Adolf Eichmann – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’ordine delle cose https://www.carmillaonline.com/2019/04/21/lordine-delle-cose/ Sun, 21 Apr 2019 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47962 di Alessandra Daniele

“Consiglio a Salvini di imitare un po’ più Minniti: fare di più, e parlare di meno” – Marco Travaglio, Tagadà, La7, 13 febbraio 2019

Corrado è un tipo efficiente e ordinato. La sua vita privata è serena. La sua reputazione professionale è ottima. L’ordine è la sua piccola mania. Colleziona souvenir dei paesi dove va per lavoro, bottigliette di sabbia che dispone per sfumatura di colore. Corrado è un funzionario del governo italiano, addetto a organizzare gli accordi con le milizie libiche, e il finanziamento dei lager in Nordafrica. Corrado è un uomo di legge. Alla [...]]]> di Alessandra Daniele

“Consiglio a Salvini di imitare un po’ più Minniti: fare di più, e parlare di meno” – Marco Travaglio, Tagadà, La7, 13 febbraio 2019

Corrado è un tipo efficiente e ordinato.
La sua vita privata è serena. La sua reputazione professionale è ottima.
L’ordine è la sua piccola mania. Colleziona souvenir dei paesi dove va per lavoro, bottigliette di sabbia che dispone per sfumatura di colore.
Corrado è un funzionario del governo italiano, addetto a organizzare gli accordi con le milizie libiche, e il finanziamento dei lager in Nordafrica.
Corrado è un uomo di legge. Alla domanda “Hai mai ucciso qualcuno?” risponde che sì, ha lasciato morire di fame un detenuto cercando di farlo parlare.
Corrado è Eichmann.
Con L’ordine delle cose (2017) Andrea Segre ha realizzato un film su Eichmann, sugli Eichmann contemporanei. L’unico film sulla dottrina Minniti-Salvini, e l’ha fatto prima che fosse ufficiale.
Con uno stile impeccabile, e grazie anche alla straordinaria interpretazione di Paolo Pierobon in un ruolo apparentemente semplice, e in realtà difficilissimo, Andrea Segre ha realizzato uno degli unici tre o quattro film italiani dell’ultimo decennio che valga la pena vedere, che dicano qualcosa di vero, attuale, e importante sulla realtà.

Secondo Salvini, in Libia la guerra non c’è, o comunque non ce n’è abbastanza.
Ci sono (testuale) “ancora pochi morti”. Quindi i profughi in arrivo dalla Libia non avrebbero il diritto allo status di rifugiati.
Il ministro che imbraccia il mitra assicura “I profughi veri vado a prenderli io in aereo”, scegliendoli come ha già fatto una volta, cosa che ci ricorda continuamente la propaganda leghista.
Periodicamente anche l’Italia sceglie qualcuno a cui riservare in via del tutto esclusiva la propria ipocrita, auto-assolutoria compassione condizionata. Un token: i ragazzini dell’autobus dirottato, la bambina esclusa dalla mensa scolastica.
Intanto, anche in materia di ordine pubblico e apartheid urbano, Salvini continua a seguire le orme di Minniti.

Boomtown (2005) di Russell T. Davies suggerisce un’intuizione geniale e inquietante: i carnefici di massa, i burocrati dello sterminio, quando scelgono occasionalmente qualcuno da risparmiare, usano all’inverso gli stessi criteri soggettivi e arbitrari adoperati dai serial killer per scegliere le loro vittime. Il colore dei capelli, degli occhi, uno sguardo, un sorriso, un incontro casuale con il carnefice basta a decidere il destino della vittima: sommersa o salvata.
Corrado è un carnefice di massa, un burocrate dello sterminio, abituato alla disumanizzazione sistematica delle vittime, che per lui devono restare solo numeri. Un incontro casuale, e un attimo d’empatia imprevista decideranno quale vittima del lager cercherà di risparmiare, ma solo per un attimo, prima di riconsegnarla all’ordine delle cose.
Perché Corrado è un tipo ordinato.

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Terre di mezzo https://www.carmillaonline.com/2018/02/08/terre-di-mezzo/ Wed, 07 Feb 2018 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43275 di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, [...]]]> di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, nel corso delle tre giornate della “Montagna di libri nella valle che resiste”, i rappresentanti di vari movimenti antagonisti nei confronti dello stato di cose presenti avevano cercato di fare un primo punto tra le loro diverse e spesso lontane esperienze.

Proprio in quell’occasione fu presentato, nella sua edizione francese, il testo di cui qui di seguito si parlerà e che affonda le sue radici nelle comuni e allo stesso tempo differenti esperienze che la storia delle battaglie del movimento NoTav e dei compagni della ZAD (attualmente vincitori nei confronti dello Stato francese dopo la dichiarazione di rinuncia al progetto di costruzione del secondo aeroporto di Nantes rilasciata a metà gennaio dal presidente Macron) hanno portato avanti negli anni. L’edizione attuale rende disponibile per il pubblico di lingua italiana la storia incrociata di due esperienze che possono un po’ fungere da simbolo e da modello (si pensi anche solo a come si va estendendo e organizzando la battaglia del movimento NoTap su scala nazionale) per le lotte a venire e la presa di distanza dal modello novecentesco che fu al centro di uno dei dibattiti svoltisi in quegli stessi giorni, in cui si era parlato della morte del ‘900 e delle sue ideologie.

Non ho timore ad affermarlo: si tratta sicuramente del lavoro migliore sin qui realizzato sull’esperienza NoTav e sulla parallela esperienza della ZAD. Sono infatti alcuni militanti della ZAD, riuniti nel collettivo Mauvaise Troupe, a raccogliere le voci degli altri militanti e a dare voce anche a quelli della battaglia NoTav. Un contatto diretto tra realtà di lotta parallele e molto simili nelle finalità e nelle modalità di conduzione della lotta. Non è necessaria una mediazione di qualsiasi tipo (culturale, sociologica, antropologica o altro). Le due realtà si parlano e si narrano con naturalezza. Si confrontano. Definiscono obiettivi. Mantengono e difendono le proprie specificità.
Questo è il tipo di dialogo e di ricerca che può servire alle lotte di oggi e di domani. Non sono le ideologie a parlarsi e a confrontarsi: sono le persone, i fatti e le scelte che ne derivano. Una sorta di assemblea popolare a distanza in cui il lettore è immerso, mentre al contempo può ripercorrere le vicende pluridecennali che stanno ormai alla base, più che alle spalle, delle due lotte.

Lotte che prima di tutto si definiscono sul territorio dove si svolgono e che dal territorio sono determinate: il bocage1 per i francesi oppure la montagna per i valsusini. Territori che portano in sé i segni del rapporto con l’Uomo, ma che a loro volta hanno fortemente segnato il tipo di comunità che li abita. In cui, non bisogna ignorarlo, sia in un caso che nell’altro il senso di comunanza e di appartenenza deriva anche da una forte capacità di azione autonoma, individuale e collettiva, alla base della quale stanno (soprattutto nel caso francese) le forme dei rapporti di proprietà e di lavoro e i conflitti che ne derivano.

Territori segnati non soltanto dalla storia recente, ma anche da quella passata. In cui l’autonomia delle comunità (soprattutto quelle alpine ed occitane) ha caratterizzato le vicende locali anche nei rapporti con i regni, gli stati e gli invasori che di volta in volta hanno cercato di sottometterle alle loro leggi ed ai loro interessi. Territori e comunità in cui la storia di lunga durata incrocia quella degli eventi più vicini a noi. Tutto sommato ancora oggi, ma senza la retorica, la pompa magna e le narrazioni farlocche che invece spesso caratterizzano i nazionalismi statali, finalizzati esclusivamente a giustificare lo sviluppo economico. A qualsiasi costo e come tale definito “progresso”e coincidente di volta in volta con la cementificazione e la distruzione del territorio e dell’ambiente, con la costruzione di un nuovo aeroporto o di una linea ferroviaria ad alta velocità, magari là dove i lavoratori pendolari sono costretti ad ammassarsi e a morire su treni e lungo linee inadeguate e sempre meno soggette ad una efficace manutenzione.

Per chi non lo sapesse, come chiariscono, gli autori e i curatori:

“«ZAD» è una «Zone d’Aménagement Différé» (Zona di sistemazione differita), un dispositivo amministrativo che fornisce a enti locali o a imprese pubbliche il diritto di prelazione sui terreni in vendita in una determinata zona. L’acronimo è stato detournato da parte degli oppositori dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes in «Zone a défendre» (Zona da difendere). La sigla è ormai entrata nell’uso comune e viene utilizzata anche d aaltre lotte in difesa di territori minacciati.”

Una resistenza che affonda le sue radici fin nei tardi sessanta e nell’esperienza del movimento Paysans Travailleurs, che raccolse l’esperienza della convergenza tra operai e lavoratori della Loira Atlantica nel periodo attorno al Maggio del 1968 e portò un turbamento rivoluzionario nel conservatorismo locale.

