Risultati della ricerca per “estetiche del potere” – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Super Mario Bros. come macchina ideologica della contemporaneità https://www.carmillaonline.com/2025/11/02/super-mario-bros-come-macchina-ideologica-della-contemporaneita/ Sun, 02 Nov 2025 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91021 di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, La filosofia di Super Mario Bros., Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 278, € 18,00

Nascosto dietro l’incubo del 1984 orwelliano è arrivato, senza che fosse percepito, quell’addomesticamento seducente huxleyano che, un poco alla volta, abbiamo imparato a conoscere. Volendo indicare un anno simbolo in cui “la fregatura” ha iniziato a insinuarsi tra noi, si può guardare al 1985. «Un salto. Un suono metallico. La prima moneta raccolta. Così comincia Super Mario Bros.: con un gesto elementare che diventa cultura. Non è solo un videogioco. È un congegno simbolico che nel 1985 prende possesso del televisore, come in Poltergeist. [...]]]> di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, La filosofia di Super Mario Bros., Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 278, € 18,00

Nascosto dietro l’incubo del 1984 orwelliano è arrivato, senza che fosse percepito, quell’addomesticamento seducente huxleyano che, un poco alla volta, abbiamo imparato a conoscere. Volendo indicare un anno simbolo in cui “la fregatura” ha iniziato a insinuarsi tra noi, si può guardare al 1985. «Un salto. Un suono metallico. La prima moneta raccolta. Così comincia Super Mario Bros.: con un gesto elementare che diventa cultura. Non è solo un videogioco. È un congegno simbolico che nel 1985 prende possesso del televisore, come in Poltergeist. Da quel momento la cultura scorre in orizzontale, come lo schermo: avanti, sempre avanti. Si cade, si ricomincia. Mario insegna una logica dell’azione che cambia riflessi, aspettative, desideri. Altro che passatempo: è un manuale operativo mascherato da intrattenimento» (p. 7). Così si apre il volume con cui Matteo Bittanti guarda al videogame della Nintendo ripercorrendo quattro decenni di mutazioni politiche, tecnologiche, estetiche e sociali.

Bittanti guarda a Super Mario Bros. indagandone le meccaniche (le regole e i comandi prestabiliti), le dinamiche (le strategie, le appropriazioni e gli usi collettivi) e le estetiche (gli aspetti emotivi, gli immaginari e le istituzionalizzazioni che ne derivano). «La meccanica del salto anticipa l’ideologia della performance. La dinamica della ripetizione racconta la precarietà del presente. L’estetica della nostalgia digitale ci mostra come guardiamo al passato per decifrare l’hic et nunc. Mario è un pretesto per comprendere il mondo che abitiamo: un linguaggio che trapassa media, contesti, istituzioni (p. 8).

L’autore evidenzia quanto della nostra contemporaneità è stato programmato (anche) da Super Mario Bros. a partire dalla sua uscita a metà degli anni Ottanta. «Super Mario Bros. non è semplicemente un videogioco. È un ordigno culturale, esploso in un anno cruciale – il 1985 – che segna una mutazione radicale nella forma della cultura, nella struttura dello sguardo, nella grammatica dell’azione» (p. 9). Dopo aver dimorato, alla sua nascita, negli spazi pubblici delle sale giochi, Mario si è trasferito nello spazio domestico dei gamer e da lì è iniziata la sua – e in qualche modo la nostra – nuova vita.

La filosofia Nintendo passa dalla disciplina punitiva della sala giochi a una pedagogia della scoperta, alternando difficoltà e ricompense, calibrando la frustrazione come leva per la meraviglia. […] Super Mario Bros. inocula una nuova logica dell’esperienza: non più rappresentare un mondo, ma programmarne la percorribilità. […] È l’avvento di un design che educa al vettore unico – produci, supera, procedi – e marginalizza i gesti di ritorno, manutenzione, ripensamento (pp. 9-10).

Bittanti guarda a Super Mario Bros. come a una macchina ideologica che introduce un modo di pensare basato sulla ripetizione rituale dell’ostacolo, sull’illusione della scelta, sulla performatività del fallimento. Lo studioso mette in relazione le meccaniche del gioco con gli eventi storici, culturali o mediali di metà anni Ottanta, quando si passa dalla rappresentazione spettacolare alla simulazione integrale, evidenziandone le risonanze strutturali. Nel suo presentarsi come sistema chiuso, sorvegliato e ottimizzato, in cui la fantasia è ridotta a puro codice, il videogame può essere visto come paradigma formale della contemporaneità.

Lo studioso mette in relazione il videogame della Nintendo con la percezione dell’invasione tecnologica giapponese vissuta dagli statunitensi a cui Hollywood darà immagine con Trappola di cristallo (Die Hard, 1988). È in tale contesto che, mentre gli adulti guardano con timore alla tecno-invasione giapponese, i più giovani si lasciano sedurre dal buffo e simpatico idraulico baffuto, dal nome italiano e dalla veste di lavoro blu e rossa progettato in Giappone e destinato a conquistare il mercato videoludico occidentale.

Il personaggio Mario è anonimo, privo di identità: un mero corpo operativo, uno strumento di movimento duttile che si limita ad agire: «è l’emblema del lavoratore postindustriale: sempre pronto, sorridente, flessibile, fungibile, fungino » (p. 20). Un proletario che salta e corre in silenzio: «ogni gesto è funzionale e automatico, privo di significato sociale o politico. Mario incarna così un’immagine della nuova working class, isolata e atomizzata, impegnata in un movimento continuo e ripetitivo, senza prospettiva di emancipazione collettiva o trasformazione sociale» (p. 86).

