25 aprile – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Quando tutto è possibile: a 50 anni dalla rivoluzione portoghese. Intervista a Giulia Strippoli https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/quando-tutto-e-possibile-a-50-anni-dalla-rivoluzione-portoghese-intervista-a-giulia-strippoli/ Wed, 24 Apr 2024 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82134 di Luca Cangianti

Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla [...]]]> di Luca Cangianti

Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla produzione. Nei quartieri nascono le commissioni degli abitanti che gestiscono occupazioni, asili nido e centri polifunzionali in cui vengono erogati mutualisticamente servizi di ogni tipo. Infine sorgono le commissioni dei soldati con cariche elettive e revocabili, come in tutti gli altri casi. Si tratta di una trama sociale di organismi autonomi dai partiti e dal sindacato unico neocorporativo che ricordano i soviet russi del 1905 e del 1917, i consigli italiani del 1919-20 e quelli cileni del 1972-73. È un potere parallelo che pratica la democrazia di base e compete con quello dello stato per diciannove mesi, cioè fino al colpo di stato del 25 novembre 1975 in seguito al quale la situazione politica è ricondotta entro i binari della democrazia parlamentare. Giulia Strippoli – ricercatrice di Storia contemporanea all’Universidade Nova di Lisbona – ha dedicato alla rivoluzione portoghese due saggi contenuti in un volume scritto insieme a Sandro Moiso, Riti di passaggio. Cronache di una rivoluzione rimossa. Portogallo e immaginario politico (Mimesis 2024).

Cosa sanno oggi i portoghesi della rivoluzione del 1974-75?
Farei una distinzione tra il colpo di stato del 25 aprile 1974 che abbatte la dittatura e il periodo di mobilitazione rivoluzionaria più intensa chiamato Prec (Processo revolucionário em curso) che va fino al colpo di stato liberal-democratico del 25 novembre del 1975, passando per sei governi provvisori e due tentativi di golpe reazionari, quello del 28 settembre 1974 e quello dell’11 marzo 1975.
La data del 25 aprile è consensuale: è una celebrazione trasversale, a differenza di quanto avviene in Italia per il giorno della Liberazione. Il consenso si deve in gran parte al fatto che il centro-destra non ha voluto rimanere escluso da una data così fondamentale. È consensuale come festa perché per alcuni – per le componenti di sinistra – fu la fine del fascismo e l’inizio della rivoluzione, per altri fu l’inizio della democrazia in Portogallo, associata all’idea di modernizzazione del paese. Il Prec, invece, è conflittuale perché nella sua analisi storica confliggono diverse interpretazioni: quelle che intravedevano la possibilità di un passaggio rivoluzionario ad un nuovo modo di produzione; quelle che affidavano alla rivoluzione il mero compito di far transitare il Portogallo dalla dittatura dell’Estado Novo alla democrazia parlamentare; quelle che vedono nei mesi rivoluzionari solo disordine e caos. Per questi motivi l’opinione pubblica portoghese è abbastanza informata sul 25 aprile e molto meno sul Prec.

Ci sono movimenti politici che si ispirano al Prec?
I due partiti che lo rivendicano sono Partito comunista portoghese – anche se ha contribuito alla sua sconfitta, avallando il colpo di stato del 25 novembre 1975 – e il Bloco de Esquerda, che si formò nel 1999 dalla convergenza di alcune organizzazioni di estrema sinistra di provenienza principalmente maoista e trotskista. Nell’uso pubblico della storia il Bloco si rifà spesso al Prec per evidenziare lo svuotamento neoliberista delle conquiste rivoluzionarie in materia di diritto alla salute, alla casa e al lavoro.

Giulia Strippoli

Perché ti sei occupata di questi temi?
Ho iniziato a studiare la storia del fascismo e della resistenza in Portogallo, di cui i manuali non parlavano, grazie a un corso seminariale di storia delle sinistre europee con Aldo Agosti, in cui commentavamo i capitoli del libro di Donald Sassoon Cento anni di socialismo. Il capitolo sulla fine dei regimi in Portogallo, Spagna e Grecia suscitò in particolare la mia attenzione. Poi mi dedicai al Sessantotto italiano e alla formazione della sinistra rivoluzionaria: durante il dottorato lessi le varie annate del quotidiano “Lotta continua” e venni a sapere da Enrico Artifoni, professore di Storia medievale, che qualche decennio prima, come tanti giovani militanti, era stato affascinato dalla rivoluzione portoghese, che centinaia di italiani erano andati in Portogallo per partecipare alla rivoluzione.

E così ti sei messa a studiare anche la parte più soggettiva di questa esperienza rivoluzionaria, cioè le memorie degli italiani che, per citare una frase di Sandro Moiso, andarono in Portogallo «per veder sorgere un mondo nuovo».
Ti racconto un aneddoto. Quando nel 2018 venne qui a Lisbona Franco Lorenzoni – uno di quei militanti italiani – andammo alla prima di uno spettacolo teatrale che poi è stato ripreso anche nel film documentario Rua do Prior 41 di Lorenzo d’Amico de Carvalho. In quella circostanza che stimolava i ricordi, mi venne l’idea di farlo parlare al telefono con una persona che aveva conosciuto più di quarant’anni prima condividendo l’esperienza straordinaria della rivoluzione. Si trattava di Lionello Massobrio, il regista di La vittoria è certa, un film incredibile sulla lotta per l’indipendenza dell’Angola. Insomma, Lionello risponde al telefono e Franco fa: «Ciao Lionello, sono Franchino, ti ricordi?» Io mi commossi perché lui per me era Franco Lorenzoni, un uomo di più di sessant’anni, un ex militante rivoluzionario di Lotta continua, un maestro elementare. Quel diminutivo mi ha fatto rivedere il ventenne ancora presente all’interno dell’uomo maturo. È come se l’entusiasmo e lo stupore di aver assistito a quegli eventi non fossero stati scalfiti dal tempo.

Quali caratteristiche hai riscontrato nel leggere e nell’ascoltare questi racconti?
Mi ha sorpreso costatare che, a differenza di molti altri esempi storici, queste memorie non sono state amareggiate dalla sconfitta e dai difficili anni successivi. Inoltre non mi è capitato mai di assistere ad atteggiamenti reducistici e autocelebrativi. Quei giovani di cinquant’anni fa non si sono trincerati nella retorica dell’ultima possibilità. Le memorie sono tutte soggettive, ma sono anche generalizzabili. Io ci vedo uno spaccato generazionale.

Cosa può ancora insegnare la rivoluzione portoghese a chi è attivo nelle lotte sociali?
Ci insegna che la storia non è lineare e la spontaneità delle masse rende possibili le cose più incredibili: i militari dicono alla popolazione «restate a casa, ci pensiamo noi» e invece la gente scende in piazza e rivoluziona tutto: fabbriche, banche, scuole, università, teatri, compagnie aeree, acqua, elettricità. Questa sensazione che con la rivoluzione tutto diventa possibile è fortissima nella memoria degli italiani che parteciparono agli eventi del 1974-75. Posso raccontarti un altro aneddoto?