“Da questa esperienza nascerà poi la Confédération paysanne. In un mondo di contadini senza terra e di mezzadri, l’accesso alla terra e la priorità da dare all’uso rispetto alla proprietà privata sono motivi di duro contrasto. I mezzi dell’azione sono all’altezza delle ambizioni: occupazione di campi e cascine, blocchi di strade e ferrovie… Questi conflitti, con le loro impennate, segnano profondamente la città di Notre-Dame-des-Landes e alimentano questa fase di resistenza all’aeroporto, come dimostra il fatto che le terre della ZAD continuano ad essere coltivate.” (pag. 37)

L’ADECA (Associazione di difesa dei coltivatori interessati dall’aeroporto) nasce nel 1972, a partire da una frattura tra i locali sindacati contadini e la Camera dell’agricoltura, impegnatasi a promuovere l’aeroporto a braccetto con la prefettura. Cui sono seguiti 46 anni di lotte che nel gennaio di quest’anno, come si è detto più sopra, sono giunte ad una, forse, definitiva vittoria.
Ma qui più ancora della storia e della ricostruzione di quelle vicende, che un autentico coro di voci narra fin nei dettagli nel libro, ciò che forse è ancora più importante riconoscere in quell’esperienza, così come in quella del Movimento NoTav della Val di Susa, sono le forme di aggregazione e di organizzazione immediata e dal basso che gli hanno dato le gambe su cui marciare. Un’autentica democrazia diretta che ha finito col costituire anche una nuova forma di organizzazione socio-politica e un modello di vita più umano e in maggior sintonia con l’ambiente circostante.

E’ a questo punto che non posso fare a meno di ricordare una frase spesso ripetuta da un mio caro amico che, da anni, va affermando che “gli hippy erano avanti di 500 anni rispetto ai bordighisti”. Si badi bene, tale affermazione non va intesa in spregio di Amadeo Bordiga, ma delle sette e delle conventicole para-comuniste che da quella esperienza sono, troppo spesso, disgraziatamente sorte. Non per amore di altre sette, -ismi o partitini e partitucoli, ma proprio come rifiuto di tutta la pomposità, la seriosità, il leaderismo e gli errori, a volte comici e troppe altre tragici, che hanno accompagnato nel tempo il tentativo di rinnovare l’esperienza bolscevica scimmiottandone atteggiamenti, metodi organizzativi e parole d’ordine e ottenendo, come unico risultato, quello di dividere i movimenti reali in base a presunte ed inutili carte di identità politica.

Tali pretese identitarie, che si ponevano subito al di fuori dei movimenti con la pretesa di porsi però come forze dirigenti degli stessi, hanno fatto poi sì che quelle lotte (economiche, sociali, ambientali, di genere e tutte le altre ancora sorte a partire dal secondo dopoguerra e dalla fine degli anni sessanta in particolare) fossero spesso risospinte ancora una volta all’interno di quei recinti da cui erano appena fuggite. Lo Stato nazionale continuava ad essere il riferimento reale di ogni trattativa oppure di ogni processo insurrezionale. Si cercava “il cuore” di una macchina spietata e priva di cuore alcuno. Occorreva colpire la macchina per poi riappropriarsene e ricostruirla o, molto più spesso, si cercava di modificarla con riforme proposte dal basso (quanto in basso? mi viene oggi da chiedermi).

Oppure la si difendeva, tout-cour, dalle trame fasciste, golpiste, eversive di destra per salvane, almeno, lo statuto democratico, facendo così di una Costituzione ampiamente compromissoria un modello ineguagliabile di diritto e di democrazia. L’autonomia dell’azione di classe finiva con lo stemperarsi in un oceano di ricette, enunciati e affermazioni troppo spesso apodittiche e auto-referenziali. Trasformando spesso le assemblee in parlamentini da cui l’unica voce assente era proprio, come nei parlamenti reali, quella di chi dava alle lotte le gambe sulle quali camminare.

Il Partito di classe che nella prima parte del ‘900 aveva costituito un punto d’arrivo per unificare una classe operaia concentrata in grandi agglomerati industriali e in vasti stabilimenti dall’organizzazione tayloristica che si era espansa da Detroit a Pietroburgo passando poi agli stabilimenti torinesi di Mirafiori, era anche il prodotto di un immaginario politico di cui l’organizzazione di fabbrica, con la separazione delle mansioni e tra progettazione e produzione, aveva svolto un ruolo fondamentale. E’ difficile credere che il Partito immaginato da Marx corrispondesse esattamente a quello teorizzato da Lenin o, ancor peggio, dal successivo marxismo-leninismo.

In una sorta di interpretazione lamarckiana dell’evolversi dei conflitti di classe e della loro organizzazione, il partito programma della Prima Internazionale si era trasformato nel Partito macchina, apparentemente buono per ogni uso come un tornio o una fresa o la linea di montaggio, con cui raggiungere una determinata capacità produttiva “rivoluzionaria” . Lotte, esperienze reali, auto-organizzazione dovevano essere revisionate alla luce dello scopo produttivo e rimodellate come materie prime alle quali i “lavoratori” attraverso il loro strumento avrebbero dato la “giusta forma”.

Guardiamolo bene quel Partito: gli addetti alla progettazione sviluppavano e delineavano il progetto, gli operai lo mettevano in esecuzione usando gli strumenti consigliati e messi a disposizione dalla Direzione per poi ottenere il risultato voluto. Che poi il risultato sia stato spesso, e soprattutto a partire dagli anni successivi alla Rivoluzione bolscevica, deludente, ridimensionato o addirittura rovesciato rispetto alle aspettative sembrava non importare. L’importante era lo sforzo collettivo, il sacrificio individuale, lo stakanovismo politico del volantinaggio o dell’azione ad ogni costo. In cui a trionfare è sempre l’aurea mediocritas, madre di ogni burocratizzazione istituzionale e sociale: la regola dell’adattamento alla norma e all’esistente anche quando si finge di volerlo cambiare. Dai burocrati dei partiti nati dalla bolscevizzazione staliniana ad Adolf Eichmann, tanto per essere chiari e come ebbe a ricordare forse la più grande interprete della politica del ‘900: Hannah Arendt.

Per troppo tempo l’immaginario e il politico sono stati considerati come campi separati del sapere e dell’operare umano, mentre in realtà il “politico” è soltanto uno dei territori dell’immaginario. Con questa affermazione non intendo affatto ritornare all’idealismo o all’affermazione del primato della mente e dell’idea sulle condizioni materiali. Piuttosto vorrei ribadire con più forza che l’immaginario non può esistere senza affondare profondamente le proprie radici nella concreta realtà materiale di cui è una delle espressioni. Non ci è possibile immaginare nulla che già non esista o senza partire dall’interpretazione dei segnali che il mondo circostante già ci invia.

Proprio per questo ogni atto politico e ogni sua teorizzazione è frutto di una interpretazione dei segnali che la società umana ci trasmette e degli scopi possibili che la specie, e le classi in cui è ancora divisa, prova a perseguire. Sappiamo bene che l’immaginario culturale, politico, economico e morale è, generalmente, dominato dalla visione che le classi dominanti intendono trasmettere alle classi spossessate della facoltà di decidere ed organizzare la struttura socio-economica, ma proprio per questo diventa importante slegare la coscienza e la conoscenza delle classi sfruttate da quella prodotta da quelle al potere.

E’ un vecchio problema del movimento operaio e dell’antagonismo di classe quello di combattere la falsa coscienza, disvelandone contenuti, metodi e finalità. Ma troppo spesso tale riflessione e azione critica si è fermata alla superficie della rappresentazione del mondo, non andando ad incidere sulla produzione reale del mondo e dei rapporti sociali che lo fondano. Occorre abbandonare l’idea di una battaglia teorica destinata a scardinare il pensiero borghese in attesa di una successiva (post-mortem?) trasformazione della società a seguito di un suo miglioramento riformistico o rivoluzionario. E non basta nemmeno detournarne i simboli e le immagini come suggerirono a loro tempo i situazionisti: oggi la pubblicità lo fa quotidianamente, facendo perdere al détournement gran parte del vantaggio precedentemente acquisito.

Tale linea di condotta ha contribuito, involontariamente (forse), al mantenimento e al rafforzamento degli attuali rapporti di produzione, poiché dandoli per scontati e inevitabili, fino ad un radioso futuro, è servita a mantenere e rafforzare le basi materiali delle ideologie dominanti. L’accettazione dei rapporti attuali implica l’accettazione, per quanto critica, sia della legge del valore che dell’estorsione del plusvalore dal corpo vivente della manodopera. Da qui, anche, le teorie del socialismo in un paese solo e della possibilità, discussa negli anni venti, di un’accumulazione socialista. In attesa del radioso avvenire, secondo questa interpretazione, ciò che occorre è cambiare la direzione della macchina, non la macchina stessa. Il prima citato Bordiga fu forse l’unico a intuire la contraddizione interna, non soltanto teorica, a tale formulazione dello sviluppo sociale in divenire ma anche lui continuò a crogiolarsi nell’idea del Partito salva tutto.

Gli hippy, ma insieme a loro parecchi comunitaristi che già li avevano preceduti nel corso del ‘900 e dell’Ottocento, forzarono la mano in questo senso: la società andava cambiata qui, ora e subito. Le comuni, il rifiuto del lavoro salariato e dello sfruttamento, uno stile di vita alternativo basato più sulla lentezza e l’ozio che non sulla produttività e l’assillante ricerca del guadagno andavano a rompere la rappresentazione che la società faceva di se stessa e delle sue leggi “necessarie”. La domanda posta era molto semplice: fino a quando?2

L’immaginario diventa allora il luogo privilegiato in cui i segnali, variamente interpretati dalla mente individuale o collettiva, vengono tradotti in simboli, destinati a costituire la base di ogni discorso (politico, filosofico, scientifico, letterario, culturale, religioso o altro ancora che sia). Cambiarlo, cambiarne i segni e i simboli significa rovesciare non solo l’ordine del discorso, ma le sue leggi, i suoi presupposti, il significato generale della narrazione costruita intorno ad esso. Infine, rovesciare o modificare radicalmente i termini del discorso è l’unico strumento che permette di giungere alla formulazione di un nuovo paradigma, necessario per definire nuovi campi della conoscenza e dell’azione umana.3

Condividerne i significati simbolici diventa allora un modo per condividere la necessità del cambiamento e del rovesciamento che già si presenta nell’agire della comunità umana, agitandone i sogni e i desideri, contribuendo a definirne nuove finalità ed obiettivi; mentre la condivisione dei simboli legati all’ordine socio-economico e culturale dato finisce col contribuire a mantenere in vita ciò che, potenzialmente, è già morto.