I videogiochi portatili che si diffondono negli anni Ottanta riscrivono l’esperienza videoludica trasformandola in una sequenza di gesti cronometrati. «Il videogioco entra così nella sfera dell’addestramento motorio, della ripetizione ritmica, del compito eseguibile» (p. 24) e funge da addestramento al pigiare convulso, ossessivo e ansiogeno degli smartphone. Dopo l’era della passività dello spettatore televisivo, l’universo dei videogame Nintendo proietta e attiva l’utente nel cyberspace.

Quando, a metà degli anni Ottanta, Super Mario Bros. viene messo sul mercato, il dibattito culturale è attraversato dalla figura del cyborg, di cui Mario rappresenta una versione depotenziata, disinnescata, tranquillizzante, compatibile e commerciabile. Lo stesso gamer, sostiene Bittanti, nonostante il suo entrare in simbiosi con il dispositivo tecnologico, resta un’ibridazione addomesticata all’interno di un sistema di regole rigidamente chiuso. Super Mario Bros. è permeato della medesima retorica procedurale dell’efficienza che si ritrova nel protagonista di Wall Street (1987) di Oliver Stone e che caratterizza il neoliberismo perseguito da Reagan giunto a inaugurare il suo secondo mandato in concomitanza con l’uscita del videogame della Nintendo.

Mario non protesta, non si organizza, non si sottrae. Corre, salta, raccoglie, ripete. È la personificazione ludica del soggetto neoliberista: sempre in movimento, disponibile 24/7, instancabile per necessità non per scelta. Il piacere dell’autosorveglianza, la gratificazione della prestazione, la trasparenza assoluta delle metriche. […] In Super Mario Bros. il tempo non accompagna l’azione: la incalza. Non è uno sfondo, ma un meccanismo di costrizione. Il timer in alto a destra non misura il gioco: lo governa. Ogni livello inizia con un conto alla rovescia che procede inesorabile. Non si guadagna tempo: lo si consuma. […] Si apprende per fallimento iterativo, ma senza catastrofe. La punizione non è l’espulsione dal gioco, ma il ritorno all’inizio. (pp. 39-40).

Super Mario Bros. riflette dunque la logica della prestazione neoliberista in cui l’errore viene percepito come carenza di ottimizzazione e codifica in forma ludica la logica Just-In-Time divenuta un dogma proprio negli anni Ottanta. «Il tempo, da risorsa, diventa pressione. […] Il tempo non è denaro: è debito da estinguere a ogni ciclo. La linea deve scorrere senza attrito. […] A differenza della fabbrica, però, qui la macchina sei tu: manodopera e algoritmo, in sincrono con un flusso progettato altrove. […] Non ci sono tempi morti. La morte è reset, non pausa. Il futuro non esiste: solo il frame successivo. Tempi postmoderni» (pp. 43-44).

Nel corso degli anni Ottanta Nintendo partecipa pienamente a quella corsa verso l’immateriale a cui si indirizza il capitalismo caratterizzata dalla prevalenza del marchio sulla produzione materiale e delle proprietà intellettuali sulla manodopera umana, insomma, come sintetizza efficacemente Bittanti, l’impresa si trasforma in piattaforma. «Super Mario Bros. è il sottoprodotto di un capitalismo che ha espulso la “zavorra” della forza lavoro. L’opera non coincide tanto con il gioco, quanto con la sua persistenza algoritmica: ogni livello è un asset pronto a essere ricombinato. Giocare significa accumulare capitale ludico. L’interazione è estrazione» (p. 45).

L’anno in cui nasce Super Mario Bros. è il medesimo in cui Microsoft introduce il sistema Windows provocando un vero e proprio cambio di paradigma: l’utente «non accede più a un mondo rappresentato, ma si muove in un contesto codificato, sezionato, operabile» (p. 47) in cui è tenuto a operare senza necessità di capire. Allo stesso modo Super Mario Bros. non presenta al gamer alternative ma protocolli: all’utente non è concesso di esplorare ma è tenuto ad attraversare, anziché creare deve limitarsi a eseguire, non deve imparare a programmare ma a obbedire operativamente. Insomma, si tratta di un apparato pedagogico che, scrive Bittanti, «forma soggettività compatibili con il sistema – docili, performanti, prevedibili» (p. 48) mantenendole nell’illusione di avere accesso a ogni cosa con immediatezza e semplicità.

Con gli anni Ottanta compare anche il mito della flessibilità a cui è tenuto l’essere umano a partire dall’ambito lavorativo e Super Mario Bros. contribuisce, a suo modo, ad addestrare il gamer alla prestazione intermittente, alla temporalità, alla vulnerabilità e all’instabilità. Mario assume a tutti gli effetti il ruolo di freelance hero della gig economy ludica che anziché ricevere un salario viene ricompensato per le sue prestazioni in moneta contante da raccogliere lungo il percorso in situazioni pericolose.