Basílica da Estrela, Lisbona

Certo.
Lo riprendo da un memoriale di Lionello Massobrio che meriterebbe di essere pubblicato. Qualche giorno prima della proclamazione dell’indipendenza dell’Angola, confessa a un militare rivoluzionario che gli sarebbe piaciuto andare in quel paese dove infuriava la guerra civile e da cui tutti i portoghesi scappavano. Il militare positivamente sorpreso da questa manifestazione di coraggio (o d’incoscienza) gli dà un biglietto scarabocchiato e gli dice di consegnarlo in una caserma dell’aviazione militare sulla collina. Lì sarebbe arrivato un Boeing che avrebbe portato lui e il suo cameraman in Africa. Lionello rimane molto perplesso e insospettito dalla semplicità con la quale il suo desiderio sembrava realizzarsi. Era sicuro di finire in qualche guaio, forse in prigione.

E invece?
Invece l’aereo arriva, scarica i militari in fuga dall’Angola e imbarca i due cineoperatori che viaggiano da soli nella pancia del velivolo fino a destinazione, senza controllo di bagagli, né di passaporti.

Mi sembra un’ottima metafora di come i processi rivoluzionari rendono possibili cose impensabili.
Già, e pensa che a destinazione ritrovarono persino un loro amico del Mir cileno che gli organizza una festa di benvenuto.

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Quale Resistenza? https://www.carmillaonline.com/2023/04/24/quale-resistenza/ Mon, 24 Apr 2023 21:55:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76973 di Nico Maccentelli

Oggi è il 25 aprile e la Resistenza narrata dal regime, con le sue liturgie e le icone del passato tanto comode per le baruffe della partitocrazia, avrà anche troppo spazio. Per questo voglio fare qui una “contro-liturgia” (mo basta con le sacralizzazioni che depotenziano i reali contenuti!) e parlare di altre Resistenze: quelle di oggi, quelle che vengono occultate e censurate, attaccate e derise dal sistema mediatico.

Partiamo con la prima Resistenza, tutta Ucraina. Ma non quella della propaganda atlantista dei vari programmi su La7, la RAI, Mediaset, della [...]]]> di Nico Maccentelli

Oggi è il 25 aprile e la Resistenza narrata dal regime, con le sue liturgie e le icone del passato tanto comode per le baruffe della partitocrazia, avrà anche troppo spazio. Per questo voglio fare qui una “contro-liturgia” (mo basta con le sacralizzazioni che depotenziano i reali contenuti!) e parlare di altre Resistenze: quelle di oggi, quelle che vengono occultate e censurate, attaccate e derise dal sistema mediatico.

Partiamo con la prima Resistenza, tutta Ucraina. Ma non quella della propaganda atlantista dei vari programmi su La7, la RAI, Mediaset, della carta stampata come i bugiardoni di regime: La Repubblica, La Stampa e il Corriere, bensì quella di chi in quel vero e proprio mattatoio che è l’Ucraina, la guerra proprio non la vuole: non vuole combatterla e non vuole viverla. E rifiuta la narrazione drogata di un regime nato da un golpe targato CIA nel 2014, che ha non solo represso l’opposizione interna russofona e ortodossa d’osservanza moscovita, ma ha chiuso radio e giornali, messo al bando i partiti d’opposizione compreso il PC d’Ucraina, perseguitato giornalisti e chiunque cerchi di informarsi su canali alternativi e di esprimere il proprio dissenso. Un regime che con un sito, Myrotvorets (1), segnala i “nemici” da colpire e cancella come “eliminati” quelli assassinati dalle sue bande naziste, come accaduto al fotoreporter italiano Andrea Rocchelli e alla giornalista Dughina. In una guerra iniziata con questo golpe e con l’aggressione alle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, nate per difendere la popolazione russofona dalla repressione nazi-banderista (2).

In questo contributo video di Nicolai Lilin si scopre che una rete di ragazzi ucraini, per fuggire dalla guerra, ha aiutato a scappare dal paese almeno (stima la Gestapo, pardòn, i servizi ucraini) 1500 retinenti alla carneficina bellica. A fuggire da un paese il cui governo ha persino proibito per legge l’eventualità di intavolare trattative con il nemico. Anche psicologicamente una gabbia sociale che non lascia alcuno scampo.
Due di questi attivisti si sono già presi sette anni. Il perno centrale di questo gruppo (non ne conosciamo il nome) stava in Moldova e fortunatamente è riuscito a scappare, evitando così i 9 anni che il regime banderista di Kiev voleva comminarli.

Questo dunque è un episodio della Resistenza vera in Ucraina, non quella del battaglione Azov spacciato dai nostri falsificatori a mezzo busto per un circolo di lettori di Kant. E neppure quella degli “anarchici” armati fino ai denti e a pieno servizio della strategia unipolare atlantista, organici all’esercito nazi-banderista, strani soggetti ai quali certa compagneria dà spazio associandola a Resistenze antifasciste e antimperialiste vere e proprie come in Rojava o nel Chiapas.

La vera Resistenza dunque, in Ucraina come altrove, è resistere alla guerra, battersi contro il fascismo di cui si tinge ogni regime che la guerra la vuole imporre sempre per gli interessi delle classi dominanti. Ciò significa disertare, rifiutare, sabotare e nelle condizioni che lo consentono, combattere l’unica guerra che valga la pena di essere combattuta: quella degli sfruttati contro gli sfruttatori, la guerra popolare e proletaria realmente antimperialista e di classe, nelle fasi politiche in cui questo passaggio si rende necessario e inevitabile.

Pertanto, è possibile sfilare il 25 aprile con le Schlein dall’elmetto rosa? No, proprio non è possibile. Non lo è in linea di principio perché come la Meloni e il resto della partitocrazia il PD è più che supino ai desiderata imposti dagli USA attraverso la NATO nell’invio di armi a Zelensky, in spregio e violazione ancora una volta dell’art. 11 della Costituzione. È soprattutto la forza politica maggiormente accreditata a Washington e non da oggi.

Non è possibile nemmeno riguardo il sentiment del nostro popolo, che non vuole questa guerra e non vuole mandare armi a uno dei due contendenti. Per cui, quale Resistenza abbiamo in comune con il PD e compagnia cantante? Nessuna, quando c’è chi sostiene un governo nazi-banderista e destra o sinistra che siano, obbediscono al padrone d’Oltreoceano andando persino contro gli interessi del proprio paese.

Ma questo sentiment nostrano, ben espresso da fior di sondaggi, si lega bene a un’altra Resistenza, che è andata oltre una visione del fascismo piuttosto retrodatata, fatta di orbace e fez, di nostalgici a Predappio e di gruppi manovrati dagli apparati dello Stato alla bisogna.