Sì, perché fino a quando si è convinti di vivere in un regime di necessità non si riesce ad interpretare i segnali, prodotti dalla storia reale e dalla società materiale, che ci indicano che questo stato di “necessità” è soltanto uno dei possibili scenari. La commedia funziona fino a quando non solo il regista e gli sceneggiatori ne tengono in mano il copione, ma anche e soprattutto perché tutti gli attori e tutte le comparse si impegnano a recitarla bene. A renderla convincente. Se a stonare o a recitare le battute sbagliate è solo uno o sono poche comparse è chiaro che sarà comodo per chi si occupa di casting sostituirli.

E poi si sa, gli attori si affezionano ai loro personaggi, si identificano e credono in loro. Basti citare il povero Bela Lugosi che, dopo aver recitato decine di film in cui interpretava Dracula o altri vampiri, finì col vivere gli ultimi anni credendosi un figlio della notte e dormendo in una bara.

Tornando al libro, posso dire che non è qui possibile, e tanto meno utile, ripercorrere per filo e per segno le vicende parallele delle due lotte, anche per non togliere il piacere e la sorpresa al lettore di ritrovarle nella narrazione viva e trascinante delle voci dei militanti, francesi ed italiani, interpellati e che nessuna ulteriore penna o mestierantismo della scrittura può narrare o sintetizzare meglio.

Rispetto all’edizione francese del 2016 il lavoro della “Cattiva compagnia” tradotto in italiano non presenta la cronologia delle due lotte, l’elenco dei personaggi citati e l’indice analitico finale, probabilmente per non appesantire un testo gia di per sé piuttosto corposo, ma costituisce un testo che potrebbe diventare di riferimento non solo per chi volesse conoscere di più sulle due lotte ma anche per coloro che vogliono liberarsi dai canoni novecenteschi di un agire politico che è più politicantismo che non azione/riflessione di classe per affrontare più efficacemente, e a partire dall’immediato, i compiti futuri legati al superamento del modo di produzione attuale e di una società divisa in classi.

Sorge a questo punto il sospetto che l’accanimento repressivo contro le due comunità messo in atto dagli Stati e dai loro apparati polizieschi4 non siano tanto dovuto al fatto di essersi opposte alla realizzazione di due delle grandi opere inutili cui il capitalismo attuale ci ha abituati in ogni periodo di crisi degli investimenti, ma proprio per la capacità che entrambe le lotte hanno saputo dimostrare in termini di critica e riorganizzazione dell’esistente e, soprattutto, per aver saputo ridisegnare l’immaginario delle classi e degli strati sociali in lotta. Rifuggendo da qualsiasi richiamo al modello di sviluppo dato così per scontato dai media, dai governi e, troppo spesso, anche dalle classi subalterne.

Ecco che allora anche il termine popoli, che compare all’interno dei ragionamenti del libro e dei due movimenti, assume un valore e un significato totalmente diverso da quel “popolo” che oggi, scusate il gioco di parole, spopola tanto a destra che a sinistra. Nel secondo caso il concetto si basa sempre su una base sostanzialmente etnica, linguistica e nazionale (quindi statale) oltre che interclassista ed esclusivista, mentre nel primo caso il concetto serve ad definire coloro che lottano insieme per un obiettivo che travalica i limiti della territorialità per porsi come strumento di liberazione individuale e collettivo allo stesso tempo. Termine che diventa inclusivo così come lo sono diventate le due comunità nei confronti di tutti coloro che le hanno affiancate nella lotta, ne hanno chiesto l’aiuto oppure le hanno raggiunte nella comune convivenza.

Un modello di inclusione attraverso la condivisione di obiettivi e il coinvolgimento in battaglie comuni che non può non rimandare anche all’esperimento comunalistico del Rojava che, a sua volta, ha spesso ricevuto l’appoggio delle due realtà di cui si è fin qui parlato.
Al lettore ora il compito di leggere, sfogliare, trarre ispirazione dalle pagine del libro e dal corredo di fotografie e mappe che lo accompagnano.

Non ho mai amato molto Tolkien e Il signore degli anelli, ma il concetto di terra di mezzo mi sembra adattissimo a definire l’esperienza di un mondo che non è più e, allo stesso tempo, ancora non è. Forse gli hippy e i compagni delle lotte passate più radicali hanno vissuto negli stessi territori dell’immaginario e del reale. Ora, insieme ai compagni della ZAD e del NoTav, tocca noi: A sarà düra, ma vinceremo!


  1. Termine intraducibile in italiano che serve a definire una particolare conformazione territoriale costituita da piccoli campi ed appezzamenti divisi da siepi di confine che nella zona di Notre-Dame-des-Landes è sopravvissuta al dilagare della monocultura  

  2. Per comprendere a fondo lo spirito che animò le iniziative comunitarie degli anni sessanta e settanta, al posto dei soliti film o documentari e testi “alternativi”, consiglio la visione del documentario Valley Uprising di Peter Mortimer e Nick Rosen (2014), oggi disponibile in edizione italiana, con lo stesso titolo, in dvd nella collana Il grande alpinismo come quarta uscita della serie. Si tratta di una ricostruzione attenta delle innovazioni portate nell’alpinismo tradizionale dalle tecniche di arrampicata sviluppatesi in California, nella Yosemite Valley, a partire dagli anni ’50, in cui la costante ricerca della fuga dalla legge di caduta dei gravi, perseguita dai climber americani del celebre Camp 4, costituisce una magnifica metafora della liberazione della specie umana dalle catene del lavoro, della famiglia e dello Stato.  

  3. Valga per tutti la rivoluzione apportata nel pensiero e nella ricerca umana dalla formulazione galileiana, contenuta nel Saggiatore, in cui afferma “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’ universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto“. Ponendo di fatto le basi, nel 1623, del moderno paradigma scientifico.  

  4. Basti pensare al fatto che il presidente Macron, nello stesso momento in cui ha dovuto prendere atto della sconfitta del progetto di nuovo aeroporto,ha ventilato la minaccia di voler comunque espellere gli occupanti dalle terre della ZAD.  

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Etica e/del genocidio: i crimini nazisti e la responsabilità morale https://www.carmillaonline.com/2016/08/04/32322/ Thu, 04 Aug 2016 21:30:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32322 di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895). Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia [...]]]> di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).
Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale crimine.
Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato – secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica (nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una (contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio di milioni di uomini.

Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann, constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”, “inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui solitamente considerabili come “persone per bene”.

Fatto questo che aggiunge sconcerto all’orrore dinanzi alla vastità senza precedenti e senza pari della violenza scatenata nel dodicennio nazista, da molti interpretata come una cesura assoluta nel corso degli eventi umani e storici, uno scisma che ha prodotto uno iato, una soluzione di continuità non ricomponibile e che ha azzerato le capacità cognitive ed interpretative della ragione, con il conseguente approdo ad una sorta di “ermeneutica negativa” dinanzi alla indicibile incommensurabilità del male. Posizione questa della indicibilità meta-storica della Shoah che ha trovato uno dei più convinti sostenitori nel recentemente scomparso Elie Wiesel, ma che gli autori di Orgoglio e genocidio rifiutano con decisione, assumendo piuttosto un punto di vista che ci sembra riconducibile a quello adorniano della Dialettica negativa. Come diceva il pensatore francofortese, il fatto che Auschwitz sia potuta accadere in mezzo a tutta la tradizione dell’arte, della filosofia, della scienza europee, dimostrando il fallimento della cultura illuministica, non deve però condurre al disarmo della ragione, la quale conserva, anzi amplifica, la propria funzione critica e pratica, nel momento in cui deve abbandonare la pretesa panlogistica di essere riconosciuta come sostanza della realtà. «È hybris il fatto che ci sia l’identità, che la cosa in sé corrisponda al suo concetto. Ma non si dovrebbe semplicemente buttarne via l’ideale: nel rimprovero che la cosa non è identica al concetto, vive anche la speranza che lo possa diventare» (Th.W.Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1982, p. 134). Alla capacità critica della ragione è demandato quindi il compito di comprendere l’assurdo, di analizzare al fine di giudicare. Se infatti, come vogliono i sostenitori della indicibilità meta-storica del genocidio, quest’ultimo permanesse immobile nella sua tetragona incomprensibilità, allora verrebbe meno anche la possibilità del giudizio – il che equivarrebbe ad una paradossale ed ingiustificabile assoluzione dei colpevoli – essendo analisi e comprensione le condizioni ed i presupposti di ogni atto valutativo, anche di quello morale.

copertina BurgioDal punto di vista della metodologia seguita e degli strumenti applicati gli autori intendono fare interagire i contributi della storiografia, della sociologia storica, della psicologia sociale (ma anche della antropologia, della psichiatria e della psicanalisi), rifiutando gli insufficienti approcci monocausali in ragione della complessità dell’argomento affrontato e la compresenza e la convergenza di molteplici chiavi di lettura contribuiscono a rendere il libro ricco e molto articolato, complesso e completo, cioè capace di fornire un quadro d’insieme dettagliato dei risultati raggiunti, nei differenti ambiti disciplinari, nello studio del nazismo, dei suoi crimini e della Shoah e soprattutto della questione della responsabilità e della colpa tedesche.