In questa struttura, il denaro non è mai accumulabile a lungo termine: esaurita la partita, l’intero capitale scompare. La moneta perde la funzione di riserva di valore, riducendosi a carburante per il prolungamento temporaneo della prestazione. Il ciclo è autopoietico e coercitivo: per continuare a esistere, Mario deve continuare a lavorare; per lavorare, deve rischiare la vita; per rischiare la vita, deve mantenere un ritmo produttivo crescente. Ne risulta un modello di alienazione totale, in cui il soggetto è interamente subordinato alla logica del sistema, e in cui la “ricompensa” coincide con la mera possibilità di reiterare la fatica (p. 55).

Il videogame «ha anticipato e reso familiari le logiche della prestazione modulare, dell’incentivo puntiforme e del controllo metrico, logiche poi estese alla vita economica tramite app, gamification e lavoro gratuito/connesso» (p. 57). Il capitalismo delle piattaforme ha ludicizzato il lavoro in chiave estrattiva e disumanizzante attraverso punteggi e inviti a partecipare a mission sempre più complesse del tutto prive di orari e tutele. Lo stesso sound design del videogame è pianificato per orientare il comportamento del gamer ad agire in funzione delle ricompense. «L’ambiente acustico si configura così come un dispositivo biopolitico: una macchina di addestramento che allinea il comportamento dell’utente a schemi di efficienza e accumulazione, manipolando il principio di piacere per massimizzare la produttività in gioco» (p. 70).

Super Mario Bros. è contraddistinto dallo scorrimento laterale continuo ma solo verso destra dello schermo, uno scorrimento orizzontale irreversibile che non ammette di tornare indietro e induce il gamer a percepire tanto la presenza di un fuoricampo da scoprire avanti a sé, quanto il consumo definitivo di ciò che già ha attraversato, dunque lo abitua a una visione lineare orientata: «l’avanzamento irreversibile educa a vedere il mondo come un percorso obbligato – procedere, superare, produrre – dove non c’è spazio per fermarsi, ripensare o sistemare ciò che si è lasciato» (p. 60). Il gamer è tenuto ad agire secondo una logica prettamente colonialista: penetrare in un territorio straniero, annientare gli indigeni ed estrarre ricchezze a proprio beneficio.

Se Jean Baudrillard ha descritto la contemporaneità come un regime di segni in cui la rappresentazione non copia il reale ma lo produce, Super Mario Bros. ha presentato un ambiente interattivo ove il reale è sostituito dalla perfetta esecuzione di un modello che non chiede al gamer di scoprire un mondo, ma di conformarsi a un codice già completo e dato.

Nei viaggi coloniali come nei mondi digitali, il controllo dello spazio passa attraverso il controllo del sapere cartografico, che legittima l’appropriazione e la conquista. Così il videogioco, travestito da intrattenimento, riproduce una grammatica del dominio: la progressione non si misura nella profondità dei personaggi o della trama, ma nella capacità di attraversare, mappare e possedere nuovi territori. In questo senso, Nintendo offre ai giocatori un’esperienza che riecheggia i miti fondativi della modernità coloniale, trasformando lo spazio virtuale in un campo di esplorazione e di potere simbolico. […] Super Mario Bros. diventa un punto di contatto tra la superiorità tecnologica giapponese e le fantasie coloniali euroamericane, producendo un ibrido culturale che legittima sia il determinismo tecnologico sia l’espansione imperiale (p. 65).

L’ideologia veicolata da Super Mario Bros., sostiene Bittanti, deve essere ricercata nell’assegnazione di un ruolo attivo al gamer-colonizzatore. Questo videogame riproduce in formato digitale e ludico «una genealogia di pratiche e immaginari imperiali: l’esplorazione è inseparabile dalla conquista, il paesaggio è ridotto a risorsa estetica e funzionale, la frontiera si espande costantemente» (p. 66). La logica colonialista con cui la discussa mostra “Primitivism” in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern (MOMA, 1985) confrontava opere d’avanguardia occidentali con manufatti di lontane civiltà del tutto decontestualizzati, è rintracciabile anche in Super Mario Bros. visto il suo ridurre l’Altro a mero ostacolo deprivato di soggettività il cui valore risiede meramente nel piacere ludico del superamento con annessi punteggi guadagnati.

Bittanti mette in relazione la sintassi modulare e temporanea, la ripetitività e l’assenza di profondità narrativa di Super Mario Bros. con la grammatica visiva e della logica valoriale di MTV diffusasi negli anni Ottanta. Tanto i gamer compulsivi che i teledipendenti di MTV del decennio anziché leggere il mondo lo attraversano in sequenza, adottando un modello cognitivo destinato a diffondersi e potenziarsi nei primi decenni del nuovo millennio.

Al pari della tv interattiva, il game della Nintendo coinvolge il pubblico senza cedere controllo: quella concessa all’utente è una partecipazione ridotta a finzione in cui i dispositivi agiscono da sistemi di addestramento all’obbedienza a schemi rigidamente predefiniti. Ciò che offre Nintendo, a partire dalla metà degli anni Ottanta, è insomma un vero e proprio ecosistema tecnologico votato alla fidelizzazione: la corporation nipponica non vende un game ma una piattaforma dotata di tecnologie, regole e contenuti in esclusiva, quello che esercita non è tanto un controllo tecnico, ma culturale. Se si pensa che i blocchi che Mario manda in frantumi sono esseri pietrificati, allora si coglie come il gioco proponga una retorica della violenza utilitaristica che prevede la cancellazione di tutto ciò che intralcia il procedere. «La violenza diventa produttiva, l’annientamento si converte in guadagno. […] Super Mario Bros. innesta una gamification del massacro» (p. 99).

