accumulazione capitalistica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Come un’onda che sale e che scende* https://www.carmillaonline.com/2023/01/25/come-unonda-che-sale-e-che-scende/ Wed, 25 Jan 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75695 di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta [...]]]> di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta nel fatto che, al di là del bizzarro anti-americanismo culturale che ancora agita i sogni di tanti compagni di antica maniera che dimenticano che tale tipo di superficiale approccio a tante ricerche e produzioni culturali statunitensi è stata in realtà tipica dell’epoca fascista e dei suoi esponenti intellettuali e susseguentemente ereditata dallo stalinismo e dalle sue derive togliattiane, dal cuore dell’impero occidentale, e proprio perché tale, arrivano segnali di grande vitalità teorica, spesso derivata da una prassi diffusa di conflitto sociale. Vitalità che si presenta anche sotto le forme di una rivitalizzazione del pensiero di Marx, che sa, però, scartare sapientemente le interpretazione muffite di tanti suoi interpreti “ortodossi”1.

L’autore, Joshua Clover, oltre tutto, non è un marxista “di professione”, anzi questo, uscito negli States nel 2016 ma oggi accompagnato da un Poscritto all’edizione italiana che lo aggiorna al 2022, è il suo primo studio di carattere politico, poiché è professore di English and Comparative Literature alla University of California”Davis”, motivo per cui Clover è autore sia di libri di poesia che di saggi di critica culturale, tra i quali va segnalato 1989: Bob Dylan Didn’t Have This to Sing About del 2009.

Il testo qui recensito segue il percorso della lunga onda, che sale e scende attraverso i secoli e le società, delle lotte dei lavoratori e dei ceti disagiati fin dal comparire di un’economia di mercato in età medievale, moderna e, infine, contemporanea. Un’analisi delle rivolte e della loro organizzazione che, secondo l’autore, è possibile svolgere proprio a partire dal lavoro di Marx sulla sfera della produzione e su quella della circolazione. Sostenendo, sulla base degli scritti del rivoluzionario tedesco, che la seconda non si riduce, come sosterrebbero gli “ortodossi” alla sola sfera dello scambio, ma che farebbe invece da sfondo all’agire sociale nel suo insieme poiché, come spiega Clover nel poscritto all’edizione italiana: «Una volta che l’agricoltura di sussistenza e il baratto locale sono sradicati, e le forme di servitù assoluta trasformate oppure occultate dalla legge, il proletariato, di qualunque tipo esso sia, si trova a dipendere dal mercato»2. E quindi ad agire all’interno di essa.

E’ in questo contesto che si svilupparono i riot del tardo medioevo e della prima età moderna, che raccoglievano poveri delle città, contadini rovinati dal progressivo diffondersi di norme economiche e legali che ne impedivano la sopravvivenza secondo le vecchie tradizioni comunitarie e strati sociali il cui unico orizzonte era rappresentato dalla necessità di ottenere un abbassamento dei prezzi per poter sfamare la propria persona e/o la propria famiglia. Riot in cui spesso erano protagoniste le donne che vivevano sulla propria pelle tutte le condizioni appena riassunte e che cercavano, nella sostanza, di imporre una forma di riduzione o di controllo dei prezzi delle merci.

Sono questi riot che precedono lo sciopero nel titolo. Sciopero che, tra mille difficoltà e durissimi scontri, diventerà la forma di lotta e di organizzazione della forza lavoro fin dall’apparire in Inghilterra della Rivoluzione Industriale e che rimarrà, nei fatti e nell’immaginario collettivo, lo strumento determinante per la battaglia per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice. Almeno fino alla seconda metà del ‘900 in Occidente.

Forma di lotta prevalente all’interno della sfera della produzione che, però, finiva col costituire anche una forma di controllo dei prezzi attraverso un innalzamento del valore della forza lavoro.
In qualche modo la lotta intorno al mercato del lavoro finiva col sostituirsi a quelle intorno al mercato popolare e urbano. Forma di lotta spesso vincente sul lungo e medio periodo, ma che spesso ha finito coll’escludere dall’orizzonte proletario forme di lotta e fasce sociali che non potevano vantare un’appartenenza alla classe operaia o lavoratrice. Ma, c’è sempre un ma…

Storicamente, la forza dei lavoratori si è basata sulla crescita del settore produttivo e sull’abilità nel prendere possesso di una parte del sovrappiù in espansione. Dalla fine degli anni Settanta in poi, i movimenti dei lavoratori sono stati costretti a negoziati difensivi, venendo obbligati a tenere in vita le aziende capaci di fornire i salari e rendendo manifesta la dominazione del capitale in cambio della sua stessa preservazione. Chi lavora compare sulla scena in un periodo di crisi in quanto lavorator* e affronta una situazione nella quale “lo stesso fatto di agire come una classe appare come una costrizione esterna”. Tale dinamica, che potremmo descrivere come la trappola dell’auto-affermazione, è diventata una forma sociale generalizzata e un quadro concettuale, la razionale irrazionalità della nostra epoca. Il disordine intrinseco al riot può essere inteso come un’immediata negazione di tutto questo3.

Sottolinea più volte l’autore, nel corso del testo, che l’analisi delle lotte non può essere scissa da una teoria della crisi e da un’analisi materialistica delle condizioni in cui vengono a svolgersi e del contesto generale in cui si sviluppano.

