Adriano Celentano – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni – 83 https://www.carmillaonline.com/2022/06/16/divine-divane-visioni-antiquissime-83/ Thu, 16 Jun 2022 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72384 di Dziga Cacace

Tutto quello che conta è come puzziamo assieme (Re Julien, Madagascar 2)

948 – Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì di Adriano Celentano, Italia/ Repubblica Federale Tedesca 1985 Qui siamo dalle parti del capolavoro incomprensibile, un delirio cattoconfuso dove collidono aspirazioni altissime, pauperismo, ossessione anticomunista, megalomania incontenibile, intuizioni folli, momenti grotteschi e cristianesimo hippie, tutto assieme appassionatamente come si conviene a un musical con risultati indefinibili che oscilla tra Jesus Christ Superstar Yuppi Du ma con l’estetica traviata da Flashdance. In poche parole Adriano ci [...]]]> di Dziga Cacace

Tutto quello che conta è come puzziamo assieme (Re Julien, Madagascar 2)

948 – Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì di Adriano Celentano, Italia/ Repubblica Federale Tedesca 1985
Qui siamo dalle parti del capolavoro incomprensibile, un delirio cattoconfuso dove collidono aspirazioni altissime, pauperismo, ossessione anticomunista, megalomania incontenibile, intuizioni folli, momenti grotteschi e cristianesimo hippie, tutto assieme appassionatamente come si conviene a un musical con risultati indefinibili che oscilla tra Jesus Christ Superstar Yuppi Du ma con l’estetica traviata da Flashdance. In poche parole Adriano ci racconta di un secondo avvento, con un vagabondo postmoderno, Joan Lui, che arriva in Italia in treno, tra un Giuseppe ferroviere e una Maria che fa la maglia, e poi si trova a Genova (!). Intorno a lui si radunano tanti giovani con la faccia di cazzo e lui canta come la società sia vittima di violenza e droga e tutti siano omologati in questo mondo “transistorizzato” (sono scene al porto antico e sulla sopraelevata, con migliaia di persone affacciate ovunque per vedere le riprese e l’operatore che non si cura minimamente di tagliarle dalle inquadrature). In poco tempo il santone sui generis Joan diventa un personaggio del mondo dello spettacolo e continua la sua predicazione, atterrito da come sia ridotto il mondo. Invoca il Signore: “ma perché ci hai dato tutta questa libertà?”. E il mondo – non senza qualche buon motivo – non vuole ascoltarlo. Ci si mette anche un diabolico tale Jarak, Giuda redivivo, impersonificazione del maligno, che prova a comprarselo ma Joan Lui non cede e trova il tempo di fare una piazzata al Tempio (pieno di prostitute, intellettuali, spacciatori e mercanti) dove suona una band con musicisti vestiti da cardinali e si trovano baristi con la mitra in testa. È tutto un pastone, con riferimenti al presente (il rapimento di Emanuela Orlandi) e attacchi alla tecnologia, all’edonismo, all’aborto, alle dipendenze e al socialismo sovietico. Celentano ha le stimmate, miracola ciechi, deformi e storpi e alterna questi momenti, che volendo potrebbero anche sembrare blasfemi, a momenti di surreale comicità scimmiesca che non c’entrano nulla e sarebbero pure la cosa migliore. E tutto ciò con la grammatica del musical: ogni tanto lui, cioè Lui, comincia a cantare, tra inglese maccheronico e parole profetiche. È tutto… esploso, non so come dire, e ogni tanto ci sono lampi di creatività che non ti aspetti, col montaggio curato da Celentano, che sciorina overlap e jumpcut. Dopo tante vicissitudini (e una performance di Claudia Mori nuda sotto una cascata) si arriva a un’Ultima cena in trattoria – giuro – e a delle conclusioni che sembrano una risoluzione strategica delle B.R. in acido: “il mondo è un insieme di corporazioni che formano tutto intorno alla crosta terrestre come… uno spessore di merda stratificato su tutte le nazioni (…) e questa merda l’avete messa voi!”. Di fronte alla constatazione che se Cristo tornasse sarebbe ucciso di nuovo, e anche per meno di trenta denari, Joan Lui viene assassinato e risorge mentre scoppia l’apocalisse ed è troppo tardi per pentirsi: un terremoto distrugge ogni cosa in una apoteosi biblica e splatter. Io veramente con la mascella crollata davanti a ‘sta roba qui. (28/6/12)

955 – Vivere alla grande di Martin Brest, USA 1979
Questo devo averlo visto la prima volta in tivù nel 1986. Storia semplice e irresistibile: tre vecchietti stufi marci della vita ebete che conducono, compiono una improbabile rapina che gli frutta 37mila dollari. Una miseria che per loro è però una cifra notevole. Ma soprattutto è la botta di vita che li rende felici. Fin troppo. All’indomani del colpo Willie (il grande Lee Strasberg) ha un infarto. Gli altri due, per parare il colpo, decidono di volare a Las Vegas e fare quello che non hanno mai potuto permettersi: giocare senza stare attenti al centesimo. E come capita sempre ai principianti, vincono a mani basse 70mila dollari ulteriori. Ma la polizia li ha individuati e sfiancato dalla fatica e dalle troppe emozioni Al (Art Carney, anche lui grandissimo) ci rimane secco nel sonno. Il mattino dei funerali Joe (George Burns, il migliore del trio) viene arrestato come se fosse un pericoloso delinquente. Ha già lasciato tutti i soldi al genero di Al e se ne va in carcere senza battere ciglio. Non dirà mai dove ha messo il bottino e finalmente viene trattato con un po’ di affetto e rispetto dagli altri detenuti. Commedia dolce-amara, con lentezze pronunciate, leggerezza e senso: anche se superficialmente e con le classiche gag, si parla di vecchiaia, solitudine e memoria. Il regista Martin Brest sarà poi responsabile di un capolavoro (Prima di mezzanotte) e di un monumento al kitsch (Scent of A Woman): qui aveva 28 anni ed era già un regista maturo: il film è affettuoso, simpatico e gli voglio un bene dell’anima. (11/7/12)

