Aerosmith – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Jul 2025 08:00:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Hard Rock Cafone #6 https://www.carmillaonline.com/2016/09/15/hard-rock-cafone-6/ Thu, 15 Sep 2016 21:46:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33057 di Dziga Cacace

Nothing Swings Like 4/4 (John Coltrane)

emerson2_3593553bKeith Emerson: bentornati amici allo show che mai finisce. Il locale è il Live, di Trezzo sull’Adda. Ottimo cartellone e acustica discreta. Sono qui per intervistare un mio mito dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’attuale maturità e penso pure della futura vecchiaia: Keith Emerson. È già presente un mucchio di fanatici del prog, li riconosci subito (Lombroso etc., ma non voglio farla fuori dal vaso). Il soundcheck è entusiasmante come sarà poi il concerto, con parecchio repertorio dedicato ai Nice, oltre che – ovviamente – agli Emerson, [...]]]> di Dziga Cacace

Nothing Swings Like 4/4 (John Coltrane)

emerson2_3593553bKeith Emerson: bentornati amici allo show che mai finisce.
Il locale è il Live, di Trezzo sull’Adda. Ottimo cartellone e acustica discreta. Sono qui per intervistare un mio mito dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’attuale maturità e penso pure della futura vecchiaia: Keith Emerson. È già presente un mucchio di fanatici del prog, li riconosci subito (Lombroso etc., ma non voglio farla fuori dal vaso). Il soundcheck è entusiasmante come sarà poi il concerto, con parecchio repertorio dedicato ai Nice, oltre che – ovviamente – agli Emerson, Lake and Palmer.
Keith ha recentemente pubblicato un album dal titolo eloquente, Emerson Plays Emerson, e mi fa accomodare in un camerino che, dai graffiti sui muri, ne ha viste di ogni colore. Parto alla grande: sapendo della passione del musicista per alcuni alcolici italiani (come Pinot Grigio e Asti Spumante), mi presento con una bottiglia di Fernet Branca. Keith ringrazia, ma la allunga subito al suo chitarrista: non può berla perché ha problemi cardiaci. Chi comincia bene è a metà dell’opera.
È gentile, molto pacato, un po’ sulla difensiva e non sempre pronto a ironia e provocazioni, forse perché il mio inglese prescolare non aiuta. Io non ho freni e faccio un’intervista poco professionale e molto personale, ma ‘sticazzi: lui s’imbarazza quando la domanda esula dagli abituali percorsi, ma tutto sommato è un pezzo di pane, melanconico, innamorato della sua musica. Ed è un inguaribile romantico.
Dopo tutti i guai che ti son capitati (dita, naso, costole rotti, interventi al cuore e ai nervi del braccio destro), come sta adesso Keith Emerson?
Bene, grazie! Sono un po’ ipocondriaco, sempre determinato a trovare qualcosa di sbagliato con la mia salute… ma per adesso funziona tutto.
Cosa pensi di Palmer e della sua band, con un chitarrista che suona le tue parti?
Penso solo bene! L’ho visto live e la band va forte. Il chitarrista, tra l’altro, è bravissimo anche perché non sono parti facili e non sono state pensate per una chitarra.
Non soffri nei confronti dei chitarristi, di una specie di “invidia del pene”? (Mi guarda abbastanza stranito, allora espando la domanda) Chitarristi come Hendrix o Blackmore, con la chitarra, hanno portato all’estremo la ricerca sonora e con una chitarra è più semplice farlo che non con una tastiera, anche se tu hai un passato di abusi sul tuo Hammond… (Sempre peggio: il termine “abuso” non gli piace per niente, ma prova a rispondere)
Io sto ancora sperimentando, cerco nuovi suoni e la tecnologia digitale permette ulteriori miglioramenti in questo senso. In effetti ho “abusato” delle tastiere in passato… (lo ammette, infine, eccazzo) ma mai da rendere inservibile uno strumento, dopo erano sempre riutilizzabili. C’è sempre un limite all’abuso! Quando improvvisi, il solista avventuroso cerca di suonare tra le note e questo con le tastiere non è possibili, sei costretto dalla scala cromatica, dai semitoni, mentre i chitarristi o i suonatori di sax possono glissare le note. Ogni sera, salgo sul palco e suono un assolo differente, ed è grande quando riesco a trovare un fraseggio che non ho mai suonato prima. È divertente, esaltante, inventare al momento qualcosa di nuovo, ed è un dono. E molte volte non lo registri! Certe notti, scendiamo dal palco e ci complimentiamo l’un l’altro per certe improvvisazioni e ci chiediamo: cos’era? E il problema è che non son cose che puoi riprodurre, diventano aride senza il feeling del momento.
Quello che rende speciale la musica degli anni Settanta è forse proprio nella capacità e nella disponibilità ad improvvisare, no?
Ma guarda, qualche settimana fa mi han fatto notare che alcuni miei contemporanei, tipo gli Yes o i Genesis, quando arrivano gli assoli, rimangono fedeli a ciò che avevano inciso nei dischi originali. Io non l’ho mai fatto: lo scopo di un assolo è provare a suonare qualcosa di veramente differente.
C’è mai stata rivalità con Jon Lord e Rick Wakeman?
No, rivalità no. Rispetto Jon Lord come musicista ed è anche una bella persona. E anche Rick è un grande. Jon non segue le mode, ha una sua voce con l’Hammond e il piano. Un altro che apprezzo ma che è stato sottavalutato è Brian Auger. Quando Rick Wakeman è venuto fuori e anche lui aveva diverse tastiere e il costume di scena, beh, mi son chiesto: dove l’ho già visto? Comunque dopo poco tempo ci siamo conosciuti e ne abbiamo parlato e lui ha un grandissimo sense of humour. Oltre a essere un grande musicista, ovviamente.
hrc602Senti, perché l’abilità tecnica, ad un certo punto, è diventata fuori moda? (Anche grazie al punk…)
La musica passa attraverso fasi diverse, di critica e di pubblico (fa spallucce). Generazioni diverse… e la musica punk, poi… (fa un vocione impostato, non l’ha ancora digerita trent’anni dopo) la musica punk mi piace! E Johnny Rotten abita vicino a me! (La voce torna normale) In effetti abitiamo vicini… dopo che ha cantato contro il Capitale e per l’anarchia, io sto in un condominio e lui in un villone!
Hai mai incontrato di nuovo i membri della PFM o del Banco?
L’altra sera, a Roma, ho incontrato il tastierista del Banco ma non so bene cosa abbiano fatto in questi anni. Nella Manticore (l’etichetta fondata e gestita dagli Emerson, Lake and Palmer) non mi occupavo io delle band che producevamo. Erano Pete Sinfield e Greg Lake. E a dirla tutta mi sembrava una cosa stupida: non riuscivamo a prenderci cura di noi, figurati degli altri.
E Dario Argento, mai più rivisto?
No, non recentemente, ma i suoi film mi piacevano molto ed era bellissimo che la mia musica fosse usata per un assassinio o per creare una situazione di tensione o orrore. Quando ammazzi qualcuno col tuo Moog, non mancano mai le idee, anche quando arrivi alla settima vittima! E poi scrivere per il cinema è una bella disciplina, devi adattarti a una cornice precisa, non come sul palco dove vai avanti fino a che hai idee.
Qual è stato il responso critico per Emerson plays Emerson?
Non ho letto molto, devo dire. Comunque il motivo per cui ho fatto questo CD risponde a due esigenze. Lo chiedevano i fan – che nei miei diversi album avevano sempre solo un brano o due per pianoforte – e poi anche l’EMI Classics. L’acquirente abituale di musica classica è un po’ disperato, sai. Il CD è bello resistente e quando ti sei già comprato tutto Wagner, cosa rimane? E questo è anche il motivo per cui si cercano sempre nuove idee, tipo le opere di McCartney o Roger Waters (e non che mi siano piaciute, sinceramente).
Usi il computer per comporre?
No, sono computerfobico! Se componessi su PC son sicuro che andrebbe in crash e perderei tutto! Scrivo sul mio Steinway e al limite lascio la trascrizione ad altri.
Però hai l’iPod, no?
Sì, e ci tengo dentro di tutto, ma soprattutto jazz, fine anni Cinquanta, inizio Sessanta. La roba di oggi non mi fa impazzire.
Quando arriva Natale, non temi di dover sentire di nuovo i singoli di Greg Lake?
Ma perché, dai. Mi piacciono i singoli di Lake! Sul serio, lo adoro e abbiamo fatto grande musica assieme.
Però quei singoli erano, in qualche modo, differenti dalla musica che componevate per gli album, contrastanti.
Sì, ma dovresti parlarne con Greg e con Sinfield: era una giustapposizione al nostro repertorio.
La cosa più politica che hai fatto, sul palco, è stato bruciare la bandiera americana. Cosa pensi della guerra, oggi, in Iraq?
Era stata una trovata, sul serio, e se pensi al 1968, in effetti, nessuno aveva osato fare tanto. Sai, c’erano i cantautori di protesta, allora, Dylan o Donovan. Ma fino a quel punto, non s’era spinto mai nessuno. E noi avevamo soldati americani che venivano ai nostri concerti che ci chiedevano di bruciare le loro cartoline di arruolamento: c’era la guerra in Vietnam e decisi di usare il tema di America… ma non sono nella posizione per dare giudizi politici.
Senti, non pensi che, per esempio, l’ultimo Dvd degli ELP, o il tuo passato distolgano l’attenzione dal tuo lavoro attuale?
Tipo un effetto nostalgia? Non credo, sai. La gente viene ad ascoltarci ancora e c’è sempre un grande interesse. E noi proviamo a spingerci sempre in avanti. Questa è la differenza tra la musica progressive e il pop di oggi.
E che fine ha fatto il costume d’armadillo?
È bruciato, con la mia casa!
E i coltelli della gioventù hitleriana – regalo di Lemmy quand’era tuo roadie – per accoltellare l’Hammond?
Venduti! Quando ho divorziato avevo bisogno di un sacco di soldi e li ho fatti vendere.
Dopo questa lunga carriera, hai trovato un senso della vita?
(Trasecola e ride) Questa non è una domanda, è LA domanda! Mah! Oggi io cerco soltanto una compagna con cui mettermi tranquillo, poi boh!
(4 dicembre 2005)