Non appena le nazioni sovrasviluppate sono entrate in una crisi prolungata, per quanto ineguale, nel repertorio delle azioni collettive è tornata a prevalere la tattica del riot. Ciò è vero sia nell’immaginario popolare sia guardando ai dati (nella misura in cui questi ultimi possono dare adito a una comparazione statistica). A prescindere dalla prospettiva di volta in volta adottata, i riot hanno assunto una granitica centralità sociale. Le lotte del lavoro sono state in buona misura ridotte allo stato di sbrindellate azioni difensive, mentre il riot si propone sempre di più come la figura centrale dell’antagonismo politico, uno spettro che si insinua ora nei dibattiti di matrice insurrezionalista, ora negli ansiosi report governativi, ora sulle copertine patinate delle riviste. I nomi dei luoghi sono diventati punti cardinali della nostra epoca. La nuova era dei riot ha le proprie radici a Watts, Newark e Detroit; passa attraverso Tienanmen Square 1989 e Los Angeles 1992, arrivando, nel presente globale, a São Paulo, Gezi Park e San Lázaro. Il riot si configura come protorivoluzionario in piazza Tahrir, a Exarcheia è quasi permanente, con Euromaidan ha un orientamento reazionario. In una luce più sfumata: Clichy-sous-Bois, Tottenham, Oakland, Ferguson, Baltimora. Troppi, per poterli ricordare tutti4.

Potremmo aggiungere, come fa lo stesso autore in altra parte del testo, le lotte valsusine contro il TAV e dei Gilet Jaune in Francia, che proprio in questi giorni stanno riprendendo vigore intorno alla questione dell’innalzamento dell’età pensionabile proposta da presidente Macron e dal suo governo.

I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata. Una teoria del riot è una teoria della crisi. Questo è vero, in una dimensione locale e specifica, nel momento in cui i vetri vanno in frantumi e scoppiano gli incendi, quando il riot significa l’irruzione sulla scena, per la durata di poche ore o pochi giorni, di una situazione disperata, di un impoverimento estremo, della crisi di una certa comunità o amministrazione cittadina. Tuttavia, il riot può essere compreso soltanto se lo si considera dotato di valenze interne e strutturali e, per parafrasare Frantz Fanon, nella misura in cui possiamo discernere il movimento storico che gli dà forma e contenuto. A quel punto, ci si deve spostare su altri livelli nei quali la chiamata a raccolta tipica dei riot risulta inscindibile dall’attuale crisi sistemica del capitalismo. Inoltre, in quanto forma particolare di lotta, il riot è illuminante rispetto alla fisionomia della crisi, la rende nuovamente pensabile, e fornisce una prospettiva dalla quale osservarne lo sviluppo5.

Come si afferma ancora nella Nota editoriale del Gruppo di Ricerca Ippolita che ha voluto la pubblicazione del testo in Italia:

Il libro di Clover contribuisce a ridare dignità politica al riot, aiuta a ricostruire storicamente le sue trame costituite in gran parte da rivendicazioni più che legittime, ne propone una teoria in chiave marxiana. C’è, però, un elemento che, più di altri, ci ha convint* a pubblicarlo nella collana “Culture radicali”: il fatto che invita a considerare il riot non solo come una fiammata di malcontento o come una sommossa disordinata, ma, anche e soprattutto, come una formula multipla di proteste appropriata e necessaria, in riferimento a questo particolare momento storico. Esso pertanto comprende diverse forme di protesta: il presidio, il corteo, l’occupazione di piazze, strade, stazioni e così via. L’economia di produzione perde di centralità a vantaggio di quella di circolazione. Ciò fa sì che non sia solo il luogo e il modo a mutare, cioè la fabbrica e lo sciopero, ma necessariamente anche il soggetto che si riconfigura lungo gli assi della razza e – aggiungiamo – del genere, oltre a quello tipico della classe. Elemento, quest’ultimo, che comunque si ridefinisce comprendendo quelle fasce di popolazione tradizionalmente escluse dal concetto novecentesco di proletariato: i corpi che non contano. È sotto gli occhi di tutt*. In una congiuntura unica tra necropolitica di stato, disastro ecologico, neoliberalismo da rapina, tecnologie del dominio, violenza di genere e razzismo, negli ultimi dieci anni ha avuto luogo una serie straordinaria di eventi insurrezionali in ogni angolo del mondo […] In questo groviglio inseparabile di istanze e lotte, la tradizionale contrapposizione tra sciopero e riot salta, non funziona più perché figlia di un’altra epoca. Chi oggi insorge chiede migliori condizioni di vita – non solo un salario migliore –, chiede giustizia nelle sue diverse e numerose declinazioni. Questo percorso è ancora in divenire e, se è difficile prevederne l’esito, è, invece, facile immaginare che questa marea sia solo all’inizio e che non si placherà tanto facilmente. Di tutto ciò Joshua Clover propone una teoria brillante e sofisticata; il nostro intento, pubblicandolo, è che questo testo possa diventare uno strumento utile per le lotte di oggi e di domani6.

Certo, all’interno della teoria e della pratica del riot c’è stato un salto qualitativo rispetto a quelli ancora definiti dal Riot Act emanato da re Giorgio I nel 1714. Non a caso nel testo di Clover l’evoluzione è indicata dall’uso della formula riot-sciopero-riot’ che rinvia immediatamente a quella marxiana dell’accumulazione D-M-D’ , marcando un passaggio per accumulo di esperienze e di istanze che rendono i riot contemporanei diversi da quelli del passato. Intanto perché nel capitalismo attuale la sfera della circolazione si è ampliata ben al di là del mercato come luogo di scambio di merci.

Partendo dall’assunto marxiano che «La circolazione e lo scambio di merci, non crea nessun valore»7, Clover osserva che:

