azione su una lavagnetta, visita tendopoli e ambasciate, cliniche e prigioni. A volte sembra agire d’istinto, in preda a una strana frenesia. Sta provando a rintracciare gli altri avvocati del gruppo per riprendere le attività, ma la situazione è troppo grave, i palazzi ministeriali e i tribunali sono crollati, tutti i lavori sono fermi. Per un po’ non ci sarà tempo per seguire processi, urge sopravvivere, procurare il cibo, comprare la benzina per il generatore, l’acqua e le medicine.

haiti sweat shopsDopo il sisma, l’acqua è diventata un bene di lusso. Per acquistare una bottiglia o una bustina di plastica, da bucare con gli incisivi e succhiare fino all’ultima goccia, ci vogliono 2-3 dollari. Haiti ha sete e trova l’acqua potabile solo nei campi d’accoglienza, allestiti in ogni quartiere cittadino e per la strada, o in vendita sulle bancarelle degli ambulanti. Il supermercato, sebbene abbia riaperto poco dopo il terremoto, è privo della metà dei prodotti e carissimo, inaccessibile agli haitiani. Se prima del 12 gennaio i tre quarti della popolazione vivevano sotto la soglia della povertà, la situazione s’è drasticamente aggravata dopo la scossa tellurica che ha raso al suolo quasi tutta la capitale e il suo hinterland.

La cacciata del presidente, i caschi blu e il colera

Nel 2004, quando Haiti stava per festeggiare 200 anni d’indipendenza, l’ex prete Jean-Bertrand Aristide, primo presidente eletto in democrazia nel 1990 e costretto all’esilio da un golpe tra il 1991 e il 1994, fu deposto nuovamente da un colpo di stato e inviato fuori dal paese, anzi, fuori dall’emisfero occidentale. I militari USA lo deportarono nella Repubblica Centroafricana, dove rimase per più di sette anni, prima di tornare in patria nel marzo 2011. Oggi Aristide deve difendersi da vari capi d’accusa: traffico di droga, sottrazione di beni pubblici, espropriazioni illegali, concussione e riciclaggio. Due mesi prima era rientrato anche l’ex dittatore (1971-1986) Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier, figlio di un altro tiranno, François “Papa Doc” Duvalier (al potere dal 1957 al 1971). Pasciuto e ora disposto a “aiutare il suo popolo”, dopo un quarto di secolo di esilio dorato in Francia grazie ai soldi di famiglia, cioè del popolo haitiano, Baby Doc è stato messo sotto processo per crimini contro l’umanità e corruzione, ma ad Haiti i processi andavano al rallentatore e i gruppi organizzati di vittime della dittatura hanno presentato il caso alla Corte Interamericana dei Diritti Umani. Ma purtroppo nemmeno in quella sede otterranno giustizia. Infatti, il 3 ottobre 2014 Duvalier è morto d’infarto. Ha potuto passare serenamente gli ultimi momenti della sua vita nel suo paese, nel lussuoso quartiere della capitale in cui risiedeva, e rimanere impune.

Haiti flagAristide, da presidente, aveva osato troppo: tentativi d’aumento del salario minimo, soppressione dell’esercito, protezione sociale per i più deboli, rivendicazione del debito storico pagato da Haiti alla Francia e un piano per recuperare il controllo di alcune risorse strategiche suscitarono i timori americani e internazionali di dover fronteggiare un “Hugo Chávez caraibico”. Gli USA, tramite la CIA e l’IRI (International Republican Institute), fomentarono gruppi ribelli e paramilitari per destabilizzare il suo esecutivo e tra il 2004 e il 2006 sostennero il governo autoritario di Alexandre Boniface e del Primo Ministro Gérard Latortue. Fu un periodo d’eccezionale violenza politica, con scontri tra i “ribelli” e la polizia, da una parte, e le bande armate pro-Aristide, le note chimères, ma anche gruppi di comuni cittadini, dall’altra. In pochi mesi si contarono quattromila omicidi politici e l’incarceramento di decine di leader sociali e oppositori.

