Accattone – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 La sceneggiatura di poesia di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2017/07/29/39633/ Fri, 28 Jul 2017 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39633 di Paolo Lago

Tommaso Mozzati, Sceneggiatura di poesia. Pasolini e il cinema prima di Accattone, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 242, € 20,00

Pier Paolo Pasolini, coniando l’espressione «cinema di poesia» nell’omonimo saggio del 1965, raccolto in Empirismo eretico, si riferiva a un cinema che utilizzasse «i modi tipici del linguaggio della poesia». Uno stile cinematografico, cioè, caratterizzato dalla «soggettiva libera indiretta» – corrispondente all’indiretto libero della letteratura – capace di liberare «le possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa in una specie di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del [...]]]> di Paolo Lago

Tommaso Mozzati, Sceneggiatura di poesia. Pasolini e il cinema prima di Accattone, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 242, € 20,00

Pier Paolo Pasolini, coniando l’espressione «cinema di poesia» nell’omonimo saggio del 1965, raccolto in Empirismo eretico, si riferiva a un cinema che utilizzasse «i modi tipici del linguaggio della poesia». Uno stile cinematografico, cioè, caratterizzato dalla «soggettiva libera indiretta» – corrispondente all’indiretto libero della letteratura – capace di liberare «le possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa in una specie di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria» (ora in P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, p. 1477). Come esempi di tale cinema, Pasolini si riferiva soprattutto ad alcuni film di Godard, Antonioni, Bertolucci, Bergman, Rocha, Forman. Un certo uso della macchina da presa può quindi equivalere all’applicazione delle regole metriche e prosodiche, «un nuovo codice tecnico» nato quasi per «insofferenza alle regole, per un diversamente autentico o delizioso gusto dell’anarchia» (ivi, p. 1486).

Se lo scrittore e regista si riferiva prevalentemente al cinema di altri autori, egli, trovandosi dietro la macchina da presa, applicò empiricamente quanto delineato in teoria per definire il «cinema di poesia». Molto è stato scritto sui film di Pasolini, pochissimo invece sulla sua attività cinematografica prima di Accattone (1961, primo film del regista). Le stesse recensioni dell’epoca al suo primo film ponevano l’accento sul fatto che lo scrittore di Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959), nonché il poeta delle Ceneri di Gramsci (1957) e della Religione del mio tempo (1961) fosse improvvisamente approdato dietro la macchina da presa con uno sguardo da letterato, sottovalutando, invece, la profonda frequentazione, da parte di Pasolini, dell’ambiente dei ‘cinematografari’ già dall’inizio degli anni Cinquanta. Adesso, un interessante saggio di Tommaso Mozzati, Sceneggiatura di poesia. Pier Paolo Pasolini e il cinema prima di Accattone, con sicura perizia filologica, provvede a fare luce sui densissimi rapporti del poeta e scrittore col mondo del cinema, fin dal suo arrivo a Roma, nel 1950. Come il primo capitolo del volume (dedicato ad un excursus cronologico su Pasolini sceneggiatore) bene dimostra, facendo ampio uso dell’epistolario pasoliniano nonché di testimonianze di registi e sceneggiatori come Mario Soldati, Florestano Vancini, Ennio Flaiano, Mauro Bolognini, lo scrittore e poeta bolognese, giunto da poco da Casarsa assieme alla madre, iniziò presto a collaborare a diversi film in veste di sceneggiatore. Fra i primi, La donna del fiume (1954) di Mario Soldati e Il prigioniero della montagna (1955) di Luis Trenker, nonché una progettata collaborazione con Alberto Lattuada per un film poi non realizzato, Il sole nel ventre, che prevedeva anche un viaggio del regista e dello sceneggiatore in Estremo Oriente. Del 1956 è poi l’inizio della collaborazione con Federico Fellini, per la revisione dei dialoghi de Le notti di Cabiria (1957) e con Mauro Bolognini, per la sceneggiatura di Marisa la civetta (1957), progetto, quest’ultimo, che porterà alla importante collaborazione col regista pistoiese per I Giovani mariti (1958). È però il lavoro di sceneggiatura de La notte brava (1959) che Pasolini sentirà veramente suo e segnerà l’apice della collaborazione con Bolognini, cementificando una già solida amicizia. Fra le altre sceneggiature in cui troviamo la mano di Pasolini, degne di nota sono poi quelle de La dolce vita (1959) di Fellini e di La lunga notte del ’43 (1960) di Vancini. Un altro, ennesimo progetto non realizzato è poi quello de La nebbiosa, un film sui teddy boys milanesi del quale Pasolini scrisse la sceneggiatura (recentemente pubblicata da Il saggiatore) alla fine del ʼ59.