Sono categorie infinitamente problematiche e in questo hanno un peso i limiti di questo tipo di “circolazione”. Lo straordinario sviluppo dei trasporti, uno dei tratti distintivi della nostra epoca, sembrerebbe in un primo momento garantire una soluzione adeguata a questo problema, portando a una circolazione dei prodotti che tende verso la realizzazione come profitto del plusvalore valorizzato altrove. Altri sostengono la tesi contraria, e cioè che lo spostamento nello spazio aumenti il valore di una merce. Di fatto, nella loro accezione più ristretta, i “costi puri di circolazione” potrebbero limitarsi a quelle attività che istituiscono lo scambio stesso, il trasferimento astratto del titolo di proprietà: vendite, contabilità e attività simili. Inoltre, anche la finanziarizzazione e la “globalizzazione” (termine con cui si estende l’estensione verso i confini planetari delle reti e dei processi logistici, guidati dall’innovazione informatica) dovrebbero essere intese come strategie temporali e spaziali orientate verso l’internalizzazione di nuovi input di valore provenienti, rispettivamente, da altri luoghi e da altri tempi. Questo, tuttavia, può soltanto corroborare l’assunto secondo cui la fase attuale del nostro ciclo di accumulazione è definita dal collasso della produzione di valore alla base del sistema-mondo; è per questo motivo che il centro di gravità del capitale si è spostato verso la circolazione, sostenuto dalla troika del toyotismo, dell’informatica e della finanza. I dati sono, in questo senso, illuminanti. Come osserva Brenner, «[d]al 1973 a oggi, la performance economica degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale e del Giappone è peggiorata secondo tutti gli indicatori macroeconomici standard, ciclo dopo ciclo, decennio dopo decennio (con la sola eccezione della seconda metà degli anni Novanta)»8. La crescita del PIL globale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta è rimasta sempre al di sopra del 4 per cento; in seguito, si è arrestata al 3 per cento o ancora meno, a volte molto meno. Durante la Lunga Crisi, anche il periodo migliore è stato peggiore, nel complesso, della fase peggiore del lungo boom precedente. Anche se stabilissimo che il trasporto può essere parte tanto della valorizzazione quanto della realizzazione del profitto, dovremmo in ogni caso confrontarci con il fatto che i grandi avanzamenti sul piano del trasporto globale e l’accelerazione del tempo di turnover rispetto agli anni Settanta coesistono, nelle maggiori nazioni capitaliste, con il ripiegamento della produzione. […] In ogni caso, né la spedizione delle merci né la finanza sembrano aver arrestato la stagnazione e il declino della redditività globale. […] Tuttavia, questo non significa che tra gli effetti non ci sia stato quello di consolidare i profitti delle singole aziende, che possono ottenere vantaggi competitivi dal calo dei loro costi di circolazione, in una politica beggar thy neighbour (“impoverisci il tuo vicino”) trasposta nell’era dell’informatica. […] Senza addentrarci troppo nel labirinto marxologico, possiamo affermare in modo piuttosto incontrovertibile che nel periodo in questione il capitale, di fronte a profitti notevolmente diminuiti nei settori produttivi tradizionali, va a caccia degli utili oltre i confini della fabbrica – nel settore FIRE (Finance, Insurance e Real Estate), secondo le rotte predisposte dalle reti globali della logistica – pur non trovandovi alcuna soluzione percorribile alla crisi che, in prima battuta, l’ha allontanato dalla produzione. Anzi, l’agitazione è sempre più frenetica, gli schemi più elaborati, le bolle più grandi, e più grandi le esplosioni. In un moto di disperazione dialettica, lo stesso meccanismo che ha incluso il capitale nella sfera fratricida della circolazione a somma zero opera più o meno allo stesso modo nei confronti di un numero crescente di esseri umani. Crisi e disoccupazione, i due grandi temi de Il Capitale, sono entrambi espressione del tragico difetto del capitalismo che, nella ricerca del profitto, deve prosciugarne la sorgente, scontrandosi con i suoi limiti oggettivi nell’incessante rincorsa all’accumulazione e alla produttività […] L’unitarietà di questo fenomeno rende manifesta anche la contraddizione tra plusvalore assoluto e relativo. Le lotte intercapitaliste per ridurre i costi di tutti i processi correlati arrivano alla reiterata sostituzione della forza lavoro con macchine e forme di organizzazione più efficienti, e questo, nel tempo, aumenta la ratio del rapporto tra capitale costante e capitale variabile, tra lavoro morto e lavoro vivo, espellendo l’origine del plusvalore assoluto dalla lotta per la sua forma relativa. La crisi è uno sviluppo di queste contraddizioni fino al punto di rottura. Ciò prevede non tanto una carenza di denaro, bensì il suo sovrappiù. Il profitto maturato giace inutilizzato, incapace di trasformarsi in capitale, poiché non c’è più alcuna ragione abbastanza attrattiva per investire in nuova produzione. Le fabbriche vanno tranquillamente avanti. Cercando salari altrove, chi è stat* licenziat* scopre che l’automazione che avrebbe dovuto ridurre la sua fatica si è ormai generalizzata nei vari settori. Adesso il lavoro non utilizzato si accumula gomito a gomito con la capacità produttiva non utilizzata. È la produzione della non-produzione. Siamo tornati, in una forma in qualche modo diversa, a una questione di classe, nella forma in cui Marx la descrive nel Capitale come “sovrappopolazione consolidata, la cui miseria sta in ragione inversa del suo tormento di lavoro. Quanto maggiori infine sono lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. È questa la legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica”9.

Chi è espulso, o sta per esserlo, dai luoghi di produzione e dal mercato del lavoro non può far altro che colpire il capitale là dove finge ancora di aggiungere valore ai suoi prodotti ovvero bloccando reti stradali e autostradali, ferroviarie, informatiche e porti. Forse per questo le leggi sui blocchi stradali, come qui in Italia, vanno organizzandosi in forme sempre più dure.
Motivo per cui mentre nel ‘700

lo stato era lontano, mentre l’economia era vicina. Nel 2015, lo stato è vicino e l’economia lontana. La produzione è nebulizzata, le merci sono assemblate e distribuite secondo catene logistiche globali. Anche i prodotti alimentari più basilari possono essere stati prodotti in un altro continente. Nel frattempo, si è sempre a tiro dell’esercito permanente interno d ello stato, progressivamente militarizzato con il pretesto di dover fare la guerra alle droghe o al terrore. Il riot’ non può fare a meno di sollevarsi contro lo stato: non c’è alternativa10.

