Ada Gobetti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il dovere di non collaborare https://www.carmillaonline.com/2017/05/06/dovere-non-collaborare/ Fri, 05 May 2017 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37782 di Fabrizio Salmoni

Polito non collaborare Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, con Prefazione di Paolo Borgna, Ed. Seb 27, 2017, pp.184, € 15

Ho letto con grande commozione questo lavoro di riflessione di Pietro Polito (che io chiamo affettuosamente “vice-Bobbio” perché ha assistito il filosofo torinese nei suoi ultimi anni curandone il trasferimento dell’archivio personale al Centro Studi Piero Gobetti di cui è attualmente direttore) poiché coinvolge un numero di persone che ho avuto la fortuna di conoscere o frequentare fin dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Oltre a una in [...]]]> di Fabrizio Salmoni

Polito non collaborare Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, con Prefazione di Paolo Borgna, Ed. Seb 27, 2017, pp.184, € 15

Ho letto con grande commozione questo lavoro di riflessione di Pietro Polito (che io chiamo affettuosamente “vice-Bobbio” perché ha assistito il filosofo torinese nei suoi ultimi anni curandone il trasferimento dell’archivio personale al Centro Studi Piero Gobetti di cui è attualmente direttore) poiché coinvolge un numero di persone che ho avuto la fortuna di conoscere o frequentare fin dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Oltre a una in particolare, Bianca Guidetti Serra che era mia madre. Mi riferisco soprattutto alla famiglia Gobetti con cui sono cresciuto e che considero la mia seconda famiglia “storica”. Bobbio, Antonicelli, Galante Garrone come anche Giorgio Agosti, Massimo Mila e tanti altri sono state presenze costanti nell’ambiente partigiano in cui mi sono formato, persone che, senza neanche accorgermene, ho ammirato e amato perché erano un tutt’uno con la mia famiglia, di fatto una famiglia “estesa”.

Da loro ho saputo e capito precocemente cos’erano stati il fascismo e la Resistenza, da loro ho assorbito anche indirettamente idee, principi, ragionamenti, comportamenti. Quanto io sia stato capace di interpretarli non so dirlo, ma so che un libro come questo, pur nella sua ardita impostazione, ne celebra in qualche misura pensiero e azione. E ci fa sentire la loro mancanza come figure-guida da prendere a esempio e riferimento nella confusione dominante dell’oggi, sempre più difficile da interpretare e da vivere con coerenza.

Dico ardita impostazione per l’intento di stabilire, a partire dal solido retroterra teorico di Piero Gobetti e di Bobbio, un collegamento omogeneo tra partigiani combattenti, partigiani-intellettuali e importanti teorici della nonviolenza come Capitini, Dolci, don Milani, Caffi, Guido Calogero. Se un filo diretto ideale appare innegabile sul tema dell’ antifascismo e del generico anti-autoritarismo riesce tuttavia difficile pensare uniti nello stesso afflato per esempio un Paolo Gobetti e un Pasolini, che pure furono contemporanei. Questo paradosso, poiché è tale, ve lo assicuro, suggerirebbe piuttosto due piani separati magari parzialmente sovrapposti su cui distribuire i prescelti invece che su una linea di continuità che Polito, da antifascista-intellettuale-nonviolento, sembra indicare sin dal sottotitolo

Per il profano il primo punto di distinzione non può essere che la valutazione sulle scelte: combattere o non collaborare. Ebbero o avrebbero potuto avere lo stesso peso nello stesso contesto storico in funzione della vittoria? Certamente il combattere e il non collaborare furono complementari ma senza la scelta della lotta armata l’esito sarebbe stato lo stesso? Persino Capitini che scelse di non combattere per dissenso sul metodo, sembra dire di no ammettendo a posteriori “l’idea assolutamente immatura” e dichiarandosi sconfitto non ovviamente sul piano morale, ma sul piano pratico, per non aver saputo costruire una forza di gruppi nonviolenti.

Un secondo elemento cruciale, inevitabile per una postuma discussione sulla consistenza delle scelte è la politica, nella sua magmatica complessità, che purtuttavia si assunse il compito di organizzare e dirigere la lotta armata. Gli storici sanno quanto travagliato fu il processo che portò all’unificazione della condotta della guerra di Liberazione nel Corpo Volontari della Libertà e alla formazione del Cln. Quale contributo diede o avrebbe potuto dare a tale processo l’idealismo nonviolento?
Come conciliare due piani teorici di pari dignità quando sugli enunciati irrompono la politica e “il male” che, nelle sue versioni religiosa e laica, esiste e opera nel mondo, tra gli umani? Un male che si chiama Potere con le pulsioni e le articolazioni che esso sa creare.