hrc603L’attualità (per motivi sbagliati) dei Grand Funk Railroad
Son passati trent’anni dall’immortale copertina di Survival, con i membri dei Grand Funk Railroad ritratti in comodi panni neanderthaliani. Trent’anni in cui il gruppo più vituperato degli anni Settanta s’è sciolto, s’è riunito e ridisciolto senza perdere mai la fama di adorabili sfigati dell’hard più fracassone. Non erano blues oriented come gli Aerosmith, non cavalcavano il glam cartoonish dei Kiss, non proclamavano la loro politicizzazione come i MC5, né passavano per outsider intellettuali come i Blue Öyster Cult: erano semplicemente i trogloditi del rock, senza capacità virtuosistiche o compositive, e provenivano dalla tremenda Flint, città natale dell’arrabbiatissimo Michael Moore e colonia della General Motors. Oggi il pubblico americano li conosce grazie alla tifoseria sfegatata del capofamiglia Simpson (e che Homer li adori spiega tante cose). Sono passati trent’anni anche dal loro ellepì migliore, quell’E Pluribus Funk che rivoluzionava il concetto di packaging (presentandosi come una enorme moneta d’argento); un po’ meno quello della musica, anche se, a ben guardare, la tracklist possiede ancora oggi una sorprendente attualità. A fianco di sfrenati inviti alla danza (la travolgente Footstompin’ Music), sbulaccate machistiche (Upsetter) e pensosi tentativi pseudopoetici (la melensa Loneliness) c’era anche lo slancio ecologista di Save The Land e, soprattutto, l’accorato appello di People, Let’s Stop The War. Nell’arco di una quindicina di anni i GFR hanno licenziato diversi dischi memorabili, per un motivo o per l’altro. Il terremotante Live Album del 1970 è diventato una pietra miliare degli album dal vivo, Shinin’ On è, credo, il primo – se non l’unico – LP con la copertina 3D (con gli occhialini inclusi nella confezione!). Ma era notevole musicalmente anche Caught in the Act, dove veniva fuori l’attitudine soul e blues del gruppo, del resto stimato da Todd Rundgren (produsse l’ottimo We’re An American Band) e pure da Frank Zappa, istigatore di Good Singin’, Good Playin’ del 1976 e che di loro disse: “Sono fantastici. FAN TAS TI CI. Con una “F” alta tre volte te!”. Bene: io li ho amati e voi a breve sarete conquistati, ma se siamo qui a parlarne è perché la longevità dei Grand Funk Railroad (poi dispersi in altre formazioni, anche con derive religiose) non è nella lungimiranza del progetto artistico ma nel cammino a ritroso dell’amministrazione Bush che sta regalando al mondo un nuovo Vietnam all’anno e disattende bellamente il protocollo di Kyoto. Dopo la geniale pensata che il conteggio dei morti in Iraq non debba tenere più conto dei civili (da noi la chiamano contabilità creativa), sono arrivate anche le tremende “cartoline dall’inferno” con le torture del carcere di Abu Ghraib. Prima i sospetti, poi le prove, e ora pensano di metterci una pezza mandandoci il direttore di Guantanamo (e non è una battuta. Il mostro di Milwaukee era già occupato?). Tra le tecniche per sciogliere la lingua ai prigionieri, il cosiddetto “bombardamento sonoro”: quale gruppo di hard rock cafone verrà inconsapevolmente coinvolto in questa porcata? Dov’è finita l’America generosa e bonacciona di Homer Simpson e dei Grand Funk Railroad? (Giugno 2004)

