Risultati della ricerca per “ferruccio mazzola” – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Jul 2025 22:01:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il martirologio del santo Marco Pantani https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/martirologio-santo-marco-pantani-sistema-doping/ Wed, 03 Sep 2014 21:55:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16678 martirio_san_marcodi Girolamo De Michele

Marco Pantani vittima e martire

L’estate, si sa, è stagione di gialli in cronaca. Ma è più di un anno che non viene trovato un cadavere nascosto nell’armadio, il delitto di Lodi è già stato risolto prima ancora di decidere se era delitto “del trolley” o “del cassonetto”, e l’evasione di Filippo De Cristofaro non fa audience: chi mai se lo ricorda più, il “giallo del catamarano”? E poi seguire le tracce dello skipper re delle cronache estive del 1988 in Grecia e oltre richiederebbe soldi e un bravo [...]]]> martirio_san_marcodi Girolamo De Michele

Marco Pantani vittima e martire

L’estate, si sa, è stagione di gialli in cronaca. Ma è più di un anno che non viene trovato un cadavere nascosto nell’armadio, il delitto di Lodi è già stato risolto prima ancora di decidere se era delitto “del trolley” o “del cassonetto”, e l’evasione di Filippo De Cristofaro non fa audience: chi mai se lo ricorda più, il “giallo del catamarano”? E poi seguire le tracce dello skipper re delle cronache estive del 1988 in Grecia e oltre richiederebbe soldi e un bravo segugio di cronaca, insomma giornalismo vero: molto meglio, allora, estrarre dai cassetti l’icona-Pantani, che si vende da sola e a sua volta incrementa il fiorente merchandising di libri che vendono più delle trilogie soft-porno, bandane, magliette, gite sui luoghi del Pantadattilo, santini e ampolle votive con la goccia di sudore del Pirata – produzione, circolazione e valorizzazione di patacca a mezzo patacca, insomma. Che già nel 2005 aveva raggiunto il milione di euro.

Intendiamoci: materia per avere più di un dubbio, in via ipotetica, ce n’è – ma sono dubbi sollevati da tempo1, ai quali nulla aggiungono le perizie di parte per conto della famiglia. E, al momento, l’apertura di un fascicolo da parte della Procura è un atto dovuto, non la conseguenza di nuovi elementi.
Fermo restando che l’eventuale morte per omicidio di Pantani è maturata nell’ambiente della coca, all’interno di un traffico di stupefacenti del quale Pantani era non solo consumatore, ma – stante le quantità di polvere bianca acquistate in decine di grammi per volta – probabile pusher in proprio per autofinanziamento dei suoi consumi; e che tale morte, lungi dal “ripulire” l’immagine dell’ex campione, rischia di intorbidarla ancor di più: come in altri analoghi casi di passate celebrità cadute nel giro della droga e poi morte in modo oscuro, la spiegazione più probabile è che si sia voluta “dare una lezione” – affinché altri intendano – al consumatore che non è stato in grado di gestire il proprio piccolo spaccio (forse perché ha consumato più del dovuto, forse perché è stato a sua volta gabbato) e ha tirato una sòla alla mala locale. È solo un’ipotesi: ben più credibile, però, del “l’hanno ucciso perché aveva scoperto qualcosa” – e cosa, di grazia? Che le fiale made in Ferrara che assumeva non erano integratori vitaminici? Che Armstrong era dopato? Che c’è del marcio nel ciclismo?

Accade però che in questo spudorato martirologio, al quale indulge anche qualche “Grande Firma”, la morte di Pantani diventi il punto di partenza di una sequenza che, calpestando ogni barlume di relazione causale, fa retroagire il “complotto” del 2004 sul “complotto” del 1999: se Pantani è vittima di un complotto (nel 2004), è evidente che c’era complotto anche nel 1999; se c’era complotto, era vittima, quindi innocente, dunque nel 1999 non era dopato. Un delirio logico nella struttura, ma con un chiarissimo scopo: stendere una coperta pietistica e retorica sulla presenza del doping nel mondo del ciclismo – oltre che nelle vene del “povero” Pantani. Che – spiace dirlo, ma così è – «quei risultati e quei clamorosi exploit li ha raggiunti imbrogliando. È il termine giusto. Non è che la morte, per tragica che sia, possa cambiare questa realtà. E poco importa se anche altri imbrogliavano. Resta il fatto che non avrebbe dovuto imbrogliare» (Eugenio Capodacqua, Pantani, le lacrime e l’ipocrisia).