Il secondo capitolo si concentra prevalentemente sulla ricezione critica e pubblica di Pasolini sceneggiatore. Mozzati attua un rigoroso spoglio delle recensioni e degli articoli di giornale e rivista dell’epoca, dai quali emerge uno sceneggiatore ‘filtrato’ soprattutto attraverso la sua attività di letterato, prevalentemente autore di Ragazzi di vita, frequentatore e conoscitore delle borgate romane e del loro linguaggio. La figura di Pasolini è recepita come avvolta in un alone di ‘scandalo’ e frequentemente tacciata come portavoce di supposte ‘volgarità’ ascrivibili al gergo borgataro. In molti interventi critici su La notte brava la paternità della pellicola è riferita allo sceneggiatore, bypassando l’opera del regista, mentre si scrive che Jean-Claude Brialy, protagonista del film, «a Roma impara il linguaggio di Pasolini». Da più parti, poi, si scrive che il mondo fatto di teppisti, borgate e desolazione morale, grazie al rivestimento cinematografico di Bolognini, ha finalmente trovato una sua dimensione estetica adeguata. Alcuni attacchi di tipo moralistico al film, come è ampiamente dimostrato dal saggio di Mozzati, debbono essere riportati nell’ambito di un’azione politica «nel contesto di un dibattito sollecitato anche dall’elezione del conservatore Umberto Tupini al Ministero del Turismo, Sport e Spettacolo» (p. 90). Ad esempio, Gian Luigi Rondi, dalle pagine di «Concretezza», periodico espressione della corrente andreottiana della DC, «si scagliava contro la pellicola, eleggendola ad emblema deteriore di tutta un’immorale produzione nostrana» (ibid.), affermando che «l’attività letteraria di Pasolini esprime soltanto, nei suoi libri, il mondo della peggiore feccia romana» (p. 91). Una recensione su «Il Borghese», firmata Maghinardo Baviera, a La giornata balorda (1960) sempre di Bolognini con sceneggiatura di Pasolini, si risolve poi in «un elenco malevolo e scrupoloso della parola “cazzo”» e di altre presunte ‘parolacce’ o ‘offese’ come «cacca», «fijo de na mignotta», «merda», «moroidi», «cagatore», «pipì» e via di seguito. La Direzione generale spettacolo definì poi quello della Giornata balorda come «uno dei più ignobili soggetti che siano stati presentati a questi Uffici» (p. 98). Nell’excursus critico sono inoltre ricordati anche intelligenti e coraggiosi interventi in difesa del film nonché di Pasolini e Bolognini, come ad esempio quello di Mino Argentieri su «Cinema 60».

Merito del saggio di Mozzati è poi quello di offrire un sicuro sguardo sul background politico e sociale dell’Italia di quegli anni, preda di un conservatorismo di centro-destra che, col Governo Tambroni, dopo gli scontri di Genova nel ʼ60, approderà alle dure repressioni di Reggio Emilia, Palermo e Catania.

Il capitolo successivo, incentrato su «Pasolini e il dibattito cinematografico degli anni Cinquanta», si focalizza, sempre con uno sguardo a tutto tondo sulla realtà politica e sociale di quegli anni, prevalentemente sulle dichiarazioni del poeta e scrittore ai giornali nonché sull’attività di Pasolini come critico cinematografico. Anche per quanto riguarda la sua attività di sceneggiatore, il poeta si trova al centro di un giudizio che, contemporaneamente, investe la sua opera e la sua esistenza privata. Come scrive Mozzati, «secondo uno schema destinato a ripetersi nella biografia pasoliniana, con un ritmo ciclico a partire dagli anni Sessanta, all’acquisizione di visibilità corrisponde una reazione tutta giocata su aspetti privati della sua esistenza, esercitata da posizioni moralistiche e intransigenti » (p. 128).