negrita_3Ehi! Negrita!
I miei primi Negrita risalgono a quindici anni fa, al Canguro di San Colombano al Lambro, 200 spettatori stipati all’inverosimile. Mi sentivo come Jon Landau la sera che sigillò il destino suo e di Springsteen e pensai: stasera ho visto il futuro del r&r italiano. Ero giovane, erano giovani, ma tenevano il palco come veterani. Gli anni passano e oggi i Negrita sono una rock band affermata, vendono bene, fanno tour pieni, però sono rimasti sempre a margine del successo di massa, da stadio. E per fortuna, vien da dire, parlandogli, perché sono di quella razza ormai rarissima in Italia, di chi fa coerentemente di testa propria. Nessun compromesso e nessun proclama; mai leccato il culo ai giornalisti (cosa che hanno pagato eccome), mai convenientemente posato da star per rotocalchi, mai storiacce di corna e droga per solleticare le voglie gossip dei lettori. Come mi dice il cantante Pau, disarmante nella sua sincerità: “Siamo una comunità di amici fricchettoni con figli, che vuoi farci?”. All’inizio erano cinque dottori per curare la peste, come recitava l’autobiografica Ehi! Negrita, e il loro momento di crisi non è coinciso con vendite in ribasso o nebbia creativa ma con l’abbandono per motivi personali del fraterno batterista. Dopo un incontro nei camerini (“Per piacere, non chiederci anche tu Che rumore fa la felicità!”) in cui si parla di crisi economica, di Sanremo e di downloading, tocca al concerto, una mezcla piccante, due ore di blues, funky e reggae: tutti i suoni del sud del mondo, sublimati nello scintillante suono elettrico del nord. L’ultimo album Helldorado è i Negrita all’ennesima potenza, un Buenos Aires Calling che dal vivo viene proposto quasi per intero. Si danza maschi e femmine con le dovute pause per le ballate perché se c’è qualcuno a cui devono qualcosa – come ricordano Pau e il chitarrista Drigo – quello è il pubblico. Tantissimo, del resto: sold out vero, mica da agenzia stampa. Sono sempre stato convinto che fossero la migliore live band rock italiana e trovo ulteriore conferma: nei Negrita senti gli Stones e Rino Gaetano, la tradizione e il futuro, il meticciamento e le basi del r&r, con una potenza di fuoco fenomenale (anche grazie all’altro chitarrista, Cesare, un riff dopo l’altro) e un groove continuo. E anche i testi scintillano in questo mare di lava sonora ulteriormente arricchito da una consolle e delle percussioni latine. È una festa che celebra la loro libertà, come sintetizza il coro totale del palasport di Lampugnano su A modo mio. E dopo quindici anni penso che io ero Jon Landau e non lo sapevo. E che questo paese non se li merita, i Negrita. Tra poco partiranno per il Sud America e l’Europa con lo spirito di quando hanno iniziato, perché sanno che la vita è una verifica continua e chi si abitua alle recite negli stadi poi non produce più una nota decente. E hanno ragione. (Aprile 2009)