956 – Alba rossa di John Milius, USA 1984
A Milius non puoi non essere affezionato per tanti motivi che qui sarebbe troppo lungo ricordare ma di fronte ad Alba rossa io vacillo completamente. In un film così o ci entri subito, accettando il patto con la regia, oppure soffri come un cane. E io ho sofferto eccome: l’ho trovato surreale nelle premesse e illogico e ridicolo nelle conseguenze. Si parte con delle severe didascalie: il raccolto è andato male e l’URSS deve fronteggiare la crisi economica, c’è maretta nel Patto di Varsavia e l’Europa è in mano ai verdi e ai soliti omosessuali pacifisti. Il Messico è sconvolto dall’ennesima rivoluzione e un bel giorno russi e cubani invadono gli USA. Si chiamerebbe sospensione d’incredulità ma qui siamo oltre. Vabbeh. La storia è ambientata in un freddo postaccio rurale, Calumet, abitato da burini montanari completamente rincoglioniti. Un gruppo di ragazzi scappa sulle montagne, dove per un po’ gioca ai boy scout ribelli (e anche se non è colpa loro sembrano dei paninari, con le Timberland, i piumini e i jeans): quando tornano in città sono invisibili. In teoria sono ricercati ma nessuno li ferma: del resto gli invasori sono dei pasticcioni capaci solo di allestire campi di rieducazione e di appendere manifesti di Lenin ovunque, e che siano riusciti ad avere ragione degli USA in un amen non suona per nulla contraddittorio. A me non importa che l’assunto ideologico sia sfacciatamente reazionario, è che qui faccio veramente fatica: trovo tutto sconclusionato, tristanzuolo e noioso, e manca completamente un’epica credibile, essendo il contesto ridicolo, la recitazione improbabile e la psicologia dei protagonisti elementare. Il cast è ricco di attori che sarebbero diventati poi famosi (Patrick Swayze e Jennifer Grey dopo tre anni diventeranno divi planetari con Dirty Dancing), qui incappati in una direzione che li costringe a scene madri assurde una dopo l’altra, piangendo come fontane a ogni piè sospinto. I novelli partigiani autonominatisi Wolverines e che di partigiano non hanno nulla, se non qualche baschetto di maniera, si nascondono nella foresta degli Arapaho (cosa che dà ancor più il sapore della burla ma solo per motivi italiani). Gli brucia ancora il culo per Saigon e compagnia bella, ma non hanno imparato niente dalla guerriglia vietcong. Quando arriva l’inverno, voilà, eccoli conciati come sissit finlandesi, giusto per accendere qualche sinapsi negli appassionati di storia. I cubani esibiscono baffoni e fumano il sigaro, i sovietici sono mentitori nati e vigliacchi, capaci solo di fucilare allegramente indifesi patrioti che cantano America the Beautiful (giuro). Il gioco al ribasso è tale, tra invasori dementi e partigiani stupidi senza proseliti, che l’orchite è spontanea e ti viene da parteggiare troppissimo per gli invasori. I ribelli vengono decimati, nonostante le parziali vittorie in cui sparano sempre meglio degli avversari che sono militari veri e propri, miracoli balistici del cinema. Gli unici sprazzi di vitalità si hanno nella cattiveria dell’esecuzione dei prigionieri, con l’interrogativo, di fronte alla barbarie: “qual è la differenza tra noi e loro?” e la pronta risposta, ottusa e ferrea: “Questa terra è mia!”, roba da far rivoltare nella tomba Woody Guthrie. La penultima scena ci riserva un momento sublime: Patrick Swayze, bucherellato, porta via il fratello morente, Charlie Sheen. Un militare cubano, ammirato dall’eroismo fraterno (ma anche dall’empito rebelde in lui mai spento, evidentemente), li lascia crepare in pace salutandoli con un onorevole “Vaya con Dios!”. Alla fine la guerra sarà vinta, ma non da loro. E ci mancherebbe altro. Questa cosa stupefacente è stata scritta da Milius rivedendo un plot di Kevin Reynolds, regista di Fandango. Io proprio non so, anche perché il film ha tanti ammiratori intelligenti e se rileggo in Rete i commenti mi sento un po’ stupido io. E poi ho trovato un’intervista a John Milius in cui il regista rifiuta di essere definito destrorso: preferisce dirsi libertario, contro l’autorità dello stato, al punto che apprezza Marx e i comunisti che lo stato lo vogliono abbattere. Gli fa schifo il sandinista Daniel Ortega ma Ho Chi Minh per niente e pure Fidel Castro che secondo lui è un puro che non lascerà in eredità niente. Boh, io rimango confuso ma anche Milius non scherza, secondo me. (Dvd; 12/7/12)