Dopo aver mostrato come le meccaniche organizzano l’azione, Bittanti guarda alle modalità di fruizione, alle dinamiche prodotte dall’universo ludico a livello sociale, culturale e tecnologico. L’introduzione sul mercato della console Nintendo ha contribuito a trasformare l’apparato televisivo da medium lineare con la sua logica di flusso a finestra interattiva su mondi virtuali con annessa logica del feedback. Nello stesso periodo si diffonde il videoregistratore, altra tecnologia domestica che permette di rompere con il flusso dettato dal sistema televisivo. A partire dagli anni Ottanta l’ambiente domestico assume un’inedita centralità ludico-creativa e, mentre il cinema si dimostra incapace di appropriarsi della logica performativa dei videogame, l’universo ludico inizia a mostrarsi utile nel training per l’intelligenza artificiale. Il passaggio dei videogame dalle sale giochi collettive agli spazi domestici privati in compagnia della tv, ormai inevitabilmente collegata al videoregistratore, riflette un’epocale trasformazione sociale che comporta anche la ridefinizione delle pratiche dell’intrattenimento.

Anziché guardare alle meccaniche o alle trame e ai personaggi, Bittanti concentra la sua attenzione sulla dimensione tecnica e materiale delle piattaforme, vero e proprio generatore di forma e senso degli artefatti culturali. Il Nintendo Entertainment System (NES), come tutte le piattaforme, non è un semplice dispositivo elettronico neutro, ma piuttosto «un artefatto tecno-culturale che traduce in silicio valori come affidabilità, accesso, proprietà» (p. 118). Se in Giappone compare proponendosi come dispositivo a metà via tra il giocattolo e il computer, una volta giunto negli Stati Uniti il NES tende ad affrancarsi dal registro del giocattolo infantile per collocarsi nell’orizzonte della cultura di massa adulta. «In questo senso, l’intrattenimento è una legittimazione ideologica: permette a Nintendo di occupare il cuore dell’economia culturale statunitense, dove entertainment significa Hollywood, MTV, la televisione via cavo» (pp. 118-119). Un intrattenimento (domestico) che, sottolinea lo studioso, sottrae tempo ad altre forme di socialità (pubblica). «È la comunità ridotta a circuito elettronico, il legame sociale trasformato in competizione ludica. […] A partire dagli anni Ottanta la linea di confine tra gioco e lavoro si assottiglia: il controller diventa insieme strumento di svago e dispositivo di addestramento alla produttività cognitiva» (p. 119).

Se gli anni Sessanta sono stati attraversati dall’idea di sabotare il sistema-macchina per il suo produrre alienazione, gli Ottanta sono stati percorsi dal desiderio di abitarlo. Alla società dello spettacolo si sostituisce la società ludo-disciplinare e se la tv catturava lo sguardo, il NES cattura il gesto. «Politicamente, significa spostare il controllo dal flusso dei contenuti (palinsesto televisivo) alla gestione di un ambiente chiuso (ecosistema Nintendo). Culturalmente, è un passaggio decisivo: non si acquista un videogioco, ma si aderisce a una forma di cittadinanza ludica sotto l’egida di una multinazionale» (p. 121).

Se il Family Computer nipponico si presenta come progetto politico-tecnico mirante a rendere domestico il computer, il NES statunitense guarda invece all’intrattenimento come a una pratica disciplinante al pari della pressoché coeva diffusione dell’aerobica sugli schermi televisivi: in entrambi i casi si tratta di dispositivi fondati su protocolli di ripetizione, frazionamento e misurazione del tempo.

L’universo dei videogame, sottolinea Bittanti, non può essere analizzato attraverso gli approcci e le categorie con sui si guarda a media tradizionali. «La televisione è flusso. Il cinema è sequenza. Super Mario Bros. rompe entrambi: è loop e controllo». Dalla televisione questo videogame «eredita la bidimensionalità, la frontalità, la grana luminosa dello schermo CRT. Ma ne sovverte il principio fondamentale: la passività. […] Il tempo non è scandito da una sceneggiatura, ma dal gesto». Rispetto al cinema, invece, il videogame rinuncia alla trama, alla psicologia e ai dialoghi producendo una nuova forma di agency. «La narrazione non si sviluppa nel tempo, ma nello spazio. Non ci sono scene, ma livelli. Ogni passaggio non racconta, sfida. Ogni mondo non dice, struttura. È la conversione del racconto in architettura interattiva» (p. 143).

Per quanto il ricorso ai videogame come palestra per le macchine abbia radici lontane, l’utilizzo di videogame come Super Mario Bros. per allenare gli algoritmi, con la sua pianificazione sequenziale, cambia le carte in tavola. Ricorrendo a una retorica procedurale, i videogame argomentano attraverso regole: a confrontarsi con esse è direttamente una macchina, non un essere umano. «Così, Mario non smette di produrre effetti disciplinanti: allena non più le dita dei bambini ma le reti neurali delle macchine. Quella che era una promessa ludica diventa un addestramento invisibile per sistemi che guideranno auto, esploreranno pianeti, gestiranno elezioni, lanceranno missili nucleari sulle nostre città» (p. 154).