hrc605Io brindo agli Uriah Heep
Melissa Mills dovrebbe essere una mia collega, ma non so se abbia tenuto fede all’impegno preso recensendo il primo album degli Uriah Heep, proprio su un Rolling Stone del 1970: “Se hanno successo questi, mi suicido”, letteralmente. E nella fattispecie, nel terzo millennio gli Uriah Heep continuano ad avere successo: magari non come nel 1972 (l’annus mirabilis di Demons and Wizards e di The Magician Party), però prendendosi le loro belle soddisfazioni. È appena uscito Live in Armenia, località se non altro balzana, ma il presidente locale è un grande fan e allora, perché no? Del resto il russo Medvedev ama i Deep Purple e li ha fatti esibire al Cremlino e non escludo, prima o poi, un Live At Arcore delle giovanissime Ruby and the Jets, con opener Mariano Apicella. Comunque: io ho visto Werner Herzog mangiarsi una scarpa per scommessa (era di cuoio: bollita otto ore con verdure è diventata edibile), ma il regista tedesco è un genio. Invece della Mills, pur googlando, non ho trovato notizia di suicidio e credo che ogni volta che esce un disco degli Heep provi un po’ di vergogna per quella sparata infantile. Perché il primo LP (dalla copertina sinceramente emetica, seconda solo ai repellenti Abominog, degli stessi Heep, e Born Again, dei Black Sabbath) era buono eccome, se non forse un po’ grezzo, e tra alti e bassi il sestetto è arrivato fino al recente Into the Wild, tosto assai e per niente arcaico. Questi qui si son barcamenati per quarant’anni tra cambi di line-up, un bassista fulminato sul palco, ritiri, ritorni, dischi inutili e altri sottovalutati, svernando nel terzo mondo musicale quando qua da noi non era aria, per poi tornare trionfalmente ad ogni revival. E ora che viviamo nell’ottusa nostalgia di tutto, il loro strambo ma coinvolgente mix di hard rock, progressive e voci in falsetto alla New Trolls, funziona ancora. Capelli – quando ne sono rimasti – bianchi, pance debordanti, posture epiche, ugole sguaiate e sound martellante (nonostante le occasionali ballate pastorali come la splendida Come Away Melinda), gli Heep non son diventati più belli. Erano orrendi allora (sembravano il gruppo TNT, giuro) e i superstiti non sono migliorati, ma il vino, invecchiando, ha acquisito corpo: alzo il mio calice verso di loro, prosit, lo meritano. (Gennaio 2012)

hrc606Matt Filippini Story
Fossimo a Hollywood, la storia che sto per raccontarvi sarebbe un blockbuster conteso dai produttori, un Flashdance hard rock e per di più una storia vera, cosa che agli yankee piace sempre sottolineare, specie quando la vicenda è assolutamente inverosimile. Cremona, Italia: un giovane chitarrista coltiva il sogno di milioni di rockettari. Fare l’album della vita, accompagnato dai propri idoli musicali. Matt Filippini è tecnico in un’acciaieria ma, pur non suonando metallo pesante, non disdegna la schitarrata con la giusta saturazione timbrica. Non ha un gruppo suo, ma gli piace suonare in giro e una sera finisce a jammare con Ian Paice, batterista dei Deep Purple spesso dalle nostre parti, e gli allunga un demo con tre pezzi originali. Paice apprezza, risuona le parti di batteria e incoraggia Matt che non se lo fa dire due volte. S’indebita appoggiato dalla moglie – bassista che crede nella coppia e nel rock quanto lui – e autofinanzia il Moonstone Project. E gli altri partecipanti? Una rockstar è lontana solo l’invio di una mail e chiedere è lecito: Glenn Hughes, basso e voce ultra-funky (dai Deep Purple degli anni Settanta fino alle recenti collaborazioni con diversi Red Hot Chili Peppers), risponde subito e partecipa entusiasta. Dopo di lui è una sarabanda di adesioni dal bel mondo dell’hard storico e degli anni Ottanta: Carmine Appice (batterista dei Vanilla Fudge e co-autore con Rod Stewart di Da Ya Think I’m Sexy, per dire), le voci di Eric Bloom (Blue Öyster Cult), Graham Bonnet (Rainbow) e Steve Walsh (Kansas), il basso di Tony Franklin (Whitesnake)… Un cast stellare che provoca un’immediata pavloviana salivazione in chiunque ami il buon rock, quello con chitarre turgide, riff trascinanti e con la sezione ritmica che si sente davvero. Il progetto è promosso da un’etichetta inglese, la Majestic Rock Records che, se non dimostra gran gusto estetico (la copertina dell’album è una cafonata unica), ha certamente fiuto musicale. Il buon Matt adesso dovrà scegliersi bene le ferie: lo aspettano showcase in USA ed Europa e un tour in Giappone, Russia e Sud America, dove i vari ospiti si alterneranno. Se siete il fanatico musicomane che passa le serate al pub a fantasticare di line-up ideali davanti a una birra, beh: non vi resta che cercarvi Time To Take A Stand. Jennifer Beals aveva una controfigura, Matt Filippini ha fatto tutto da solo e con un piccolo aiuto dagli amici. E ha fatto benissimo. (Giugno 2006)

(Fine – 6)

Le puntate precedenti sono qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter: #RadioCacace (edit)