Tra gli obiettivi immediati, lo abbiamo visto negli Stati Uniti con i riot avvenuti dopo l’uccisione di afroamericani dal 1992 a Los Angeles fino ad oggi, vi sono infatti i commissariati di polizia, luoghi in cui la violenza e la sopraffazione statale espongono spesso il loro vero volto. Ma anche i supermercati o catene di negozi il cui saccheggio odierno finisce col riunire il riot’ con il suo predecessore più antico

La principale difficoltà nella definizione del riot deriva dalla sua profonda correlazione con la violenza; per molti, questa associazione è talmente connotata dal punto di vista affettivo, in una direzione o nell’altra, che è difficile da dissipare, rendendo arduo, in questo modo, osservare anche altri aspetti. Non c’è dubbio che molti riot implichino l’uso della violenza – la stragrande maggioranza, probabilmente, se si includono in questa categoria i danni alla proprietà, o le minacce, tanto dirette quanto indirette. […] Che i danni alla proprietà siano equiparabili alla violenza non è tanto una verità, quanto l’effetto di un’adozione di un particolare discorso sulla proprietà, di origine relativamente recente, che implica una specifica identificazione degli esseri umani con una ricchezza astratta di qualche tipo e che porta, ad esempio, alla considerazione giuridica delle corporations in termini di “persone”. In ogni caso, l’enfasi sulla violenza del riot riesce efficacemente a oscurare la violenza quotidiana, sistematica e ambientale che giorno dopo giorno perseguita le vite di gran parte della popolazione mondiale. La visione di una socialità generalmente pacifica nella quale la violenza scoppia soltanto in circostanze eccezionali è un immaginario che solamente alcuni si possono permettere. Per gli altri – la maggioranza – la violenza sociale è la norma. La retorica del riot violento diventa uno strumento di esclusione, indirizzato non tanto contro la “violenza”, ma contro gruppi sociali specifici. Inoltre, per più di due secoli, anche gli scioperi hanno spesso fatto ricorso alla violenza: battaglie campali tra chi lavora, da un lato, e poliziotti, crumiri e picchiatori mercenari, dall’altro, che al loro culmine assomigliavano a scontri militari11.

Occorre, per motivi di spazio chiudere qui il discorso su un testo che presenta molti validi motivi per essere letto e diffuso, costituendo una sorta di storia del capitalismo e delle sue crisi attraverso lo sguardo dal basso che proviene da chi lotta, in un mondo in cui razializzazione delle lotte e coincidenza tra chi lavora e chi è comunque costretto a consumare apre nuovi e problematici orizzonti di ricerca per il lavoro militante, non soltanto teorico. E anche se molti attivisti e militanti di “sinistra” vorrebbero avere a che fare con lotte e obiettivi già ben delineati e “facili” da perseguire, Clover sottolinea ancora come una caratteristica di queste lotte possa essere quella di una certa familiarità con le destre.

Il tentativo di pseudogolpe attuato negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021 è stato senza dubbio un riot di destra, la piazza Syntagma della reazione. Un anno più tardi, sono stati i “Freedom Convoys” ad apparire in varie località, con il blocco delle principali arterie e dei corridoi commerciali come protesta contro i protocolli medici imposti dagli Stati in risposta alla pandemia. I blocchi più duraturi sono avvenuti in Canada, e la parentela di questi riot con la variante nazionale canadese dei gilets jaunes, nel 2019, non è passata inosservata. Tuttavia, quei riot portavano con loro anche i ricordi dei blocchi indigeni sugli assi di comunicazione transfrontalieri, economicamente cruciali, tra il commercio canadese e gli Stati Uniti. Tale deriva attraverso lo spettro politico chiarisce quello che dovrebbe essere già evidente: le lotte della circolazione sono una tecnica. Non hanno un contenuto politico prestabilito. In un certo senso, anzi, il loro contenuto è la mancanza di contenuto: sono lotte che ricevono una definizione in funzione della loro apertura a un ampio ventaglio di attori sociali, e possono quindi diventare la via maestra per l’espressione di una vasta gamma di tensioni sociali. D’altro canto, non si tratta di una situazione completamente amorfa. Questi riot di destra hanno un carattere nazionalista, razzista, devoto alle gerarchie e alle pratiche di dominazione, che non può passare sotto silenzio. Per contro, tale analisi non può essere svincolata dalla constatazione che il declino nelle opportunità di vita è arrivato a lambire quei gruppi sociali che per lungo tempo non ne erano stati toccati: la “classe media”, la petite bourgeoisie, e così via. Il motivo per cui tutto questo arriva talvolta a lambire la sinistra (come per buona parte del movimento Occupy) e talvolta la destra (come per i Freedom Convoys) non è chiaro. Siamo entrati in un periodo storico in cui i palliativi e i disciplinamenti dell’economia sono sempre meno a disposizione, e lo stato è sempre più obbligato a imporre con la forza il proprio ordine, apparendo sempre di più come il principale antagonista in campo. Potrebbe essere che questo sviluppo corrisponda a un indebolimento dello stesso spettro politico destra-sinistra, il cui orientamento, ormai, non è facilmente individuabile tra i poli-, pro- e anti-stato, pro- e anti-capitalismo. Allo stesso tempo e indipendentemente da una simile volatilità ideologica, queste forme di contestazione continuano a essere le armi a disposizione di chi subisce l’esclusione dalla buona vita, di chi soffre lo spossessamento delle proprie terre (senza che vi sia alcun assorbimento nella classe operaia), di chi riceve il marchio generazionale dell’essere stati proprietà di qualcun altro e di chi sperimenta la degradazione nell’ambito del lavoro domestico. È il conflitto che sceglie i propri attori, e non viceversa; questo, tuttavia, non sminuisce in alcun modo le lotte, gli sforzi, i rischi e la furia morale che informano i conflitti, così come non sminuisce il fatto che questa individuazione si basa, tra l’altro, sul fatto che le storie di depauperazione sono anche storie di formazione di classe. Tutto ciò non sminuisce le speranze di emancipazione che hanno queste persone. Ed è questo che, con ogni probabilità, manda in tilt l’equilibrio rappresentato dalla terza ambiguità. Le lotte della circolazione, in costante crescita, non si assoggettano con facilità ad alcuna volontà politica e sono qui per restare. In questo frangente, le loro tecniche possono essere appropriate da qualsiasi tipo di gruppo sociale, anche da quelli che aspirano a una distruzione reciproca. Chi continuerà a ribadire la qualità emancipatrice di tali lotte dovrà accettare il fatto che dentro alla rivoluzione ce n’è sempre un’altra: non una rivoluzione centrata sul significato di queste lotte, ma su quello che esse riusciranno a realizzare, sul loro ambiguo futuro12.