Ma Burgio e Costerbosa – ed è questo uno dei tanti temi interessanti ed originali del libro – ritengono che spetti propriamente alla filosofia il compito della ricostruzione dell’intero, della sintesi complessiva e della comprensione alla luce di un punto di vista “universale”, superiore a quello delle singole scienze umane, vincolate alla parzialità di uno sguardo che deve attenersi ai limiti “scientifici” della verifica empirica, seppur secondo le modalità proprie delle scienze dello spirito. Questo non vale per la filosofia, sia per l’universalità della sua prospettiva sia perché alla ragione filosofica spetta il compito dell’indagine sul perché, sul senso complessivo sulla «forma della mente o dell’anima degli attori di questa vicenda [per arrivare] al fondo ultimo dei loro pensieri […] dal quale scaturiscono i giudizi, nel quale si strutturano le scelte, le decisioni e le azioni». (p. 10)
L’interesse della filosofia è per l’intero; il suo fine è euristico e conoscitivo; gli strumenti sono polivalenti e la sua natura è “modestamente” aporetica, non pretendendo la ragione filosofica di formulare ipotesi falsificabili, cioè scientificamente oggettive e pertanto è in grado di avventurarsi in un terreno «che né la storiografia né gli altri saperi accettano di percorrere: lo spazio della soggettività […] intesa come ciò che dà logica e senso alla vita conscia e inconscia della mente». (p.10) Spetta quindi alla filosofia tracciare un coerente quadro d’insieme e, soprattutto, disegnare il contorno della forma mentis genocida.

Tra i tanti individuabili all’interno del libro, tre ci sembrano i punti di riferimento teorici che accompagnano costantemente il dipanarsi del ragionamento e del discorso di Burgio e Costerbosa: Raul Hilberg, Hanna Arendt e Immanuel Kant.
Hilberg perché, nonostante – secondo Burgio – il tratto tendenzialmente deterministico del suo approccio prevalentemente funzionalista (determinismo che, come vedremo, gli autori del libro sottopongono a puntuale critica), il suo modello analitico ed interpretativo, per la prima volta proposto nell’ormai lontano 1961, mantiene la sua validità ed affronta il problema delle responsabilità tedesche attribuendole alla società, alle istituzioni e allo stato tedeschi nel loro insieme, evidenziando anche come ogni componente di essi abbia dato un proprio fondamentale contributo attivo, fattivo, se non addirittura solerte, e quindi non solo meramente passivo, alla realizzazione dello sterminio.

Delle riflessioni di Hanna Arendt sul nazismo e la Shoah i due studiosi utilizzano soprattutto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, considerato da Burgio un lavoro talvolta riduttivamente interpretato, ma ancora insuperato dal punto vista – che è proprio quello che Orgoglio e genocidio ripropone – di un approccio cognitivo di tipo filosofico alla questione del genocidio e della responsabilità morale. Perché è nel campo dell’etica che gli autori collocano la materia del loro discorso ed è all’individuazione delle responsabilità individuali e collettive di coloro che in misura differente parteciparono allo sterminio e alla comprensione delle ragioni e delle dinamiche della loro scelta (im)morale genocida che si indirizzano le finalità del libro.
Autonomia del soggetto morale, consapevolezza della scelta, responsabilità rispetto alle conseguenze e moralità dell’azione: sono questi i “paletti” dentro ai quali dobbiamo collocare l’azione dei carnefici e dei tanti altri che in modi estremamente diversi parteciparono alla politica genocida del Terzo Reich.

Infine, proprio l’attenzione per la questione della “responsabilità” e della “scelta” come istanze imprescindibili per la retta comprensione del genocidio nazista conduce ad un costante riferimento ai principi fondanti dell’etica kantiana (l’autonomia del soggetto morale; la libertà come condizione e sostanza dell’agire; la dignità dell’uomo e il suo rispetto come elementi costitutivi dell’imperativo etico) e alla frequente riproposizione di stilemi di pensiero kantiani.

Il libro si compone di sei capitoli, di cui il primo, il quarto e il sesto scritti da Alberto Burgio, il secondo, il terzo e il quinto da Marina Lalatta Costerbosa.
Nel primo capitolo (Crimini condivisi), il discorso di Burgio prende le mosse dall’intento di sottoporre ad una generale e complessiva critica quelle interpretazioni – soprattutto storiografiche – del nazismo (e dei suoi crimini) che nell’insieme si possono considerare viziate da un comune determinismo. Come è noto, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la storiografia del nazismo si è articolata e divisa nelle due grandi correnti degli intenzionalisti e dei funzionalisti, a loro volta poi internamente articolate in un ventaglio di diverse posizioni a seconda del radicalismo o della moderazione con cui l’idea portante delle rispettive posizioni viene proposta. Impostazioni critiche che, per quanto nel corso degli anni sostituite da altre, costituiscono due contrapposti macro paradigmi interpretativi del regime hitleriano, ma convergenti su un punto fondamentale: una lettura deterministica dei meccanismi e delle modalità di funzionamento del regime, delle sue istituzioni e dell’intera società tedesca e, nella fattispecie che interessa a Burgio, del comportamento dei carnefici e dei loro collaboratori. In queste letture prevale la forza del condizionamento esogeno (di volta in volta il volere del Führer, la catena di comando, il fascino seducente dell’ideologia, la pervasività della propaganda, l’inflessibilità della repressione, gli effetti atomizzanti della società di massa, le dinamiche spersonalizzanti delle pratiche burocratico-amministrative dello Stato moderno, ecc) che si traduce nella equazione totalitarismo = eterodirezione assoluta dell’individuo, attore pressoché inconsapevole di comportamenti prevalentemente indotti, rispetto ai quali, conseguentemente, è da ritenersi scarsamente responsabile.

Fatto salvo l’assunto che a tutti i fattori sopra elencati occorre riconoscere pro quota un ruolo ed un’importanza rilevanti in relazione all’affermazione e al funzionamento di un regime totalitario in generale e di quello nazista nel particolare e che – riteniamo – anche le dinamiche esogene siano da tenere nella giusta considerazione, condividiamo, con Burgio, l’opportunità di indebolire il paradigma eterodirettivo e di riportare al centro dell’attenzione l’analisi delle intenzioni, delle motivazioni, delle scelte libere e consapevoli e quindi responsabili che, comunque e sempre, stanno alla base del comportamento umano, anche di quello più esternamente e strutturalmente condizionato.
A ciò si aggiunga che le letture di tipo deterministico rischiano, ben al di là delle loro intenzioni, di fare propri o di avvallare i teoremi giustificativi o autoassolutori dei carnefici stessi che ricorrono sempre agli argomenti della necessità o inderogabilità degli ordini, della inconsapevolezza circa le conseguenze della loro azione, o della cosiddetta “obbedienza cadaverica”, cioè l’esecuzione di un ordine in quanto ordine (Befehl ist Befehl), argomentazioni nelle quali i principi del determinante condizionamento situazionale e della spersonalizzazione della scelta fanno da denominatore comune.

Burgio si rifà al noto saggio di Hilberg, Carnefici, vittime e spettatori, ma integra la tipizzazione dello storico austro-statunitense inserendo la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati”. Per quanto riguarda questi ultimi, si devono considerare innanzi tutto gli uomini delle SS, dei battaglioni di polizia, delle Einsatzgruppen, i soldati e gli ufficiali della Wehrmacht, ai quali poi si aggiungono tutti gli uomini e le donne di quei ministeri, apparati, istituzioni, uffici dello stato tedesco che attivamente e assiduamente presero parte (ancora una volta il riferimento è allo schema hilberghiano di La distruzione degli Ebrei d’Europa) alla identificazione, all’espropriazione, alla ghettizzazione e infine allo sterminio degli ebrei. Un totale di – calcola Burgio – 200/500 mila tra tedeschi, austriaci e Volksdeutsche (tedeschi etnici), per i quali le argomentazione deresponsabilizzanti prima riportate non reggono dinanzi ad una dettagliata analisi dei casi e alla luce dei documenti e delle testimonianze. Ciò che invece sempre emerge è che costoro «seppero e vollero compiere i propri crimini» (p. 40) nei lager o altrove, infierendo sulle loro vittime.
Si trattò di una libera scelta all’interno di un ventaglio di possibili opzioni di comportamento; gli unici che – ricorda Burgio – non avevano scelta, che si trovarono di fronte a “scelte senza scelta” furono le vittime, non certo i carnefici.

L’inconsistenza degli argomenti dell’inconsapevolezza, dell’impossibilità di fare altrimenti et similia si applica anche al caso della “zona grigia” dei “collaboratori”, che Burgio, facendo propria la tesi di Hilberg della consustanzialità e coincidenza di stato e società tedesche e regime nazista, individua nelle élites militari (grate a Hitler per l’eliminazione delle S.A. e per la politica di riarmo); negli esponenti del mondo accademico e universitario (profondamente coinvolto nell’opera di elaborazione e divulgazione della Weltanschauung nazista e razzista) e in particolare nella categoria dei medici (il cui contributo alla criminale politica eugenetica di salute e difesa della razza germanica fu essenziale); nel personale dell’apparato burocratico del Reich («una massa di normali burocrati ambiziosi ed accondiscendenti» (p.47) nonché solerti e competenti); negli imprenditori privati (che non si lasciarono sfuggire l’occasione di fare affari, che fiutarono come conseguenza della politica antisemita del governo); ed infine nei delatori, cioè «quanti permisero alla Polizia politica del regime di invadere ogni spazio […] e di stendere sull’intera società tedesca una pervasiva rete di controllo» (p.50).