Nel frattempo la Missione ONU ad Haiti, la MINUSTAH, si stava occupando di “ripulire” con la violenza i quartieri marginali della capitale, in particolare Citè Soleil, dove con la scusa di combattere la criminalità, nel luglio 2005, le “forze di pace” fecero decine di vittime sparando sulle case della povera gente, proprio in uno dei bastioni elettorali del partito del presidente in esilio (il Fanmi Lavalas). Da un decennio l’avvocato Evel Fanfan difende alcune vittime delle stragi di Citè Soleil e di altri brutali episodi del terrorismo di stato. Perciò è stato minacciato di morte, vive con la scorta, formata solo da un poliziotto che fa atto di presenza, e qualche mese fa, dopo nuove minacce e un attentato cui è riuscito a sfuggire per puro caso, ha deciso di mettere al sicuro sua moglie e i suoi due figli negli Stati Uniti.

WikiLeaks ha rivelato che nel 2008, durante il mandato dell’ex delfino di Aristide, Préval, l’ambasciatrice americana a Porto Principe, Janet Sanderson, parlò addirittura di una minaccia emisferica costituita dal risorgere di “forze politiche populiste e anti-mercato”, e poi chiarì che “l’impegno latinoamericano coordinato regionalmente ad Haiti non era possibile senza l’ombrello delle Nazioni Unite che aiuta gli altri principali donatori, con in testa il Canada, gli USA, la Francia, la Spagna, il Giappone e altri, a giustificare internamente la loro azione d’assistenza bilaterale”. In soldoni l’ONU e la MINUSTAH, che è comandata dal Brasile e svolge funzioni di polizia e militari, aiutavano e aiutano i paesi coinvolti a spiegare alle loro rispettive opinioni pubbliche perché investono in imprese e missioni neocoloniali sotto l’egida statunitense. Proprio i caschi blu, in particolare il contingente nepalese, sono responsabili di aver portato sull’isola il virus del colera che ha fatto 9mila vittime e quasi 750mila contagi dall’ottobre 2010. Ci sono voluti 813 giorni dallo scoppio dell’epidemia perché l’ONU presentasse delle scuse.

Flashback (fine)

haiti graph Breakdown of HUMANITARIAN fundingIl pranzo all’AUMOHD è un rituale. A turno uno degli ospiti o qualcuno dello staff, formato da conoscenti di Evel che lui prova ad aiutare con piccoli lavori, un tetto e un paio di pasti al giorno, s’occupa di preparare un pentolone di riso coi piselli o coi fagioli, oppure una copiosa razione di pasta, condita con improvvisate salse di pomodoro e pesce maciullato. Noi, oltre a svariati pacchi di spaghetti, abbiamo portato tre chili di cuscus che rende tantissimo. Spugnoso e assorbente, si gonfia d’acqua, imbiondisce e cresce a dismisura per sfamare tutti e tutte. Arricchiamo il piatto con zucchine, cipolle e carote soffritte per offrire un pasto completo. Qui lo chiamano “Piti Mi”, il “piccolo me”, anche se abbiamo scoperto che quel termine significa miglio o sorgo e non cuscus. Essendo un alimento mediterraneo, risulta quasi sconosciuto a queste latitudini e viene assimilato al locale Piti Mi. E’ una parola molto musicale che i commensali non si stancano mai di ripetere, ridendo fragorosamente e chiudendo il verso con la rima “Piti-Mi-Haitì”, “il-cus-cus-Haitì”, un vero rap culinario. Claire ne mangia due porzioni, ride di gusto, ringrazia e ci saluta: “Au revoir”, ma non l’abbiamo più rivista.