* Il titolo scelto vuole costituire un omaggio a uno degli studi più significativi sulla violenza nella storia e nella società, Rising Up and Rising Down, un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine di William T. Vollmann. Pubblicato all’inizio deI 2004 negli USA ha visto, l’anno successivo, l’uscita di una versione ridotta a un solo volume che rappresenta il frutto di oltre vent’anni di lavoro, uscita in Italia con il titolo Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza (Mondadori 2007 – oggi ripubblicato da Minimum Fax, 2022).


  1. Cfr.: M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta. Bollati Boringhieri 1989 e la polemica tra Togliatti ed Elio Vittorini sui contenuti di «Il Politecnico», una rivista di politica e cultura fondata dallo stesso Vittorini, pubblicata a Milano dal 29 settembre 1945 al dicembre1947. Il periodico basato su un programma antiaccademico, pragmatico e divulgativo pur senza cedere al “popolare”, conteneva, tra le altre cose, saggi di sociologia e testi di letteratura americana. Cosa che continuava la ricerca di nuove e vitali esperienze letterarie già avviata da Vittorini con la sua celebre antologia Americana, uscita nel 1942 ma accompagnata, come afferma Michela Nacci nel suo lavoro sull’antiamericanismo, da «un’introduzione di Emilio Cecchi. Qui si possono leggere alcune tra le frasi più velenose che la civiltà americana abbia mai suscitato nei suoi critici, qui stanno alcuni dei giudizi più pesanti su quella letteratura, qui il mito positivo trova posto solo come tendenza da combattere; la letteratura americana è “letteratura barbara, o in certo qual modo primitiva”, è “come dementata e percossa dal ballo di san Vito”» ( p. 14). Tale introduzione all’antologia sarebbe stata rimossa soltanto nell’edizione Bompiani del 1968.  

  2. J. Clover, Lotte della circolazione: tre ambiguità in J. Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, p.220  

  3. J. Clover, Riot. Sciopero. Riot, op. cit., p. 49  

  4. Ibidem, p.21  

  5. Ibid, p. 19  

  6. Gruppo di Ricerca Ippolita, Nota editoriale in J. Clover, op. cit., pp. 9-10.  

  7. K. Marx, Das Kapital [1867]; tr. it. di A. Macchioro, B. Maffi (a cura di), Il Capitale, UTET, Torino 1996, p. 214  

  8. R. Brenner, What’s Good for Goldman Sachs, prologo all’edizione spagnola di The Economics of Global Turbulence [2006], La economía de la turbulencia global, Akal, Madrid 2009, p. 6.  

  9. J. Clover, op. cit., pp.41-45  

  10. Ibidem, p. 48  

  11. Ibid., pp. 30-31  

  12. Ibid, pp. 230-232. Sugli stessi temi si veda anche S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

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Classe operaia e rivoluzione: un equivoco secolare? https://www.carmillaonline.com/2018/01/18/classe-operaia-rivoluzione-un-equivoco-secolare/ Wed, 17 Jan 2018 23:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42768 di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede [...]]]> di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.

Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:

“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.
Il vortice portentoso del modo di produzione capitalistico, basato sulla concorrenza, chiama l’uomo ad abbandonare la logica del minimo sforzo, a sgomitare, a camminare sui morti, divide le persone per ruoli e categorie produttive, integrandole nel suo tessuto, alimentandone continuamente la corsa. In questo modo gli uomini di tutte le classi sociali sono permeati dalla legge della concorrenza; è questo meccanismo che genera i ruoli cui le persone sono asservite. Se sono i ruoli ad assumere la funzione di soggetto e le persone fisiche fungono da oggetti alienati, indipendentemente dalla classe di appartenenza, può questo meccanismo essere razionalizzato? La classe operaia, pur subendo lo sfruttamento nel suo ruolo subordinato, proprio perché è una classe complementare perché dovrebbe abbattere il modo di produzione capitalistico come ipotizzato da Marx e Engels?”1

Per affrontare questo spinoso problema l’autore compie un lungo viaggio a ritroso tra gli scritti di Marx, soprattutto quelli dedicati alla Comune di Parigi, quelli di Lenin sulla rivoluzione e la sua concezione, poi bolscevica, della società russa e, infine, analizzando la rivoluzione russa nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze. E proprio a Lenin e alla Rivoluzione “bolscevica” è dedicata la parte più consistente dell’opera: otto capitoli su undici, 350 pagine su 446.

All’interno di tale parte del progetto, Castaldo analizza in particolare, riprendendo anche tesi già esposte da Ettore Cinnella nei suoi studi sulla Rivoluzione,2 il rapporto conflittuale che si stabilì tra il pensiero leninista e l’azione bolscevica da una parte e le aspirazioni e le richieste della gran massa dei contadini, quasi sempre poveri, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione della Russia imperiale prima e successivamente dell’Unione Sovietica.

Oltre a questo l’autore pone il problema, già posto da Amadeo Bordiga,3 di come possa definirsi socialista una società in cui il lavoro continui ad essere salariato e quindi “monetizzato” in una contabilità a partita doppia in cui appaiano sia la colonna dei costi che quella dei “profitti”. Problema tutt’altro che secondario nell’analisi del risultato della rivoluzione sovietica, soprattutto nei decenni successivi all’Ottobre del ’17.