Infine gli “spettatori”, cioè coloro che non parteciparono ai crimini, ma che comunque per lo più «condivisero e sostennero. E parteciparono anche evitando di agire quando avrebbero potuto farlo». (p. 57) In questo caso, per spiegare il comportamento dell’”uomo della strada” si rende necessario affrontare – sostiene Burgio – la questione del consenso politico, problematica particolarmente complessa e di difficile analisi soprattutto quando assume la forma del “consenso totalitario”, ma che nella Germania del dodicennio nazista, di fatto, fu raccolto in modo solido e consistente dal regime. Si trattò di una adesione diversamente motivata ed estremamente differenziata per tipologia e grado, ma che produsse l’effetto di una condivisione di massa, da parte di molti milioni di tedeschi, dei programmi e delle azioni politiche del regime e quindi anche delle sue pratiche criminali e genocide, che il popolo tedesco, forse non nei minimi particolari, ma certamente nella sostanza, conosceva e che quindi – ancora una volta – volle, decise liberamente di appoggiare o almeno di non ostacolare.

Se uno degli alibi preferiti dai criminali nazisti o una delle argomentazioni autoassolutorie più frequenti era quella secondo cui “la legge è la legge” e ad essa si deve obbedire comunque, indipendentemente dal contenuto che ordina, allora risulta di cruciale importanza prendere in considerazione – come fa Marina Lalatta Costerbosa nei capitoli secondo (Il cavallo di Troia della legalità) e terzo (Legalità e consenso. I capi e la società) – le modalità e le conseguenze dei processi di ridefinizione dei concetti e dei principi di legalità e giustizia e di stravolgimento del diritto che si verificarono in Germania successivamente alla ascesa al potere del partito nazionalsocialista. Ridefinizione dei fondamentali principi giuridici che agì da supporto alla politica criminale del regime, legittimandone la catena delle norme e dei comandi e rassicurando i destinatari dei medesimi ordini circa la legittimità dell’operato conseguente, anche di quello criminale. Lo studio di queste problematiche e di queste dinamiche può contribuire – secondo la studiosa – alla comprensione della complessa questione del consenso di massa, di milioni di uomini comuni, ai regimi totalitari.

Centrale nella disamina del problema proposta da Costerbosa è la tesi per cui il nazismo adottò, piegandoli alle proprie necessità, i concetti giuspositivistici di legalità e giustizia, che si definiscono sulla base dell’assunto fondamentale del giuspositivismo stesso, che pone una irriducibile differenza tra il diritto e la morale, in quanto quest’ultima è esterna ed estranea al diritto; diritto che ha natura imperativa, coincidendo col comando del potere sovrano a cui si deve obbedienza. Come vuole Kelsen, il diritto è moralmente neutro ed indipendente dal giudizio morale e la giustizia si identifica con la legalità, ovvero l’applicazione di una norma positiva, che non riguarda il contenuto della norma medesima.

Se da un lato non è difficile comprendere come le istanze fondamentali della teoria giuspositivistica del diritto si prestassero ad essere estremizzate e strumentalizzate dal nazismo, dalla sua visione gerarchico-militare della società e dei rapporti sociali, dalla sua idea totalitaria del potere, da quell’essenziale Führerprinzip che considera il Führer fonte di diritto e di giustizia, per diventare infine parte integrante della dottrina nazionalsocialista del diritto; dall’altro è indispensabile riconoscere che il regime fu capace di recuperare, stravolgendoli al punto da capovolgerli, anche principi e idee della dottrina del diritto naturale, per i quali la legalità va messa in relazione alla legittimità, cioè con la giustizia intesa come moralità dei contenuti della norma positiva.
Il nazismo quindi elaborò propri contenuti (a)morali che fecero da fondamento della legittimità delle leggi e delle norme emanate, ma mentre qualsiasi forma di giusnaturalismo si incardina sull’idea essenziale che prioritaria e assoluta sia la difesa dei diritti soggettivi, in quanto per l’appunto naturali, il “giusnaturalismo nazista” considerò “naturali” dei (non)diritti razzisti e disumani che violavano e negavano i diritti soggettivi. «Si pensi che si giunse addirittura a qualificare il Naturrecht (diritto naturale) come völkisch (nazionalistico) oppure nationalethnisch (etnonazionalistico): una palese contraddizione in termini». (p. 111)

Ne conseguì un violento stravolgimento del diritto e della legalità, preparato e permesso anche da quei prodromi negativi che erano presenti nella Costituzione di Weimar: Marina Lalatta Costerbosa si riferisce (p.121) in particolare a quell’articolo n.48 della Costituzione repubblicana che agì da condizione di possibilità della Ermächtigungsgesetz (la Legge dei pieni poteri) del 28 febbraio del 1933, in quanto, consentendo, in condizioni eccezionali, al presidente di sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, permise al Cancelliere da un mese in carica, Adolf Hitler, di cancellare lo stato di diritto e tra le altre cose di istituire i campi di concentramento. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», aveva scritto nel 1922 Carl Schmitt in Politische Teologie.

Quanto arrogante era stato lo sfregio del diritto nel dodicennio nazista tanto profondi dovettero essere il ripensamento e la riformulazione dei principi giuridici fondamentali dopo il 1945. A tal proposito l’autrice si riferisce in particolare all’opera di Gustav Radbruch che nel 1947 ritenne necessario riproporre con forza la teoria secondo cui vi è un diritto oltre e al di sopra della legge positiva, rispetto al quale quest’ultima può risultare un “torto legale”. Al fine di fissare un criterio sostanziale ed universale che fosse in grado di dirimere tra legge legittima e torto legale, Radbruch – ricorda Costerbosa – definisce il concetto di “equità”, che significa «giustizia essenziale, il requisito minimo di moralità che una norma, una legge, un istituto, una sentenza deve esibire per potersi dire tale. […] Funziona al negativo: tutto rientra nella sfera scarna ma costitutiva dell’equità, salvo ciò che manifesta un grado di ingiustizia, appunto di iniquità, non sopportabile, palese, al di là di ogni ragionevole dubbio, con ogni evidenza, secondo ogni intuizione razionale». (pp. 90-91)
Pertanto Radbruch parlò di “ingiustizia legale” e di “giustizia sovralegale”: la prima sistematicamente perpetrata, la seconda regolarmente ignorata dai nazisti.

Sempre Radbruch scriveva, anticipando – fa notare Lalatta Costerbosa – Hanna Arendt di quindici anni: «Fu grazie a due principi che il nazionalsocialismo seppe incatenare a sé i suoi seguaci, da un lato i soldati, dall’altro i giuristi: “Un ordine è un ordine!” e “La legge è la legge”». (p. 97) E proprio il secondo principio, secondo l’imperante pensiero giuspositivistico, valeva incondizionatamente.
Per Radbruch invece tre sono i valori che conferiscono validità alla legge: in ordine di importanza, la giustizia, la certezza del diritto e l’utilità o conformità allo scopo. Per il filosofo del diritto tedesco, pertanto, «giusta è la legge certa che sancisce l’uguaglianza tra le persone entro la comunità umana». (p. 100) Ma anche alla certezza del diritto, come vuole la tradizione del giuspositivismo, vanno riconosciuti valore ed importanza e pertanto, secondo Radbruch, in caso di conflitto tra giustizia e certezza del diritto occorre individuare un criterio-soglia al di sotto del quale è opportuno far prevalere la certezza anche a fronte di inutilità ed ingiustizia della legge, ma al di sopra del quale la certezza non ha più valore e la legge diventa un torto, o meglio si capovolge nel suo opposto, in non-diritto.

Questo criterio-soglia, questo limite fu violato sistematicamente per tutta la durata del Terzo Reich, che si presenta quindi come un esempio nella storia dei sistemi giuridici di “Stato del non-diritto”.
Osserva infine Costerbosa: «Ma se non erano leggi [quelle naziste], non era scontato il dovere di sottomissione e a decadere sarebbero stati anche gli effetti giuridici da esse generati». (p. 98)
Milioni di tedeschi, invece, assolutizzarono dogmaticamente il precetto giuspositivistico della legge per la legge e nascondendosi dietro questo paravento di immorale ed illegale legalità prestarono al regime la loro disponibilità al male e al crimine genocida.

Nel capitolo quarto (Il problema delle motivazioni) è di nuovo Alberto Burgio a portare avanti l’interessante ed approfondita analisi sull’etica del genocidio nella Germania nazista, affrontando la questione decisiva delle intenzioni e dei motivi, delle convinzioni e dei pensieri che mossero la volontà di tanti tedeschi a seguire e a realizzare i programmi omicidi del governo. La storiografia, pur non potendo eludere completamente il problema, fatica a formulare una risposta e pertanto il discorso si estende ad altri approcci, alla sociologia storica, alla psicologia sociale, ma anche alla antropologia, alla psichiatria e alla psicanalisi.