La parola doping esiste2

“Perché l’ematocrito di Pantani in quella provetta era del 52% (il limite massimo, al tempo, era 51%) ma sia la sera prima in hotel sia poche ore dopo a Imola era ampiamente sotto il 50%?” ( Andrea Scanzi, giornalista)

Cominciamo col dire che la favola del Pantani vittima di un controllo truccato non regge davanti ai fatti – quell’ematocrito oltre la norma fu verificato otto volte3. Ma soprattutto, non regge davanti alla storia di Pantani: che era dopato – come attesta il valore del suo ematocrito – già nel 1994 (prima vittoria di tappa al Giro d’Italia), e poi nel 1995 (incidente alla Milano-Torino). E lo sarebbe stato ancora al Giro del 2001 (iniezione di insulina). E lo attesta, ancora, il famigerato file “dblab” [consultabile qui] del Centro studi dell’Università di Ferrara – cioè di Francesco Conconi e dei suoi collaboratori Ilario Casoni, Giovanni Grassi e Michele Ferrari, tutti riconosciuti colpevoli di pratiche dopanti – che attesta una differenza tra ematocrito minimo (40.7) e massimo (57.4) del 41%: una differenza che non ha alcuna spiegazione “naturale”.

Ma cos’è questo ematocrito? E perché il valore-soglia è proprio quello (a seconda del variare della legislazione sportiva) di 50-51?
L’ematocrito indica la percentuale corpuscolare del sangue; se più alto delle normali variazione dell’organismo, è uno dei segnali della presenza di EPO (eritropoietina), un farmaco che in soggetti sani favorisce l’aumento dell’ossigenazione dei tessuti, e quindi di migliorarne le prestazioni atletiche, e aumenta la viscosità del sangue.
Il valore-soglia ha un senso preciso: il sangue nel quale quel valore viene superato, in assenza di sforzo, comincia ad addensarsi come melassa (ecco perché l’ematocrito è più alto di notte, mentre al termine di una tappa, cioè subito dopo uno sforzo prolungato, è più basso). Cosa fa4 il ciclista quando l’ematocrito supera quel valore e si avvicina alla soglia critica della viscosità? Se non vuole finire in coma, corrono voci che5 balzi sulla cyclette e comincia a pedalare per rifluidificare il sangue. E se dorme, di notte? Corrono voci che la sveglia collegata al frequenzimetro collegato al ciclista dormiente suoni quando le frequenze cardiache segnalano il superamento della famigerata soglia.
Oppure: balza sulla cyclette perché sa che ci sarà un controllo antidoping. Se ne è preventivamente informato.
In questo mondo di sostanze illegali, di controlli a sorpresa che spesso non sorprendono alcuno, di illegalità diffusa, stupisce che metta piede anche il racket delle scommesse clandestine – che magari poteva avere interesse a far perdere il Giro al vincitore annunciato? Ma questo racket non è un fattore esterno o perturbante: è interno al sistema, fa parte di questo mondo, così come ne fa parte il ricco mercato delle sponsorizzazioni di cui Pantani godeva grazie ai suoi exploit dopati.
Un mondo del quale Pantani aveva accettato le regole, e che ha legittimato col suo comportamento e le sue omertà, prima e dopo Madonna di Campiglio. E con lui colleghi, tecnici, familiari, giornalisti, che del sistema-doping sono non solo persone informate dei fatti, ma parte integrante6.

Dal doping alla coca (e ritorno)

“A questo punto non ha molta importanza se Pantani si sia drogato sportivamente, per vincere, e che poi sia scivolato nell’altra droga, quella delle notti bianche e dello sballo” ( Gianni Mura, giornalista sportivo)

s_MarcoLeggenda vuole che, rabbuiato e depresso per l’esclusione da un Giro d’Italia che sembrava aver già vinto (e messo nell’impossibilità di rivincere il Tour de France), Pantani sia caduto nelle braccia della cocaina. Come il doping viene raccontato attraverso una serie di episodi isolati, così anche i rapporti tra doping e coca vengono letti attraverso la filigrana dell’occasionalità. Come se Pantani fosse l’unico caso di ciclista che diventa assuntore di coca, e non uno dei tanti di una lunga lista – Gilberto Simoni, Graziano Gasparre, Valentino Fois, Mattia Gavazzi, Tom Boonen, Tom Vanoppen, fino alla cilena Irene Aravena, solo per citarne alcuni. Viene in mente il sorriso ironico di Maradona quando dichiarava che «in Italia solo Maradona e Caniggia hanno preso coca: tutti gli altri, neanche un’aspirina».
Del resto, della presenza della cocaina nel mondo del ciclismo professionistico (quantomeno francese) aveva già parlato Willy Voet nel suo Massacro alla catena, mentre Erwann Mentheour parla di “belgian pot”, un mischione di droghe (tra cui cocaina ed eccitanti) d’uso comune tra i ciclisti belgi, che provoca farmacodipendenza (di cui soffriva lo stesso Mentheour). Infine Pierino Gavazzi, il grande sprinter del passato padre di Mattia – un giovane talento bruciato proprio dalla coca – conferma: «La cocaina è un problema diffuso nel ciclismo molto di più di quanto non si creda [ qui]».
Perché un ciclista assume cocaina? Lo spiega in prima battuta Graziano Gasparre:

Nel ciclismo la droga è più diffusa di quanto si pensi: ho cominciato su consiglio di un compagno di allenamenti che pure lo faceva, poi è diventato un vizio che mi ha accompagnato negli anni. E non solo per il gusto dello “sballo”, ma sempre a fini professionali: tiravo per dimagrire, specie in inverno quando è facile mettere su qualche chilo di troppo; mi impasticcavo per fare super allenamenti di molte ore. Chi si dopa è in qualche maniera “predisposto” a fare uso di stupefacenti. E pure questa diventa una dipendenza: il vizio della cocaina mi ha accompagnato negli anni, anche dopo il 2005.