Le conclusioni cui giunge l’autore si articolano intorno al fatto che:

“I riflettori della storia puntati sull’arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento hanno messo in luce la forza dirompente del moto-modo di produzione capitalistico che, da un lato, ha scosso le vecchie classi come i servi della gleba in Russia e, dall’altro, ha posto alla ribalta della scena storica una nuova classe come il proletariato, che si è andato affermando in maniera definitiva come classe complementare nel modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine del globo. […] Siamo arrivati alla conclusione che il potere bolscevico, sorto da quella rivoluzione, fu costretto alle nazionalizzazioni economiche e alla centralizzazione politica per accelerare il processo di accumulazione capitalistica.[…] Uno Stato che fu definito sovietico dai bolscevichi, ma che aveva in sè tutte le caratteristiche di un apparato teso a dirigere lo sviluppo di un’accumulazione capitalistica originaria ed era molto distante dalla natura del potere della classe operaia e della dittatura del proletariato. “4

L’osservazione che il proletariato si è andato affermando come classe complementare al modo di produzione capitalistico sembra però dare per scontato che proletariato e classe operaia coincidano, fatto non così scontato nella realtà. Il proletariato inteso come massa dei diseredati, di coloro che sono stati espropriati non solo della ricchezza sociale prodotta, andata progressivamente ad accumularsi nelle mani dell’altro polo sociale, ma anche della decisione di come e quanta ricchezza o beni materiali produrre, pencola costantemente tra forme sociali integrate nella produzione (classe operaia in generale) e forme escluse dalla stessa (disoccupati e sottoproletariato o, ancora come nel mondo d’oggi, in forme precarie di occupazione) tese a demolire qualsiasi presunta omogeneità di classe e di coscienza.

Prima di andare avanti nell’analisi delle conclusioni occorre quindi sottolineare che l’autore, pur critico della vulgata più semplicistica della rivoluzione d’Ottobre e del ruolo della classe operaia, tende a subire ancora le influenze di una visone politica in cui sostanzialmente proletariato e classe operaia tendono forzatamente a coincidere. Visione riscontrabile a partire da Plechanov e nel suo allievo Lenin oltre che nel successivo marxismo-leninismo che, però, non si presenta allo stesso modo in Marx ed Engels.

Sostanzialmente si potrebbe dire che mentre in Lenin e nel bolscevismo il proletariato deve farsi classe operaia per acquisire piena coscienza dei suoi compiti, in Marx e in Engels, fatto dovuto forse all’epoca, il proletariato deve negarsi in quanto tale per poter liberarsi dalle catene e dalle pastoie che lo legano al capitalismo. Non deve contribuire, soprattutto dopo la Comune di Parigi, a svilupparlo ma a negarlo. Non solo per l’abbrutimento e l’alienazione di cui troviamo la critica in Marx e più difficilmente in Lenin, ma anche per l’attenzione che Marx, nella parte finale della sua vita, prestò all’analisi delle società primitive e alla stessa comune contadina russa e alla possibilità che avrebbero avuto di giungere al socialismo e al comunismo saltando la fase, orrenda, del capitalismo.5

In questo la radicalità dell’azione rivoluzionaria del proletariato non deriva da una coscienza importata dall’esterno (leninismo), ma dalla ribellione contro le proprie condizioni di alienazione, abbrutimento ed espropriazione economica e culturale.6 Mentre l’ipotesi su cui si basò gran parte dell’azione bolscevica in prima istanza e, successivamente, del marxismo-leninismo, si adagiò sulla concezione deterministica e gradualistica derivata da Plechanov (prima pieno sviluppo del capitalismo poi trasformazione dei rapporti sociali ed economici di produzione) che, pur di affermarla nella sua battaglia con il populismo russo, aveva nascosto fino alla morte la risposta di tutt’altro tenore che Marx aveva inviato in una lettera a Vera Zašulic sullo stesso problema.7

Nel primo caso il proletariato e la classe operaia devono impadronirsi dello Stato per distruggerlo e per negarsi in quanto classe nella negazione dei rapporti di produzione capitalistici che la forma Stato avevano determinano, rimanendone a loro volta determinati, mentre nel secondo caso proletariato e classe operaia devono farsi Stato per sviluppare le forze produttive e rinforzare la propria funzione di e come classe. Ancora una volta lo scontro non è soltanto all’interno dei rapporti sociali reali, ma anche, e talvolta soprattutto, nell’immaginario politico che ne consegue.

Se poi qualcuno rimanesse ancora perplesso di fronte all’uso degli scritti del Marx più giovane in possibile antitesi alle le proposizioni leniniane, basterebbe ricordare che anche il Marx più vecchio (1875, otto anni prima di morire), nella sua critica al programma del partito socialdemocratico tedesco detto di Gotha, avanza riserve infinite su numerosi aspetti che poi, proprio attraverso l’influenza socialdemocratica su Plechanov, sarebbero entrati nelle formulazioni del marxismo-leninismo.

Afferma, ad esempio, Marx all’inizio della sua critica, proprio là dove il programma dichiara: «Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà»:

“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è tanto la fonte dei valori d’uso quanto il lavoro, che è esso stesso solo l’espressione di una forza naturale, della forza-lavoro umana.
Quella frase si trova in tutti gli abbecedari […] ma un programma socialista non deve pemettere a tali luoghi comuni borghesi di nascondere le condizioni che sole danno loro un senso. Il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, solo nella misura in cui l’uomo si comporta fin dal principio come proprietario nei confronti della natura, la fonte prima di tutti i mezzi e ogggetti di lavoro, e la tratta come osa di sua proprietà. I borghesi hanno i loro buoni motivi per affibbiare al lavoro una forza creativa soprannaturale, perché […] ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della propria forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni oggettive di lavoro. Egli puà lavorare solo con il loro permesso e solo con il loro permesso può quindi vivere”.8

Altro che orgoglio del lavoro operaio!
Senza poi tener conto del fatto che se Marx, come ebbe a dire più volte, non voleva essere “marxista”, altrettanto Lenin non pensò mai di essere “leninista”; mentre il cosiddetto marxismo-leninismo fu formulato per la prima volta come ideologia dell’Internazionale e del Partito bolscevico o comunista dell’URSS da Stalin, alla fine del suo resoconto al XVII Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) il 26 gennaio 1934. Ma fu soltanto a partire dal 1938, nel Corso breve di storia del Partito bolscevico, redatto dall’apposita commissione del Comitato centrale del PCU(b), che tale pensiero e la stessa storia del partito acquisirono la forma di un dogma. Nello stesso anno vennero istituite in URSS le prime Università di marxismo-leninismo come una delle istituzioni della formazione dei militanti.
Ma continuiamo con le conclusioni cui giunge Castaldo;