Nell’ultima parte del volume, Bittanti passa dettagliatamente in rassegna interventi artistici volti a trasformare il congegno ludico in materiale simbolico. Nel ricostruire le motivazioni che hanno a lungo escluso i videogame dai circuiti deputati a conferire uno statuto artistico, lo studioso ricorda come questi siano stati distribuiti, fruiti e valutati in un contesto prettamente commerciale. Quand’anche un videogame ha conquistato la presenza in un contesto espositivo, ad ottenere legittimazione non è il gioco in sé ma, piuttosto, la manipolazione, l’uso, che ne fa un intervento artistico postumo. Soltanto quando il videogame cessa di adempiere allo scopo per cui è stato pensato e realizzato sembra potersi aprire all’artisticità. Con riferimento a Super Mario Bros., Bittanti individua quattro modalità principali di disattivazione che possono comunque intersecarsi: la sottrazione funzionale (cancellazione delle regole e degli obiettivi del gioco) a cui ricorrono, ad esempio, lo statunitense Cory Arcangel e la canadese Myfanwy Ashmore; la riduzione iconica (riduzione del gioco a immagine astratta, anti-narrativa) a cui si rifanno, tra gli altri, lo statunitense Ben Fry e il greco Miltos Manetas; il deragliamento procedurale (esplicitazione dei limiti del codice in modo da rivelare la natura di macchina e sistema, apparato e dispositivo del gioco) utilizzato, ad esempio, dallo statunitense Alexander Galloway e dal cubano Rewell Altunaga; la ricontestualizzazione curatoriale e infrastrutturale (ricontestualizzazione del gioco così da ridefinirne statuto e funzionamento) a cui ricorrono lo statunitense Patrick LeMieux e artisti già citati come Arcangel e la Ashmore. Tutti questi interventi artistici compiuti su Super Mario Bros., nota lo studioso, aggirano le logiche predefinite dei videogame adottando strategie di appropriazione, sabotaggio e riscrittura: il dispositivo ludico viene trasformato in oggetto concettuale, in immagine critica, in gesto espositivo. È interessante notare come diversi interventi artistici contrastino l’insistenza sul fallimento individuale centrale in molti videogame.

La realtà che si vive oggi, conclude Bittanti, non è stata prevista dall’universo videoludico, ma è stata (anche) da questo programmata. Super Mario Bros. ha «insegnato a considerare l’errore una routine, la ripetizione un destino, la vittoria un checkpoint provvisorio. È così che Mario si è insinuato nella cultura: trasformando il gesto in pensiero, la pratica in metafora, la frustrazione in pedagogia» (p. 243).

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Il machinima e il suo contesto https://www.carmillaonline.com/2025/08/30/il-machinima-e-il-suo-contesto/ Sat, 30 Aug 2025 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89751 di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, a cura di, Videoarte ludica. Videogioco, cinema, machinima, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 602, € 40,00

Nell’ambito di un progetto di ricerca portato avanti da Matteo Bittanti presso l’Università IULM teso a esplorare la relazione tra videogiochi e arti visive, complementare a Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione (Mimesis, 2025), che si concentra sulla fotografia nei/dei videogiochi come pratica artistica, documentaria e critica, il volume Videoarte ludica (2025) curato dall’autore, seguito dei precedenti Machinima! Teorie. Pratiche. Dialoghi (Unicopli, 2013) e Machinima. Dal videogioco alla videoarte (Mimesis, 2017), guarda al videogame come [...]]]> di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, a cura di, Videoarte ludica. Videogioco, cinema, machinima, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 602, € 40,00

Nell’ambito di un progetto di ricerca portato avanti da Matteo Bittanti presso l’Università IULM teso a esplorare la relazione tra videogiochi e arti visive, complementare a Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione (Mimesis, 2025), che si concentra sulla fotografia nei/dei videogiochi come pratica artistica, documentaria e critica, il volume Videoarte ludica (2025) curato dall’autore, seguito dei precedenti Machinima! Teorie. Pratiche. Dialoghi (Unicopli, 2013) e Machinima. Dal videogioco alla videoarte (Mimesis, 2017), guarda al videogame come strumento spendibile nella realizzazione audiovisiva, performativa e cinematografica.

Quando si parla di machinima si fa riferimento a una pratica ibrida in cui si intrecciano videogame, cinema e videoarte che ha impattato in maniera importante tanto sull’universo artistico contemporaneo quanto su quello dell’intrattenimento, una pratica che ricorre a videogiochi e/o game engine capace di assumere forme documentarie, sperimentali, performative o narrative sia di tipo vernacolare che d’avanguardia.

In Videoarte ludica Bittanti si rapporta al machinima come a una pratica situata, derivata dall’incrociarsi di estetiche sperimentali e cultura digitale partecipativa: arte d’avanguardia, certo, ma anche intrattenimento vernacolare, museo e social media, détournement e divertissement. Vera e propria zona di frizione tra linguaggi, funzioni e logiche di valore, attraverso un approccio dialettico e comparativo, il machinima viene dunque indagato non per darne una definizione in senso assoluto, quanto, piuttosto, per vedere come viene prodotto, legittimato e recepito, nella convinzione che a determinarne il valore non sia tanto la forma, ma il contesto in cui viene inserito e le relazioni di ordine estetico, politico, istituzionale che lo strutturano.