Ma non basta. Il mondo del ciclismo è un mondo di sospetti, paranoia, paura di essere scoperti, sospetto che il tuo rivale abbia sostanze più potenti delle tue. È un mondo intriso di passioni tristi, come spiega Hamilton nel suo La corsa segreta:

Il ciclismo segue il più darwiniano dei modelli. Le squadre sono sponsorizzate da grandi aziende e competono in grandi corse. Ma non c’è alcuna sicurezza: gli sponsor possono lasciare; gli organizzatori possono rifiutare alle squadre la partecipazione. Il risultato è una catena di nervosismo continuo. Gli sponsor sono nervosi perché hanno bisogno dei risultati. I direttori sportivi sono nervosi perché hanno bisogno dei risultati. I corridori sono nervosi perché hanno bisogno dei risultati per rinnovare i contratti.

Alessandro Donati, ex allenatore di atletica estromesso dall’ambiente per le sue denunce del sistema-doping7, attuale consulente dell’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA), fornisce un’impressionante documentazione scientifica a sostegno della tesi che le sostanze dopanti «producono conclamati effetti di dipendenza e, oltre a questi, inducono il soggetto a fare uso di altre sostanze e farmaci (per l’appunto anche le amfetamine, gli stimolanti, la cocaina…), per scopi complementari o per scopi compensatori»8
Il sistema-doping costruisce personalità fragili, e su questa fragilità si fonda, come ci ricorda Carlo Vittori, allenatore di Pietro Mennea – una coppia che è stata capace di vincere senza doping: «Invece di lavorare alla costruzione di un atleta si è lavorato sulla frustrazione personale di chi non ce la faceva, di chi si è attaccato a qualsiasi brandello di pseudoscientificità pur di arrivare primo. E così hanno costruito dei campioni di debolezza».
Insomma, la cocaina non è una droga da notti sballate, ma parte integrante del sistema doping. Ne diventa addirittura il complemento invernale. E il pensiero non può non correre a certi ciclisti dal fisico al limite dell’anoressia, con la componente grassa dell’organismo limata fino all’estremo per alleggerire il peso corporeo.

Un altro elemento. Le sostanze dopanti (EPO, testosterone, steroidi, Thg) non arrivano nelle vene degli atleti scendendo giù con la piena: la loro produzione e distribuzione avvengono all’interno di un’economia “formalmente” illegale, proprio come con le droghe. Ancora Sandro Donati ci informa che per la maggior parte dei trafficanti di sostanze illecite non c’è alcuna differenza tra droghe e doping: «Lo dimostra il fatto che nei sequestri di sostanze illecite operati dalle forze di polizia si ritrovano nelle mani dei trafficanti sia sostanze e farmaci ad effetto stupefacente, sia sostanze e farmaci ad effetto doping. Se si prescinde dal vincolo dei luoghi di produzione dell’oppio e del papavero, alcune importanti rotte della droga controllate dalla grande criminalità internazionale sono in gran parte sovrapponibili a quelle del doping. In sintesi, per i trafficanti non c’è differenza ma, soprattutto, per gli assuntori spesso si rileva l’utilizzo contemporaneo o in fasi successive dell’una e dell’altra categoria di sostanze e farmaci»9. Il che vuol dire che il piano dell’industria farmaceutica “legale” (ad esempio la BALCO) e quello della produzione e distribuzione illegale finiscono col collassare l’uno sull’altro: proprio come accade, nel campo dell’economia finanziaria, con i piani del capitale “legale” e del capitale “illegale”.
Per essere chiari: non si tratta di accogliere le iperfetazioni di Roberto Saviano sulla coca che non ruoterebbe più intorno al denaro, perché sarebbe il denaro ad essere entrato nell’orbita della coca, risucchiato dal suo campo gravitazionale. La cocaina non è la sostanza, ma una manifestazione – un segno – del capitalismo finanziario: «l’economia criminale va assumendo le medesime caratteristiche di ogni altro segmento, si è finanziarizzata, aggredisce il comune per estrarre profitto, si avvale del mercato globale e della comunicazione, si caratterizza per il prevalere del capitalismo cognitivo. E proprio per questo non è separabile dal meccanismo capitalistico nel suo complesso»10.
Del quale meccanismo capitalistico è parte integrante rendere – meglio: costruire – l’essere umano (come) precario e indebitato.