Non è certo mio compito né è mia capacità sviscerare la quantità di argomenti e la ricchezza di spunti di dibattito che Polito, tramite i suoi protagonisti, solleva. Mi sento di dire che le motivazioni delle due scuole, dei due tavoli teorici sono talvolta sovrapponibili: il “Fare ugualmente il possibile” di Capitini è simile al “Anche le piccole cose servono” di Bianca Guidetti Serra come anche il peso da entrambi attribuiti alla prevalenza dei “principi da non perdere” (quante volte mi sono sentito dire “E’ una questione di principio”! anche su cose che reputavo “piccole”. Io sbuffavo, poi si rideva), cosa che valeva più che mai per gli azionisti, ma l’impressione è che la differenza stia nella pratica e negli obiettivi. Una pratica che per i nonviolenti trae prevalentemente ispirazione dal sentire religioso e si propone di “formare l’uomo” in funzione democratica e anti-autoritaria mentre per i partigiani si basa sul realismo, sul contingente, anche sulla ribellione morale, ma in fin dei conti sullo scopo di battere il fascismo per creare una nazione diversa, per un progetto collettivo. Si sente la mancanza tra i nonviolenti di una significativa analisi della società, delle classi, degli interessi di classe.

Non che i ponti tra le due anime non ci siano: Guido Calogero è il “filosofo del dialogo” che sostiene “la volontà di difendere i diritti quando siano minacciati” e secondo il quale “la nonviolenza non può mai erigersi ad assoluta regola di condotta”; anche per Andrea Caffi la violenza delle rivoluzioni liberatrici ha una funzione positiva perché “esse sono il risultato della convergenza fra le aspirazioni maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla società” salvo poi mettere in guardia dalla convergenza della “violenza rivoluzionaria” sul binario della “violenza reazionaria”; e Lorenzo Milani pur conducendo una critica serrata della guerra sostiene che l’unica “guerra giusta” è stata la guerra partigiana, ma intanto con la sua critica del sistema politico “vecchio e anchilosato” contribuisce (suo malgrado?) ad alimentare la ribellione studentesca degli anni 1968-69.

Non è dato conoscere il pensiero di un Paolo Gobetti o di un Giorgio Agosti sulle scelte o sul contributo dei nonviolenti nei momenti decisivi, ma possiamo fare riferimento alle parole di Ada Gobetti che pure si offre al dibattito con Capitini fin dal 1947, e per la quale la parola “pace” deve probabilmente venire interpretata nell’accezione delle posizioni comuniste in contrapposizione alla politica atlantica dei suoi anni, che non può che concludere che “non sempre alla violenza si può rispondere con la nonviolenza”.

Polito mette poi sul piatto della discussione la morale, l’umanità dei partigiani combattenti, la loro fondamentale riluttanza alla violenza gratuita: tutti quelli rivisitati hanno lasciato in qualche forma la testimonianza della loro diversità morale rispetto alla controparte senza però abdicare alla dura necessità di uccidere. E senza cedere d’altra parte alla seduzione delle armi anche per le generazioni future: il Giolitti (Antonio), comandante partigiano, nel febbraio 1945 si preoccupava già della prossima generazione e suggeriva di “rifare l’educazione dei giovani… a partire dai bambini tenendoli al riparo dai giocattoli e dalle immagini di guerra”. Non fu dunque un caso che da piccolo mi siano state sempre negate armi-giocattolo.

Anche Bobbio interviene sul tema violenza/nonviolenza e illustra nitidamente i limiti della nonviolenza che “rischia di rendere un servizio ai violenti…Il paradosso della nonviolenza è che incoraggia la violenza dei violenti…il rinunciare alla forza in certi casi non significa mettere la forza fuori gioco ma unicamente favorire la forza del prepotente”.