Secondo Burgio, come è importante tenere conto del fatto che il nazismo ha rappresentato una cesura epocale che ha marcato una discontinuità profonda nella storia contemporanea, così lo è altrettanto cogliere i nessi e le relazioni di continuità con il contesto storico di lungo periodo nel quale si colloca, con la tradizione della storia, della cultura e della mentalità tedesche, cioè considerare la «capacità che il regime ebbe non solo di intercettare bisogni della popolazione, ma anche di porsi in comunicazione con il senso comune del tedesco medio». (p. 164) In queste pagine Burgio si serve soprattutto di Norbert Elias che nel suo I tedeschi definisce «l’”habitus nazionale” tedesco, segnato in modo particolare da due corollari del militarismo: il bisogno di ordine (la deferenza verso l’autorità, la gerarchia, la disciplina e l’obbedienza) e il nazionalismo aggressivo (a sua volta risultante dalla combinazione di comunitarismo e imperialismo)». (p. 165)

nazi0009Il principio dell’autorità e di conseguenza quelli della incondizionata sottomissione, della esecuzione scrupolosa degli ordini, del rispetto delle gerarchie costituite (dallo Stato all’esercito, dalla scuola alla famiglia, ecc) erano componenti essenziali e determinanti della mentalità e del costume medi dei tedeschi nati a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La tipologia di relazione interpersonale e sociale paradigmatica divenne quella gerarchica (in sostanza militare) che si estese a tutti i settori della società. Questo fenomeno da un lato produsse la tendenza dei tedeschi ad affidarsi agli ”ordini superiori”, a delegare al più alto per grado o per ruolo l’onere e la responsabilità della decisione; dall’altro – osserva Burgio – produsse «con ogni probabilità anche l’assunzione feticistica del principio di prestazione, in base al quale non conta cosa l’autorità ordini di fare ma il farlo bene, fino in fondo, soddisfacendo le aspettative dei superiori». (p. 166)
Conseguenza del principio di prestazione, come modalità di approccio al proprio lavoro o alla azione in genere che si è chiamati a svolgere, è da ritenersi anche la «peculiare Gründlichkeit tedesca», ossia la “maniacale scrupolosità”, consistente nel “bisogno” di portare fino in fondo l’incarico assunto, di svolgere a tutti i costi il compito assegnato, quasi identificandosi completamente con quell’incarico. Come fece notare Arendt, per un tedesco «essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce». (p. 95)

Evidentemente una mentalità ed un costume di questo genere conducono alla deresponsabilizzazione, alla rinuncia al dovere di giudicare del valore delle cose, del bene e del male delle azioni compiute; produce – dice Burgio – il passaggio dalla “coscienza” alla “coscienziosità”, dalla consapevolezza critica di sé e del proprio agire alla scrupolosa, ma irresponsabile, esecuzione di un compito.
Il militarismo prussiano, ereditato dalla Germania di Bismarck e di seguito guglielmina, esercitò senza alcun dubbio un ruolo determinante nella modellatura di tale forma mentis, prona dinanzi all’autorità, ligia al dovere, solerte e meticolosa nella esecuzione dei compiti, ma è soprattutto al modello educativo che si rivolge l’attenta analisi di Burgio, sulla scorta delle considerazioni di Elias: «un modello educativo mutuato dall’organizzazione militare e teso a consolidare l’autorità costituita e i sistemi gerarchici di comando, inibendo e delegittimando anche sul piano morale l’esercizio individuale dell’autonomia critica e plasmando, tendenzialmente, personalità per le quali le autocostrizioni imposte dalla coscienza funzionano soltanto se assoggettate a loro volta all’”eterocostrizione” di un potere superiore». (p. 167)

Al bisogno di ordine, al feticismo della disciplina e dell’autorità si collegò poi l’altra istanza portante dell’habitus nazionale tedesco, cioè il nazionalismo aggressivo, che soprattutto in età guglielmina divenne il principio guida della politica estera tedesca (Weltpolitik). Burgio considera le ben note differenze concettuali sottese alle due parole che nella lingua tedesca si usano per esprimere il concetto di patria: Vaterland e Heimat.
Vaterland letteralmente significa “padre-patria”, “terra-padre”, è la patria intesa come nazione che assume i tratti autoritari, duri ed impositivi del padre prepotente che pretende di essere obbedito senza remore; Heimat invece e la “piccola patria”, cioè il luogo di nascita, la “terra-madre”, accogliente e rassicurante in quanto custode dell’identità e dell’animo del Volk.
In realtà, al di là delle differenze, i due concetti sono complementari e si cementarono tra loro, creando un’ideologia organicistica e comunitaria (Gemeinschaft) e popolare (Volk), su cui si innestò poi il mito della omogeneità e della purezza della comunità, che presto divenne mito della purezza del “sangue” e del suo vitale legame con il “suolo” e infine mito della razza, della purezza e superiorità della Volksgemeinschaft ariana.

Il bisogno comunitario di sentirsi parte di un corpo organico, di una comunità coesa tenuta assieme dal feticismo della disciplina, dal principio di prestazione e dell’obbedienza cieca produsse – osserva Burgio – «una paradossale etica della responsabilità che tendeva a risolversi nella sua antitesi: in un’etica della “minorità” (del servilismo e della complicità) che nobilitava la rinuncia all’autonomia e induceva alla delega della responsabilità personale a beneficio dei poteri sovraordinati». (pp. 174-175) Non a caso Burgio usa il temine “minorità” per qualificare questa “paradossale” etica, che sorda all’illuministico e liberatorio appello kantiano di abbandonare lo “stato di minorità”, di esso faceva il proprio habitus.
Il logico corollario di una simile ideologia comunitaria fu un’aggressiva mentalità manichea, portata all’esclusione e alla contrapposizione del gruppo di “noi” al gruppo di “loro”, di chi è fuori dalla comunità o, peggio ancora, è ritenuto un pericolo, una minaccia.

Hitler e il nazismo non si limitarono ad ereditare i caratteri dell’habitus nazionale germanico, ma li portarono alla loro suprema espressione e fornirono un codice di (non)valori tagliato e cucito su misura della forma mentis qui descritta: una autentica etica del disumano che la maggioranza del popolo tedesco non faticò particolarmente ad introiettare. In un contesto oltremodo inquieto e problematico, come quello della sconfitta nella Grande Guerra e dei trattati di Versailles, delle crisi economiche ed in particolare di quella del ’29; in un clima di delusione, disorientamento, di esacerbato rancore e di perdita di fiducia nelle istituzioni della repubblica e nei suoi partiti, il nazismo seppe incanalare le angosce dei tedeschi e Hitler compì un lavoro di emersione, estraniazione e ipostatizzazione dei “demoni” che latenti erano cresciuti ed avevano prosperato nell’animo del popolo. I traumi e le paure furono proiettati fuori dalla coscienza collettiva e oggettivati in una serie di nemici concreti contro i quali combattere per la salvaguardia della comunità. Dinanzi al disordine e al caos politico degli ultimi anni di Weimar, «il desiderio di sicurezza e di ordine divenne impellente, e così la domanda di unità, di appartenenza, di protezione e di rassicurazione. Alle paure […] molti tedeschi reagirono invocando lo spirito della comunità germanica. […] Chiedevano nuove certezze, nuovi miti redentivi. […] sulla scelta di consegnare la Germania ai nazisti influì […] una spasmodica attesa di redenzione e di fusione in una collettività mistica». (pp. 180-181)

E il nazismo ed il suo leader carismatico tutto questo furono in grado di fornirlo al popolo tedesco, ma ad un prezzo altissimo, quello della rinuncia alla coscienza e alla volontà individuali in funzione della fusione con una comunità di uomini “minori”, irresponsabili, che hanno rinunciato alla propria autonomia di individui liberi e consapevoli; uomini che furono pronti ad adottare la “tavola dei valori” di una nuova etica che – Burgio sottolinea con forza come questo sia uno degli aspetti distintivi e più significativi del nazismo – il regime pretese di elaborare attraverso la negazione e il capovolgimento dei precetti etici tradizionali ed in particolare cristiani. Nuovi valori nazisti in cui credere, anche solo parzialmente, o in cui fingere di riporre fiducia al fine di innescare un meccanismo di rassicurante autoinganno assolutorio utile per la gestione di un conflitto morale che non poteva non insorgere, anche nei carnefici più violenti, davanti all’orrore da loro stessi prodotto.

Di grande interesse sono le pagine in cui Burgio redige la tavola di questi valori etici nazisti, partendo dall’assunto per cui, come ogni dottrina etica, anche quella nazista associa il bene alla vita, ma il valore della vita non viene più declinato in termini universalistici, ma in termini particolaristici ed esclusivi, compartimentati. A contare è solo la vita del Volk, la sua salute e quella dei Volksgenossen, non quella degli altri, che, al contrario, diviene ostacolo, pericolo da combattere. Pertanto, con un paradossale rovesciamento dei termini, per garantire la vita di alcuni uomini è buono e moralmente legittimo ucciderne altri (altre razze o le vite “non degne” perché malate, ecc). È una «etica etnocentrica e razzista […] intessuta di “valori” correlati alla superiorità dello Herrenvolk». (p. 200) «Giungiamo così rapidamente al cuore dell’etica nazista, dove la distruzione dell’umanità come universale si connette alla eroicizzazione dei “carnefici” e questa alla produzione di un lessico dell’orgoglio genocida» (p. 204), a cui fa da contraltare – ancora una volta per ribaltamento dei criteri morali tradizionali – la colpevolizzazione delle vittime. Ne consegue che la somma virtù divenne la “durezza” – cioè la spietatezza, il disprezzo per la compassione e per ogni altra forma di sentimento umanitario – a cui associare la più ferrea abnegazione nel portare avanti l’opera di realizzazione di una volontà altrui: quella del Führer.
Ancora una volta – come ci insegna Burgio – decisiva fu la scelta, dei carnefici, dei collaboratori e di buona parte dei tedeschi, di non decidere, di “farsi decidere da altri”; ma si trattò pur sempre di una decisone, che richiede l’assunzione di responsabilità.