Ogni mattina e dopo pranzo, io e Diego siamo gli incaricati ufficiali della preparazione del caffè espresso. Abbiamo con noi un’impeccabile moka da quattro, quindi dobbiamo fare almeno quattro caffettiere una dopo l’altra per poter accontentare tutti. Per gustare meglio la bevanda, abbiamo riciclato una decina di vasetti di vetro degli omogeneizzati come tazzine. Li abbiamo comprati al supermercato per avere a disposizione delle “merendine extra” o dei rinforzini per la cena, ma poi, una volta consumate le saporite pappette per bebè, abbiamo preso a riutilizzare i contenitori per berci il caffè. Abbiamo scoperto, però, che i nostri compagni haitiani non li lavavano insieme alle altre stoviglie, ma li buttavano e preferivano usare al loro posto dei grossi bicchieri di plastica che, a loro volta, finivano nella spazzatura. Ci abbiamo comunque riprovato. Abbiamo acquistato un nuovo set di tazzine-vasetti e, dopo aver rimosso l’etichetta degli omogeneizzati, siamo riusciti a fargli ottenere un posto d’onore nell’apposito scaffale insieme agli altri veri bicchieri di vetro.

Haiti, le ONG e l’emergenza permanente

Haiti nike-sweatshopsNell’aprile 2014 il World Food Program ha lanciato un allarme sull’insicurezza alimentare nel Nordovest di Haiti, ma, anziché fungere da denuncia delle cause reali del problema o da invito per il governo e la comunità internazionale a stimolare la produzione locale, il monito è servito da scusa per chiamare a maggiori sforzi nelle donazioni e nell’invasione di prodotti alimentari dall’estero. Negli ultimi due anni il prezzo di fagioli, riso e altri alimenti è cresciuto del 40% e si sono moltiplicate le proteste popolari, soprattutto nel Nord, nel distretto di Cap-Haïtien. For Haiti With Love, organizzazione cristiana “non profit”, ne ha approfittato per chiedere ai suoi sostenitori maggiori sforzi: “Dobbiamo pregare veramente affinché più gente s’interessi ad Haiti e più gente aiuti a condividere il fardello degli aiuti laggiù, ma l’aiuto finanziario diretto è quello di cui abbiamo realmente bisogno proprio ora”. E così, tappando qualche buco con cibi importati e orazioni, la protesta sociale viene ammansita e il business può continuare.

L’80% dei dieci milioni di haitiani vive in povertà, con un reddito inferiore al già di per sé miserabile salario minimo di 4,54 $ al giorno. Un milione e mezzo di loro soffre la fame, 6 milioni e 700mila non riescono a coprire regolarmente i loro bisogni alimentari e un quinto dei bambini è in stato di denutrizione, nonostante gli innumerevoli programmi assistenziali internazionali. Anzi, è più realistico, anche se paradossale, pensare che alla radice del problema ci siano proprio questi. La stampa tende a presentare i problemi di Haiti, estrapolandoli dal contesto neocoloniale in cui si sono generati, come causati dal clima o dalle catastrofi naturali, dalla presunta violenza dei suoi abitanti o dalla corruzione dei suoi politici. Le responsabilità e gli abusi dei governi e delle agenzie straniere, che si spartiscono gli aiuti e limitano lo sviluppo democratico, sono spesso taciuti o normalizzati. E così succede anche con le operazioni delle ONG, oltre 10mila in territorio haitiano, i cui sprechi e costi logistici arrivano a mangiarsi fino al 60% del loro budget. Inoltre Haiti non è un paese violento, il suo tasso di omicidi è di 7 ogni 100mila abitanti, mentre la media dei Caraibi è 17, in Messico è 24, in Honduras 91 e nella “pacifica” Costa Rica 10.

Perché Haiti ha fame?

Haiti graph money goesGli appelli sulla “emergenza fame” ad Haiti finiscono spesso per soccorre le economie dei produttori americani e degli intermediari, agenzie governative e non, che amministrano la distribuzione o rivendita degli alimenti. Haiti Grassroots Watch (HGW) è uno dei pochi media alternativi su Haiti. “Perché Haiti ha fame? Perché la fame morde più adesso che negli ultimi 50 anni?”, recita il titolo di un articolo sul loro sito. I portavoce della Rete Nazionale per la Sovranità e la Sicurezza Alimentare (RENAHSSA) imputano al governo l’aggravamento della situazione, ma è da molto più tempo che economisti, agronomi agenzie umanitarie ed “esperti” internazionali disegnano progetti e vincono commesse, contratti e generose borse per affrontarla.