È una Resistenza diversa, che in questi tre anni è cresciuta in una vasta opposizione sociale alle restrizioni pandemiche che, la si pensi come si vuole, di fatto hanno rappresentato un laboratorio politico di controllo sociale che molti, purtroppo, nella sinistra di classe hanno sottovalutato. Una Resistenza popolare che ha attraversato numerosi paesi, dal nostro all’Australia, al Canada e a numerosi altri (3). Una Resistenza che ha saputo collegare questo passaggio autoritario di superamento persino dei diritti fondamentali “borghesi”, quello delle restrizioni “sanitarie” alla successiva fase di guerra che stiamo vivendo oggi.

Cos’è allora il fascismo e come si presenta oggi? In questo spunto di Andrea Zhok, c’è una sintesi che ben lo definisce:

«Dopo l’uscita giovialmente fascista di La Russa sui partigiani, eccoci ricaduti stancamente per la miliardesima volta nel giochino politico più stantio della storia italiana.
A destra ogni tanto si sveglia qualcuno, estraendo l’orbace dall’armadio tarlato del nonno, e per darsi un tono tira fuori qualche trombonata da Cinegiornale dell’Istituto Luce. Sorge naturale il sospetto che gente come il ridente Presidente del Senato siano a libro paga del PD, perché cosa farebbe il comitato di affari multinazionali che risponde a quel nome senza le sue cicliche rimpatriate “antifasciste”?
Se non ci fosse ogni tanto qualche anziano reduce che se ne esce con un bel “Quando c’era LVI!” una buona parte del PD (e dell’odierno arco costituzionale) non sarebbe distinguibile dal reparto pubbliche relazioni di una Corporation multinazionale.
Ma grazie al cielo ogni tanto, come i pugili suonati che menano pugni all’aria al suonare del gong, di quando in quando si riesce ancora a riesumare qualche scampolo di “minaccia fascista” d’antan e a “sinistra” per qualche giorno si può respirare:
“Fiuuu! Abbiamo ancora una ragione di esistere”.
Ora, il punto davvero grave, quello imperdonabile e che se ignorato oramai deve essere inteso come dolo, è non capire DOVE sta il potere oggi e qual è l’orizzonte odierno di pericolo rappresentato da QUESTO potere.
Perché, sia ben chiaro, è sacrosanto tener ferma la condanna del fascismo storico.
E’ sacrosanto perché è giusto lottare contro un Potere impermeabile alla volontà popolare, contro un Potere che monopolizza la comunicazione mediatica, contro un Potere che censura le voci politicamente sgradite, un Potere dove politica, “padroni del vapore” e magistratura si allineano nello schiacciare ogni contestazione, un Potere guerrafondaio e affetto da un patologico senso di superiorità.
E’ giustissimo combattere tutto questo.
Solo che oggi tutto questo non lo si trova sotto il nome “fascismo”.
Il Potere reale, il Potere apparentemente illimitato, arrogante e pericoloso oggi è nelle mani di un blocco politico tecnocratico e neoliberale, trasversale a destra e sinistra, un blocco il cui baricentro è il “medio-progressismo” (cit. Fantozzi) rappresentato al meglio da forze come il PD.
E’ così negli USA, è così nell’UE ed è così in Italia.
E riciclare oggi il “pericolo fascista” non è più un errore di analisi: è una colpa politica grave, è complicità con il potere nella sua forma più pericolosa.»

(Andrea Zhok)

Io semplicemente mi limito a definire il fascismo come quella forma di dominio repressivo e classista che il capitale assume in determinate fasi di crisi economica, politica e sociale nei confronti delle classi popolari subalterne. Quando il suo potere viene messo in discussione, ma anche quando il conflitto sociale è a dei livelli così bassi da consentire spazi di manovra sul corpo sociale tali da abbassare l’asticella dei diritti, dei salari, delle forme di democrazia che lo stato liberale aveva dapprima concesso nel corso delle lotte sociali.

Il primo caso, in Italia, trovò le sue massime espressioni con modalità diverse a seguito delle lotte operaie e contadine degli anni ’20 con l’ascea di Mussolini e nell’Italia del secondo dopoguerra attraverso la strategia della tensione e lo stragismo di stato voluto e diretto dagli USA negli anni della Prima Repubblica.

Mentre il secondo è proprio di oggi, dopo la sconfitta storica delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e di classe e della forza del movimento operaio nei mutamenti di composizione di classe e di avvento del tatcher-reaganismo neoliberista nei primi anni ’80 del secolo scorso. Se facciamo un paragone con la situazione francese, lo scarto di conflittualità sociale balza subito agli occhi.

La discesa in piazza di un movimento anti-pandemico, certo eterogeneo, con molta confusione, certe ambiguità, espressione dei più diversi settori sociali colpiti dalle restrizioni che toccavano anzitutto il mondo del lavoro: lavoratrici/tori, piccole attività, avrebbe dovuto comunque svegliare lo spirito tattico leninista in certi ambiti dei comunisti italiani. Ma si è lasciato il campo a forze di altra natura, spesso apprendisti stregoni che oggi nell’inevitabile riflusso del ciclo di lotte si contendono le spoglie di questo movimento con goffi quanto autoreferenziali tentativi di aggiudicarsi l’egemonia, di cosa poi…

Ma comunue questo vasto ciclo di lotte trasversali nel corpo sociale, il cosiddetto 99%, ha saputo collegare nel post-covid il legame di continuità tra la “dittatura sanitaria” e la guerra attuale. “Guerra e pandemia, unica strategia” è lo slogan che sintetizza questa consapevolezza in un antifascismo che  spesso è più nei fatti che nelle intenzioni, poiché il fascismo oggi si ripresenta come strumento autoritario della guerra imperialista, ma anche come laboratorio di controllo sociale e in specifico del capitale sul lavoro, come guerra sociale dall’alto, che non ammette emendamenti alla sua traiettoria bellicista e di rapina sociale.

Chi nell’ambito dell’antagonismo di classe ha paragonato il greenpass al tesserino sanitario, addirittura alla patente ha fatto e tutt’ora sta facendo del buon antifascismo? In realtà il compito di questo antagonismo doveva essere quello di andare in quelle piazze che hanno risposto con la mobilitazione al ricatto del greenpass, a un regime che ha sospeso migliaia di lavoratrici e lavoratori. Ma questa miopia gli ha impedito qualsiasi iniziativa in questo senso, lasciando nell’ignavia il miglior patrimonio politico della lotta di classe italiana. La risposta dunque è no, non fa un buon antifascismo.

L’intervento politico è venuto invece da quelle componenti di questo patrimonio che all’inizio in ordine sparso, poi via via con livelli minimi di organizzazione di base è stata interna a questo movimento e oggi spinge per sviluppare la consapevolezza che la guerra conclamata ha una stretta correlazione con la guerra biologica creata e sviluppata nei biolaboratori in tutto il mondo e di cui Wuhan rappresenta la struttura più nota ed emblematica. Così come la correlazione è anche tra guerra imperialista esterna e quella antiproletaria interna, con l’autoritarismo biotecnologico che piega il lavoro salariato agli standard di sfruttamento necessario al capitale per estrarre pluvalore relativo e assoluto dai corpi precarizzati, individualizzati, ossia privi di anche solo un’intenzione aggregativa di classe.