“La nostra tesi sostiene che il proletariato è una classe complementare alla borghesia e come tale è un pilastro del modo di produzione capitalistico, finché le leggi lo sorreggono nel suo processo di riproduzione dell’accumulazione, Solo un’implosione per sovrapproduzione di merci e mezzi di produzione del sistema capitalistico potrà aprire scenari all’oggi del tutto sconosciuti.[…] Assegnare a una parte del tutto, cioè al proletariato-classe operaia, la possibilità di precostituire una forza aggregata per abbattere l’altra parte del tutto, cioè la borghesia detentrice dei mezzi di produzione, equivale a definire i rapporti sociali da un punto di vista etico, cioè ideale, piuttosto che vedere deterministicamente il loro sviluppo e la loro crisi causata dalle leggi immanenti del suo funzionamento, che diviene crisi di un tutto, cioè di sistema, del modo di produzione. Se tiene la legge generale dell’accumulazione, questa tiene unito il tutto, dunque lo stesso proletariato che non può in alcun modo separarsi e distaccarsi perché materialmente vincolatodalle stesse leggi dell’accumulazione”.9

Ecco allora che dopo aver accettato una funzione meramente produttivistica della classe operaia, viene sventolata la determinazione delle leggi immanenti alla produzione capitalistica (ad esempio la caduta tendenziale del saggio di profitto) come unica causa della fine possibile del capitalismo stesso, negando al proletariato qualsiasi soggettività politica che, sia nel caso della Comune che della iniziale rivoluzione russa, esso aveva avuto invece la capacità di affermare.

In un mondo dove la proletarizzazione ha assunto, nei paesi imperialisti d’Occidente come in quelli degli altri continenti, dimensioni mai viste prima, tale conclusione significa volere affidarsi ad un mantra che recita sostanzialmente che la fine verrà da sé, per leggi che sfuggono al controllo della classe e della specie umana e che soltanto una particolare setta o un determinato partito saprà individuare. Come ogni religione rivelata e ogni organismo di carattere sacerdotale tende a fare e promettere.

Spogliando così il proletariato delle sue capacità di riflessione e di lotta in grado di competere con le sirene del capitalismo e del nazionalismo. Condannandolo ad essere succube dei Trump, dei sovranisti o dei populisti di ogni risma. Contribuendo col fargli assumere, come nel caso della rivendicazione del valore assoluto del lavoro, un’identità artificiale attraverso un’invenzione impostagli dalle classi dominanti.

Peccato, perché la proposizione iniziale poteva servire a ben altre riflessioni sul ruolo della classe operaia, del proletariato tutto, della sua azione e delle sue differenti forme organizzative nel divenire della storia passata e futura della specie e della comunità umana.


  1. Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, pag. 11  

  2. Ettore Cinnella: 1905, la vera rivoluzione russa, Della Porta edizioni, Pisa –Cagliari 2008; 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta edizioni 2012; La tragedia della rivoluzione russa, Luni Editrice, Milano-Trento 2000  

  3. Nel suo Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista 1976 che va ben al di là della riflessione sulla burocratizzazione impostata da Trockij e seguita dai suoi vari epigoni  

  4. Castaldo, pp.420-422  

  5. Si veda ancora una volta su questo tema: Ettore Cinnella , L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014  

  6. Si confrontino: Marx- Engels, La sacra famiglia, cap.IV, II , Nota marginale critica e K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968 pp. 71-84. Testi che all’epoca Lenin non poteva conoscere perché ancora da ri/scoprire 

  7. Si veda ancora E.Cinnella, L’altro Marx, op. cit.  

  8. Karl Marx, Critica al Programma di Gotha, Massari editore, 2008, pp. 33 – 35 

  9. Castaldo, pp. 422 – 423  

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Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2017/01/07/calibano-e-la-strega-le-donne-il-corpo-e-laccumulazione-originaria/ Fri, 06 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35496 federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante [...]]]> federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante ricostruzione storica, offre un contributo fondamentale alla lettura degli attuali processi della globalizzazione.

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente Federici si è impegnata contro i processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo.

In coda alla Prefazione sono disponibili i link ai video di due interessanti interviste a Silvia Federici: la prima è stata realizzata dal Laboratorio Sguardi sui Generis in occasione della sua presenza in Val di Susa, la seconda (in lingua inglese) è stata effettuata da Gender Links all’uscita del saggio S.   Federici, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), uscito successivamente in lingua italiana S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 159, € 15,00 –  ght]


Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria

di Silvia Federici

Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.

Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.

È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.

Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.

Il libro che è nato da questa prima ricerca, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984), si proponeva di ripensare l’analisi dell’accumulazione originaria di Marx da un punto di vista femminista. Ma nel corso di questo lavoro le categorie marxiane si sono rivelate inadeguate. Anzitutto, si è visto che l’identificazione da parte di Marx del capitalismo con l’avvento del lavoro salariato e del lavoratore “libero” contribuisce a nascondere e a naturalizzare la sfera della riproduzione. Il Grande Calibano criticava anche la teoria del corpo di Michel Foucault. Abbiamo infatti rilevato che l’analisi di Foucault delle tecniche del potere e delle discipline a cui il corpo è stato assoggettato ignora il processo di riproduzione, riduce le storie delle donne e degli uomini a un tutto indifferenziato e si disinteressa a tal punto della “disciplina” imposta alle donne da non menzionare uno degli attacchi più orrendi al corpo perpetrato in era moderna: la caccia alle streghe. La tesi principale sostenuta dal Grande Calibano era che, per comprendere la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, si devono analizzare i cambiamenti che il capitalismo ha introdotto nel processo della riproduzione sociale, soprattutto nella riproduzione della forza-lavoro. Il libro prendeva quindi in esame la riorganizzazione del lavoro domestico, della famiglia, della cura dei bambini, della sessualità e dei rapporti tra uomo-donna e tra produzione e riproduzione nel XVI e nel XVII secolo in Europa. La stessa analisi è riproposta nel Calibano e la strega, ma lo scopo di questo volume è diverso da quello del Grande Calibano in quanto risponde a un diverso contesto sociale e alla crescita della nostra conoscenza della storia delle donne.