E nella dialettica delle argomentazioni si recupera l’importanza della discussione sull’apatia, sull’indifferenza, questioni che oggi più che mai sono sotto gli occhi di tutti coloro che fanno qualche tipo di attività politica o sociale. L’apatia dei tanti prima e dopo l’8 settembre a cui fece in qualche misura da contrasto la non collaborazione di altrettanti. Fu già Piero Gobetti a parlarne da quel piccolo punto di osservazione che era la redazione del suo giornale: “Non può essere morale chi è indifferente…L’apatia è negazione di umanità, abbassamento di se stessi, assenza di idealità”. L’apatia è il nemico del prima e del dopo perché si coniuga con la desistenza della memoria, intesa come “oblio dei valori, della coscienza, della ragione”, rimarcata da Calamandrei, e da Ada Gobetti che la associa alle facili abitudini, agli interessi di parte, ai pregiudizi.

Il passo più ardito in tutto questo contesto è la collocazione della figura di Pasolini. Polito lo definisce esponente di una resistenza intellettuale e gli attribuisce di fatto uguale dignità agli altri protagonisti del libro. Impresa ardua a mio avviso perché si incaglia nelle tante contraddizioni del personaggio: “antropologicamente comunista “ o “reazionario”, “critico inesorabile del tecno-fascismo” o solo “anti-autoritario” o “incollocabile” o “rappresentante ostinato della singolarità” cioè forse solo anticonformista. Io, che non l’ho mai studiato a fondo, lo ricordo come un populista ante litteram nel suo schierarsi con i poliziotti “figli del popolo” e contro il popolo di studenti e operai bastonati dai “figli del popolo” nei primi anni della rivolta anti-sistema; lo ricordo come un intellettuale confuso che lancia strali in ogni direzione in anni in cui l’anticonformismo gli regalava lo spazio per farlo.

L’intervista riportata da Polito ne è involontariamente evidenza. Sfido molti anche con più lauree a cogliervi un chiaro senso. Difficile metterlo in equilibrata relazione con partigiani combattenti, con esponenti della nonviolenza militante, con Bobbio e Gobetti.
E con i loro insegnamenti che da tempi non sospetti riescono a parlarci dell’oggi. Sentite questi: “In ogni regime totalitario il parlamento è in realtà un ‘teatro dei burattini’, come un burattinaio il governo tira i fili e le marionette hanno solo il compito di battere le mani” (Massimo Mila); “Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco” (Piero Gobetti) e i mali della politica da cui Bobbio ci metteva in guardia sin dal 1985: “la questione morale, il potere invisibile, il prevalere della rappresentanza degli interessi sulla rappresentanza politica…l’occupazione del potere da parte dei partiti…”.

Paradossalmente, dopo lunghe stagioni di storia italiana del dopoguerra segnate da contrasti politici e violenze (ascrivibili in prevalente misura allo Stato e al Potere), l’attualità sembra segnalare una propensione per le forme di lotta nonviolente, ma l’utilizzo diffuso che ne fa la protesta popolare (dalla Val Susa al Nord Dakota) ne tradisce l’insufficienza a conseguire gli obiettivi, la subordinazione a stati di debolezza e denuncia la militarizzazione delle società cosiddette democratiche. A maggior ragione, sembra riduttivo il Capitini che dice “Resistere significa non accettare il mondo cosi com’è”. Forse un po’ poco per il mondo che stiamo vivendo.
Se è vero che i libri sono cibo per i pensieri, questo lavoro di Polito offre ampia materia di riflessione sulle forme di opposizione in relazione alle fasi politiche e agli imperativi individuali che le determinano. Il titolo poco “commerciale” ne denuncia la destinazione a un pubblico di lettori che non frequentano il salotto televisivo di Paola Perego, ma c’è da augurarsi che quelli in grado di affrontare argomenti di qualche peso siano ancora un buon numero.

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Lo spartiacque della Resistenza femminile https://www.carmillaonline.com/2016/06/10/lo-spartiacque-della-resistenza-al-femminile/ Thu, 09 Jun 2016 22:01:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31104 di Sandro Moiso

resistenza taciuta 1 Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, prefazione di Anna Bravo, Bollati Boringhieri 2016, pp. 314, € 25,00

Io sarò sempre ribelle, è una parola che mi piace, lo sarò sempre…” (Elsa Oliva “Elsinki”)

Torna sui banchi delle librerie, a quarant’anni dalla sua prima edizione per La Pietra e a tredici dalla sua prima ristampa, sempre per Bollati Boringhieri, un testo che all’epoca segnò, e per molti versi segna ancora, uno spartiacque per la narrazione e la ricostruzione delle vicende sociali, politiche e militari connesse alla Resistenza, sia [...]]]> di Sandro Moiso

resistenza taciuta 1 Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, prefazione di Anna Bravo, Bollati Boringhieri 2016, pp. 314, € 25,00