Il sistema-doping

“Eppure il messaggio che è passato ai ragazzi è positivo. Qualche giorno fa in un incontro con i giovani mi ha avvicinato un piccoletto di 14 anni e mi ha detto: ‘Se mi alzo sui pedali e getto via la bandana vado forte come Pantani?” ( Davide Cassani, CT della nazionale di ciclismo, ex compagno di squadra di Pantani)

Il sistema-doping è strutturato a cerchi concentrici.
Nel circolo più interno, c’è l’atleta che viene indotto a doparsi e messo in condizione potenziale di diventare assuntore di cocaina.
Attorno, il circolo di coloro che cooperano al sistema con pensieri, opere e omissioni. Tra questi, un ruolo di rilievo giocano i giornalisti sportivi, ai quali è chiesto di dire il meno possibile, di fingere di ignorare le pubblicazioni scomode e/o inopportune, o se non può di seppellirle sotto l’insinuazione della mitomania11.
C’è poi il circolo dei giovani atleti che vengono indotti ad usare supporti chimici già alle prime armi, contribuendo all’idea che risultati un tempo ottenibili solo con la dura fatica dell’allenamento possano essere conseguiti con la scorciatoia del doping: un po’ come in Matrix, dove Neo diventa campione di arti marziali non mediante anni di pratica, ma col semplice caricamento di un programma attraverso la porta Usb collegata al cervello. Non c’è bisogno di arrivare agli integratori “illegali”: la creatina, che nel 1982 rafforzò le gambe della nazionale di calcio nella seconda fase dei mondiali di Spagna, vent’anni dopo le imprese di Paolo Rossi e Marco Tardelli viene assunta persino nelle squadre giovanili. È un farmaco ammesso (in Italia: altrove, no)12, e nel caso di minorenni ci vuole il “consenso informato” dei genitori: ma chi informa i giovani praticanti, e i loro “informati” genitori, di cosa significa davvero assumere creatina a quell’età? Di cosa significa assumerne dosi di 10-20 volte superiori alla quantità che se ne dovrebbe assumere? E soprattutto: quale cultura dello sport viene assunta assieme all’integratore farmaceutico? Quale messaggio passa dalla constatazione che chi non si presta all’assunzione di “integratori” è estromesso dall’attività sportiva, a volte di fatto, perché superato nelle prestazioni da altri meno dotati e meno predisposti all’allenamento, a volte di diritto, perché il sistema-doping non può accettare che qualcuno ottenga risultati in modo “pulito” (e che nessuna Grande Firma andrà mai a intervistare)?
Ancora con le parole di Carlo Vittori: «L’istituzione dello sport firmò questo terribile arretramento culturale, morale, etico. I guasti li abbiamo sotto gli occhi. Intere generazioni sono state rovinate. Perché il dramma è che oggi i giovani sanno solo imbrogliare, scelgono la strada breve, soldi e successo. È triste dirlo, ma oggi i giovani stanno con Pantani».

Di cosa è segno l’icona-Pantani?

“Pantani entra nel mito proprio perché il mito è fatto di storie che si rincorrono, alcune delle quali opposte fra loro e incompatibili con le altre. Ma nessuna storia del mito può essere amputata perché anche noi, senza saperlo, facciamo parte di una quelle storie che faticosamente stiamo raccontando” ( Aldo Grasso, giornalista e critico televisivo)

san_marcoBasta? No, c’è un circolo ancora più ampio, che motiva gli allarmanti dati sulla diffusione di sostanze dopanti tra la popolazione. È quello dell’amatore della domenica, che prende l’EPO per fare la pedalata con gli amici.
Quella che un tempo sarebbe stata una scampagnata domenicale, in bici ma con la pancetta, magari fino alla trattoria dove rinfrancarsi con un piatto di tagliatelle o una parmigiana e una buona bottiglia di vino, oggi è una vera e propria gara, con tempi da monitorare, bici e abbigliamento firmati: con la maglia, la bandana, il santino e l’EPO nel sangue del Pirata. Così come alla corsetta tonificante – il buon vecchio footing – si sostituisce la corsa monitorata dal contapassi, con le frequenze scandite da un programma ascoltato con l’auricolare che isola dal contesto urbano e aumenta l’individualizzazione del corridore, e l’imprescindibile merchandising di scarpe, maglietta, bottiglietta di bevanda energetica, e via dicendo.
Quella che era a tutti gli effetti una “vacanza”, una sottrazione della vita dal tempo del lavoro dove tutto è misurato e controllato per essere tradotto in valore di scambio (dal valore prodotto al salario retribuito), una sospensione della vita quotidiana nel tempo della festa, diventa anch’esso tempo misurato, scomposto in unità discrete e numerabili, competizione, classifica dei primi e degli ultimi.
Foucault e Deleuze l’hanno chiamata “società del controllo”: una società nella quale il tempo di vita non è esterno, ma coincidente col tempo di lavoro – nella quale siamo al lavoro 24/7; e dove il controllore non è il bieco figuro alle nostre spalle col cronometro in mano, ma è dentro di noi.