958 – Diavolo in corpo di Marco Bellocchio, Italia/Francia 1986
Bellocchio si fa densissimo e contorto, io mi concentro dolorosamente senza capire e però il film – dalla fotografia pallida e dalla recitazione talvolta asinina – si fa vedere perché ha un insospettabile ritmo interno. Giulia – Maruschka Detmers, olandesina godardiana (Prénom Carmen) che sa essere innocente e peccatrice – è figlia di una vittima delle B.R. e al contempo fidanzata e sposa promessa di un pentito convertito al cattolicesimo. Viene notata sul suo terrazzo di casa dallo studente Andrea che frequenta un liceo classico dove la sua classe, ai piani alti, è raggiungibile grazie a finestre sempre aperte (e che danno anche su di un carcere). Man mano che si va avanti, vien fuori che tutti conoscono tutti. L’avvocato del pentito è in analisi dal padre di Andrea, che in passato ha avuto in terapia anche Giulia (“è pazza”, la diagnosi) e forse c’è stato pure qualcosa. Padri contro figli, lotta allo Stato, dissociazione, sensualità, disperazione: nella scena finale dell’esame di maturità Andrea fa un figurone (e non si capisce quando abbia studiato, ma del resto era pure finta la classe, senza una cartella o un astuccio aperto) e ci ricorda il libero arbitrio nel canto dantesco di Cacciaguida e la scelta tra legge degli uomini e legge di natura nell’Antigone di Sofocle. (Non so nulla degli studenti di oggi: ai tempi miei questa era fantascienza pura, ma sarò stato io un liceale asino). Il film deve la sua fama a una scena di fellatio abbastanza deprimente perché fotografata male, di sguincio, con imbarazzo. Ma non mi lamento perché non si veda bene il pompino ma perché risulti tutto scoordinato, con la Detmers che ride e l’attore Federico Pitzalis (mai più sentito) poco a suo agio. Ci sono altre scene di sesso qui e là, ma è come se l’eros fosse anestetizzato da questa stagione di pentimento generalizzato e non ancora compreso, un sesso disperato e avvilito. La Detmers è attrice ben strana, non aiutata dalle sue risate nordiche e gutturali in originale e poi con la voce chioccia e flebile del doppiaggio. Il suo personaggio ride sguaiato, poi piange, urla, pratica il rapporto orale, si pente, spacca i piatti, gli fai schifo, ti dà un bacio, ti mena uno schiaffo… ‘na pazza, insomma, come diceva l’analista. Ma sembra quasi una coloritura, non lo spunto per una riflessione sul disagio e la schizofrenia o perlomeno così m’è parso (ma ripeto: ero uno studente sciagurato e probabilmente lo sono rimasto). Dopo che un prof ha sentenziato che “Si può anche vivere senza essere marxisti”, si conclude con Maruschka che piange felice di fronte al bell’esame del muscolato Andrea e fine. Di botto, all’improvviso. Boh. Film non particolarmente verboso ma didascalico, mortificato da una grammatica elementare e soprattutto freddo e cerebrale. Unico lampo di umanità che ho colto io la scena d’amore cruda e toccante tra irriducibili in una gabbia del processo. Il film nasce da un soggetto scritto da Bellocchio con Enrico Palandri su vaga ispirazione del romanzo di Raymond Radiguet, ed è dedicato affettuosamente allo psicanalista Massimo Fagioli. Mah. (Dvd; 18/7/12)

959 – Laguna blu di Randal Kleiser, quello di Grease, USA 1980
Io questa pedovaccata non l’avevo mai vista. Oddio: magari qualche scena, di passaggio, ma mai mi ero fermato per seguirne lo sviluppo e facevo bene perché una volta che sei catturato è impossibile staccarsene, è una fiabona ineludibile: in epoca vittoriana Richard e la cugina Emmeline naufragano bambini su un lussurioso isolotto del pacifico. Crescono assieme al marinaio panzone Paddy che però indulge con l’acquavite e un bel dì ci rimane secco. I due superstiti si arrangiano e vivono come fratelli ma fratelli non sono e quando arriva la pubertà, e beh, sono attirati l’uno dall’altra, diventano litigarelli, nervosetti e in buona sostanza arrazzati come due macachi in calore. Lei – la quattordicenne Brooke Shields – è uno degli esiti evoluzionistici del Sapiens Sapiens più clamorosi, con due occhi felini, i capelli pudicamente appiccicati al seno acerbo e il broncetto di chi sa di essere bellissima. Lui – lo gnoccolone muscoloso Christopher Atkins, in realtà diciottenne – è un Big Jim biondo (per cui Big Jeff, se la memoria non mi tradisce) che non può che stare sulle balle a tutta la popolazione maschile mondiale eterosessuale. Ovviamente i due non capiscono una mazza del subbuglio ormonale di cui son preda e in un innocente ritorno allo stato di natura cominciano a darci dentro come dei bonobo, sinché Emmeline non rimane incinta. Ogni cosa è una scoperta e in effetti non avendo alcuna educazione, orientarsi in quel casino che è la vita non risulta semplice. Tanto più che sull’isola ci son dei selvaggi antropofagi che indulgono nella gradevole pratica del sacrificio umano. I due bellocci hanno infine un figlio, fino a una chiusa che ha qualcosa di enigmatico. Laguna blu, ennesimo successone al botteghino di quel tipo incredibile che è stato Randal Kleiser (che poi ci avrebbe anche regalato Summer Lovers), è un film pruriginoso ma a carica erotica controllatissima, per famiglie, da strizzate d’occhio, anche salaci (il frustrato Richard che a un certo punto va su uno scoglio – comodissimo – a farsi una zaganella) (o a tirare il collo all’oca) (giusto per non dire farsi una sega che faceva brutto, eh, qui siamo signori). La fotografia di Néstor Almendros è bella e funzionale a dare respiro a una vicenda semplice che alla fin fine vede i due protagonisti non far altro che nuotare, pescare, dormire, mangiare, cogliere frutti, sorprendersi di un certo arrazzamento, fino all’immancabile copula, però dissimulata tra grandi abbracci. Viene tutto intervallato contrappuntisticamente da iguane, tarantole, tartarughe, mantidi religiose, pesciazzi, pappagalli e altri uccelli. Fuorché quello di Richard. (18/7/12)

960 – Paradise di Stuart Gillard, Canada 1982
E siccome son critico serio, procedo immantinente alla comparazione col clone Paradise, un Laguna blu sabbioso e un po’ più hard. Il plot è pressoché identico, sennonché nella scopiazzatura viene inserito un motivo di tensione che fa reggere fino alla fine la vicenda: la splendida Phoebe Cates, Sarah, è presa di mira da uno schiavista arabo, lo Sciacallo, che la vuole nel suo harem. Lei affronta una traversata del deserto, da Baghdad a Damasco, e in carovana c’è anche il giovane David, figlio di predicatori e pure rampollo della Famiglia Bradford, per chi ne avesse memoria televisiva. Finisce in massacro, coi ragazzotti che scampano alla morte e trovano rifugio in una splendida oasi, con vista su un lago interno dalle spiagge tropicali. La congruenza geografica non rientrava nei piani del regista anche sceneggiatore, suppongo. Così come la logica: infatti basta uno stacco di montaggio e questi due si son fatti la villetta di bambù tra le palme, a più piani, con veranda e dondolo, in attesa di futuro condono edilizio. Il sole spacca le pietre e lei ha prontamente un bikini tipo Ursula Andress in 007, mentre lui esibisce perizoma e gilet. La vita idilliaca con crema solare a protezione 50 prosegue tra vaghe tentazioni carnali, intervallata da tramonti tra le dune o sul lago e allietata dalla presenza di uno scimpanzé burlone. Ma lo Sciacallo – incarnazione di tutti i luoghi comuni sugli arabi – vuole fortissimamente Sarah e insiste a dare la caccia alla coppia: inseguimenti, fughe, cammelli, palme, cocchi, nuotate nel mare all’interno del deserto (con clamorosa barriera corallina, wow!) e ovviamente l’amore. Con gli stessi passaggi di Laguna blu, ma con molte più scene di nudo e diverse strategiche docce a ogni cascata che si trovi tra le sabbie, cosa probabilissima. I due ci danno dentro a ripetizione a 40 gradi di temperatura e la regia piuttosto bovina riprende carezze, tette spremute e occhi chiusi in rapita estasi. Fino alla prossima doccia. Si conclude con un duello risolutore: quando un uomo con cavallo e sciabola incontra un fesso con l’arco, il suo destino è segnato e si torna alla civiltà sulle note virali della sigla di coda, la Paradise cantata dalla Cates medesima, canzone di cui basta la citazione perché ti si incisti nel cervello per qualche giorno. Concludo: filmaccio turpe per adolescenti che infatti mi ha divertito un mondo. (19/7/12)