Io sarò sempre ribelle, è una parola che mi piace, lo sarò sempre…” (Elsa Oliva “Elsinki”)

Torna sui banchi delle librerie, a quarant’anni dalla sua prima edizione per La Pietra e a tredici dalla sua prima ristampa, sempre per Bollati Boringhieri, un testo che all’epoca segnò, e per molti versi segna ancora, uno spartiacque per la narrazione e la ricostruzione delle vicende sociali, politiche e militari connesse alla Resistenza, sia durante il fascismo che negli anni ella guerra civile italiana. Un libro che apriva più di uno spiraglio, si potrebbe anzi dire una vera e propria nuova strada per gli studi su quel periodo storico. Un percorso caratterizzato, e questo ne costituiva il vero motivo di interesse e di novità, dalla “scoperta” dell’importantissimo contributo dato dalle donne alla sconfitta del fascismo e del nazismo sul suolo italiano.

Scoperta che si andava accompagnando, poi, all’utilizzo delle fonti orali come strumento privilegiato di indagine e ad una prima critica della conduzione politica e militare di quella lotta e dei risultati spesso deludenti, soprattutto da un punto di vista di classe e di genere, che ne erano scaturiti dopo la “Liberazione” del 25 aprile 1945. Le due autrici, insomma, in un sol colpo contribuivano a rinnovare una storiografia troppo spesso imbalsamata dalla scelte successive alla svolta di Salerno e da una sorta di mitologia politico-maschilista che aveva dominato la scena degli studi svolti fino ad allora sulla lotta partigiana.

Era una Resistenza davvero “taciuta” quella che Anna Maria Bruzzone (1925 – 2015) e Rachele Farina (nata nel 1930) riportavano alla luce con lavoro certosino ed impegno instancabile. Una Resistenza che non aveva trovato spazio nelle pagine dei testi fino ad allora più accreditati e diffusi, né, tanto meno, nei riconoscimenti ufficiali dell’immediato dopoguerra e degli anni successivi. Scrive, nella bella prefazione, Anna Bravo:”Nelle decine di migliaia di pagine scritte nei decenni sessanta e settanta c’è, insieme a molta routine celebrativa, lo sforzo di costruire una nuova antropologia del resistente. Il maschile è d’obbligo; a dispetto delle innovazioni, le donne restano un oggetto storiografico a dir poco secondario. Non che ci sia stato e ci sia silenzio assoluto. Ma nella memorialistica ci si è limitati perlopiù a rendere un omaggio commosso a qualche icona femminile, nel lavori di sintesi a citare le donne come categoria meritevole o come massa indifferenziata. Per definire l’opera delle partigiane si parla di contributo, un concetto debole rispetto alla ricchezza dell’esperienza, e un indicatore forte degli orientamenti storiografici.” (pag.VII)

Occorre infatti qui sottolineare, proprio per smitizzare certe iconografie post-sessantottesche, che anche le enormi revisioni culturali, politiche ed ideologiche susseguite alle lotte operaie e studentesche degli anni sessanta e settanta non avevano ancora minimamente toccato la sostanza dei rapporti di genere e la conseguente subalternità femminile al modello di produzione e riproduzione andro-capitalistico. Sottolinea ancora Anna Bravo che le due studiose ”scompaginano le carte: non solo documentando l’essenzialità e la qualità diversa dell’opera delle donne, ma tendono a capovolgere la questione chiedendosi quale contributo abbia dato la Resistenza alla libertà femminile. Il giudizio è che lo scambio è stato ineguale, che i conti restano aperti.” (pag. IX)

Sono dodici le voci del coro riportate nelle pagine del testo. Dodici donne, piemontesi e quasi tutte comuniste, che ricostruiscono, attraverso una polifonia di interventi, di drammi ed eroismi individuali e collettivi, una tragica lotta che, una volta privata dagli eccessi di retorica e di epica tipici della precedente storiografia, lascia intravedere il forte senso di delusione che accompagnò spesso, troppo spesso, il climax e il periodo successivo all’insurrezione di aprile. Delusione e tradimento delle aspettative femminili e della lotta di classe ancora una volta, come nella guerra di Spagna e in altri mille eventi di trasformazione sociale, andavano a coincidere. Negando, nei fatti, gli ideali e i concreti fattori materiali che avevano portato così tante italiane ed italiani a rischiare la vita e la libertà. Spesso sbandierati soltanto a parole dai partiti, tutti, facenti parte del CLN.