Come ci ricorda Cristina Morini in un libro importante, questi anni sono quelli «del successo editoriale dei manuali che insegnano a prendersi cura del corpo e a sopravvivere allo stress. […] La vita è diventata il centro degli interessi del potere. Il corpo – controllato, monitorato, palestrato, in salute e immortale per legge, rispondente ai dettami dell’estetica dominante – diventa parte integrante dei meccanismi produttivi. Esattamente come, dall’altro lato, la conoscenza, i sentimenti, l’esperienza accumulata dalla vita extra lavorativa diventano sempre più chiaramente capaci di produrre valore aggiunto»13. Morini chiama a sostegno della propria lettura del corpo precarizzato e messo a valore le analisi dell’economista Christian Marazzi, in particolare quelle in cui il «modello antropogenetico emergente» viene definito come un modello di “produzione dell’uomo attraverso l’uomo”: «Un modello in cui i fattori di crescita sono di fatto imputabili direttamente all’attività umana», e nel quale è «la capacità di innovazione, di “produzione di forme di vita”, e quindi di creazione di valore aggiunto, che definisce la natura dell’attività umana»14.
Il lato oscuro di questo modello è la creazione di un corpo-macchina che viene in prima battuta precarizzato, cioè reso al tempo stesso precario nelle condizioni di lavoro e di esistenza, e autopercepito come precario perché in posizione incerta rispetto alle gerarchie di una vita strutturata come un Grande Fratello nel quale in ogni momento puoi essere “nominato”, e in relazione instabile con i modelli emergenti – in primo luogo, “l’imperativo della magrezza”:

«Una tirannia instaurata praticamente grazie a una serie di tecniche di trasformazione del corpo, organizzate secondo una logica di mercato e promosse, anche qui, dalla cultura del consumo: dieta, esercizio fisico, prodotti cosmetici e farmaceutici, liposuzioni. Il nemico da combattere, più ancora del “grasso”, è la “flaccidità”. Nelle rappresentazioni e nelle percezioni del corpo magro, oggetto di culto contemporaneo, l’elemento chiave non è semplicemente il peso. Le pubblicità insistono soprattutto sulla necessità di migliorare la “silhouette”. Il profilo del corpo deve essere “asciutto”, non si ammettono “cedimenti”. Ricorrono, martellanti, termini come “tonico”, “levigato”, sodo”. Viene bandita ogni eccessiva “morbidezza” che fuoriesca dai “contorni”, il corpo-macchina deve liberarsene se vuole avere possibilità sociali e personali. Ignoti e potenzialmente infiniti spazi di mercato si aprono per consentire ai corpi-macchina di mantenere tali promesse»15.

Avere un corpo compatibile con gli standard di tonicità e levigatezza, capace di prestazioni aerobiche scandite da un preciso monitoraggio, fasciato da logo riconoscibili, appare la condizione necessaria per aspirare all’inserimento nel mercato del lavoro e nelle relazioni sociali.
Al tempo stesso, questa condizione fa da (illusorio) volano, in forma di rassicurazione16 alla precarizzazione come condizione ineludibile, verso la quale bisogna mostrare acritica disponibilità – ti diamo un lavoro, che altro vuoi?
Infine, questa condizione viene assunta all’interno dei mercati come offerta di merce cui il soggetto precario deve conformare le proprie aspettative estetiche, sia come strumento di inclusione del soggetto all’interno delle forme contemporanee di lavoro e produzione di valore: «Il biocapitalismo non trasforma una materia inerte, esterna al lavoratore salariato – che partecipa dal di fuori al processo –, ma la sua stessa vita, con effetti sulla percezione e sull’immaginazione del soggetto»17.

L’icona-Pantani, dai bordi della quale irradia una luce che acceca e impedisce la visione complessiva della foresta attorno all’albero votivo del Pantadattilo, fa segno a tutto questo. Non basta prenderne atto: è doveroso e necessario decostruire non solo il mito-Pantani, ma la macchina mitopoietica di cui la santificazione e il martirologio di Pantani18 sono un prodotto. Doveroso, per non essere inglobati da questa narrazione tossica. Necessario, per chi non vuole legittimare lo stato di cose esistente, e vorrebbe invece rovesciarlo.


  1. Ad esempio dal giornalista de L’Équipe Philippe Brunel, Gli ultimi giorni di Marco Pantani (2007), Rizzoli, 2011: che però indulge volentieri nel collegare, in nome di un non ben precisato “complotto”, la morte di Pantani con il controllo antidoping di Madonna di Campiglio. 