I donanti controllano miliardi di dollari per “aiuti alimentari”, “allo sviluppo”, “assistenza umanitaria” e programmi agricoli che non toccano le cause strutturali della fame. HRW ne cita sei: (1) la povertà, la precarietà salariale e la privatizzazione di tutti i servizi pubblici, indisponibili alla maggior parte della popolazione; (2) il sistema di proprietà della terra e la mancanza di una gestione razionale, l’inesistenza di un catasto, l’uso politico della terra data in ricompensa dai governanti ai propri alleati; (3) le politiche commerciali neoliberali, impulsate da USA, BM e FMI, che hanno ridotto le protezioni tariffarie sui prodotti nazionali e causato esodi dalle campagne alle città (anche per questo la sovrappopolazione e la precarietà abitativa a PAP fecero incrementare i danni e le vittime del terremoto del 2010); (4) l’aumento demografico in un contesto di produzione agricola stagnante, basata su tecniche e strumenti obsoleti, abbandonata dallo stato e soffocata da donazioni e importazioni straniere e dall’uso del carbone vegetale come combustibile, con la conseguente deforestazione quasi totale del territorio; (5) l’impatto negativo di vari meccanismi di “assistenza” che portano soldi a progetti e organizzazioni estere ma non al governo haitiano o alle associazioni locali, per cui non ci si concentra sulle cause strutturali della fame ma solo su emergenze e contingenze; (6) le inefficienze del mercato interno, le pratiche oligopolistiche degli importatori di cibo che mantengono i prezzi alti.

L’industria della fame

Gli aiuti internazionali e le politiche commerciali legate alla fame di Haiti, al settore alimentare e a quello agricolo, sono state disastrose e contradditorie. Secondo HGW la quota maggiore (più del 50%) degli aiuti alimentari mondiali diretti a Haiti proviene da programmi governativi statunitensi e arriva in parte al governo haitiano, in parte ad alcune agenzie come il World Food Program e in parte a contrattisti come World Vision, CARE, ACDI-VOCA e Catholic Relief Service. Tra il 5% e il 10% del cibo consumato ad Haiti entra con queste “importazioni” a basso costo che sfiancano i produttori locali facendo dumping e favorendo la cosiddetta “monetizzazione” degli aiuti alimentari. In pratica il governo USA compra riso, grano, farina, oli vegetali, carne di pollo e fagioli ai propri produttori, dato che per legge la stragrande maggioranza del cibo donato deve essere made in USA. Poi lo spedisce a enti governativi stranieri o alle organizzazioni umanitarie che a loro volta possono venderlo, “monetizzandolo”, per ottenere contanti freschi per i loro progetti.

La “industria della fame” è un grosso affare per cui si devono creare mercati coatti e negli USA il governo deve periodicamente segnalare le emergenze alimentari internazionali per attribuire contratti e riattivare consumi nei paesi in via di sviluppo. Negli anni ottanta e novanta Haiti è stata forzata da FMI, USA e World Bank a fissare le più basse tariffe all’importazione di prodotti agricoli tra i paesi dei Caraibi, mentre prima la protezione arrivava fino al 50%. Così nel 2011 l’esportazione agricola americana verso Haiti ammontava a 326 milioni di dollari e la dieta degli haitiani era cambiata: il riso e il pollo avevano sostituito il mais, il sorgo (il Piti-Mi!) e i tuberi. I coltivatori locali sono stati progressivamente estromessi dai più produttivi e sovvenzionati competitors statunitensi e gli aiuti hanno contribuito ad aprire mercati che in precedenza erano marginali o serviti dagli agricoltori nazionali. Anche per questo le campagne haitiane languiscono e la fame è una piaga endemica. La fame e le macerie di Haiti non hanno bisogno di carità e promesse ma dell’autonomia e della libertà che le possano rimuovere, trasformandole in nuove lotte e speranze.

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