L’unica delle dodici donne partigiane ad aver svolto un ruolo di comando nelle formazioni combattenti, Elsa Oliva (1921 – 1994), dichiara, al termine della sua travagliatissima e avventurosa narrazione: ”L’unità della Resistenza è stata molto strombazzata in questi ultimi tempi, ma è stata molto difficile e molto sofferta. Anche qui ci sono stati attriti e raffiche tra le diverse formazioni […] a Milano, quando c’è stata la sfilata, tra quella moltitudine plaudente e tutti con le coccarde – matti, proprio matti! – pensavo che forse una buona parte erano quelli che ci avevano sparato contro. Alle staffette, nelle sfilate, mettevano al braccio la fascia da infermiera! […] Certo quando c’è stata la smobilitazione hanno dato troppo poco tempo per giustiziare i criminali. Tutt’a un tratto non era più possibile giudicare nessuno. C’è stata una comunicazione: dall’ora tot non si potevano più processare i prigionieri, ma si dovevano consegnare.
Il dopoliberazione è certamente stato molto diverso da come lo pensavo. Il mio rimpianto più grande del dopo è stato quello di non essere morta prima, durante la lotta. Se io ho invidiato qualcuno, non ho mai invidiato i compagni vissuti ma i compagni morti. […] Sono mancata le riforme che dovevano agevolare la grande massa popolare, le agevolazioni sono sempre state per i medesimi, per i ricchi, quelli che oggi portano la camicia beige o azzurra, ma che è sempre la camicia nera di ieri. […] I partigiani venivano spesso falsamente accusati di delitti comuni e bisognava che scappassero per non subire condanne durissime. […] Tutti gli impiegati conservavano il loro posto, anche se erano stati dei fascistoni, e i partigiani erano disoccupati. E’ stato il periodo più buio della mia vita, il dopoliberazione. Alcuni si sono estraniati proprio allora, perché disgustati di tanta persecuzione.
” (pp. 149-154)

Per poi aggiungere ancora: “Anche il discorso sull’emancipazione femminile in questi trent’anni non è andato molto avanti, nonostante tutto, perché l’uomo non accetta. Le donne queste cose le sentono, ma poi troviamo l’ostacolo maggiore nell’uomo, che non è preparato. Nell’uomo politicizzato e non politicizzato. Di sinistra e non di sinistra. […] Anche nelle formazioni garibaldine la donna serviva per lavare, rammendare, al massimo far la staffetta. E rischiava più dell’uomo, perché le staffette rischiavano moltissimo: io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva passare tutte le file, andare in mezzo al nemico, disarmata e fare quello che faceva. E se era presa…” (pp. 154 – 155)

resistenza-taciuta 2 E qui si apre lo spazio dei differenti rischi corsi dalle donne, insieme a tutti quelli corsi anche dagli uomini. I rischi legati al genere e al corpo della donna spesso usato, violentato, straziato. Se non tutte le donne partigiane che narrano le storie raccolte dalle due autrici furono, infatti, arrestate o imprigionate dalle milizie fasciste e naziste, due tra queste subirono durante la detenzione e gli interrogatori, oltre alle altre torture, anche l’offesa e la violenza dello stupro. Stupri che accompagnano le guerre degli uomini e che accompagnarono la repressione della Resistenza, ma che sono stati per lungo tempo rimossi e taciuti. Quasi a voler sminuire l’eroismo delle donne che affrontarono i rischi connessi alle attività partigiane.

Rischi spesso non riconosciuti, così come non fu spesso riconosciuto il ruolo svolto dalle staffette e da tutte quelle donne che in mille modi agirono all’interno della lotta di liberazione. O presunta tale.
Scrivono nell’Introduzione le due autrici, basandosi sulle testimonianze di alcune delle dodici donne: “Le donne furono le saldissime maglie della rete, rischiando spesso più degli uomini perché, se catturate, il nemico riservava loro violenze carnali che ai maschi non toccano. Nel ridimensionamento, anzi nella polverizzazione che «il vento del Sud» portò ai valori sociali della Resistenza in nome della continuità dello Stato, le donne partigiane furono doppiamente tradite: dalle forze politiche tradizionali e in molti casi, più dolorosamente, dagli stessi compagni di lotta. Dopo la Liberazione la maggior parte degli uomini considerò naturale rinchiudere nuovamente in casa le donne. Il 6 maggio 1945 Tersilla Fenoglio (Trottolina) non poté neppure partecipare alla grande sfilata delle forze della Resistenza a Torino.