È su queste coordinate politiche che parte della sinistra rivoluzionaria sarà presente alla grande manifestazione del prossimo 1° maggio a Pesaro, contro la costruzione di un biolab di terzo livello in Italia e in una zona del tutto inadatta: vicino a numerose abitazioni e su terreno alluvionale (4).

La lotta dunque continua e non ho trovato parole più adatte per definire la nuova Resistenza a un capitalismo atlantista in declino e per questo ancor più pericoloso e feroce Sono queste parole di Davide, amico e compagno:

La Liberazione è cosa seria

E oggi più che mai necessaria: occorre liberarsi dal sistema della guerra permanente, dal sistema della paura, del terrorismo di stato che si sussegue ininterrotto di emergenza in emergenza per legittimare sempre nuove forme di comando e di sfruttamento.
Liberarsi dalla paura e dalla vigliaccheria che hanno portato a dare credito alla più grande operazione di militarizzazione integrale della società che hanno chiamato pandemia.
Quell’operazione NON È UNA PARENTESI INFELICE DELLA STORIA, bensì un’ accelerazione di processi già in atto da decenni e arrivati ora ad una svolta epocale, basata sul dominio totale dell’oligarchia capitalista in lotta per tenere a galla un sistema, il loro, malato terminale, che sta portando l’ umanità nel baratro.
Il primo passo del cambiamento necessario è avere chiara la visione dei processi in atto, cosa che per ora non si esprime minimamente a livello collettivo. Non a livello di massa.
Quindi non sorprende assistere allo spettacolo indegno di gente che scambia la guerra della Nato per Liberazione.
La maggior parte di quei signori sono gli stessi che parlavano di “responsabilità sociale” in appoggio alle inoculazioni forzate.
Di menzogna in menzogna, dalla guerra “sanitaria” a quella imperialista.
Due facce della stessa medaglia. Chi continua ad occultare una delle due, o applaudire ad entrambe, farebbe bene a lasciar perdere il 25 aprile, la liberazione ha bisogno di uomini e donne libere, non di servi addormentati.
Cominciare dal CORAGGIO, qualità primaria in via di estinzione: dal latino HABEO CORE, avere cuore.
Una vita senza coraggio è una vita senza cuore, da morti che camminano, il materiale umano necessario alle guerre del capitale.

DISERTARE RIFIUTARE SABOTARE.
Evviva la Libertà, evviva la liberazione.

Davide Milazzo, insegnante di arti marziali

 

Note:

1. Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Myrotvorets

2. Qui Valerio Evangelisti spiega molto bene il contesto in cui è nata questa aggressione, otto anni di bombardamenti sulla popolazione civile del Donbass. Aggiungerei una considerazione: la Resistenza in Italia ebbe l’apporto decisivo di forze imperialiste come quelle angloamericane contro il nazifascismo. Si facciano le dovute conclusioni e accostamenti a partire dalle ragioni di un popolo oppresso e a cui è stato vietato persino di parlare il russo. La questione è un po’ più complessa di come la pongono certi “compagni”.

3. si veda il laboratorio canadese nel mio intervento su Carmilla qui e a Radio Blackout il 23 febbraio 2022.

4. Qui il mio blog che dà spazio alle Lavoratrici e Lavoratori autorganizzati (Ravenna) e qui un sito dell’Assemblea Antifascita contro il Greenpass (Bologna). Entrambi articolano le mobilitazioni da un punto di vista di classe.

(Immagini tratte dalle opere di Bansky e il “Chef Guevara” da Tv Boy)

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LUDD ovvero dell’insurrezione permanente https://www.carmillaonline.com/2018/07/26/ludd-ovvero-dellinsurrezione-permanente/ Wed, 25 Jul 2018 22:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47303 di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta [...]]]> di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.

Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.

I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2

Se, però, l’esperienza dell’Internazionale Situazionista è stata in qualche modo parzialmente digerita dal sistema mediatico e politico attuale, ben diversamente potrà avvenire per una produzione testuale e, lo ripeto ancora una volta, per una pratica militante che fin dagli esordi furono tacciate sia dal PCI che dai gruppuscoli nati alla sua sinistra (in primis l’orrido Movimento Studentesco di Mario Capanna) come provocatorie, irresponsabili e, in alcuni casi, “fasciste”.

Anche se l’opera non intende affatto costituire una celebrazione di pratiche e militanti come Giorgio Cesarano, Riccardo D’Este, Eddie Ginosa, Gianfranco Faina, Mario Perniola e molti altri ancora, senza dimenticare la vicinanza con Danilo Montaldi, poiché come afferma Paolo Ranieri nella sua introduzione:

“E’ ora, infatti, di dire basta alla moltiplicazione incessante e interessata di manifestazioni “in memoria”. Come il Primo Maggio […] ideato per essere l’appuntamento annuale con quel vagheggiato sciopero generale che spostava la presenza potenziale dell’insurrezione possibile insieme con l’assenza di rivoluzione attuale: da quando, con l’iterazione e la corrosione del tempo passato e il sequestro della produzione di memoria da parte delle istituzioni, ci si è scordati di questo, si è definitivamente degradato in una sorta di Pentecoste, rito lagnoso di una neo-religione per schiavi, aspiranti schiavi e liberti, meritevole di essere fuggito come la peste […] E lo stesso si può affermare senza esitazioni per il 25 aprile, il 12 dicembre, il 14 luglio […] ciascuno con le precise specificità che gli valgono un posto in questo martirologio della laica religione della disfatta, celebrata senza posa e senza vergogna dai voltagabbana incartapecoriti dalla nostalgia e dai militanti del conformismo”.3

Come si può ben comprendere fin da queste poche righe, che danno la cifra esatta del discorso anti-retorico e di rottura che la critica radicale italiana ha portato avanti fin dai suoi albori, non vi è possibilità di mediazione, di reciproco seppur parziale coinvolgimento e neppure di pace armata tra una miserabile concezione della politica di “sinistra” che ha fatto della sconfitta e della collaborazione di classe la sua terra d’adozione ed una visione che dell’iniziativa rivoluzionaria ed insurrezionale dal basso, proletaria e giovanile, ha fatto la sua ragione di esistere.

Continua, anzi anticipa, poi ancora Ranieri:

“Non possiamo nascondere a noi stessi che operazioni-memoria come la presente – intese a isolare una vicenda del passato raccogliendone i documenti in un’edizione che, elaborata dai superstiti stessi, aspira a mostrarsi critica, completa, definitiva, TOMBALE – rappresentano uno dei mille espedienti che l’universo delle merci adotta per frenare la propria inarrestabile entropia”.4

Sì, perché è proprio l’universo mercantile, con la rapida diffusione della sua capacità di affascinare e addomesticare l’immaginario proletario e sociale, l’altro obiettivo della critica radicale che, però, non intende semplicemente destrutturarne le basi e i principi ma, molto più semplicemente, distruggerlo insieme ai rapporti sociali e di produzione che lo alimentano. La necessità potrebbe rivelarsi essere proprio quella, già enunciata da De Sade, che l’insurrezione debba costituire la condizione permanente di ogni repubblica.