E sulla natura e sulle diverse tipologie della responsabilità ragiona il quinto capitolo (La molteplice responsabilità) scritto da Marina Lalatta Costerbosa, che, dopo aver ricostruito il panorama completo delle forme di responsabilità, si concentra su quella più pertinente alla problematica affrontata dal saggio: la “responsabilità morale e personale”, imputabile ai perpetratori diretti del genocidio nazista e ai loro collaboratori, innanzi tutto e al popolo tedesco nel suo complesso, di conseguenza. Si tratta – scrive l’autrice – «della responsabilità riferita ad un soggetto umano capace di intendere e di volere, quella responsabilità che ha a che fare con l’agire dell’uomo. E questo non sotto il profilo giuridico (civile e penale) […] bensì dal punto di vista morale e nelle sue diverse gradazioni, ovvero, a seconda dei differenti livelli di coinvolgimento e di intenzionalità nell’azione e nelle condotte d’azione sotto esame». (p. 230)
Fanno da sfondo generale alle considerazioni di Costerbosa le riflessioni di Hans Jonas e del suo Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica in cui il filosofo tedesco chiarisce come la responsabilità, pur non costituendo di per sé ancora la morale e non ponendo da sé degli scopi all’azione, sia la condizione preliminare della morale stessa. La responsabilità, continua Lalatta Costerbosa, significa «capacità di autocontrollo rispetto ad azioni che fuoriuscirebbero dal perimetro di ciò che è ritenuto moralmente lecito» (p. 232), ciò vuol dire «capacità di impedire a se stessi di compiere un’azione determinata, rispettando la norma che la vieta». (p. 239)

Pertanto, la responsabilità, presupposto e condizione dell’azione morale, a sua volta presuppone la deliberazione autonoma, l’autonomia e l’indipendenza del soggetto morale, come bene ha chiarito nella Critica della Ragion pratica Kant, recisamente contrario a letture deterministiche dell’esperienza etica, oggigiorno rilanciate come conseguenza dello sviluppo delle neuroscienze.
Quattro sono secondo Costerbosa le condizioni di possibilità della responsabilità morale: l’assenza di qualsiasi forma di determinismo etico; la consapevolezza, almeno parziale, delle conseguenze dell’azione intrapresa; l’autocontrollo, come sopra definito; la percezione del sentimento di responsabilità.

Ancora il filosofo di Königsberg ed Agostino, letti attraverso Paul Ricoeur, fanno da punti di riferimento essenziali della breve, ma molto interessante, ricostruzione operata dalla studiosa di un problema annoso della riflessione filosofica (e teologica), quello della natura ed origine del male; il problema della teodicea.
La teoria agostiniana della non sostanzialità del male, interpretato come un nihil privativum, come una privatio boni, a cui fa da contraltare l’equazione tra essere e bontà e da corollario l’incommensurabile distanza ontica tra creatore e creatura, causa dell’imperfezione dell’uomo e condizione di possibilità del peccato, cioè del suo libero allontanamento dalla via maestra del bene di dio, trovava una soluzione (che incontrò molta fortuna) tanto sul piano ontologico della spiegazione della natura del male in relazione all’essere e a dio, quanto sul piano morale dell’origine dell’azione malvagia.
Secondo Costerbosa e come osserva Ricoeur, i termini della riflessione filosofica sul male dopo secoli di riproposizione del paradigma agostiniano mutano grazie a Kant, con il quale viene meno l’impostazione onto-teologica della teodicea e il male riguarda solo la sfera pratica e soggettiva dell’azione e della riflessione morale, non più quella oggettiva dell’ontologia; con Kant «non si può più domandare donde viene il male, ma donde viene che noi lo facciamo». (p. 245)
È un processo di laicizzazione (il male radicale prende il posto del peccato originale) e di soggettivizzazione della questione del male quello che avviene con Kant, che pone al centro dell’esperienza morale l’autonomia del soggetto che avverte in sé la propensione al male a fronte della predisposizione al bene come termini estremi della libera scelta individuale.

E ancora a Kant fa riferimento Marina Lalatta Costerbosa per definire il concetto di dignità umana e per ricondurre il discorso al tema delle responsabilità dei crimini nazisti. Il dovere del rispetto della dignità dell’uomo in se stessi e negli altri è imperativo categorico assoluto per Kant e «l’idea kantiana di dignità riesce a spiegare via negationis l’ottundimento della responsabilità» avvenuto in modo generalizzato nella società tedesca del dodicennio nazista: offende e perde la propria dignità di uomo il burocrate che ottusamente esegue il proprio compito senza farsi domande; nega e violenta la dignità dell’altro il carnefice che scarica la sua furia criminale su vittime precedentemente disumanizzate; e la vittima cerca disperatamente di difendere o di trattenere una minima parte di quella dignità umana che le viene strappata dalla violenza altrui.

Laddove e quando l’universale etico del rispetto della dignità umana lascia il posto al disprezzo della vita si producono le condizioni affinché gli uomini possano compiere l’irresponsabile scelta del male estremo. Questo ci fa pensare alle riflessioni che Karl Jaspers nel 1946 propose nel suo La questione della colpa circa le responsabilità del popolo tedesco. Come è noto il filosofo articolava il concetto di colpa secondo quattro tipologie, tutte imputabili ai tedeschi, individualmente e collettivamente – colpa giuridica, politica, morale ed infine metafisica – e l’ultima, la “colpa metafisica”, consiste nella violazione del principio di solidarietà che dovrebbe unire gli uomini tra loro e che rende ogni individuo corresponsabile in parte delle ingiustizie e dei torti subiti dall’umanità, soprattutto quando questi avvengono in sua presenza o quando ne è a conoscenza e pertanto non ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto per impedirli.

Hannah-Arendt009Il riferimento a Jaspers è funzionale al passaggio all’analisi del sesto ed ultimo capitolo di Orgoglio e genocidio (Un’ottusità deliberata), in cui Alberto Burgio fa risalire proprio al confronto tra Hanna Arendt e il maestro Karl Jaspers, interrottosi nel 1933 e ripreso nel 1946, il ripensamento compiuto dalla filosofa di Hannover delle posizioni sul nazismo da lei stessa espresse in Le origini del totalitarismo, nonostante il carteggio tra il maestro e l’allieva di un tempo avvenga cinque anni prima della pubblicazione delle Origini (1951) e non nei dodici che separano questa opera dalla Banalità del male (1963), in cui tale ripensamento produce i suoi principali e più importanti effetti.
Nello scritto del 1951, infatti, il discorso della Arendt muove dall’analisi della società di massa, nella sua versione totalitaria e sfocia in conclusioni rigidamente deterministiche, che, applicando il modello eterodirettivo, pongono l’accento sulla «assoluta subordinazione degli individui assoggettati al potere della dirigenza nazista, ridotti a semplici marionette» sedotte dall’ideologia e mosse dalla pervasiva propaganda capace di creare un mondo fittizio «nel quale milioni di tedeschi sarebbero vissuti per dodici anni come prigionieri ignari» (p. 287) e pertanto anche scarsamente responsabili delle loro azioni; «uomini in senso proprio de-menti, privi di volontà e di coscienza». (p. 289)

Ma Burgio mostra come in uno scritto del 1945, Colpa organizzata e responsabilità universale, e nelle comunicazioni con Jaspers, Arendt avesse già iniziato ad elaborare concetti che, dopo un periodo di latenza di più di quindici anni, sarebbero stati poi alla base del saggio sul processo ad Eichmann. In questo scritto, infatti, troviamo un primo abbozzo del concetto di “normalità” di quegli uomini che si trasformarono in carnefici, grazie alla capacità del regime di sfruttare l’antropologia del “bravo cittadino borghese”, «buon lavoratore e rispettabile “pater familias”, preoccupato del benessere del proprio nucleo famigliare e tendenzialmente indifferente verso la sfera pubblica» (p.295), che in cambio di sicurezza e tutela degli interessi privati prestò al regime la propria disponibilità all’azione criminale, rassicurato dal senso di impunità e dalla irresponsabilità prodotti dall’alibi autoassolutorio della catena di comando, degli ordini superiori ricevuti all’intero dell’apparato burocratico dello stato. E – ribadisce con forza l’autore – si trattò «di uno scambio nel quale il regime aveva concesso vantaggi materiali e ottenuto consenso e complicità. Ma uno scambio del genere […] chiamava in causa la libera scelta dei tedeschi di accettare le proposte del regime […]. Da una parte benessere e sicurezza, con in più la garanzia dell’impunità; dall’altra, la violenza nei confronti dei deboli, dei diversi, degli estranei: una scelta sin troppo ragionevole (propria di accorti homines oeconomici) e persino paradossalmente morale, dettata dal senso di responsabilità verso la famiglia». (p.296)