  2. Si rammenterà la nota dichiarazione del presidente del CONI Mario Pescante (24/08/2008): «Nel calcio il doping non esiste: il problema è di altro tipo e riguarda alcuni sport che non intendo citare. Una cosa è il doping, l’altra è l’impiego di sostanze sconosciute o di farmaci che possono essere somministrati in condizioni tali da costituire un abuso». 

  3. Una buona confutazione delle principali bufale sul controllo di Madonna di Campiglio: Pantani, dopo quella morte speculazione infinita, sul blog “A ruota libera” di Eugenio Capodacqua. 

  4. In realtà faceva: l’EPO è ormai vintage rispetto ad altri prodotti della chimica farmaceutica quali il Thg, il CERA (Continuous Erythropoietin Receptor Activator: la cosiddetta EPO di terza generazione) e la cosiddetta super-EPO, o NESP (Novel Erithropoiesis Stimulating Protein, o Aranesp). 

  5. «Vorrei però ricordare sommessamente che noi [giornalisti] non facciamo analisi chimiche, né al sangue né alle urine. Non siamo neanche in grado di fare intercettazioni. Se un giornalista ha dei sospetti, il massimo che può scrivere è che “corrono voci”»: Gianni Mura, qui. È però vero che le voci, dacché corrono, tocca non solo ascoltarle, ma anche inseguirle – ma questa è un’altra storia… 

  6. Sul sistema-doping si leggano i libri di Willy Voet (ex ciclista della Festina, squadra esclusa dal Tour per doping nel 1998) Massacro alla catena (1999), Bradipolibri, 2001; Erwann Menthéour (ex ciclista professionista), Il mio doping, Baldini Castoldi Dalai, 1999; Tyler Hamilton (ex compagno di squadra di Lance Armstrong) e Daniel Coyle La corsa segreta. La verità dietro i successi: il ciclismo tra doping, connivenze e coperture (2012), Limina 2013 (su cui vedi la recensione di Eugenio Capodacqua). 

  7. In particolare Alessandro Donati, Campioni senza valore, Ponte alle Grazie, 1989; questo libro è scomparso dalle librerie, e lo si può leggere solo cercandone una copia in .pdf in rete (ad esempio qui). 

  8. Alessandro Donati, I traffici mondiali delle sostanze dopanti, Libera, qui, p. 8. 

  9. Alessandro Donati, I traffici mondiali delle sostanze dopanti, cit., p. 9. 

  10. Gianni Giovannelli, Triplo zero o triplo work?

  11. hh-cartelli-in-spogliatoioUn esempio: «la credibilità di Ferruccio Mazzola è al livello di quella di Carlo Petrini», mi disse con un filo di disprezzo una Grande Firma dello sport qualche anno fa, prendendo due piccioni con una fava. Se non che nell’agosto 2013 il fratello di Ferruccio, Sandro Mazzola con incredibile candore ( qui, al minuto 5:30), dopo aver negato per anni che nell’Inter di Herrera si facesse uso di sostanze dopanti (che Ferruccio collega alla prematura morte di 7 giocatori), ha dichiarato che nella sua carriera gli sono state passate pillole, le ha anche descritte (capsule di simpamina), dichiarando che però lui le sputava: avendo giocato in una sola squadra, ha di fatto ammesso quello che negò quando fu chiamato a testimoniare in tribunale contro il fratello Ferruccio, e cioè che nell’Inter di Herrera si distribuivano sostanze dopanti prima degli incontri. Nessuno di quelli che avevano dato del mitomane invidioso a Ferruccio pare aver sentito il dovere di scusarsi – ma che te lo dico a fare? 

  12. Sull’uso della creatina e di farmaci dopanti nel calcio è fondamentale il libro di Giuseppe D’Onofrio (autore della perizia sulle analisi del sangue dei calciatori della Juventus al processo intentato dal procuratore Guariniello per doping e frode sportiva) Buon sangue non mente. Il processo alla Juventus raccontato dal “grande nemico”, minimum fax, Roma 2006. 

  13. Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010 (in particolare il capitolo III: “Il nostro corpo, un lavoratore precario”), p. 77. 

  14. Christian Marazzi, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, ombre corte, Verona 2010, pp. 203-205. 

  15. Cristina Morini, Per amore o per forza, cit., p. 85. 

  16. Una forma di perversa metábasis esistenziale, si potrebbe dire: il precario dottor Jekyll, e il signor Hyde blasé

  17. Cristina Morini, Per amore o per forza, cit., p. 86. 

  18. Come pure la sua estetizzazione: vedi, ad esempio, lo spettacolo Pantani (2012) del Teatro delle Albe, nella cui brochure informativa si legge che a condurre Pantani «a un lento ma inevitabile crollo psicologico fino a una morte forse tragicamente annunciata» sono state «le accuse di doping a Madonna di Campiglio, rivelatesi poi infondate» (sic). 