Poco dopo la pubblicazione del Grande Calibano, ho lasciato temporaneamente gli Stati Uniti per insegnare all’Università di Port Harcourt in Nigeria dove, a periodi alterni, ho lavorato per quasi tre anni. Prima di partire ho sepolto i miei libri in cantina, pensando che per un po’ di tempo non mi sarebbero serviti. Ma le circostanze del mio soggiorno in Nigeria non mi hanno consentito di dimenticare questo studio. Gli anni tra il 1984 e il 1986 sono stati decisivi per la Nigeria, come per la maggior parte dei paesi africani. Erano gli anni in cui, in risposta alla crisi del debito, il governo nigeriano avviava con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale accordi che risultarono nell’adozione del programma di aggiustamento strutturale, la ricetta universale imposta dalla Banca Mondiale, nel nome della ripresa economica, ai governanti di gran parte del pianeta.

Lo scopo dichiarato di questo programma era di rendere la Nigeria competitiva sul mercato internazionale. Ma si è reso subito evidente che questo programma era lo strumento di una nuova fase di accumulazione originaria e di una razionalizzazione della riproduzione volta a distruggere le ultime vestigia di proprietà e rapporti comunitari, e imporre forme più intense di sfruttamento del lavoro. Ho visto quindi dispiegarsi sotto i miei occhi processi molto simili a quelli che avevo analizzato durante la stesura del Grande Calibano, fra cui un attacco sistematico alle terre comuni e un decisivo intervento dello stato, definito “guerra all’indisciplina”, teso a ridurre le aspettative di una popolazione considerata troppo pretenziosa in prospettiva di un suo inserimento nell’economia globale. Insieme a queste misure, ho assistito all’evolversi di una campagna misogina, che denunciava la vanità e le eccessive pretese delle donne, e allo sviluppo di un acceso dibattito, simile per molti versi alla querelle des femmes del XVII secolo, che investiva ogni aspetto della riproduzione della forza-lavoro: la famiglia (poligama vs. monogama, estesa vs. nucleare), l’educazione dei bambini, il lavoro delle donne, l’identità maschile e femminile e i rapporti tra uomini e donne.

In questo contesto il mio lavoro sulla transizione ha assunto un nuovo significato. In Nigeria ho compreso che la resistenza all’aggiustamento strutturale fa parte di una lunga lotta contro la privatizzazione della terra e contro le “recinzioni”, non solo delle terre comuni ma anche dei rapporti sociali, che risale alle origini del capitalismo. Ho anche capito che la vittoria che la disciplina del lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. Per gli imprenditori, le multinazionali e gli investitori stranieri è proprio questo il problema di paesi come la Nigeria. Ma per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici. Devo questa nuova consapevolezza anche all’incontro con Donne in Nigeria (WIN), la prima organizzazione femminista del paese, che mi ha aiutata a comprendere le lotte che le donne nigeriane stanno sostenendo per difendere le proprie risorse e per rifiutare il nuovo modello di patriarcato, promosso dalla Banca Mondiale, che si vuole loro imporre.

Ben presto il programma di austerità adottato dal governo ha raggiunto anche il mondo accademico e, non essendo più in grado di mantenermi, nell’autunno del 1986 ho lasciato la Nigeria, se non con l’anima con il corpo. Ma non ho dimenticato l’attacco mosso contro il popolo nigeriano e, dopo il mio rientro, il desiderio di tornare a studiare la “transizione al capitalismo” non mi ha più abbandonata. Avevo letto gli eventi in Nigeria con le lenti dell’Europa del XVI secolo. Tornata negli Stati Uniti, è stato il proletariato nigeriano che mi ha riportato alle lotte per le terre comuni e contro il disciplinamento delle donne, dentro e fuori l’Europa. Dopo il mio ritorno ho iniziato anche a insegnare in un programma interdisciplinare per studenti universitari, dove ho dovuto affrontare un tipo diverso di enclosure: quella del sapere, la crescente perdita cioè, da parte delle nuove generazioni, del senso storico del nostro passato collettivo. Ecco perché nel Calibano e la strega ho ricostruito le lotte antifeudali del Medioevo e le lotte con cui il proletariato europeo ha resistito all’avvento del capitalismo. Il mio scopo non è stato solo quello di fornire ai non specialisti la documentazione su cui si basa la mia analisi; ho voluto anche far rivivere fra le giovani generazioni il ricordo di una lunga storia di resistenza che oggi corre il rischio di essere cancellata. Preservare la memoria storica è cruciale se dobbiamo trovare un’alternativa al capitalismo, perché ciò sarà possibile solo se saremo capaci di ascoltare le voci di coloro che hanno percorso lo stesso cammino.


Interviste a Silvia Federici

Il Laboratorio Sguardi sui Generis intervista Silvia Federici, in occasione della sua presenza in Val di Susa. L’intervista è in cinque parti visionabili su YouTube. Prima parte: autodeterminazione dei corpi, delle sessualità e delle scelte riproduttive. Seconda parte: i movimenti, i momenti di socialità e di riproduzione dei movimenti stessi. Terza parte: donne e movimenti. Quarta parte: Politica del Debito. Quinta parte: Femminicidio.

Gender Links recently interviewed Silvia Federici after the launch of her book, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), inspired by Federici’s organisational work in the Wages for Housework movement. In this interview she provides insight into book and shares her views on women’s on going struggle as well as gender-based violence. In this extended version of the interview she also discusses the importance of the commons, social reproduction, the need for more co-operative forms of organisation, valorising domestic work and how inequality and injustice is fueled by neo-liberal capitalism.

 

 

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