Dal 1959 Pasolini collabora come critico cinematografico al «Reporter», un settimanale di attualità, varietà e costume, che sopravviveva grazie ai finanziamenti di Arturo Michelini, un uomo d’affari alla guida del Movimento Sociale Italiano a partire dal 1954 (lo stesso direttore della rivista, Bolzoni, veniva da una militanza nella Repubblica di Salò). Una tale collaborazione potrebbe apparire una scelta avventata da parte di Pasolini, «in realtà una lettura corretta di tale collaborazione dimostra come essa possa venire inclusa organicamente nel panorama delle scelte operate da Pasolini in quegli anni» (p. 141). Infatti, «Il Reporter», sotto la guida di Bolzoni, teneva una linea politica alquanto ‘neutrale’ ponendosi anzi in rotta con altri giornali conservatori come «Il Borghese» o «Lo Specchio» che ospitavano sovente articoli che attaccavano Pasolini. «Il Borghese», poi, nel dicembre 1959 aveva inaugurato una crociata contro il cosiddetto «terzo sesso», attaccando apertamente gli omosessuali, tacciandoli come «malati». Nel 1960, con l’ascesa di Tambroni e il cambiamento di direzione della rivista – Carlo Martinelli si avvicenda a Bolzoni – «Il Reporter» si schiera apertamente a destra e Pasolini decide di abbandonare la collaborazione. Lo stesso giornale si unisce al coro diffamatorio nei confronti del poeta, pubblicando il 2 agosto 1960 l’immagine di scena del Gobbo di Lizzani nella quale si vede Pasolini attore che imbraccia una mitraglietta, accompagnata dal titolo «Pasolini si difende».

Il capitolo quarto e ultimo del saggio, infine, appare come quello più filologico in quanto è dedicato a una minuziosa analisi della sceneggiatura di Giovani mariti, portando a confronto le diverse stesure.

Il saggio di Tommaso Mozzati offre quindi una inedita luce su Pasolini uomo di cinema prima del suo cinema, guidandoci in un avventuroso viaggio attraverso il milieu socio-culturale dell’Italia degli anni Cinquanta e a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta. Dopo averlo letto, perciò, sarà difficile pensare Pasolini come un romanziere e un poeta che, al momento di girare il suo primo film, si trova disorientato e ‘fuori posto’ nel mondo dei ‘cinematografari’ della capitale. Si tratta invece di un autore che, quando nel 1961 gira Accattone, ha alle spalle almeno dieci anni di assidua frequentazione del mondo del cinema, fra registi, sceneggiatori, critici e giornalisti.

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Il cinema del corpo e della coscienza https://www.carmillaonline.com/2017/06/24/il-cinema-del-corpo-e-della-coscienza/ Fri, 23 Jun 2017 22:25:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39035 di Paolo Lago

Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, Clinamen, Firenze, 2017, pp. 134, € 17, 50

«“Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita» Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2

Il recente, interessante saggio di Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, uscito per Clinamen, offre un [...]]]> di Paolo Lago

Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, Clinamen, Firenze, 2017, pp. 134, € 17, 50

«“Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita»
Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2

Il recente, interessante saggio di Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, uscito per Clinamen, offre un peculiare e inedito sguardo filosofico sul cinema di Pasolini, svolto per mezzo di un’indagine che sulla pagina assume le fascinose movenze di una scrittura avvolgente e sinuosa. Tra l’altro, si deve sottolineare che si tratta di un volume critico che appare esclusivamente incentrato sull’opera di Pasolini, tralasciando del tutto qualsiasi implicazione di carattere biografico (caratteristica positiva sempre più rara nella saggistica dedicata a questo autore). Landi (che, nei suoi precedenti saggi, ha elaborato un punto di vista fenomenologico improntato a una forma di realismo critico) parte dall’assunto che il cinema, secondo una dichiarazione dello stesso Pasolini, può essere concepito nei termini di un’esperienza filosofica. Così, infatti, il regista afferma in una dichiarazione rilasciata a «Filmcritica» nel 1967: «Il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica». Perciò, nel cinema di Pasolini, al procedimento estetico-artistico è sotteso un solido ordine filosofico, che l’autore indaga per mezzo di una speculazione che ha alla sua base una personale adozione di alcuni elementi della concezione di Husserl. Nell’Introduzione al suo suggestivo volume, Paolo Landi precisa che la sfera del soggetto concerne l’ambito della coscienza e quello del corpo, mentre la dimensione del mondo «riguarda l’ambiente al quale tali elementi sono coordinati» (p. 11).