La sintetica ricostruzione storica della formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari fatta da Leonardo Lippolis permette al lettore-militante di riscoprire le origini di tali formulazioni ed ipotesi non solo a partire dalle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie fin dal 1967, che impressero una spinta decisiva in quella direzione, ma fin dalle insurrezioni operaie e proletarie di Berlino Est nel 1953, dell’Ungheria nel 1956 e nelle rivolte italiane del luglio del 1960 e di Piazza Statuto nel 1962 a Torino.

Insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava però sempre il fatto di come l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Anche se proprio la scelta del nome del gruppo di cui sono raccolti principalmente i materiali in questo primo volume, LUDD, rinvia ad esperienze precedenti ed egualmente radicali. E’ proprio sulla tracci dell’interpretazione data dallo storico inglese Edward P. Thompson, nella sua opera più importante,5 del luddismo che si forma la convinzione che la rivolta spontanea del lavoratori delle campagne inglesi contro l’introduzione delle macchine fosse tutt’altro che una forma primitiva, arretrata e tutto sommato conservatrice di lotta di classe. Negando così un’interpretazione “progressista” del capitalismo che nelle sue conseguenze ha finito col trasformare i partiti “socialisti” o “comunisti” che la sostenevano in strumenti di conservazione politica, economica e sociale. Insomma i proletari inglesi dell’epoca delle guerre napoleoniche erano già più avanti di coloro, ad esempio i cartisti, che si sarebbero poi fatti loro portavoce e rappresentanti come tutta la deriva tradunionista, socialdemocratica e infine stalinista che ne sarebbe poi conseguita.

E’ proprio per questo motivo che i fondatori del movimento andarono progressivamente allontanandosi da quella componente operaistica di cui avevano inizialmente condiviso una parte del cammino. E che contribuì ad allontanare alcuni di loro anche da Raniero Panzieri che, proprio a proposito della rivolta di Piazza Statuto, in un primo momento aveva commentato la giovanile rivolta operaia come “quattro meridionali che tirano le pietre”. Questa memoria, contenuta nella ricostruzione di Lippolis, mi fa ha fatto tornare in mente che fu proprio in occasione di quella rivolta, e degli atteggiamenti assunti nei suoi confronti da Pajetta e dal PCI, che due proletari come Sante Notarnicola e Giuseppe Cavallero decisero di stracciare la tessera del Partito. Mentre esponenti dell’operaismo come Antonio Negri e Mario Tronti decidevano in quegli stessi anni di praticare una forma di entrismo nello stesso. Come dire che l’istinto proletario batte la riflessione filosofica 1 a 0.

“La Lega operai-studenti, che rivendicava l’eredità dei Consigli operai, insisteva invece sulla necessità di trovare nuovi canali di insubordinazione, non necessariamente legati alla fabbrica, rigettando l’impostazione gerarchica e centralizzatrice leninista. La Lega operai-studenti negava ogni valore alla lotta rivendicativa di natura economica a scapito di una critica radicale del lavoro salariato, bollato come inumano e assurdo […] «La critica rivoluzionaria – recita il significativo passaggio di un manifesto del gruppo – deve interessarsi di tutti gli aspetti della vita. Denunciare la disintegrazione delle comunità, la disumanizzazione dei rapporti umani, il contenuto e i metodi dell’educazione capitalistica, la mostruosità delle città moderne» (I 14 punti della Lega degli operai e degli studenti)”.6

I documenti riportati in più di trecento pagine sono innumerevoli ed interessanti: dai testi prodotti dalla Lega degli operai e degli studenti che si andò formando nella cerchia di militanti del Circolo Rosa Luxemburg a quelli prodotti dal Comitato d’azione di Lettere fino ai tre bollettini prodotti da LUDD e all’Appello al proletariato infantile contro l’infantilismo borghese passando per il testo di critica ai gruppuscoli scritto da Jean Barrot: Sull’ideologia ultrasinsitra.

Non costituiscono però tutto il materiale raccolto nel sito Nel Vento, nato a partire da un progetto contenuto nel preambolo a Psicopatologia del non vissuto quotidiano di Piero Coppo nel settembre del 2006. In cui si affermava:

“Dalla metà degli anni ’60 si è sviluppato in Italia un movimento che, sotto diversi nomi e sfumature differenti, ha condotto una battaglia teorico-pratica per l’affermazione di una rivoluzione che, nella propria concezione, non poteva che avere come base la critica della vita quotidiana. Precursori dei tempi, questi gruppi inquadrarono la questione della rivoluzione in termini anti-ideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo.
Le donne e gli uomini che si unirono in questi gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario diversi concetti che oggi sembrano evidenti […] Il Progetto Critica Radicale è di raccogliere e pubblicare i materiali prodotti dai gruppi e dagli individui che si sono riconosciuti in quelle idee”.

Idee, non dimentichiamolo mai, che non si espressero in spazi angusti o in eburnee ed intellettualistiche torri, ma sempre direttamente sul fronte del cambiamento esistenziale e politico, giorno per giorno nelle lotte e in una pratica che vedeva nel PRESENTE e non in un lontano passato oppure in un altro ancor più lontano futuro la possibilità di realizzare il cambiamento sociale necessario alla piena realizzazione dell’essere umano. Sia come singolo individuo, sia come specie.

Indispensabili, a parere di chi scrive, ancora oggi, nonostante alcune iperboli linguistiche ed alcune ammaccature dovute al trascorrere del tempo, per una discussione ed una pratica sociale e politica che non voglia rimanere chiusa all’interno della rappresentazione spettacolare dei valori borghesi travestiti da antagonismo e delle merci ideologiche che ne derivano.