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NERAZZURRO TENEBRA https://www.carmillaonline.com/2007/04/22/nerazzurro-tenebra/ Sun, 22 Apr 2007 17:59:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=2213 di Alessandro Gilioli Moratti-Tronchetti Provera.jpg

Questa intervista è stata pubblicata sull’Espresso col titolo Pasticca Nerazzurra. Alla sua pubblicazione Giacinto Facchetti era ancora in vita (g.d.m.)

Sono campioni che hanno fatto la storia del calcio italiano quelli che passeranno, uno dopo l’altro, in un’aula del tribunale di Roma a parlare di doping. Come Giacinto Facchetti, splendido terzino sinistro e oggi presidente dell’Inter; o come Sandro Mazzola, Mariolino Corso, Luis Suarez. E ancora: Tarcisio Burnich, Gianfranco Bedin, Angelo Domenghini, Aristide Guarneri. Tutti chiamati a testimoniare da un loro compagno di squadra di allora, Ferruccio Mazzola, fratello minore di Sandro, che [...]]]> di Alessandro Gilioli Moratti-Tronchetti Provera.jpg

Questa intervista è stata pubblicata sull’Espresso col titolo Pasticca Nerazzurra. Alla sua pubblicazione Giacinto Facchetti era ancora in vita (g.d.m.)

Sono campioni che hanno fatto la storia del calcio italiano quelli che passeranno, uno dopo l’altro, in un’aula del tribunale di Roma a parlare di doping. Come Giacinto Facchetti, splendido terzino sinistro e oggi presidente dell’Inter; o come Sandro Mazzola, Mariolino Corso, Luis Suarez. E ancora: Tarcisio Burnich, Gianfranco Bedin, Angelo Domenghini, Aristide Guarneri. Tutti chiamati a testimoniare da un loro compagno di squadra di allora, Ferruccio Mazzola, fratello minore di Sandro, che vuole sentire dalla loro voce – e sotto giuramento – la verità su quella Grande Inter che negli anni ’60 vinse in Italia e nel mondo. «Non l’ho cercato io, questo processo: mi ci hanno tirato dentro. Ma adesso deve venire fuori tutto», dice Ferruccio.

A che cosa si riferisce, Mazzola?

«Sono stato in quell’Inter anch’io, anche se ho giocato poco come titolare. Ho vissuto in prima persona le pratiche a cui erano sottoposti i calciatori. Ho visto l’allenatore, Helenio Herrera, che dava le pasticche da mettere sotto la lingua. Le sperimentava sulle riserve (io ero spesso tra quelle) e poi le dava anche ai titolari. Qualcuno le prendeva, qualcuno le sputava di nascosto. Fu mio fratello Sandro a dirmi: se non vuoi mandarla giù, vai in bagno e buttala via. Così facevano in molti. Poi però un giorno Herrera si accorse che le sputavamo, allora si mise a scioglierle nel caffè. Da quel giorno “il caffè” di Herrera divenne una prassi all’Inter».

Cosa c’era in quelle pasticche?

«Con certezza non lo so, ma credo fossero anfetamine. Una volta dopo quel caffè, era un Como-Inter del 1967, sono stato tre giorni e tre notti in uno stato di allucinazione totale, come un epilettico. Oggi tutti negano, incredibilmente. Perfino Sandro…».

Suo fratello?

«Sì. Sandro e io, da quando ho deciso di tirare fuori questa storia, non ci parliamo più. Lui dice che i panni sporchi si lavano in famiglia. Io invece credo che sia giusto dirle queste cose, anche per i miei compagni di allora che si sono ammalati e magari ci hanno lasciato la pelle. Tanti, troppi…».

A chi si riferisce?

«Il primo è stato Armando Picchi, il capitano di quella squadra, morto a 36 anni di tumore alla colonna vertebrale. Poi è stato il turno di Marcello Giusti, che giocava nelle riserve, ucciso da un cancro al cervello alla fine degli anni ’90. Carlo Tagnin, uno che le pasticche non le rifiutava mai perché non era un fuoriclasse e voleva allungarsi la carriera correndo come un ragazzino, è morto di osteosarcoma nel 2000. Mauro Bicicli se n’è andato nel 2001 per un tumore al fegato. Ferdinando Miniussi, il portiere di riserva, è morto nel 2002 per una cirrosi epatica evoluta da epatite C. Enea Masiero, all’Inter tra il ’55 e il ’64, sta facendo la chemioterapia. Pino Longoni, che è passato per le giovanili dell’Inter prima di andare alla Fiorentina, ha una vasculopatia ed è su una sedia a rotelle, senza speranze di guarigione…».
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A parte Picchi e forse Tagnin, gli altri sono nomi meno noti rispetto ai grandi campioni.

«Perché le riserve ne prendevano di più, di quelle pasticchette bianche. Gliel’ho detto, noi panchinari facevamo da cavie. Ne ho parlato per la prima volta qualche mese fa nella mia autobiografia [Il terzo incomodo], che ha portato al processo di Roma».