871 – Ginger e Fred di Federico Fellini, Italia 1985
Ginger e Fred, Marcello Mastroianni e Giulietta Masina, ballerini, sono due vecchie glorie del mondo dello spettacolo, vittime del tempo che passa inesorabile. Chiamate a una partecipazione televisiva, conosceranno l’attuale crudele realtà dello showbiz. È un film sullo spaesamento di due anziani di fronte alla bolgia dantesca (con rimando visivo puntuale, la METAFORA) che è diventata l’Italia e la critica è talmente esplicita, puntuale e farsesca che mi sembra quasi infantile, di quella ingenuità di cui Fellini era stato maestro e che qui suona un po’ fuori tempo. Durante la visione mi rendo conto che ho fame (sono a dieta e non tocco una Lemonsoda da una settimana), vorrei fumare (qui resisto da 6 mesi) e il film mi sta un po’ scassando. Barbara s’è addormentata dopo venti minuti e io resisto e ve la dico tutta: l’atto d’accusa di Fellini è comprensibile, ma la forma con cui è espresso è molto antica. La confezione, con una messa in scena artificiosa, è in scenografie polverose che puzzano di fame, illuminate da luci da studio, irreali, mortificanti. E siamo d’accordo che si vuole passare la freddezza della tivù ma manca uno scarto poetico. E mi sembra anche antico il moralismo: contro la pubblicità (cui il Maestro si sarebbe presto piegato coi famosi Rigatoni) e contro il caos volgare e sguaiato del cavaliere Lombardoni (…) ma pure contro i drogati, gli ambulanti e i transessuali, eh, diciamolo. E poi il film è d’una lentezza esiziale. All’epoca venne preventivamente salutato come un capolavoro contro la decadenza morale italica e lo vide in anteprima pure il presidente Cossiga, forse motivo dei seguenti sbrocchi mentali. Ovviamente giudicare col senno di poi questo film che usciva nell’euforia socialisteggiante degli anni Ottanta è fuorviante ma se lo vedo ora non ci posso fare nulla e per quanto mi sforzi mi pare che non funzioni granché, anche se poi ci sono diverse scene toccanti come le prove della coppia di ballerini nei bagni, i discorsi durante il blackout che blocca le riprese televisive, l’addio reciproco alla stazione, nel finale. Quando Fellini non vuol farti la morale, allora esce un calore umano vero, anche grazie ai due notevoli protagonisti, un Mastroianni sull’orlo del cedimento strutturale e una Masina tutta dentiera. Avevano 60 anni e in quella Italia chi aveva 60 anni era vecchio. Non come oggi che sei un ragazzo a 40 anni, un uomo a 50 e un signore a 60, ma vecchio fino agli 80 non lo diventi. Questi erano veramente anziani a 60 e si vede, al di là del trucco: si vede dalle facce, da come si muovono, da cosa dicono e come. E infatti sarebbero ciccati a breve, superati appena i 70. Concludendo, faccio i conti della serva: con clown, nani e zampognari Fellini fellineggia, musicalmente Nicola Piovani roteggia e c’è pure Moana Pozzi nella finta pubblicità Olivoil con lo slogan “fateci un pensierino”. Altro che uno. (5/9/11)

886 – The Wrestler di Danny Aronofksy, USA 2008
Leone d’oro a Venezia 2008, mi prendo flemmaticamente tempo per vederlo e ci arrivo solo oggi. E stabilisco: buon film, dolente, non particolarmente ricattatorio. Ma non so se sia voluto, nel senso che il film ha il difetto nella prevedibilità estrema del plot –sviluppi ed esiti – e pertanto non mi risucchia nel classico vertice emotivo che caratterizza questi drammoni: la vecchia gloria (in questo caso di un lottatore di wrestling, Randy) che dopo tante traversie tenta la carta del rientro in scena, con rimpianti, ansia di rivincita etc. Qui leggi la sconfitta in faccia al protagonista fin dalle prime scene e sai già che non c’è scampo. Certo, magari t’illudi, ci credi, ci speri, o comunque vuoi talmente bene a Mickey Rourke che non accetti il finale e frigni. Però, non so, forse son troppo disilluso io: m’è parso che Aronofsky non sia sincero fino in fondo e firmi il compitino, senza sorprese. Bello il discorso subliminale che attraversa tutto il film, sulla verità e sulla falsità della rappresentazione e sulla nostra necessità di crederci, come da sempre accade col il wrestling, una baracconata recitata e creduta in un colpo di sole collettivo. In fondo la storia di Randy the Ram è un percorso cristologico, e la religione cos’è, se non un’immensa messa in scena? È come il wrestling, però sul ring ci si fa male: si recita, ma i colpi pesano un accidente e se il tuo cuore è infiacchito da troppe cazzate, prima o poi si spezza. Come quello dello spettatore, ecco. La canzone di Bruce Springsteen sui titoli di coda è bella, ma non mi smuove come avrei voluto, è un ricarico un po’ troppo costruito. A proposito di musica: la colonna sonora è volutamente cafona e falsissima, secondo i gusti perversi del protagonista, con tanti gruppacci chiassosi degli anni ‘80 come Quiet Riot, Scorpions e altri. E Randy lo dice: li ha fottuti quel cazzo di Kurt Cobain! È vero e aggiungo: per fortuna, dando una sveglia a tutta la scena musicale e garantendo una sopravvivenza mainstream al rock per almeno ancora un decennio. (13/11/11)

(Continua – 83)

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Oppure binge reading qui, su Carmilla.