  1. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994  

  2. Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999  

  3. Paolo Ranieri, CRITICA RADICALE. GLI ANNI DI LUDD 1967-1970. Introduzione in La critica radicale in Italia, pag. 7  

  4. P. Ranieri, op.cit. pag. 5  

  5. Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969  

  6. Leonardo Lippolis, L’occupazione definitiva del nostro tempo, in La critica radicale in Italia, pag. 35  

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Bridge over troubled water https://www.carmillaonline.com/2018/04/22/bridge-over-troubled-water/ Sun, 22 Apr 2018 17:50:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45193 di Alessandra Daniele

Sono fattorini di Foodora. Li chiamano rider. Li trattano da schiavi. A cottimo, in bicicletta sotto la pioggia e sotto controllo via GPS, come droni telecomandati della Gig Economy. Gig Robot. Hanno chiesto il diritto di essere riconosciuti come lavoratori dipendenti. Il tribunale gli ha dato torto. Erano operai dell’Olivetti. Respiravano amianto. Senza sapere che ciò che gli dava da vivere li stava uccidendo. Sono morti di mesotelioma. Le loro famiglie hanno chiesto giustizia. Il tribunale gli ha dato torto. E c’è chi ancora promette la via giudiziaria al Cambiamento. Come se la sola causa delle mostruosità del capitalismo [...]]]> di Alessandra Daniele

Sono fattorini di Foodora. Li chiamano rider. Li trattano da schiavi. A cottimo, in bicicletta sotto la pioggia e sotto controllo via GPS, come droni telecomandati della Gig Economy. Gig Robot. Hanno chiesto il diritto di essere riconosciuti come lavoratori dipendenti.
Il tribunale gli ha dato torto.
Erano operai dell’Olivetti. Respiravano amianto. Senza sapere che ciò che gli dava da vivere li stava uccidendo. Sono morti di mesotelioma. Le loro famiglie hanno chiesto giustizia.
Il tribunale gli ha dato torto.
E c’è chi ancora promette la via giudiziaria al Cambiamento. Come se la sola causa delle mostruosità del capitalismo fosse la corruzione, e quindi potesse esistere un capitalismo buono perché “sano”.
La mostruosità è connaturata al capitalismo, che produce solo “giustizia” classista.
Fra una settimana ritorna il Primo Maggio, ma i lavoratori non hanno niente da festeggiare.
Questa settimana ritorna il 25 Aprile, ma la guerra continua.
La lotta di classe è una guerra, che il Capitale sta vincendo con la sistematica disumanizzazione dell’avversario da sfruttare.
È una guerra che devasta i territori e deporta i popoli, che mette le sue vittime l’una contro l’altra per annientarle entrambe.
È una guerra di dominio e di sterminio, che fa milioni di morti più o meno “bianche”, e distrugge speranze e dignità di intere generazioni.
È una guerra nella quale è consentito l’uso di qualsiasi arma chimica, dai lacrimogeni ai cancerogeni, e dalla quale non c’è rifugio, perché se scappi dalla fame sei un “migrante economico”, cioè un clandestino. E uno schiavo.
È la madre di tutte le invasioni coloniali, e di tutti i regimi fascisti, torvi, farseschi, o entrambe le cose, più o meno camuffati da democrazie.
La lotta di classe è la guerra, e si combatte ogni giorno in ogni angolo del mondo.
La guerra per il predominio delle cose sulle persone.

Per chi potrà permetterselo, il ponte fra il 25 Aprile e il Primo Maggio s’avvicina. La liberazione dei lavoratori però è ancora lontana.

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Una selvaggia e incontenibile voglia di libertà https://www.carmillaonline.com/2017/04/27/selvaggia-incontenibile-voglia-liberta/ Wed, 26 Apr 2017 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37879 di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere [...]]]> di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere la parola agli ultimi e negare, troppo spesso e nei fatti, il diritto alle classi oppresse di ricostruire la loro storia oppure la Storia tout court.
Negare la lingua con cui gli oppressi si esprimono, negare la visione dal basso della storia grande e piccola per consegnare la ricostruzione del passato agli specialisti e agli accademici significa, ancora, lasciare che siano i vincitori, oppure i promotori di accordi fortemente marcati dalla rinuncia alla difesa degli interessi della maggioranza della società a definire ex-post quale sia e quale debba essere l’unica verità storica accettabile.

Che questo conduca poi all’apprezzamento di specialisti farlocchi, come sta avvenendo in questo quarantesimo anniversario del Movimento del ’77, oppure alla ritrattazione e revisione continua della memoria storica, come avviene in occasione di ogni 25 aprile, non costituisce altro che un corollario del precedente assunto. Poiché, semplificando al massimo, è soltanto la memoria dal basso che può vegliare sulla Memoria. Naturalmente, facendo sì che anche gli ultimi e più autentici testimoni degli eventi, delle rivolte e delle lotte giungano al termine del loro percorso biologico senza avere potuto lasciare una propria testimonianza diretta, anche quella apparentemente più condivisa potrà in seguito essere manipolata dagli storici e dagli ideologi irreggimentati nei diversi tipi di Presente.

Se vogliamo, lo stesso destino è stato riservato alle memorie dirette di coloro che hanno cercato, e magari cercano tutt’ora di testimoniare, lo svolgersi degli eventi e le cause delle scelte degli attori coinvolti. Tipico ne sia, per tutti, il ritardo con cui un testo di rilevanza assoluta, rispetto al dramma dei campi di lavoro, prigionia e sterminio tedeschi, come “Se questo è un uomo” di Primo Levi sia stato accolto con un ritardo incredibile nella cultura, nella vita politica e dalla “grande” editoria italiana. Ma di Levi si tornerà a parlare in chiusura di questa recensione.

E’ rimasta così la via della memoria romanzata oppure della storia romanzata che, anche là dove si è espressa come nuova epica italiana, ha continuato e continua a promuovere una sottomissione della memoria di classe alle esigenze della Storiografia ovvero della Politica. Ci si arrende infatti, anche involontariamente, al fatto che, non potendo ormai contrastare il peso dei documenti ufficiali scritti (anche le interpretazioni dei partiti e dei loro leader e rappresentanti fanno parte di questi, soprattutto qui in Italia e negli ambienti delle sinistre, tradizionali e non), occorra adottare espedienti destinati a ricostruire il passato attraverso varie e differenti forme di complotto oppure per mezzo di colpi di scena attraverso i quali, troppo spesso, la testimonianza autentica rischia di affogare tra le esigenze dell’intreccio.1

Il testo di Silvio Borione, classe 1930 e testimone giovanissimo della lotta antifascista torinese, e di Giaka, militante del CSOA Gabrio di Torino e autore del romanzo Le orme del lupo (pubblicato da Agenzia X nel 2014),2 sfugge a queste trappole e ci dona una lettura appassionante e, per gran parte, autentica di eventi che, nonostante gli sforzi messi continuamente in campo per rimuoverli o ridimensionarli, occorre ancora conoscere e approfondire di più.

Sicuramente la narrazione e le memorie del vecchio Biund hanno costituito per Giaka, così come per i giovani compagni che continuano a frequentarlo su quelle colline su cui si è ritirato da tempo, un autentico motore di ricerca e sviluppo, sia per la ricostruzione della Resistenza operaia torinese, con tutti i suoi eroismi e i suoi errori, sia per la comprensione di una realtà storico-politica molto più complessa e violenta di quella trasmessa dalla vulgata dominante.

Non nascondo di aver letto il libro in un sol giorno, 170 pagine dall’alba al tramonto, e di aver tratto dalle sue pagine momenti di commozione, di rabbia e di riflessione.
Proprio per questo vorrei qui sottolineare i principali punti di forza del testo e lasciare alla fine i suoi pochi punti discutibili e sicuramente non dovuti ai due co-autori .