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 61 https://www.carmillaonline.com/2014/07/03/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-61/ Thu, 03 Jul 2014 21:26:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15584 di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004 Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì. Venerdì arrivo presto [...]]]> di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004
Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì.
Venerdì arrivo presto dall’ufficio, faccio una spesa blietzkrieg comprando cibi strategici e mi metto subito sotto, senza indugi, sono uno serio, io. Cioè vedo le prime quattro puntate del serial, sbafando patatine all’aceto e un caprice des dieux scartocciato e addentato come una banana. Sabato mi sveglio ad orario congruo e faccio il mio dovere professionale fino a tarda mattinata, quando ci stanno un kebab leggerissimo con Coca Cola e altre due puntate. Le vedo ruttando cipolla cruda. Riprendo a scrivere e a merenda gradisco ancora due episodi accompagnati da un Twix ciascheduno. Arrivo a sera stanco e un po’ appesantito, chissà perché, e allora ci sta una diavola presa sotto casa con litrozzo di Menabrea ghiacciata e come niente mi scoppio altre quattro puntate. Ormai ho preso il ritmo, sono a metà dell’opera (del cofanetto, intendo) e ho un’efficienza produttiva sudcoreana con rigore (e prevedibili punizioni, in caso di fallimento) nordcoreano. È già domenica e per pranzo concludo il mio lavoro, che non è neanche male. Santifico la festa e la libertà con Cipster, un intero salame di Piacenza ben stagionato che non mi preoccupo neanche di tagliare – tanto va via a morsi che è una meraviglia – e innaffiando il tutto con Lemonsoda a 4 gradi, uno dei piaceri della vita. Una festa a sorpresa per il mio colesterolo, ma chi ne gode di più sono i miei lobi cerebrali perché il fiero pasto viene consumato pazientemente mentre assumo dodici episodi di Lost, uno via l’altro, concedendomi giusto una pisciatina ogni tanto. E arrivato alla fine della maratona gastroseriale dichiaro convinto che probabilmente, ad oggi, questa è l’esperienza televisiva più clamorosa di ogni tempo. Fate questa semplice addizione: Robinson Crusoe + Cast Away + L’isola del dottor Moureau + Il signore delle mosche + il telefilm Le isole perdute + il videogame Monkey Island + la saga di Airport + L’isola del tesoro + il reality Survivors + l’estetica primi seventies e tutto l’immaginario pop che vi possa venire in mente. Ganci narrativi a profusione, apparato tecnico e artistico a livelli sublimi, attori azzeccati, dialoghi (in originale) perfetti: è impossibile mollarlo, è una droga potentissima, che il crack al confronto smetti quando vuoi. La storia la sapete e non ve la ripeto e l’intreccio è clamoroso. Ma la formula prevede anche flashback che illustrano il passato dei 14 protagonisti, formula quasi banale orchestrata magistralmente: ognuno ha un passato che nasconde qualcosa, tutti sono inspiegabilmente legati, anche senza saperlo. Alla fine ne viene fuori una macchina narrativa perfetta: si può fare di meglio, ma 24 episodi in 52 ore – dovendo lavorare – sono un mio personale piccolo record. Gli extra del cofanetto sono interessanti: i creatori di questa macchina da guerra sono tre trentenni adrenalinici, cazzoni e affilati come rasoi, capaci di mettere in piedi lo show – come lo chiamano loro – in pochi giorni, assoldando il cast mentre lo script era ancora in embrione. Oppure diciamo che la mitologia agiografica vuole così, ma non importa: la prima serie di Lost è un capolavoro, comunque vada a finire. (Dvd; 6, 7, 8/4/07)

ddv6102Douro632 – Compiacimento archeologico con Douro faina fluvial di Manoel De Oliveira, Portogallo 1931
Altra Vhs da estinguere, con una registrazione che mi aspetta da diversi anni: il primissimo film di De Oliveira, quando era appena ventitreenne. Il documentario è fortemente debitore del cinema sovietico ed è assimilabile alle tante “sinfonie urbane” di quegli anni. La vita sul fiume Douro, sotto il ponte Luiz I, dall’alba alla notte: grafismi, assonanze visive, dinamismi, nature morte, riflessi, ombre, particolari, montaggio analogico, primi piani, grandangolate. Ci rivedi dentro Ivens, Chomette, Ruttman, Clair (La Tour), Vertov, Vigo e molta avanguardia coeva: un film piccolo, bellissimo e montato da dio. Appagante il gusto per la bella immagine, pulita, pregnante. Non si è più abituati a questo nitore e la volgarità della tivù è nell’averci disabituato alla bellezza compositiva, all’inquadratura filmica come opera d’arte. Ecco. E De Oliveira l’anno prossimo compie cent’anni: ha cominciato col muto e il bianco e nero ed è ancora lì che gira e produce a tutto spiano. Magari chiava pure, non so. Pazzesco. (Vhs da RaiTre; 10/4/07)