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Hard Rock Cafone #1 https://www.carmillaonline.com/2015/07/02/hard-rock-cafone-1/ Thu, 02 Jul 2015 20:22:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23484 hrc100di Dziga Cacace   

e noi dietro col fiato corto

Affanculo tutti: i SANTARITA SAKKASCIA  Scrivo da anni di hard rock cafone, avendo usurpato il nome per questa rubrica di Rolling Stone da un grandioso gruppo dei primi anni Novanta, quando l’underground vero esisteva ancora. Si chiamavano Santarita Sakkascia, romani e romanisti (Deppiù, come recita la loro cover “ramonata” di un canto tifoso di Lando Fiorini) e suonavano tutto. Dal punk al metal passando dal reggae e dalla psichedelia. Lo facevano bene e con un’intelligenza estrema nei testi, ma siccome erano anche [...]]]> hrc100di Dziga Cacace   

e noi dietro col fiato corto

Affanculo tutti: i SANTARITA SAKKASCIA 
Scrivo da anni di hard rock cafone, avendo usurpato il nome per questa rubrica di Rolling Stone da un grandioso gruppo dei primi anni Novanta, quando l’underground vero esisteva ancora. Si chiamavano Santarita Sakkascia, romani e romanisti (Deppiù, come recita la loro cover “ramonata” di un canto tifoso di Lando Fiorini) e suonavano tutto. Dal punk al metal passando dal reggae e dalla psichedelia. Lo facevano bene e con un’intelligenza estrema nei testi, ma siccome erano anche sarcastici alcuni criticonzi pigri li imbarcarono nel filone demenziale. Esistenziale piuttosto. E non scherzo. Concerti, centri sociali e il rito domenicale della sala prove sfociarono in cassette e CD autonomamente prodotti e distribuiti. Ne riparlo oggi con Emanuele Gabellini, allora bassista, oggi artista e “ambasciatore dell’ordine dei confusionari”. Nessun rimpianto, perché erano liberi sul serio, tanto da finire agli arresti per la liberatoria e blasfemissima Santi Numi (vedasi Youtube: si astengano i bigotti, godano gli altri). A fianco alla caciara dell’inno alle fetentissime scarpe Mecap o al vertice geniale del surreale incontro con John Zorn “alla fermata del 23”, c’era anche l’insofferenza genuina per i politicanti (Manco si skiatti), per la Videocracy 15 anni prima del documentario di Gandini (Sti cazzi e Nostalgia di Khomeini) e per la tentacolare società dei consumi (Senza titolo).
hrc101Colpivano anche l’inquietudine e il disagio urbano di Sono depresso e di Sto come ‘na pigna, che parlava di droga come Vasco non è mai stato capace. Il loro manifesto anarchico era però nella rabbia autentica di Affanculo tutti che ben rappresentava il disorientamento dell’Italia del 1994, post Tangentopoli e nella merda come prima, col virus berlusconiano inoculato in vena. E non scrivo inoculato a caso. Hard Rock Cafone, autoprodotto nello studio PanPot e distribuito da Helter Skelter, vendette diverse migliaia di copie, sicuramente molte più di quante oggi servano per entrare nei primi posti in classifica. Ma la storia dei Santarita Sakkascia finì poco dopo, nel 1996, proprio perché lo si faceva per piacere; a se stessi e non a una casa discografica e rientrando giusto delle spese. “Non ci potevamo vivere, ci potevamo morire!”, ricorda Emanuele. Che, a chi mantiene in Rete un culto sotterraneo, annuncia che prima o poi si rifaranno vivi anche se “non si sa in che forma”. Ne abbiamo bisogno. (Dicembre 2009)

hrc102Fortemente illogico: LEONARD NIMOY
Conosco poco la mitologia di Star Trek – che m’è sempre sembrato uno sconclusionato pigiama party ambientato nello spazio – ma lo Spock di Leonard Nimoy era indubbiamente il riflessivo e soprattutto atarassico membro dell’Enterprise, contrapposto all’emotivo ciccione interpretato da William Shatner. Però nella vita la passione c’era, eccome: per la musica. Tanto che quando arrivò la proposta indecente di fare un disco, il buon Leonard colse l’occasione al volo. Teletrasportato in studio, sfornò la bellezza di cinque Lp di successo variabile, prodotti in maniera saccarinosa e ineccepibile, trasformando la duttilità della voce di Nimoy – elastico come un dolmen – in una recitazione ieratica e giocando sul suo ruolo televisivo, tanto che il primo album venne chiamato Highly Illogical. Forse in riferimento all’operazione, che però – e dal popolo che ha inventato Disneyland non mi aspettavo altro – è diventato un piccolo capolavoro di cattivo gusto, capace di resistere negli anni come l’arredamento afro tipico dei Sessanta. Ho assaggiato col brivido che si prova quando, in trasferta estera, ti offrono il cervello di scimmia al cucchiaio o le locuste arrosto. Un dieci per cento di curiosità e un novanta di schifo. La pasta dolciastra si fa calare: una droga a cui rimani sotto, ipnotizzato dalla voce incapace di estendersi oltre la mezza ottava e fantasiosa come quella dell’annunciatore della stazione quando dice la fatidica frase “treno locale, ferma a tutte le stazioni”.
2m8BXUfrifeheoheVEXk1Zl6o1_500Le canzoni sono spesso apologhi morali degni dei Baci Perugina o bozzetti satirici surreali, con occhi alieni, sulla vita terrestre e sulla condizione umana, alla faccia di André Malraux. Pulsar, arpe, echi e suoni siderali condiscono il tutto, senza dimenticare le versioni asmatiche di classici come Sunny o Proud Mary. Ma in questo obbrobrio c’è una straordinaria coerenza che ha reso le canzoni dei classici, tanto che l’uscita del film Il signore degli anelli ha riportato la briosa (diciamo così) Ballad of Bilbo Baggins in classifica. Oggi Leonard Nimoy ha assunto la fisionomia di un Toni Negri incazzato, ha pubblicato due indecise autobiografie (intitolate una Io non sono Spock, l’altra Sono Spock) e sporadicamente fa qualche comparsata, come nell’ultimo Star Trek cinematografico. Ma musica, basta. Del resto ci vuole orecchio, non necessariamente a punta. (Marzo 2010)