Il primo elemento di forza è quello di spogliare la lotta antifascista condotta dal basso dal prevalere di quegli elementi morali ed ideologici che, pur avendo probabilmente contraddistinto le scelte degli intellettuali e dei militanti dei vari partiti antifascisti, predominano nella ricostruzione della lotta partigiana. Che invece fu condotta a partire spesso dalle esigenze quotidiane (la fame così spesso ricordata e centrale nello sviluppo delle vicende narrate e sottolineata benissimo dal titolo stesso), di classe (la lotta per il mantenimento dei miglioramenti salariali, promessi e mai realizzati dal regime e dagli imprenditori, che costituì il motore decisivo per gli scioperi della primavera del 1943) e da quello spirito delinquenziale e di ribellione giovanile che manifestava quella selvaggia ed incontenibile voglia di libertà citata nel testo3 e nel titolo di questa recensione.

Il secondo è costituito dal rivelare fino in fondo la brutalità dell’azione repressiva dello Stato. Sia nella sua versione repubblichina, fascista e nazista, sia in quella dell’interregno trascorso tra la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) e l’Armistizio firmato dal Re e dal maresciallo Badoglio (8 settembre 1943). “Intorno al fuoco la sera si parlava solo più della caduta del fascismo e degli scioperi, le voci si rincorrevano ed era difficile fare un bilancio.La Spezia, Sesto Fiorentino, Firenze: morti e feriti. Milano, Torino: ancora morti e feriti. Bari: 23 morti e 60 feriti. Al carcere San Vittore di Milano sulla folla che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici l’esercito di Badoglio sparava con i carri armati, uccideva, feriva e fucilava quattro manifestanti sul posto; al carcere Regina Coeli di Roma sedava una rivolta con un massacro e lo stesso faceva a Reggio Emilia, in un elenco che non sembrava finire mai. L’intero paese si stava sollevando e il governo Badoglio aveva deciso di affogare le proteste nel sangue, con il tempo e grazie alla stampa clandestina le notizie si facevano chiare e ai primi di settembre la realtà era sulla bocca di tutti: il nuovo governo, nel giro di cinque giorni, aveva ucciso 93 operai, ne aveva feriti 536 e arrestati 22764

Il terzo è dato dal descrivere una realtà organizzativa che, nei quartieri operai di una Torino impoverita, bombardata e passata dai seicentomila abitanti di prima della guerra ai duecentomila dell’ultimo anno, nasce. ancora prima che dalle direttive organizzative di partito, da un senso di solidarietà e di appartenenza in cui la comunità operaia accoglie anche chi operaio e lavoratore non è e, magari, non è neanche piemontese, ma è solamente, come tutti, vittima di un regime politico ed economico capace soltanto di sfruttare e reprimere un’umanità intesa quasi solo come forza lavoro. Fatto sottolineato particolarmente nelle pagine dedicate ai maltrattamenti e alle condizioni di lavoro all’interno del carcere giovanile Ferrante Aporti, in cui le condizioni non erano poi così distanti da quelle dei lager.

Un’umanità in cui le discriminazioni di genere non esistono e in cui le donne sono sempre in prima fila nelle lotte e nel soccorso ai combattenti o alle vittime della repressione. Spesso contro le stesse direttive del PCI.5

silvio-borione-con il padre Il quarto è quello di essere capace di descrivere e ricordare un’epoca di lotte e scelte in cui l’interazione tra le differenti generazioni, di cui il rapporto tra Silvio e il padre Eugenio6 è altamente sintomatico e rappresentativo, non solo era motivo di presa di coscienza e di crescita politica, ma anche di reciproco rispetto. All’interno della quale le piole, le caratteristiche vinerie torinesi (prima dell’avvento dei wine bar e dei locali da aperitivi, rimasero un elemento centrale di scambio e di incontro fino agli anni settanta.

Poi c’è la descrizione di Torino, città operaia per eccellenza, con i suoi borghi e le sua barriere (San Paolo, Nizza, Milano, Barca e tutti gli altri) così inseparabili dalla storia delle sue lotte e della sua netta formazione antagonista nei confronti delle classi al potere. Una città che con la sua fabbrica diffusa e la presenza enorme di lavoratori dell’industria ha creato condizioni di resistenza, riflessione e crescita politica assolutamente impensabili in altre città italiane nel corso dei primi settant’anni del Novecento.

Lotte che partono dalle fabbriche e dai quartieri operai che i partiti e i movimenti organizzati dovevano sapere interpretare prima ancora che dirigere e che avrebbero formato una classe di intellettuali, poco appariscenti ma decisi, che vanno da Antonio Gramsci, con le sue prime riflessioni sulla città-fabbrica, a Bianca Guidetti Serra e Franco Antonicelli. Tutti diversi tra loro, ma egualmente e strenuamente impegnati in prima linea nella lotta contro il fascismo.

La forza delle memorie di Silvio sta, infine, anche nella sua capacità di ricordare la partecipazione alla Resistenza anche delle formazioni spesso eluse dalla storiografia piccista; ad esempio quella filo-bordighista, o presunta tale, di Stella Rossa, che aveva spinto con le sue audaci azioni per un’insurrezione prettamente proletaria della città già nel febbraio del ’45, oppure quelle anarchiche. O nel sottolineare l’amarezza con cui gli operai e i militanti che avevano difeso a rischio delle loro vite e con scarsi mezzi e ancor meno armi gli stabilimenti FIAT di Mirafiori dai tentativi di saccheggio tedeschi, videro sfilare migliaia di sappisti ben armati in piazza Vittorio nelle giornate successive alla Liberazione (avvenuta a Torino con un giorno di ritardo rispetto ad altre città italiane).

Oppure nel ricordare ancora che la vendetta non è un gioco e che la violenza non si può mai usare a cuor leggero e senza provare un senso di nausea per il sangue versato, anche dal nemico più odiato. Così come capita a Silvio nell’assistere all’eliminazione dei collaboratori e degli ultimi, invasati sostenitori del regime che giravano per la città cercando di colpire alle spalle chiunque capitasse loro a tiro. Un triste, orrendo rituale di sangue in cui la sete di vendetta non poteva bastare a sopportarne le conseguenze fisiche e psicologiche.

Le uniche note non del tutto positive, riguardano il fatto che, forse, avrebbe dovuto essere maggiormente rispettata e riprodotta la lingua del narratore. Anche se qui e là il dialetto piemontese e la parlata torinese sono presenti con alcune frasi idiomatiche e modi di dire molto diffusi, la lingua del testimone, lasciato libero di esprimersi, avrebbe arricchito ancora di più il lavoro di ricostruzione della memoria di classe portato avanti dai due autori. Così come ha saputo fare benissimo Luca Baiada nel ricostruire le memorie della strage del padule del Fucecchio del 1944.7

Ma, in questo caso, credo che la scelta sia stata prettamente editoriale, così come quella di voler inserire nel testo discorsi e comunicati, oltre che informazioni, che se da un lato servono a storicizzarlo ed inquadrarlo nel periodo storico-politico in cui si svolgono i fatti, dall’altro rischiano di renderlo talvolta retorico ed eccessivamente dipendente dalla vulgata del Partito Comunista. Ma, queste ultime, sono osservazioni realmente marginali e vengono qui inserite proprio nella speranza che un editore attento come Red Star Press in futuro abbia più coraggio nel liberare la memoria di classe dai vincoli della riconoscibilità accademica o partitica.