Videoarte ludica non si limita a descrivere le peculiarità di questa pratica ibrida, ma ne esplora le potenzialità come strumento di indagine, sperimentazione artistica e attivismo culturale. Attraverso un approccio metodologico multidisciplinare che combina teoria, studi di caso e dialoghi, il volume analizza come il machinima possa ridefinire i confini tra pratiche e contesti eterogenei, sfidare convenzioni narrative e proporre nuove prospettive per l’analisi e la creazione artistica. In un’epoca in cui il digitale permea ogni aspetto della società e la nozione di arte è stata profondamente alterata dall’innovazione tecnologica, Videoarte ludica invita a considerare il machinima non solo come un prodotto della cultura contemporanea, ma come uno strumento analitico attraverso cui ripensare le dinamiche di potere, identità e rappresentazione che strutturano il nostro mondo» (pp. 34-35).

Il volume è strutturato in tre parti: la prima si occupa delle riflessioni teoriche e storiche riguardanti il machinima, la seconda presenta una serie di studi di caso che analizzano tanto opere d’avanguardia quanto vernacolari, mentre la terza propone alcuni dialoghi critici tra artisti e ricercatori. Non potendo approfondire le numerose questioni di cui si occupano le seicento pagine che compongono il volume, si provvederà di seguito a tracciare una mappatura dei contributi con l’intenzione di affrontare in futuro alcuni aspetti approfonditi dagli autori.

Nel primo blocco di contributi dedicato alle riflessioni teoriche e storiche riguardanti il machinima si guarda alle sue caratteristiche partecipative e alle potenzialità critiche che questo è in grado di esprimere sia in ambito artistico che vernacoalre: Thomas Hawranke esplora il tema dell’audiovisivo-nel-ludico, indagando una serie di lavori artistici capaci di ridefinire i confini tra gioco, video e arte digitale; Riccardo Retez e Luca Miranda guardano alle pratiche fandom, occupandosi del formato dei full game movie che, ibridando cinema e videogiochi, si rivela capace di reinterpretare i linguaggi mediali tradizionali attraverso un processo partecipativo e comunitario; José Blázquez si sofferma sulla produzione vernacolare permessa dalla diffusione delle tecnologie digitali intervistando alcuni praticanti così da restituire le logiche, le motivazioni e le estetiche proprie di questo universo; Kara Güt investiga il potenziale critico e performativo del machinima in modalità di gioco che, aggirando le regole convenzionali del videogame, permettono la realizzazione di esperienze visive e narrative alternative consentendo riflessioni critiche sulle convenzioni videoludiche; Martin Zeilinger guarda alle possibilità di resistenza e critica culturale e politica del machinima nei confronti delle ideologie sottese ai mondi virtuali evidenziando gli aspetti contraddittori dei sistemi algoritmici e sociali che regolano i videogame; Paul Atkinson e Farzad Parsayi esaminano criticamente il rapporto tra videogiochi e universo artistico guardando in particolare alle convergenze formali e concettuali tra videogame e videoarte e a come la mediazione dello schermo determini modalità di fruizione alternative rispetto a quelle offerte dal contesto museale tradizionale.

La seconda raccolta di saggi presenta una serie di studi di caso sia vernacolari che d’avanguardia: ispirandosi in particolare agli studi di Howard Saul Becker (Art Worlds, 1982), Matteo Bittanti guarda con approccio sociologico al machinima come fenomeno collettivo su cui incidono istituzioni, tecnologie e comunità di praticanti contemplando tanto la variante d’avanguardia che quella vernacolare; il collettivo austriaco Total Refusal (Leonhard Müllner, Robin Klengel e Michael Stumpf), a partire dagli scenari videoludici, guarda alle modalità con cui il machinima affronta tematiche sociali importanti come la brutalità poliziesca statunitense, le disparità economiche e le problematiche ambientali ragionando sul rapporto che si viene a creare tra esperienza ludica e narrazione audiovisiva; la studiosa Mandy Bloomfield guarda al lavoro di Andy Hughes incentrato sulla devastazione ambientale a partire dai paesaggi virtuali di videogame proponendo riflessioni ecocritiche relative al mondo fuori dagli schermi; Gloria López-Cleries e Sive Hamilton Helle ragionano su una loro realizzazione machinima incentrata sul tecno-colonialismo esplorando criticamente le ricadute ambientali dell’universo digitale; l’artista statunitense Carson Lynn indaga le potenzialità decostruttive e sovvertitrici del machinima in ambito di genere e sessualità per contrastare l’omofobia che permea molte comunità videoludiche; Harrison Wade guarda alle capacità del machinima di opporsi alle narrative egemoniche sull’identità e sul corpo caratterizzanti molta game culture.

La sezione Conversazioni propone una serie di dialoghi tra studiosi e artisti in cui il machinima emerge come medium dialogico e trasformativo attraverso cui si possono affrontare in maniera innovativa tematiche come il gender, la memoria e il trauma attraverso sguardi diversi rispetto a quelli dominanti maschili e occidentali: nell’intervista rilasciata a Matt Turner, Angela Washko parla del suo tentativo di portare la critica femminista in un ambiente tradizionalmente ostile come quello videoludico evidenziando i modelli ideologici incorporati nei videogame; nella conversazione tra Matteo Bittanti e l’artista palestinese Firas Shehadeh si guarda a come il machinima d’avanguardia possa essere utilizzato come contro-narrazione alla propaganda imperiale, come strumento di contrasto e resistenza alle ideologie dominanti e alla censura da queste operata nei confronti delle culture marginalizzate e perseguitate; il dialogo tra Matteo Bittanti e l’artista siriano Giath Taha fa invece emergere il possibile ricorso al machinima per fronteggiare e rielaborare eventi traumatici.