hrc103Ho provato a far perdere la pazienza a IAN PAICE
I batteristi sono un po’ come i portieri nel calcio: se non son matti, non ci piacciono. Ian Paice è l’eccezione: se John Bonham dei Led Zepp era un amabile attaccabrighe che poteva scolare litri e litri di vodka, e se Keith Moon degli Who era capace di entrare da un gioielliere ebreo vestito da gerarca nazista, beh, Paice è sempre stato the “quiet one”, quello che, in mezzo agli altri Deep Purple, era il bonaccione. Come si è dimostrato in un pomeriggio in cui avrei fatto saltare i nervi a un eremita buddista. L’appuntamento è a Marano Vicentino, in un confortevole bed n’ breakfest. Quando arrivo, a pomeriggio inoltrato, Paice sta dormendo e manager e promoter – clamorosamente fiduciosi o più umanamente pelandroni – me lo affidano. Mi dicono: lo svegli, lo intervisti e ce lo porti al soundcheck. Prendo nota della strada e attendo. All’ora stabilita mando a chiamare il batterista che si presenta poco dopo in t-shirt nera, pantaloni bianchi e stridenti mocassini color crema. La faccia è quella di sempre, i capelli – mi dicono – originali ma il dubbio rimane (mica come la certezza per Blackmore, che ha il tuppo dagli anni Ottanta); è in forma, giusto un po’ di trippetta, ma niente a confronto della mia che ho vent’anni di meno: si direbbe che lui abbia firmato un patto col diavolo. Consente che videoregistri tutto e risponde quattro volte alla prima domanda perché, nell’ordine: il microfono è spento, cede una gamba del cavalletto, trilla un telefono. Ad ogni modo è in Italia perché gli piace il posto, si mangia e si beve da dio e, onestamente – riconosce –, suonare dal vivo è il modo migliore per tenersi in forma, nelle pause che gli concedono gli incessanti tour mondiali dei Deep Purple. Il nastro gira e lui risponde amabilmente, simpatico e disponibile. Diplomatico quando vado sulla politica (non mi pare un extraparlamentare di sinistra, comunque) o su Ritchie Blackmore che crede di vivere in una fiaba tolkeniana (“If he’s happy, why not?”). Nel tempo libero sta in famiglia (le combinazioni: è sposato con la gemella della moglie di Jon Lord, tastierista fondatore dei Deep Purple), ascolta jazz classico e guarda il calcio in tivù, da tifoso molto deluso del Nottingham Forest. Dillo a me, che sono genoano in serie C. Probabilmente consapevole che i Purple abbiano prodotto alcuni tra i peggiori videoclip della storia, disprezza la logica commerciale di MTV, ammira la tecnica dei giovani batteristi (“Something that I can’t even understand!”) ma invoca originalità e sudore. Del resto, chi ha visto Live8 s’è reso conto dell’abisso drammatico tra i gruppi storici e la masnada di giovinastri che guadagnano la ribalta mediatica grazie a modelle e cocaina. Il nuovo album della band è nato nel giro di un mese, senza tergiversazioni: duro, compatto e potente. Non vede l’ora di andare a suonarlo in giro: è la classica frase promozionale ma dopo mezz’ora con lui, il suo entusiasmo pare sincero. Finita l’intervista partiamo alla volta della Gabbia, disco-pub con – pensa – un palco a forma di gabbia che rimanda più a fantasie S&M che alla musica, ma tant’è. Siamo già in ritardo e mi perdo nella pianura veneta, confuso da rotonde poco palladiane, dalla segnaletica enigmistica e stordito dalla concimazione dei campi (Paice: “Holy Shit! Move quick, please!”).
hrc10bIl ritardo aumenta e la situazione diventa uncomfortable, ma Ian conserva bonomia e humour. Gli dico che penseranno che l’abbia rapito e lui ribatte: “Usually, the kidnapper knows where to go!”. Alla fine ce la facciamo, dopo mezz’ora di panico: un ciula con la maglietta di In Rock a fianco di Ian Paice, persi tra i campi di radicchio… Dopo il soundcheck si cena in una birreria. S’è aggregata un sacco di gente e mangiamo tutti assieme sotto lo sguardo severo di un bassorilievo di Mussolini. Ian degusta birra e stufato e firma dischi tra una portata e l’altra. Sopra la cassa un fez nero e un manganello con scritto “Me ne frego”! Io faccio più fatica a fregarmene e trinco Soave, perdente al confronto dei commensali autoctoni che, da buoni veneti, bevono come dei SUV. Poi si va al concerto, dove il batterista si accompagna a una band locale di vecchie glorie, l’Altro Mondo, per un set tutto a base di Deep Purple. Nel break Ian risponde alle domande del pubblico (la differenza tra Blackmore e Steve Morse? “Well, Steve’s on stage every night!”) e si produce in un mirabolante assolo grazie al quale rimango sordo per tre giorni. Poi, alle due di notte, trionfa il vero rock n’roll: Ian si apparta cinque minuti, si asciuga il sudore e la fatica, cambia maglietta, stappa una birra e poi si concede con pazienza da miniaturista medievale alla scrittura di un centinaio di autografi su piatti, foto, rullanti, dischi, cd, magliette, bacchette e dvd: non gli risparmiano nulla e lui firma. Come il patto col diavolo tanti anni fa. (Settembre 2005)