ddv6103 JCS639 – Oddio, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, USA 1973
Nuova passione di Sofia duenne, che ne ha visto un pezzettino e non lo ha voluto mollare più. Ovviamente la visione è di pochi minuti per volta ed è rigidamente censurata quando le cose volgono al peggio per Nostro Signore Hippie. Il quesito che Sofia mi pone continuamente è perché litigano tutti (Gesù con Giuda, Giuda con gli apostoli, i farisei con Gesù etc.) e non s’immagina neanche lontanamente come finiscano malissimo tutte queste discussioni. Il film io lo ritrovo splendido e le ripetute visioni me ne fanno apprezzare ogni sfumatura. La musica, beh, è clamorosa, lo sappiamo già: prima di tutto, Jesus Christ Superstar è stato un disco strepitoso, realizzato perché in teatro nessuno si sentiva di produrre un’opera con protagonista Gesù. Se ti dicevano che l’ottica era quella di Giuda, poi… I due autori ventenni, Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, oggi baronetti, hanno poi fatto la storia del genere, ma all’epoca scommisero pesante. Girava una parola nuova, allora: “Superstar”. Decisero di fare i gggiovani e di usarla per un titolo che colpiva e per analogia costruirono un Gesù rockstar, con Giuda ideologo preoccupato dal troppo successo d’immagine che oscurava il messaggio. La storia acquisì anche sottotesti politici e, per me, una costante tensione omosessuale. Musicalmente siamo allo stato dell’arte del rock di quegli anni: influenzato dal pop, con reminiscenze di ragtime quando serve, perlopiù improntato da un rhythm and blues da infarto, non disdegnando tracce di psichedelia e hard (con la chitarra scatenata di Henry McCollough). Da contrapporre al Giuda discografico di Murray Head (quello di One Night In Bangkok!) serviva un Gesù potente e incazzoso, umano e non divino (stesse conclusioni di De André per il coevo La buona novella): l’ascolto delle urla barbariche di Child in Time sul non ancora pubblicato In Rock dei Deep Purple fece trovare l’uomo giusto, Ian Gillan. Maria Maddalena venne invece scovata per caso, mentre cantava in un club postribolare: era la Yvonne Elliman, che purtroppo dopo fu solo corista e amante di Clapton. Nell’ottobre 1970 uscì l’album doppio, da considerare assieme a Tommy capostipite di tutte le rock opera. Oggi siamo oltre le 20 milioni di copie vendute: avesse esordito come musical in un teatro di provincia non ne conosceremmo neppure l’esistenza. Invece il successo del disco fece fare due più due a qualche impresario che portò l’opera per 8 anni consecutivi nel West End londinese (record dell’epoca, oggi non so). Nel 1973 – sull’onda del successo ormai planetario – venne realizzato questo film meraviglioso che accentua gli anacronismi (e la stessa temperie hippie era già bella che passata) e leviga lo score musicale con l’orchestra, ma senza esagerare: infatti la chitarra continua a improvvisare a latere. Gillan, interpellato, non partecipò per impegni che dovete conoscere e nel cast subentrarono l’ottimo e strabico Ted Neeley e soprattutto il Giuda marxista che non dimenticheremo mai, Carl Anderson, morto tre anni fa, pace all’anima sua. In questo Jesus Christ Superstar sono eccezionali anche il montaggio, i costumi, la recitazione generale o le incredibili location on site, con il sole sempre basso (doveva fare un caldo dell’accidente, eh). Siccome sono prodotti del loro tempo – album doppio e film –, i critici li hanno sempre un po’ snobbati e li dimenticano ogni volta che bisogna fare una di quelle stupide classifiche che servono a riempire le riviste durante i mesi estivi. Ma sbagliano e le due opere meritano ancora oggi lo status di capolavoro assoluto. Oh, stiamo ben parlando di Dio, eh? (Dvd; maggio ’07)

ddv6104 Bova640 – Io, l’altro di uno inadeguato, Italia 2007
Devo confessare l’antefatto: nell’ultima puntata del programma tivù cui lavoro è stato ospite gradito Raoul Bova, un educatissimo gnoccolone – lo confermo per le lettrici femminili con la Bova alla bocca –, molto carino. E che a registrazione ultimata ci ha invitato tutti alla prima di un film che ha prodotto e interpretato, credendoci molto. Promettono tutti di venire ma al cinema mi presento solo io (redazione di paccari snob!) e siccome non ho faccia tosta abbastanza mi siedo in mezzo al pubblico plebeo e scoprirò solo dopo che avevo un posto riservato di fianco a Giorgio Armani. Pensa cosa s’è perso: un Cacace in camicia da boscaiolo e pantaloni cargo lerci, roba che ci tirava fuori due collezioni estate-inverno per l’uomo casual. Vabbeh: il film. Due pescatori, uno italiano, uno arabo, con lo stesso nome (Giuseppe e Youssef) lavorano assieme su un peschereccio, sinché non emergono dubbi e differenze e accuse. Va prevedibilmente a schifìo: il film ha sicuramente un intento meritorio ma il veleno del terrorismo raccontato da un regista con poche letture (il tunisino Mohsen Melliti) fa crollare le aspirazioni di un apologo teatrale molto scarno. I due attori (Bova e Giovanni Martorana) tengono in piedi il film nonostante lo script schematico, con passaggi di sceneggiatura che sfiorano il ridicolo e dialoghi maldestri a dir tanto. E qui la colpa è di sceneggiatori che per conto mio meriterebbero la radiazione dall’albo, se mai esiste, perché i buoni propositi non bastano. A fine proiezione esco dalla sala perplesso, pensando ai fatti miei, dimentico dell’atmosfera celebrativa e in cima alla scalinata che dà sull’esterno mi ritrovo all’improvviso abbracciato dal coraggioso Raoul Bova, accecato da un crepitare di flash che mi avranno sicuramente guadagnato una partecipazione involontaria a Sipario su Retequattro. Succede. A me. (Multisala Odeon, Milano; 14/5/07)

ddv6105 24641 – Lo stupefacente 24 – Season 1 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2001
Di questo seriale controverso e altamente addictive, che è il non plus ultra dell’adrenalina televisiva e che porta a un consumo compulsivo simile a quanto avviene con Lost, parlo più avanti. Qui rilevo solo l’incredibile finale del thriller spionistico, una cosa che mai potreste immaginare. Abbiate fede, procuratevelo, deliziatevene e andate all’incredibile, ricchissimo, innovativo e geniale parere d’autore (cioè il mio) che troverete alla rec. #655. (Dvd; maggio e giugno ’07)