Se in un film come Teorema (1968) i connotati antropologici di un universo borghese vengono rivestiti di significato sociale, politico ed esistenziale, e su di essi si staglia la morsa violenta di una inesorabile chiusura, rappresa nel destino che investe i protagonisti, Il vangelo secondo Matteo (1964) si colloca su un versante opposto. In esso, una pienezza d’essere e un’avvolgente apertura sono delineate nella stessa figura del Cristo, «assoluto protagonista, la cui figura sovrana confina appunto con l’assoluto che è proprio del monoteismo cristiano» (p. 15). Un ulteriore versante cinematografico è poi offerto, nell’analisi messa a punto da Landi, dai film ispirati alla tragedia antica: in Edipo re (1967) e in Medea (1969) «le reliquie e le effigi della tragedia antica […] emergono come espressioni di un mondo arcaico o di una temperie classica remota e ai confini dell’arcaismo; e in essi abbiamo una sorta di dimensione intermedia fra il rigore della chiusura che si registra in Teorema, e l’ipoteca del gesto liberatorio che viene tracciata nel lirismo del Vangelo» (ibid.).

Quello di Pasolini, secondo Landi, è «un cinema del corpo e della coscienza» (p. 40). Esso assume una pregnante dimensione ‘corporea’ in virtù dell’uso della macchina da presa a mano, procedimento spesso utilizzato dal regista. Ad esempio, una significativa dimensione del corpo emerge nelle immagini, riprese da una macchina a mano che vibra e pulsa insieme ad esse (come vibra e pulsa il corpo dello stesso regista), che in Edipo re mostrano la lotta del protagonista con il re-padre e la sua scorta: i corpi sembrano in contatto con le energie della terra, «stabilendo un legame con i convulsi che un tempo ha animato l’uomo delle caverne» (p. 41) e con una dimensione ferina. Nello stesso film, la dimensione del corpo emerge anche nel momento in cui l’oracolo formula la sua profezia «per mezzo di una voce che sembra estratta dai più profondi recessi del sottosuolo» (ibid.). La dimensione della coscienza emerge invece nel momento in cui Edipo, dopo aver ricevuto il vaticinio sul suo destino, per evitare l’orrore dell’unione con la madre e dell’uccisione del padre, «ruota rispetto a se stesso, in modo da non cogliere la direzione che intraprenderà in seguito» (p. 42).

In Accattone (1961), invece, la dimensione della coscienza avverte una vera e propria estraniazione rispetto alle dinamiche storico-civili, mentre il protagonista è abbandonato nel limbo di una emarginazione che si srotola lungo le strade delle borgate in significative movenze di carattere picaresco.

Nel cinema di Pasolini assume poi un particolare rilievo la parola. Nel Vangelo si staglia alta la parola della predicazione del Cristo, intesa come Logos evangelico. Essa è quasi l’articolazione sonora della coscienza del personaggio, un’appendice del corpo che assume i contorni netti e scanditi di un verbo che, improvvisamente, si è fatto ‘carne’. La voce del protagonista è perciò la rappresentazione fonica di quella liberazione e di quella apertura che aleggiano sulle immagini del film. Insieme alla parola è inoltre di importanza fondamentale il silenzio. In Teorema il silenzio incombe sui personaggi borghesi come l’oscuro sovvertimento erotico condotto dal demonico Ospite, e sempre il silenzio scandisce «la crisi senza ritorno dell’io avvinto alla propria condanna» (p. 60).