hrc104Io sono amico di FABIO FRIZZI
Dietro l’ombra lunga di Ennio Morricone si nasconde una ricchissima generazione di compositori che hanno fatto grande il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta. La riscoperta è partita dall’estero (le varie raccolte Easy Tempo, i recuperi di Tarantino) ma negli ultimi tempi s’è sviluppato anche da noi un gusto per quella musica libera e lo dimostra il felice esperimento dei Calibro 35 che, tra cover e composizioni originali, sono già al secondo album (bello, tra l’altro). Durante la mia gavetta tivù da schiavo tipo Boris, ho avuto la fortuna di conoscere uno dei Maestri del periodo suddetto, quando lui era un ragazzo capace di sfornare 4 o 5 colonne sonore all’anno. L’ho massacrato di domande e siamo diventati presto amici. Il suo nome vi sembrerà un lapsus di Luca Giurato, ma Fabio Frizzi (fratello di, esatto) ha firmato musiche che avete ascoltato e apprezzato tantissime volte: dall’immortale colonna sonora di Fantozzi a quella di Febbre da cavallo, quando il triumvirato con Tempera e Bixio era un marchio di garanzia. Da solo è presto il compositore di riferimento di Lucio Fulci, diventando famoso in Francia e USA. Quentin ha una passionaccia per lui: l’ha messo nella soundtrack di Kill Bill e solo per questioni di diritti non appare anche in Unglourious Basterds. Precocissimo, Fabio suonicchia in due musicarelli con Mal, ma esordisce realmente a 23 anni con Amore libero, pruriginoso (allora; oggi… pfui!) debutto di Laura Gemser. Da lì non si ferma più, tra poliziotteschi, horror, commedie sexy e qualche Monnezza. Ha scritto 80 film, 30 fiction, balletti, musical, composizioni per chitarra classica e anche la marcetta de I fatti vostri di RaiDue che, pensateci bene, ha una caratteristica virale degna del miglior Nino Rota. Basta? Macché: è direttore d’orchestra, docente e ha fatto cinque figli. In più è una bella persona, un artista e un artigiano, totalmente sereno anche se i maggiori riconoscimenti al suo lavoro gli arrivano dall’estero, dove non esiste certo intellettualismo da terrazza romana che dà patenti di artisticità solo agli amichetti del giro buono. Oggi che il cinema produce poco, Fabio compone per tante fiction e lo fa come un tempo: “tra Bach e Beatles, ma tirando sempre al classico!”. E lo dimostra quello che ritiene il suo esito forse migliore: la colonna sonora della fiction Il Capitano, con protagonista nel tema la voce della grande Edda Dall’Orso. Ecco, uno così non vi capiterà di trovarlo nel salotto della Dandini, ma in una colonna sonora di Hollywood sì. (Gennaio 2010)

hrc105A New Day Yesterday: JOE BONAMASSA
Dici blues e pensi solo al vecchio nero che, dopo una giornata a raccogliere cotone, canticchia sommesso il suo dolore sul portico di casa. Sbagli, perché il blues, in un secolo di vita, ha continuato ad evolversi. Come oggi dimostra Joe Bonamassa, un entusiasta ragazzone di neanche trent’anni ma con le capacità musicali di un veterano. Italiano di quinta generazione, torna – primo della famiglia – a casa. Lo intervisto nel front lounge del suo tour bus. Intorno ha iPod, un portatile sempre in Rete e un grasso sigaro cubano in bocca, l’unico vizio assieme a collezionare chitarre e bere Diet Coke a garganella. Il tour è andato bene ma ha mangiato da bestia ed è ingrassato. Con una chitarrina in mano a 4 anni e il benestare di BB King a dodici, ha già praticamente suonato con tutti ma crede (e ha ragione da vendere) che riproporre il blues come nel 1930, per la gioia dei puristi necrofili, sia la morte della musica del diavolo. Infatti lui imbastardisce il suo sound con diverse influenze e per rilassarsi ascolta la classica, per trovare idee i vecchi Genesis e per fare l’amore, niente: “Una cosa per volta, non voglio perdere la concentrazione”. Nei suoi dischi e dal vivo capita anche di ascoltare dei pezzi degli Yes, ma è quando parla di gente come Paul Kossoff, Rory Gallagher o Jimmy Page che gli brillano gli occhi. È un pacioccone con le idee estremamente chiare e sa che aver cantato di puttane e whisky a dieci anni non è stato esattamente realistico. Per sentire il blues bisogna un po’ vivere e siccome è in tour da vent’anni, adesso gli argomenti non mancano. E poi la storia si ripete: ha preso una vecchia canzone d’inizio secolo di Charlie Patton e l’ha trasformata in un canto di dolore per la New Orleans devastata dall’uragano Katrina. Allora si sospettava di dighe aperte per sgomberare i neri dai terreni da riedificare; lui qualche sospetto ce l’ha anche per il presente. Ma non c’è solo il blues, ci sono anche i piaceri della vita, come gli episodi dei Simpson o gli action movie di kung fu che guarda assieme a band e crew. Apprezza Zucchero (confessa che se l’è scaricato) e oggi vorrebbe fare una jam con Amy Winehouse. Insomma: vive nel presente. In serata il Transilvania di Milano è pieno da scoppiare. Giovani chitarromani, vecchi bluesman de noartri, il purista cagacazzo che si lamenta dell’uso degli effetti e pure il reduce di Woodstock che probabilmente non si fa una doccia da allora. Joe è uno showman smaliziato e appaga tutti: cita i maestri bianchi e neri e spazia dall’acustico all’hard. Ne nasce una sintesi dialetticamente marxista ed eccitante, moderna, viva: il blues ha un futuro. (Marzo 2007)