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Dare una forma al caos: una lettera di Howard P. Lovecraft https://www.carmillaonline.com/2025/08/27/ridare-una-forma-al-caos-una-lettera-di-howard-p-lovecraft/ Wed, 27 Aug 2025 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89910 di Sandro Moiso

Howard P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 161, 14 euro.

La cosa più misericordiosa al mondo è l’incapacità della mente umana di correlare tutti i suoi contenuti. Il sonno della ragione genera mostri; la veglia ininterrotta della ragione ne genera di più, forse peggiori. (Ottavio Fatica, Senza soluzione di continuità)

Ci informa il curatore del testo, nella sua postfazione, che H. P. Lovecraft ha dato vita ad uno dei più copiosi epistolari di tutti i tempi. Un autentico diario in pubblico composto, [...]]]> di Sandro Moiso

Howard P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 161, 14 euro.

La cosa più misericordiosa al mondo è l’incapacità della mente umana di correlare tutti i suoi contenuti. Il sonno della ragione genera mostri; la veglia ininterrotta della ragione ne genera di più, forse peggiori. (Ottavio Fatica, Senza soluzione di continuità)

Ci informa il curatore del testo, nella sua postfazione, che H. P. Lovecraft ha dato vita ad uno dei più copiosi epistolari di tutti i tempi. Un autentico diario in pubblico composto, si vocifera, di 100.00 lettere scritte tra i venti e i quarantasette anni, più o meno dal 1910 al 1937, anno della sua morte. Lettere lunghe anche 20, 30 o, come quella scelta per l’attuale pubblicazione presso Adelphi, 70 pagine.

Lettere che, però, non trattavano soltanto degli incubi di uno scrittore che, fin da quando aveva sei anni, aveva cominciato a trascrivere il sogno di «un ragazzino che origliò un orribile conclave di esseri sotterranei in una spelonca», così come, ad esempio, quelle riportate nelle sue “Lettere dall’altrove” scritte tra il 1915 e il 19371 estratte dall’ampia selezione di lettere, raccolta in cinque volumi, da August Derleth e Donald Wandrei tra il 1965 e il 1968 e pubblicate dalla Arkham House nel 1976.
Autentiche testimonianze di una mente, allo stesso tempo, enciclopedica e disturbata, anche al di fuori dei riferimenti, ben noti a tutti i lettori, al Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred o all’immondo e folle universo retto da Yog-Sothoth, Subb-haqqua Nyarlathotep, Shubb-Niggurath, Azathoth, Dagon e Cthulhu.

Una lettera, quella pubblicata da Adelphi, indirizzata all’amico Harris il 9 novembre 1929 (tenga ben presente tale data il lettore di queste righe), nella quale sembra essere racchiusa l’autentica cosmogonia del solitario di Providence e in cui, tra pessimismo, razzismo, arianesimo, ateismo, fiducia nella scienza e letture che andavano da quelle di stampo classico fino a quelle svolte sul già allora popolare «Reader’s Digest», il padre dell’orrore cosmico rivela «una vena da eterno dilettante, da veemente autodidatta».

Le cui convinzioni ruotavano intorno al rifiuto di alcuni mostri sacri del sentire comune del tempo, e forse ancora di oggi: la religione, l’amore romantico, il macchinismo e la democrazia. Con un’interpretazione di quest’ultima non lontana dal «grigio diluvio», in cui tutte le responsabilità si confondono annullandosi, di pirandelliana memoria. In particolare Lovecraft, che si definì sempre come un conservatore, se la prende con il declino di una civiltà, quella anglo-sassone e soprattutto in America, che sembra ai suoi occhi essere stata travolta dalla modernità industriale e dai suoi, inevitabili, corollari.

Per come la vedo io, la civiltà americana è quasi estinta ma autentica laddove sopravvive: in certi gruppi sparsi per tutto il paese e in certe aree geografiche, nella Virginia occidentale in particolare e in alcuni punti del New England. Quella che i conservatori deplorano e combattono non è certo la nostra cultura ancestrale ma una nuova e oltraggiosa barbarie di villani rifatti fondata sulla quantità, il macchinismo, la velocità, il commercio, l’industria, l’opulenza e l’ostentazione del lusso, che è spuntata in mezzo a noi come una pianta infestante intorno al 1830 con l’ascesa della massa becera. Ha poco a che spartire con la nostra civiltà – la corrente principale di pensiero e sensibilità classica e inglese instaurata in queste colonie da oltre due secoli di presenza ininterrotta, 1607-1820 –, non più della barbarie polinesiana o degli indiani Sioux. Si tratta di una piaga da estirpare, qualora possibile, altrimenti da fuggire, tutto qui. Ma chiamarla « civiltà americana » sarebbe un affronto ai nostri antenati. È « americana » solo in senso geogra$co e tutto è meno che una « civiltà », se non secondo la definizione spengleriana del termine. È una barbarie totalmente avulsa e totalmente puerile, basata sul benessere fisico anziché sulla superiorità mentale, e non ha titoli per essere tenuta in considerazione dai discendenti dei coloni.2.

Da questa paura del dissolvimento della società americana così come poteva essere raffigurata dalla tradizione del New England e della Virginia occorre iniziare per entrare nelle riflessioni dello scrittore americano, a partire dalle originali considerazioni polemicamente svolte a proposito di William Shakespeare.