Per Primo Levi e i partigiani ebrei caduti nella lotta di Liberazione
Nelle ultime pagine del testo, nella Postfazione, alcuni compagni e compagne del CSOA Gabrio ricordano le parole di Primo Levi quando sottolineava come la partecipazione alla lotta di Liberazione derivasse anche da “Un muto bisogno di decenza”. Ecco, a questo bisogno di decenza vorrei richiamare tutti coloro che, da Paolo Mieli al PD passando per quasi tutti i media nazionali e l’Associazione Amici di Isrele, in occasione del 25 aprile hanno sentito il bisogno di sbandierare per l’ennesima volta l’apporto della Brigata Ebraica alla lotta di liberazione italiana.
Dimenticano, i signori, alcune fondamentali verità che cercherò qui di riassumere brevemente.

Nell’anteporre, infatti, la “memoria” della Brigata Ebraica alle altre vicende della Resistenza italiana non solo si compie un’opera mistificatoria, superata per volontà di rimozione storica e superficialità soltanto dai militanti del PD sfilati con le bandiere e le magliette azzurre dell’Unione Europea in occasione del 25 aprile, ma si offende anche la memoria dei numerosissimi (circa 2000) ebrei “che parteciparono attivamente alla Resistenza (1000 inquadrati come partigiani e 1000 in veste di “patrioti”), con la massima concentrazione (circa 700) in Piemonte. La percentuale, pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana, è di gran lunga superiore a quella degli italiani nel loro complesso. Circa 100 ebrei caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella penisola o in deportazione; otto furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria (Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Eugenio Calò, Mario Jacchia, Rita Rosani, Sergio Forti, Ildebrando Vivanti, Sergio Kasman). Tra gli esponenti ebrei di maggior rilievo della Resistenza si annoverano: Enzo Sereni, Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini, Leo Valiani, Pino Levi Cavaglione, Liana Millu e Elio Toaff. Fra i caduti, vanno ricordati il bolognese Franco Cesana, il più giovane partigiano d’Italia, i torinesi Emanuele Artom e Ferruccio Valobra, i triestini Eugenio Curiel e Rita Rosani, il milanese Eugenio Colorni, il toscano Eugenio Calò, gli emiliani Mario Finzi e Mario Jacchia, e l’intellettuale Leone Ginzburg.8

Tutti parteciparono alla Resistenza oppure caddero combattendo nelle diverse formazioni partigiane, dalle Brigate Garibaldi a Giustizia e Libertà, escluse forse le formazioni cattoliche.
Anteporre ancora a questo semplice fatto l’”importanza” della Brigata Ebraica (costituita in Palestina il 20 settembre 1944 sotto il comando britannico e inviata a combattere sul fronte italiano e austriaco dopo lo sbarco degli Alleati) dimentica che questa operò sotto il comando di uno degli schieramenti imperialisti in campo e senza alcuna autonomia operativa o di scelta politica (a meno che non si parli di scelta politica a proposito dell’idea sionista, già esposta dal fondatore del movimento Theodor Herzl, di voler rappresentare la diga a difesa dei “valori” occidentali in Medio Oriente)

La Brigata venne inviata nel novembre 1944 sul fronte italiano. Sbarcata a Taranto, entrò in linea dal 3 marzo 1945 […] La Brigata combatté con le proprie insegne a fianco di unità italiane e polacche. Prese parte ai combattimenti di Alfonsine (19 e 20 marzo 1945), poi venne trasferita più a sud di fronte a Cuffiano (sulle prime pendici dell’Appennino). Il 27 marzo combatté al fianco del Gruppo di Combattimento “Friuli” contro la IV Divisione Paracadutisti del Reich. Il 9 e 10 aprile 1945 partecipò alla Battaglia dei tre fiumi assieme alle forze alleate, con le quali fu protagonista dello sfondamento della Linea Gotica. Nel corso del ciclo operativo in Italia tra il 3 marzo ed il 25 aprile 1945 la Brigata Ebraica ebbe 30 morti e 70 feriti 9

Il peso del suo contributo fu pari, ma inferiore per numero di caduti e feriti, a quello di tutti gli altri contingenti militari presenti sul suolo italiano in chiave anti-tedesca durante la cosiddetta campagna d’Italia ovvero senegalesi, marocchini, francesi, polacchi, inglesi, americani e via dicendo e non è possibile oggi elevarla al di sopra né degli altri militari caduti né ancor meno al di sopra degli ebrei e dei partigiani caduti nel corso della Resistenza armata al fascismo e all’imperialismo tedesco. Tutti anti-fascisti, comunisti, socialisti e azionisti ancor prima che ebrei.

Guidetti Serra Levi Cortina40 Lo spirito che animò quei combattenti lo riassunse bene Primo Levi10 nella sua Prefazione del 1972 a “Se questo è un uomo”, dedicata ai giovani: “E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono quasi in ogni paese, carceri. Istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in alcuni altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo”.

Spirito che appartiene a Silvio Borione sicuramente, ma non a coloro che della Brigata Ebraica, del sionismo imperialista e della vergognosa occupazione dei territori palestinesi hanno fatto la loro bandiera.


  1. E’ infatti difficile, se non impossibile, trovare nelle recente letteratura italiana la rigorosità e la fedeltà nella ricostruzione sia degli eventi storico-politici e delle lotte che della mentalità di classe che li ha accompagnati espresse da Valerio Evangelisti nella sua trilogia Il sole dell’avvenire oppure da Wu Ming 1 nel suo Un viaggio che non promettiamo breve  

  2. Dal quale mi aspetto ancora, come ebbe a promettermi durante la manifestazione Una montagna di libri contro il TAV tenutasi a Bussoleno nel 2014, una narrazione adeguata delle vicende torinesi di quell’anno e del rapporto istituitosi a Torino tra i giovani delle periferie, che avevano animato sia le proteste locali dei forconi che l’assedio dei mercati generali in occasione dello sciopero dei facchini, e i centri sociali  

  3. pag. 20  

  4. pp. 73-74  

  5. Come ben ricordato in Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, prefazione di Anna Bravo, Bollati Boringhieri 2016  

  6. Ripresi insieme nel 1939 nella fotografia qui pubblicata 

  7. Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016  

  8. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Resistenza_ebraica  

  9. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Brigata_Ebraica  

  10. Nella fotografia qui accanto sono visibili Bianca Guidetti Serra, a sinistra, e Primo Levi, al centro, nel 1940  

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