hrc106La voce nera di MARC STORACE
La “Notte della chitarre” svizzera non è un film dell’orrore, ma la celebrazione elvetica della sei corde, un concertone fantastico tenuto a Berna questa primavera, nonostante una nevicata di proporzioni siberiane. E senza alcun ritardo, figurati. In mezzo a tanti guitar heroes locali, c’era anche un vocalist d’eccezione: Marc Storace. Se vent’anni fa avevate vent’anni, ricorderete quando sul vagone dell’heavy metal mondiale saltarono su anche quei rockettari dei Krokus: nome sinistro, ma attitudine gioiosa, all’assalto del mondo dagli alpeggi di Heidi. Ma Marc – voce a metà strada tra Bon Scott e Robert Plant, ma più nera – in realtà viene da Malta ed è un perfetto mix anglo-siculo. Non ha più la capigliatura da Napo Orso Capo degli Ottanta, ma il sorriso levantino è sempre lo stesso. E anche la voce, dopo oltre tre decenni di carriera, conserva quell’amabile raucedine da bocconata di sabbia nella strozza. Nei Sessanta, il nostro cavaliere di Malta passa l’adolescenza sull’isola e viene folgorato come tutta la sua generazione da Elvis e Beatles. E vista la vicinanza geografica, ammette, anche da Celentano e Fausto Leali. E conosce presto l’amore (si sa: le ragazze maltesi amano far visitare La Valletta, ah ah). E allora Marc non ha più dubbi su cosa farà da grande: a vent’anni è a Londra e poi in Svizzera, nel cuore dell’Emmental. Che non produce solo caciottelle, ma anche la musica dei Tea, misconosciuta formazione con cui il brevilineo Marc gira l’Europa. Ancora esperienze, un’audizione coi Rainbow e poi l’occasione della vita: la chiamata dei Krokus. L’abbinamento è perfetto: i “big noses” Fernando Von Arb (chitarra) e Chris Von Rohr (basso) e la voce scartavetrata del tozzo e irruento Storace fanno dei Krokus una band hard coi fiocchi che conquista prima la Confederazione, poi il mercato anglossassone. Il rock’n’rolex funziona e i Krokus vendono dieci milioni di dischi mentre MTV passa a rotazione i loro videoclip che sfoggiano impunemente patatone, tutini attillati, teste laccate e gonfie e anche una discreta ironia. Seguono le consuete massacranti tournée in USA e Giappone, fino all’inevitabile sipario: finiscono gli Ottanta e la musica che gira intorno è ancora più dura e violenta. E i Krokus si mettono a riposo. Non Marc, che suona pop e soul assieme a Vic Vergeat e poi, quasi per caso, lancia il fortunato progetto degli Acoustical Mountain, scarno combo che rilegge il rock con due chitarre e la sua voce. Doveva essere la schitarrata da dopo-sci, complice il grappino, ma il gruppo diventa un must in tutte le località sciistiche svizzere. Nel 1994 c’è la prima reunion dei Krokus, anche se i tempi non sono ancora maturi. Il successo vero torna nel 2001, passati definitivamente grunge e condonati i crimini sartoriali a base di lurex. Storace è orgoglioso del suo passato, ma non è un nostalgico. Ammette i compromessi col business, riconosce il male (“the evil, my dear”) che si annida nel successo, dispensa buonumore e autoironia. Come sul palco, dove gioca coi cliché del rocker mai cresciuto, in tutti i sensi. Marc ha una voglia di musica e di vita straripante, è tuttora pieno di progetti (tra cui l’immancabile sogno cafonissimo di un’incisione con orchestra sinfonica) e il resto dell’anno lo vedrà impegnatissimo ancora coi Krokus. Ventisei anni dopo l’esordio, di originale nella band c’è solo lui, ma se i Queen si riuniscono senza voce, sarà mai un problema se i Krokus hanno solo quella? (Settembre 2006)

hrc107Il vangelo secondo MAURIZIO SOLIERI
Se uno fa due calcoli e sa di cristologia, Maurizio Solieri si accompagna a Vasco Rossi da 33 anni ed è la pietra angolare su cui il Blasco ha costruito la sua chiesa. In occasione dell’uscita di un vangelo (Questa sera rock’n’roll, scritto con Massimo Poggini) incontro il chitarrista davanti a un rosso di pregio, dopo una presentazione del libro di fronte a una platea un po’ desolante ma agguerrita. Lui è uno splendore: chioma fluente, giacca da motociclista, abbronzato e con la lingua tagliente, addolcita solo dall’accento sornione e dalla “R” arrotata. Il libro appena pubblicato è la sua storia, ma anche quella di chi ha fatto rock nei primi anni Ottanta, quando si potevano avere in scaletta Albachiara, Siamo solo noi e Colpa d’Alfredo e fare il pienone in Emilia e il deserto a Campi Bisenzio, il famoso “gran suzzèsso” davanti a dieci spettatori silenti. Maurizio – oltre a dividere il palco con Vasco – chiaramente, fa le sue cose (un album solista l’anno scorso, diverse date con la sua band) incurante di come sia cambiato la discografia, anche se “morta” sarebbe la parola giusta. “Di un disco di Solieri di 57 anni non gliene frega un cazzo a nessuno… mentre di un quattordicenne punk: figaaata!”, mi dice, ridendo. Non è una lamentela, è una constatazione, di fronte a un mercato dove il supposto indie che urlacchia su due accordi (è quello che pensate voi, sì, lui) ha più possibilità ormai di chi suona da anni. È anche atterrito dai reality show: “Va bene 15 minuti di notorietà, ma non di più, dài! Di quante cantanti che imitano la Pausini abbiamo bisogno?!”. Nel libro c’è l’entusiasmo e la disillusione, le classiche “maialità” in tour – come le chiama lui – come gli abusi (alcolici, nel suo caso), il ricordo affettuoso di Massimo Riva e il rapporto non sempre idilliaco col Vasco, raccontato con sincerità e senza leccare il culo. E a parlargli, Maurizio è franco e non accampa scuse, pigliandosi responsabilità e dandole, per una carriera felice, con soddisfazioni personali (la Steve Rogers Band) e anche qualche momento buio, con la fortuna ma anche la sfiga di essere la chitarra per antonomasia di Vasco, status che dà lustro ma non troppo lavoro usciti dall’orbita del rocker di Zocca. Tra un tour e l’altro Solieri viaggia molto, ascolta (dai Gov’t Mule ai fantastici Black Country Communion, passando per Jeff Beck e Derek Trucks), legge di musica –specialmente stampa estera perché le riviste italiane gli fan girare i coglioni – e soprattutto vede una paccata di film. Ha goduto con il documentario chitarristico It Might Get Loud e con l’ultimo Polanski, ma l’emozione cinefila più grande gli è arrivata l’estate scorsa, quando ha incontrato Bernardo Bertolucci: “Oh: sapeva TUTTO! Di me e Vasco, di Hendrix e di Jack White!”. Questo è essere giovani (BB, intendo). (Dicembre 2010)

(Continua – 1)

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