EichmannNe La banalità del male Arendt sviluppa questa linea di pensiero e la applica allo studio di un caso che intende presentare come paradigmatico, il significato del quale cioè trascende la specificità del caso medesimo e si allarga fino a comprendere e a spiegare il comportamento della maggioranza dei tedeschi: il processo svoltosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann. Per rispondere alla domanda essenziale – che, come abbiamo visto, secondo Burgio solo la filosofia è in grado di affrontare in modo pertinente – “perché Eichmann ha voluto essere un carnefice?”, Arendt enuclea e descrive una nuova e desolante configurazione della mente, quella della “ottusità morale”, della “stupidità”, della Banalität, come già l’aveva definita Jaspers.
Si tratta della questione filosofica dell’enigma della libertà dell’uomo, di un uomo consapevole e libero e al tempo stesso “normale”, cioè non affetto da turbe mentali o mentalmente debole, che prende la decisione autonoma di compiere il male, un male criminale ed estremo. Ne consegue che – dice Burgio – quello che «Arendt elabora è un dispositivo filosofico, teoretico, che non si limita a recepire e riformulare problematiche storiografiche o psicosociali ma le integra con l’analisi dello stile cognitivo e riflessivo del soggetto, e della sua prospettiva morale ed etica […] sulla base del presupposto dell’autonomia e della responsabilità personale». (p. 299)

Il male compiuto da uomini come Eichmann è vuoto, privo di senso e di profondità, superficiale, insensatamente eccessivo e in tal senso “banale”; può distruggere il mondo perché – scrive Hanna Arendt – «si espande sulla sua superficie come un fungo» (p. 303), si propaga come un’epidemia ma non ha la “profondità” del “male radicale” kantiano. E chi è colui che pratica questo male “banale” e nella sua banalità estremo e senza limite? La risposta di Arendt è nota: l’attore di questa esperienza è un soggetto “insulso”, “sconsiderato”, un uomo “privo di pensiero”, thoughtlessness.
Ma il pensiero di cui si denuncia l’assenza non è né quello logico, del calcolo e del ragionamento strumentale – di cui Eichmann diede ampiamente ed indiscutibilmente prova – né quello argomentativo, colto o erudito. A mancare è la capacità di riflessione autonoma, critica e disinteressata sul senso delle cose, sul proprio e l’altrui esserci, sul valore e il senso della vita e del mondo. È la razionalità intesa come capacità di discernimento tra ciò che è giusto ed ingiusto, tra il bene ed il male, tra ciò che è umano e ciò che non lo è; è il pensiero inteso come la capacità di giudicare del valore delle cose e delle azioni.

Se – riflette Burgio – tutti, come voleva il Cartesio del Discorso sul metodo, sono in grado di saper ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, in quanto tutti gli uomini posseggono la quantità necessaria e sufficiente di buon senso per tale scopo, allora ne consegue che chi si astiene dall’esercizio della ragione così intesa, dall’applicazione del buon senso, lo fa per scelta, per volontaria decisione di – potremmo dirlo con Max Horkheimer di Eclisse della ragione – identificarsi totalmente con una “razionalità soggettiva”, meramente calcolistica, utilitaristica ed avalutativa, allontanando da sé la “razionalità oggettiva”, critica e valutativa, che guida l’uomo nell’atto della comprensione e del giudizio.

È in questo modo – secondo Arendt – che l’uomo si predispone all’eterodirezione, all’adesione incondizionata alle regole e ai poteri vigenti, astenendosi dal valutare e dal pensare criticamente ed autonomamente. Ma si tratta comunque e sempre di una libera predisposizione alla sottomissione, di una volontaria decisione di abbandonare la propria volontà per identificarsi con quella altrui, fino al punto che tale condizione di “ottusità della mente”, di “assenza di pensiero”, di “annullamento delle capacità di discernimento e giudizio” diventa un vero e proprio abito mentale, una “seconda natura”, con la quale ci si identifica totalmente.
La “seconda natura” dell’”assenza di pensiero” produce una chiusura narcisistica dell’individuo su se stesso; una fissazione manichea sul proprio gruppo di appartenenza che esclude recisamente gli altri, i diversi; un’incapacità sostanziale di immedesimarsi negli altri e di nutrire compassione.
Si produce un effetto di “compartimentazione” della coscienza morale, che include solo il gruppo di “noi” ed esclude quello degli “altri”; un blocco di quel dialogo interiore che imporrebbe ad ogni individuo il confronto con la propria coscienza; infine lo scivolamento in una condizione di “minorità” morale, cioè di esternalizzazione e perdita della propria coscienza e della propria volontà.

Ora, se il ragionamento paradigmatico ed analogico di Hanna Arendt – come ritiene Burgio – è ancora pienamente valido e pertinente, si deve concludere che nella Germania tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento si sia verificato un vero e proprio “crollo morale”, una “pandemia di ottusità morale”, che, seppur con responsabilità differenti e a livelli di coinvolgimento molto diversi tra loro, ha travolto ed “infettato”, come Eichmann, tanti milioni di cittadini “normali” del Terzo Reich.

Per concludere questa lunga presentazione di un libro ricchissimo ed interessantissimo, pensiamo che – proprio per dare maggiore fondatezza all’idea della valenza paradigmatica della “normalità criminale” di Eichmann e per evitare che la spiegazione del passaggio da “uno” a “molti”, dalla minoranza dei casi esemplari dei grandi criminali alla maggioranza degli “uomini della strada” si trasformi, paradossalmente, in una nuova forma di meccanicismo di tipo analogico (come i pochi… così i molti) – sia opportuno, come d’altra parte anche Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa riteniamo sostengano, fare interagire ed integrare maggiormente i due piani dell’autonomia (cioè della scelta soggettiva, libera e responsabile) e dell’eteronomia (cioè del condizionamento, del contesto, dell’intervento esogeno), della libertà soggettiva e della costrizione oggettiva, dell’individuo e della struttura.

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La coscienza dei soldati https://www.carmillaonline.com/2012/03/08/la-coscienza-dei-soldati/ Thu, 08 Mar 2012 07:37:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4222 di Alessandra Daniele

sharon_boomer_valerii.jpgDall’articolo di Lorenza Ghinelli La pedagogia disarmante di Paulo Freire

“Vedo in Marco Bruno, come nel poliziotto, due facce della medesima medaglia, una medaglia che ha uno scopo preciso, far tornare i conti ai potenti. I poliziotti, così come i No Tav, assumono su se stessi ruoli prestabiliti da altri. Senza divertimento alcuno e senza consapevolezza”.

Dal quarto atto dell’Enrico V di Shakespeare, tre soldati discutono se l’essere coscritti al servizio del re li sollevi dalla responsabilità morale delle loro azioni, facendo ricadere solo su di lui le loro colpe:

“Ne sappiamo abbastanza se sappiamo che siamo [...]]]> di Alessandra Daniele

sharon_boomer_valerii.jpgDall’articolo di Lorenza Ghinelli La pedagogia disarmante di Paulo Freire

“Vedo in Marco Bruno, come nel poliziotto, due facce della medesima medaglia, una medaglia che ha uno scopo preciso, far tornare i conti ai potenti. I poliziotti, così come i No Tav, assumono su se stessi ruoli prestabiliti da altri. Senza divertimento alcuno e senza consapevolezza”.

Dal quarto atto dell’Enrico V di Shakespeare, tre soldati discutono se l’essere coscritti al servizio del re li sollevi dalla responsabilità morale delle loro azioni, facendo ricadere solo su di lui le loro colpe:

“Ne sappiamo abbastanza se sappiamo che siamo sudditi del re; se la sua causa è ingiusta, l’obbedienza che dobbiamo al re ci toglie ogni responsabilità per i suoi atti”.

Enrico V, fra loro in incognito, li avverte però che la responsabilità morale è personale, e che se moriranno con la coscienza nera andranno all’inferno e pagheranno personalmente per le loro malefatte, a prescindere dal loro status di coscritti:

“Ogni suddito deve obbedienza al re, ma l’anima di ciascun suddito è affare tutto suo”.

Enrico V rischia così di rendere i suoi uomini dei soldati “meno efficienti”, perché responsabilizzati, e quindi non più predisposti all’obbedienza pronta, cieca, e assoluta, se può costargli l’anima. Soldati “peggiori”, ma uomini migliori. Esseri umani, e non macchine: il dubbio che tormenta l’agente Rick Deckard, cacciatore di androidi, è quello d’essere anch’egli una macchina, e questo doloroso interrogarsi sulla propria coscienza ne dimostra l’umanità.
Il monito di Enrico V è il contrario di ciò che Nicolas Eymerich promette sempre ai soldati al servizio dell’Inquisizione, prima d’una strage di eretici, o ebrei, o musulmani: assoluzione preventiva e plenaria per ogni atrocità commessa ai suoi ordini.
“Stavo solo eseguendo degli ordini” era la linea di difesa di Eichmann.
E non ha funzionato.

Se un soldato spacca la testa a una contadina sessantenne, o ammazza un pescatore a fucilate, o insegue un ragazzo su un traliccio finché il ragazzo sbaglia la presa e cade fulminato, la colpa non è solo del re.
Si accusa spesso la cultura antagonista di disumanizzare gli uomini in divisa vedendoli solo come ciechi strumenti del potere, in realtà io ci tengo a fare esattamente il contrario, riconoscerli come esseri umani dotati del bene più prezioso dell’universo: una coscienza indipendente. Capaci di discernere gli ordini che li portano a combattere le mafie, da quelli che li mandano a presidiare i cantieri controllati dalle mafie. Anche Roberto Saviano avverte:

“l’Alta velocità è diventata uno strumento per la diffusione della corruzione e della criminalità organizzata (…) Il tracciato della Lione-Torino si può sovrapporre alla mappa delle famiglie mafiose e dei loro affari”.

Una coscienza indipendente ti mette in grado di decidere se condividere le idee e le colpe del re e delle mafie, oppure no. Se essere migliore come soldato, o come essere umano.

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