«Ma tu sei solo una donna!», si sente rispondere da un compagno di lotta nell’estate del 1945 la partigiana Maria Rovano (Camilla), quando chiede spiegazioni dei gradi riconosciuti soltanto ad altri. Mentre a Barge il vicario riceve il brevetto partigiano prima di lei. E Nelia Benissone (Vittoria)? Dopo aver organizzato assalti ai docks, addestrato gappisti e sappisti, lanciato molotov contro convogli in partenza per la Germania, disarmato militari fascisti per la strada, anche da sola, e dopo esser stata nel 1945 responsabile militare del suo settore, non sarà forse riconosciuta dalla Commissione regionale come «soldato semplice»?” (pag.8)

Il mancato riconoscimento del ruolo delle donne viaggiava allora, e ha continuato a viaggiare, con il mancato riconoscimento della componente classista ed eversiva della lotta partigiana. La presenza della donna nelle formazioni combattenti poteva essere di disturbo per l’azione del Partito e dei partiti e in quanto tale, come già ho segnalato a proposito dell’esperienza nella guerra civile spagnola,1 evitata oppure successivamente rimossa.

Così, per sottolineare l’importanza e la funzione del testo di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, possono valere, ancora oggi, le parole di Teresa Cirio (Roberto) riportate a pagina 90: “Dico: «Ma, insomma, se sapessero solo cos’han fatto le donne!» Ricordo che a una riunione, anni fa, Ada Gobetti era arrabbiata: «Ma perché voi lasciate andar via tutto questo patrimonio di valori storici? Un periodo così non ci sarà mai più. Non lo si dovrebbe lasciare di generazione in generazione?» E infatti è vero”.


  1. https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

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Un granello di sabbia https://www.carmillaonline.com/2015/06/24/un-granello-di-sabbia/ Wed, 24 Jun 2015 01:23:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23598 di Alexik

Bianca Guidetti Serra«È un avvocato di Torino…», disse mia madre passandomi la cornetta. Un pomeriggio d’inverno del 2011, il Novecento mi telefonò a casa. Aveva la voce squillante di Bianca Guidetti Serra a novantadue anni, il suo rotacismo sull’accento piemontese” (Daniele Orlandi, “A voi la fiaccola”).

Coglie nel segno Daniele Orlandi in apertura del suo bellissimo saggio sull’amicizia fra Bianca Guidetti Serra e Primo Levi. Coglie nel segno perché l’intera vita di questo “avvocato di Torino” riassume in sé i momenti più alti delle [...]]]> di Alexik

Bianca Guidetti Serra«È un avvocato di Torino…», disse mia madre passandomi la cornetta. Un pomeriggio d’inverno del 2011, il Novecento mi telefonò a casa. Aveva la voce squillante di Bianca Guidetti Serra a novantadue anni, il suo rotacismo sull’accento piemontese” (Daniele Orlandi, “A voi la fiaccola”).

Coglie nel segno Daniele Orlandi in apertura del suo bellissimo saggio sull’amicizia fra Bianca Guidetti Serra e Primo Levi. Coglie nel segno perché l’intera vita di questo “avvocato di Torino” riassume in sé i momenti più alti delle lotte sociali e delle conquiste civili del Novecento italiano. Pochi hanno saputo incarnare lo spirito del proprio tempo (a volte anticipandolo) come Bianca Guidetti Serra, ad attraversare il secolo breve con una tale internità ai processi di cambiamento.

Con eccessiva modestia, lei si definiva come “un granello di sabbia, che unendosi ad altri può creare degli argini a correnti pericolose e può inceppare ingranaggi e meccanismi perversi”.

Non le sfuggiva dunque l’importanza della dimensione collettiva nell’agire politico, né la difficoltà dell’obbiettivo: arginare le correnti più nefaste della Storia, inceppare i meccanismi del Potere, compiti all’apparenza così smisurati rispetto alle forze dei singoli. Di certo, questo gigante morale del ‘900, nel farsi sabbia seppe spesso provocare in quegli ingranaggi un acuto stridio, e varie volte a fermarli.

Oggi ricorre un anno esatto dalla fine della sua lunga vita, che ebbe una ricchezza e un’intensità difficili da riassumere in poche righe. A partire da quel suo primo gesto adolescenziale, spontaneamente antifascista, di una notte del 1938, quando uscì per le strade di Torino per strappare i manifesti che definivano gli ebrei come “nemici della patria”.