ddv6106 Uccidete la democrazia642 – Lo spaventoso Uccidete la democrazia! di Ruben H. Oliva, Italia 2006
Documentario maldestro e, purtroppo, senza uno straccio di prova esibita, sulle elezioni politiche dell’anno scorso, quando nel corso di una giornata si passò da una vittoria schiacciante dell’armata Brancaleone di Prodi a una risicatissima maggioranza a notte fonda, pelo pelo, tanto che oggi ‘sto governo vivacchia sperando che la Levi Montalcini arrivi oltre i cento anni. A urne chiuse il nano gridò subito al broglio, e siccome “l’ho detto prima io” nessuno fece notare granché che il sospetto, al limite, era per chi aveva gestito informaticamente il voto, cioè il governo uscente. Vabbeh. Sennonché sulla vicenda è tornato quel drittone di D’Alema, parlandone en passant da Fabio Fazio, dicendo cose gravissime senza però andare fino in fondo alla faccenda (lui, Fazio, i giornalisti, tutti, CAZZO!), perché tanto siamo superiori o più semplicemente complici. Il documentario in questione affronta la vicenda ed è sgrammaticato, sceneggiato male, con escursioni narrative che confondono (Portella delle Ginestre, il cospiratore americano) e con parti ricostruite in fiction semplicemente agghiaccianti, da non poterci credere, al di là del bene e del male come recitazione e testo. Mi stupisce che nessuno si sia preso la briga di prendere una videocamera e un microfono per andare da D’Alema a fare la domanda che Fazio non ha fatto: “A Massimo bello, spiegami un po’ BENE cos’è successo… perché quando si stava mettendo veramente male hai mandato Minnitti al Viminale? Cos’ha fatto là?”. E poi, facendo la fatica di cambiare interlocutore: “Caro Minnitti, spiegaci perché arrivi tu e s’inverte la tendenza dei voti…”. E magari una domandina anche a Pisanu, via!, ministro responsabile dell’epoca. Perché il flusso anomalo di voti e l’anomalia statistica della scomparsa delle schede bianche (in tutte le regioni, con le stesse percentuali, mai successo in 50 anni di Repubblica), non sono una prova, però un bell’argomento sì. E invece rimane tutto lì, adombrato, guadagnando al film la facile accusa di complottismo. Peccato, ma proprio “no buono”, come diceva Andy Luotto. (Dvd; 21/5/07)

ddv6107 apocalypto645 – Corri! Arriva Apocalypto di Mel Gibson, USA 2006
Seratina genovese, con papà che sonnecchia mentre su Sky passa Ogni cosa è illuminata, film rischiosissimo, tratto da uno dei romanzi più belli letti di recente. A film finito (e direi riuscito) e papà a letto ito, rimango solo con un dvd che mi attira terribilmente. Qui ne hanno parlato tutti malissimo – lo so – perché Mel Gibson sta prepotentemente sulle palle ai nostri critici. Del resto è un fascistone. Ma oltremare il film è stato ben accolto. Io non ho visto Braveheart la Passione di Cristo per cui non ho preconcetti e se puttanata dev’essere, che puttanata sia: me lo vedo anche se è tardi perché di sonno non ne ho per niente, domani non lavoro e ho diritto ogni tanto anch’io, eccheccazzo, al diavolo l’ideologia. E poi per me Gibson rimane l’amabile tamarro con la testa gonfia di Arma letale, l’eroe post-atomico di Mad Max e il soldatino eroico de Gli anni spezzati, mio personale stracult. Gli perdono tante cose, insomma. E vengo premiato in toto perché Apocalypto è una sesquipedale e clamorosamente divertente stronzata, un videogioco indiavolato dove un povero maya della foresta dello Yucatan deve fuggire da rapitori carogne e sacerdoti amabili che ti estraggono il cuore senza anestesia. Non ho verificato l’attendibilità storica del prodottino, ma non m’importa per niente: il thriller azteco è ritmato, colorato ed efferato e va via che è una meraviglia. E poi – per fortuna, verrebbe da dire – arrivano i conquistadores che sbarcano a sinistra dello schermo, cioè percettivamente a ovest (come se arrivassero dall’oceano Pacifico, insomma): il ribaltamento di campo geografico mi manda in sbattimento psicomotorio, tipo pilota di jet che perde l’orizzonte, e mi consegna a un sonno inquieto. Apocalypto è come una parmigiana di melanzane bisunta: sai che non devi mangiarla, lo fai, ti strafoghi, ne godi. E poi hai gli incubi. (Dvd; 26/5/07)