Se la dimensione del soggetto è legata alla coscienza e al corpo dei personaggi, quella del mondo può essere concepita come lo spazio nel quale si colloca l’esistenza di quegli stessi personaggi. Nel prologo e nell’epilogo di Edipo re il mondo è rappresentato dagli scorci paesaggistici del Nord Italia nei quali si sviluppa un’apertura e una forza vitale data dalle immagini delle fronde degli alberi. Anche nel prologo di Medea emerge in modo significativo la dimensione del mondo, per mezzo delle immagini vellutate che mostrano il Centauro e Giasone bambino immersi nella natura – solcata dalla parola mitica del Centauro – la quale assume poi, nell’ottica pasoliniana, una dimensione sacrale e antinaturalistica.

Il saggio di Paolo Landi offre poi dei momenti di analisi comparata con altri registi: Ėjzenštejn, De Oliveira e, nell’ambito del modello della tragedia, Robert Bresson e Lars von Trier. In Mamma Roma (1962) la componente tragica accompagna l’esistenza del protagonista del film, la quale si dipana nelle forme di un’epica «primordiale» dei diseredati e degli sbandati entro lo spazio occludente di una terribile impotenza ad agire, la quale condurrà il personaggio all’orrore della prigionia sul letto di contenzione. L’egoismo malvagio dell’essere umano che infierisce su una vittima innocente fino ad assumere risvolti tragici si può riscontrare anche in Au hasard Balthasar (1966) di Bresson: l’asino protagonista, in un vortice picaresco di avventure, è precipitato nel chiuso orizzonte di un mondo che ne determina le atroci sofferenze. L’autore del saggio individua inoltre alcune somiglianze tra Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996) di von Trier e Edipo re. Nel film di von Trier, una giovane donna cerca di trattenere presso di sé il marito costretto alla lontananza dalle necessità del lavoro; il suo oggetto d’amore viene poi ricondotto presso di sé al prezzo letale di un incidente il quale, dopo un periodo di infermità, porta il marito alla morte. Edipo, invece, per mezzo della volontaria perdita di orientamento, vorrebbe allontanarsi il più possibile dalle circostanze della profezia mentre invece si spinge proprio nel centro della consumazione della propria tragedia. Allora, conclude Landi: «Ciò posto, si deve ribadire che in entrambe le circostanze, accade appunto che il personaggio impegnato nell’intrapresa incorra nell’esito di mettere in gioco quello che intende rimuovere, con le stesse movenze che dovrebbero conseguire l’obiettivo contrario» (p. 110).

La dimensione del «mondo» assume inoltre una dinamica simile in Teorema e in Porcile (1969): in entrambi i film abbiamo lo spazio dell’ordine ‘geometrico’ di una villa che entra in contrapposizione con quello ‘magmatico’ e ‘ferino’ delle pendici del vulcano. Se nel primo film quest’ultimo appare a tratti come la prefigurazione di un inquietante omen che si svela alla fine, uno spazio percorso dal corpo nella dimensione dirompente della nudità, in Porcile l’ambiente ‘corporeo’ delle pendici dell’Etna è un vero e proprio mondo narrativo che si alterna con quello ‘borghese’ della villa di Godesberg. In entrambi gli spazi le sembianze dell’arte e dell’armonia, offerte dalle immagini patinate degli ambienti borghesi, entrano in sinergia con l’immagine oscura e magmatica del vulcano, anch’essa non immune da suggestioni di bellezza e armonia.

L’interessante saggio di Paolo Landi si conclude con un’analisi dei tipi d’immagine dei vari film: in essi, infatti, le immagini stesse sono fruibili dallo spettatore come espressioni di carattere estetico-artistico. Se in Accattone e Mamma Roma è presente un importante afflato epico e tragico che fa agire i personaggi nel contesto della strada e della periferia come all’interno di tragedie antiche in abiti contemporanei, in Uccellacci e uccellini (1966) il viaggio lungo la strada assume un preponderante significato simbolico. Lo sfondo teatrale appare quindi prevalente nei film ispirati al mondo antico, uno sfondo sul quale alta si staglia una parola oracolare ed oscura. In Teorema, poi, l’aspetto speculativo del cinema di Pasolini raggiunge il suo apice: ed è forse qui che il cinema del corpo e della coscienza trova la sua più compiuta e inesorabile espressione.

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