Bianca Guidetti Serra e Primo Levi

Bianca Guidetti Serra e Primo Levi

Cominciò così, non ancora per coscienza politica quanto per un profondo senso di giustizia, il suo “farsi argine”, come momento di un processo di maturazione collettiva nel suo straordinario gruppo di amici: Alberto Salmoni, Franco Momigliano, Silvio Ortona, Vanda Maestro, Luciana Nissim, Ada Della Torre, Franco Sacerdoti, Primo Levi, Sandro Delmastro, Emanuele Artom.

Dopo l’8 settembre presero tutti la via delle montagne, e alcuni la strada ferrata per i campi di sterminio. Unica “gentile” in un gruppo di ebrei, fu Bianca  la destinataria delle lettere dall’inferno di Primo Levi.

Al fianco di Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra divenne staffetta partigiana nelle valli piemontesi, ma soprattutto organizzò assieme alle compagne di varie formazioni, la rete clandestina torinese dei “Gruppi di Difesa della Donna per l’assistenza ai combattenti per la libertà” (GDD): la base della Resistenza sociale, senza la quale nemmeno la lotta armata sarebbe stata possibile.

Le donne dei Gruppi di difesa erano l’ossatura del Soccorso Rosso per i prigionieri e le loro famiglie, raccoglievano fondi e beni di prima necessità per le brigate partigiane, costruivano reti di cura dei feriti nelle case e negli ospedali. Ma i loro compiti erano ben più ampi e complessi della semplice “assistenza”: si occupavano della redazione dei giornali clandestini, della compilazione di documenti falsi. Mappavano gli spostamenti delle truppe tedesche, segnalavano i punti minati, assaltavano i magazzini di viveri, trasportavano ordini, armi e munizioni. Manifestavano in onore delle compagne uccise, o per impedire deportazioni e rastrellamenti, e per la liberazione dei prigionieri. Alcune riuscivano a rapire militari tedeschi per scambiarli con i condannati a morte. Nelle fabbriche promuovevano gli scioperi delle donne e i sabotaggi della produzione bellica, che aveva forti componenti femminili fra le maestranze operaie1.

Bianca, nel nucleo fondatore dei GDD di Torino, fu attiva nelle attività di propaganda, e grazie alla sua esperienza precedente di assistente sociale di fabbrica ebbe il compito di curare l’internità delle donne ai comitati di agitazione2 che si andavano diffondendo nei luoghi di lavoro, in vista dello sciopero preinsurrezionale del 18 aprile ’45.

Torino, 14 luglio 1945: lo sciopero delle donne

Torino, 14 luglio 1945: lo sciopero delle donne

Un’attività che non si fermò col 25 aprile, perché se Liberazione doveva essere, essa doveva riguardare anche la discriminazione di genere a partire dalla disparità salariale.

Nel luglio del ’45 le donne di Torino scesero in sciopero ed occuparono l’Unione Industriale per ottenere la stessa indennità di contingenza degli uomini. Raggiunsero l’obbiettivo, anche se temporaneo e territorialmente circoscritto.

Non era un risultato scontato, e non lo sarebbe stato nemmeno dopo il varo della Costituzione repubblicana che formalmente sanciva l’eguaglianza fra i sessi. Per affermare questo principio sul piano giuridico  si dovette aspettare, nel 1958, l’esito vittorioso della prima causa per la parità salariale fra uomo e donna e l’abolizione della “clausola di nubilato”3, condotta contro il Gruppo Finanziario Tessile di Torino. A difesa delle lavoratrici tessili vi era l’avvocato Bianca Guidetti Serra.

Nei primi anni del dopoguerra l’ineguaglianza di genere non fu l’unico esempio di inapplicazione del testo costituzionale. Alla sconfitta formale del fascismo non era seguita né l’abrogazione del codice penale ereditato dal guardasigilli di Mussolini, Alfredo Rocco, né l’epurazione dall’apparato repressivo dei funzionari e dei giudici nominati nel ventennio. A dire il vero, l’ossatura dell’odierno codice penale è ancora quella, tuttora usata contro i movimenti, ma negli anni ’50 essa si presentava tal quale, senza alcun emendamento.