ddv6108 HRCCacace a Mosca (con filmino ad hoc!)
Per la consueta settimana di festeggiamento annuale dei 138 Hard Rock Cafe sparsi nel mondo, me ne vò con Riccardo a Mosca, a riprendere il concerto del nostro amico Vic Vergeat.
L’arrivo nella capitale è incredibile: smog come a Mexico City e traffico come a Mumbay, con SUV giganteschi e Lada arrugginite fianco a fianco. I semafori sono a gusto della Polizia che può cambiare segnale all’improvviso, rendendo l’attraversamento pedonale divertente come una roulette russa. Il mio albergo è davanti al Ministero dell’Interno, un imponente palazzo staliniano che negli anni Cinquanta, se eri un Giovane Pioniere, doveva sembrarti un missile puntato verso il cosmo. O verso le tue terga se eri un dissidente. Dicono che l’albergo – molto frequentato da politici stranieri – sia controllato dai servizi segreti che l’hanno tutto cablato. Mah: non ci credo, non voglio intaccare il mio sincero fervore sovietico.
L’Hard Rock invece è davanti alla casa di Puskin, sul vecchio Arbat, il corso dove la gente fa le vasche come in tutto il mondo e dove puoi vedere splendide ragazze, militari sfaccendati, facce piatte di buriati e calmucchi, artisti fasulli che disegnano caricature invendibili e turisti che ci cascano. Aperto nel 2003, il locale presenta reliquie decisamente cafone come gli abiti di scena di Ozzy Osbourne e Paul Stanley dei Kiss, gli stivalazzi di quella gran signora di Lita Ford e anche la clamorosa chitarra dei Blue Öyster Cult, sagomata come il simbolo di Cronos. Il tocco indigeno è dato da qualche balalaika elettrica di artisti francamente ignoti a noi occidentali. E a tavola altro che bortsch e blinis: panini molto yankee e per i fanatici degli Aerosmith pure la “Quesadilla alla Joe Perry”, polletto con una salsina urticante con cui faccio merenda. E poi si può fumare che è un vantaggio niente male.
Dopo le prime prove acustiche e di regia torniamo in albergo a prepararci per la serata. Vic è inquieto e accusa curiosi fastidi alla schiena, sinché non scopre che è venuto in Russia con due scarpe diverse (!) che lo fanno zoppicare. Ci prepariamo ad uscire, vagamente storditi dalla conturbante frequentazione dell’albergo di donne single eleganti ed altere che intuisco potrebbero incenerirti la carta di credito. Ma io ho una faccia da deficit e non vengo considerato come possibile cliente. Ci succede di peggio: siamo nella hall con la band e, momento surreale come pochi, da una rumorosa delegazione di politici italiani si stacca l’ineffabile Giulio Tremonti – lui, giuro – che ci piomba addosso curioso. Vuol sapere chi siamo e che facciamo a Mosca e nella vita. Non a caso non si offre come commercialista a nessuno di noi. È lì con Bertinotti per non so quale incarico comunitario (Tremonti: “Una gvuan vottua di balle”) e quando sa del nostro concerto dell’indomani e dell’abilità di Vic esclama “Magavui mi imbuco!”. Fausto non ci degna che di un cenno e devo dire che tra il rotacismo dei due risulta più simpatico quello di destra, mannaggia.
Andiamo nel ristorante più quotato della capitale in questo momento, italiano. È tutto offerto dal fantastico organizzatore della trasferta Luca e siamo trattati come superstar, con cibi nostrani pregiati e freschissimi, come certe burratine che vengono fatte arrivare dalla Puglia con voli giornalieri. Fuori dal locale una teoria di Hummer corazzati tutti col motore acceso. Chiedo distrattamente il perché a chi sa di cose moscovite e la risposta mi lascia la burratina a metà gargarozzo: “Per scappare subito in caso di attentato”. Comincio a osservare allarmato la clientela e ai miei occhi diventano tutti mafiosi ceceni, trafficanti georgiani, industriali del gas e generici tagliagole. Si finisce con classici brindisi e abbracci lacrimosi con sconosciuti e seppur barcollanti guadagniamo di nuovo l’albergo. Ric dorme 9 ore consecutive, senza pipì; io sono svegliato dagli SMS di sua moglie e tormentato da un’aria condizionata siberiana inarrestabile.
Il giovedì mattina è dedicato a un ovvio pellegrinaggio alla piazza Rossa. Vic compra delle scarpe nuove ai magazzini GUM, io mi faccio turlupinare acquistando alcune memorabilia sovietiche palesemente false, Ric riprende tutto, anche quando una guardia ci invita ad abbassare le telecamere, non capiamo se volendo una mancetta o cosa. La piazza è grossa ma non come credevo e San Basilio è proprio piccina, un labirinto espressionista. Pranziamo all’Hard Rock Cafe e poi dedichiamo il pomeriggio a prove estenuanti, fino all’ennesimo frugale spuntino e al concerto vero e proprio, davanti a una cinquantina di persone.
ddv6109 MoscaDopo l’esibizione ceniamo per l’ennesima volta nel locale, un po’ appesantiti, francamente, e nell’euforia post partum Vic ci racconta convinto della storia dell’uomo bicazzo, cui Ric e io non crediamo assolutamente. Complice la birra prima e le vodke dopo chiedo curioso di come siano posizionati i peni e ipotizzo rapporti a “presa elettrica” con la famosa donna con due buchi del culo. Ric ha un attacco di risa isterico e in albergo deve prendere il Ventolin perché ha ancora l’affanno asmatico un’ora dopo. Però poi scopriamo che la difallia esiste eccome (sui due buchi del culo non ho investigato).
Il venerdì siamo ancora storditi da alcolici, fumo e rivelazioni morfologiche, ma ci concediamo una visita più accurata del centro di Mosca, ritornando infine sulla piazza Rossa e visitando l’emozionante monumento dei caduti della seconda guerra mondiale. Ci sono segni dell’impero sovietico un po’ ovunque, non nascosti, neanche esaltati, ma presenti. Come il paragone quasi orgoglioso tra Putin e Lenin. Poi è già ora di ritorno a casa e dopo due ore in coda fino all’aeroporto Sheremetyevo, con un tempismo da film thrilling saliamo a bordo. Mosca addio. Come diceva Abatantuono nell’immortale Eccezzziunale veramente: “Che popolo, lo slafo!”. Ah: poi al concerto Tremonti ha dato buca. (Live 13, 14, 15/6/07)

655 – 24 – Season 2 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2002
Se arrivate dalla recensione #641 vi ho fregati: per i miei pensierini su questa serie magistrale vi tocca aspettare la #688 perché, lo confesso, ciurlo nel manico anche nella #672. (Dvd; agosto ‘07)

ddv6110 History Of Violence660 – Non ho capito benissimo A History Of Violence di David Cronenberg, USA 2005
Mah! Adesso: non è che se un film lo firma Cronenberg, debba per forza essere un colpo di genio… io son rimasto freddo, confesso, mentre tutto il mondo ha gridato al miracolo. L’unica cosa che mi ha colpito è quando a metà pellicola c’è l’idea clamorosa della lite che finisce in trombata: Viggo Mortensen e Maria Bello litigano furiosamente, si menano di brutto e poi – dopo un’occhiata elettrica – scopano come cani per le scale di casa. Detto questo, mi pare un film algido, in qualche maniera irrisolto, che parte bene per poi andare totalmente sopra le righe nella seconda parte. Ma non sembra averlo notato nessuno. Boh, sbaglierò io! Ed ero pure di buon umore: l’oracolo immerso nella pipì ha confermato, l’anno prossimo ripartono le notti magiche perché arriva un altro figlio, oh yeah! (Dvd; 25/9/07)

(Continua – 61)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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