Perché?

«Perché dopo la pubblicazione di quel libro mi è arrivata la querela per diffamazione firmata da Facchetti, nella sua qualità di presidente dell’Inter. Vogliono andare davanti al giudice? Benissimo: il 19 novembre ci sarà la seconda udienza e chiederemo che tutti i giocatori della squadra di allora, intendo dire quelli che sono ancora vivi, vengano in tribunale a testimoniare. Voglio vedere se sotto giuramento avranno il coraggio di non dire la verità».

Ma lei di Facchetti non era amico?

«Sì, ma lasciamo perdere Facchetti, non voglio dire niente su di lui. Sarebbero cose troppo pesanti».

Pensa che dal dibattimento uscirà un’immagine diversa dell’Inter vincente di quegli anni?

«Non lo so, non mi interessa. Se avessi voluto davvero fare del male all’Inter, in quel libro avrei scritto anche tante altre cose. Avrei parlato delle partite truccate e degli arbitri comprati, specie nelle coppe. Invece ho lasciato perdere…».

Ma era solo nell’Inter che ci si dopava in quegli anni?
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«Certo che no. Io sono stato anche nella Fiorentina e nella Lazio, quindi posso parlare direttamente anche di quelle esperienze. A Firenze, il sabato mattina, passavano o il massaggiatore o il medico sociale e ci facevano fare delle flebo, le stesse di cui parlava Bruno Beatrice a sua moglie. Io ero in camera con Giancarlo De Sisti e le prendevamo insieme. Non che fossero obbligatorie, ma chi non le prendeva poi difficilmente giocava. Di quella squadra, ormai si sa, oltre a Bruno Beatrice sono morti Ugo Ferrante (arresto cardiaco nel 2003) e Nello Saltutti (carcinoma nel 2004). Altri hanno avuto malattie gravissime, come Mimmo Caso, Massimo Mattolini, lo stesso De Sisti…».

De Sisti smentisce di essersi dopato.

«”Picchio” in televisione dice una cosa, quando siamo fuori insieme a fumare una sigaretta ne dice un’altra…».

E alla Lazio?

«Lì ci davano il Villescon, un farmaco che non faceva sentire la fatica. Arrivava direttamente dalla farmacia. Roba che ti faceva andare come un treno».

Altre squadre?

«Quando Herrera passò alla Roma, portò gli stessi metodi che aveva usato all’Inter. Di che cosa pensa che sia morto il centravanti giallorosso Giuliano Taccola, a 26 anni, durante una trasferta a Cagliari, nel ’69?».

Ma secondo lei perché ancora adesso nessuno parlerebbe? Ormai sono – siete – tutti uomini di sessant’anni…

«Quelli che stanno ancora nel calcio non vogliono esporsi, hanno paura di rimanere tagliati fuori dal giro. Sono tutti legati a un sistema, non vogliono perdere i loro privilegi, andare in tv, e così via. Prenda mio fratello: è stato trattato malissimo dall’Inter, l’hanno cacciato via in una maniera orrenda e gli hanno perfino tolto la tessera onoraria per entrare a San Siro, ma lui ha lo stesso paura di inimicarsi i dirigenti nerazzurri e ne parla sempre benissimo in tv. Mariolino Corso, uno che pure ha avuto gravi problemi cardiaci proprio per quelle pasticchette, va in giro a dire che non mi conosce nemmeno. Anche Angelillo, che è stato malissimo al cuore, non vuole dire niente: sa, lui lavora ancora come osservatore per l’Inter. A parlare di quegli anni sono solo i parenti di chi se n’è andato, come Gabriella Beatrice o Alessio Saltutti, il figlio di Nello. È con loro che, grazie all’avvocato della signora Beatrice, Odo Lombardo, ora sta nascendo un’associazione di vittime del doping nel calcio».

Certo, se un grande campione come suo fratello fosse dalla vostra parte, la vostra battaglia avrebbe un testimonial straordinario…

«Per dirla chiaramente, Sandro non ha le palle per fare una cosa così».

E oggi secondo lei il doping c’è ancora?

«Sì, soprattutto nei campionati dilettanti, dove non esistono controlli: lì si bombano come bestie. Quello che più mi fa male però sono i ragazzini…».

I ragazzini?

«Ormai iniziano a dare pillole e beveroni a partire dai 14-15 anni. Io lavoro con la squadra della Borghesiana, a Roma, dove gioca anche mio figlio Michele, e dico sempre ai ragazzi di stare attenti anche al tè caldo, se non sanno cosa c’è dentro. Ho fatto anche una deposizione per il tribunale dei minori di Milano: stanno arrivando decine di denunce di padri e madri i cui figli prendono roba strana, magari corrono come dei matti in campo e poi si addormentano sul banco il giorno dopo, a scuola. Ecco, è per loro che io sto tirando fuori tutto».

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