Torino 8 luglio 1962

Torino 8 luglio 1962

Prima che ne venisse sancita l’illegittimità costituzionale4, l’art. 113 del codice Rocco, che vietava i comizi, i volantinaggi e l’affissione di manifesti senza previa autorizzazione della questura, veniva applicato in maniera intensiva, portando a giudizio e a reclusione centinaia di militanti sindacali e dei partiti della sinistra. L’avvocato Guidetti Serra dovette occuparsene parecchio, assieme agli arresti per le attività di fabbrica, e la difesa giuridica delle lotte costituì per lei un osservatorio privilegiato dei cambiamenti nella composizione di classe e dell’emergere di nuove conflittualità. Come quando, nel luglio ’62, dopo un accordo separato con la Fiat, centinaia operai corsero all’assalto della sede della UIL di Piazza Statuto, reggendo gli scontri per tre giorni. Bianca fece parte del collegio di difesa dei 72 arrestati, di cui “quasi la metà erano meridionali e, tra tutti quanti, solo otto avevano più di trent’anni, e il più giovane ne aveva quattordici5. Avvertì da subito la crescita di quel nuovo soggetto giovane e immigrato, irregimentato in produzione ma confinato ai margini della città, e la crescita della sua rabbia, tale da alimentare il ciclo di lotte successivo.

Gli anni ’60 rappresentarono per Bianca anche quelli dell’impegno a favore dell’infanzia abbandonata rinchiusa dentro istituzioni totali minorili, veri e propri lager per proletari in fasce. Fu un lavoro costante di inchiesta e di denuncia, condotto assieme a Francesco Santanera, che servì a portare in tribunale i gestori di vari istituti, per le violenze, la denutrizione, l’incuria inflitta a centinaia di inermi ragazzini. Bambini lasciati morire per mancanza di cure, bambini suicidi, una galleria degli orrori raccontata qualche anno dopo nel libro “Il paese dei celestini”:

I ragazzi erano malnutriti ed erano assoggettati a punizioni intollerabili come mangiare anche per quindici giorni la pappa di pane senza sale e con l’olio di merluzzo, essere legati alle zampe del letto sotto di questo a crocefisso, ricevere percosse”. (Istituto Maria Vergine Assunta in Cielo, Prato).

I celestini 2

I “Celestini”

Porte sgangherate, urina stagnante a terra, sporcizia stratificata sulle pareti, insetti schifosi che movimentano l’ambiente. Questi locali sono il soggiorno di una quindicina di bimbi minorati psichici e non, che sono ospiti a pagamento di questo assurdo collegio di pseudorieducazione … I loro corpicini scarni, deformati, i loro occhi spenti ma tristi, fanno sì che qualsiasi uomo, anche il più abbietto, si muova a compassione e inviti, chi è competente, a provvedere” (Casa materna per bambini minorati  di Pagliuca Maria Diletta, Grottaferrata).

I processi ai gestori e al personale degli istituti si conclusero con alcune lievi condanne, ma la campagna di denuncia della Guidetti Serra e Santanera raggiunse ugualmente un risultato importante con la legge sulle adozioni del 1967, che finalmente tolse spazio agli aguzzini6.

Punto di riferimento per gli abitanti dei quartieri popolari e ormai nota per la sua competenza sulle questioni minorili, alla Guidetti Serra si rivolsero Argenide Rovoletto e Marianna Cavallero per problematiche relative ad affidamenti ed adozioni. Ma nell’ottobre del 1967, le madri di due fra i rapinatori più famosi del paese, dovettero tornare in quell’ufficio per tutt’altri motivi. (Continua)


  1. Bianca Guidetti Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, Torino, Vol. I e II, Einaudi, 1977. 

  2. Da quei comitati nacquero, nel dopoguerra, le Commissioni Interne. 

  3. La clausola di nubilato, la cui sottoscrizione veniva imposta alle lavoratrici all’atto dell’assunzione, prevedeva la risoluzione del rapporto di lavoro a seguito del loro matrimonio. A volte era direttamente contenuta nei contratti. Venne dichiarata nulla con la legge n.7 del 1963. 

  4. Sentenza della Corte Costituzionale n, 1 del 1956

  5. Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p. 90. 

  6. Bianca Guidetti Serra, Francesco Santanera (a cura di), Il paese dei Celestini. Istituti di assistenza sotto processo, Einaudi, 1973, pp.5/6. Bianca Guidetti Serra,  Storie di giustizia, ingiustizia e galera (1944-1992), Linea D’Ombra, 1994, pp. 37/61. 

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