Vorrei correggere la tua impressione radicalmente sbagliata che Shakespeare avesse un atteggiamento o un metodo da intellettuale. Santiddio! Non ti rendi conto che quel tipo era l’esatto opposto! un poeta incolto, imprevedibile, spontaneo, non accademico, non curante, che credeva di seguire le mode popolari e si serviva della lingua più comune e colloquiale del periodo. Shakespeare, come artista immortale, è stato un puro caso di genio. Era dotato di una naturale combinazione di senso della lingua e percezione dei moventi umani che pochi hanno mai posseduto, però non lo sapeva e visse tutta la vita come un teatrante da strapazzo e uno scribacchino, raccogliendo i racconti popolari che trovava in giro (ballate a buon mercato, cronache storiche da quattro soldi e traduzioni popolari di autori classici e stranieri) e rimaneggiandoli nel sapido vernacolo del giorno per il consumo di massa. Era un grande artista suo malgrado e senza volerlo. Tutte le sue aspirazioni erano sociali, non estetiche. Voleva semplicemente elevarsi al di sopra della classe borghese-contadina e fondare una famiglia con tanto di stemma. Mirava alla nobiltà e al rango, non all’arte e alla dottrina. Gli sarebbe dispiaciuto essere preso per uno studioso serio o per un esteta: ai suoi tempi i signori non andavano oltre il livello dilettantesco nel coltivare il sapere o l’arte. Analizza una qualunque delle sue opere e troverai più errori assurdi per centimetro quadrato che in qualunque altro autore riconosciuto nella nostra lingua. E paragona la sua dizione […] per vedere quanto fosse lontano dal letterario o dall’accademico in fatto di stile. Era spigliato e colloquiale quanto Sherwood Anderson o Ring W. Lardner: se lo troviamo assurdo oggigiorno è solo perché la lingua è cambiata. Ai suoi tempi si serviva degli accenti semplici che sentiva in giro, tenendo conto della differenza ben nota e comunemente accetta tra la prosa letterale e la poesia colorata dalle metafore. A dire il vero era ritenuto sciatto e incolto proprio dai contemporanei […] Che diavolo! Se c’è una cosa che il povero vecchio Bill non era è un intellettuale!3.

Una descrizione che rimanda alla cultura popolare da cui Lovecraft, che per tutta la vita pubblicò su riviste pulp o popolari, era contemporaneamente attratto e infastidito un po’ come il Philip K. Dick del Ritratto di un artista di merda. Una riflessione che sembra anticipare, però, anche quelle di Valerio Evangelisti sulla paraletteratura, la letteratura d’evasione e la cultura di massa che sottende il lavoro degli scrittori in essa coinvolti oppure ad essa confinati dalla critica4.

La parte più corposa della lettera, però, è rappresentata da una sorta di storia universale in pillole che non sarebbe forse dispiaciuta al Donald Trump dei muri, alle alleanze ariane ancora attive oggi negli Stati Uniti e ai membri del Ku Klux Klan. L’evoluzione della civiltà, greca prima e anglosassone poi, ma quest’ultima solo fino ad un certo punto, sembra infatti articolarsi intorno alla convinzione che:

le razze più isolate e più aristocratiche sono sempre quelle che salgono più in alto sulla scala che porta fuori dall’ottusità, dall’ignoranza e dall’insensibilità animale. Ricostruisci qualsiasi teoria antagonista e scoprirai che nasce da sofismi etici, religiosi o politici, non da un esame imparziale dei fatti. Tu citi l’attuale tendenza all’amalgamazione e all’appiattimento tra le razze esistenti e sostieni che futuri crolli culturali – frutto di noia estetico-mentale – coinvolgeranno un numero sempre più grande di persone finché da ultimo se ne presenterà uno in grado di coinvolgere tutte le specie umane. Il principio è senz’altro valido, anche se c’è da dubitare fino a che punto sia dato applicarlo. La repulsione tra certi estremi razziali è ancora molto forte e, in taluni casi, insormontabile. Una fusione bianco-mongola non è quasi concepibile, meno ancora lo è un’inclusione dei neri. Perfino un gruppo con una vena di mulatto eviterebbe la fusione con i neri puri, quindi la scomparsa di una razza nera separata è quanto mai improbabile se non per un massacro. In pratica è assai probabile che i filoni occidentale, mongolo, indù e negroide non s’incontreranno mai e che l’unica forma di contatto sarà il conflitto5.

Alle genti “ariane”, naturalmente, viene riservato uno sguardo di riguardo così come, paradossalmente ma non così tanto, alla Cina.

La condizione di semplicità animale non è certo una cosa così decisamente ignobile per un ariano bianco come il termine – o il paragone con il selvaggio non bianco – sembrerebbe insinuare. Il caucasico ha la sua bella riserva di trucchi radicati negli istinti e, finché conserva puro il sangue, non si avvicinerà mai molto al gorilla o, se è per questo, al negro o all’eschimese. Gli antichi galli e germani selvaggi non erano il porco o lo zerbino di nessuno; in realtà erano audaci, abbastanza disciplinati, razionali e amanti della bellezza […] sbagli di grosso a dire che una cultura non può prosperare in perfetto isolamento. Basta guardare alla Cina per avere un esempio calzante. La Cina, fino a tempi recenti, non ammetteva alcuna influenza esterna; eppure ha goduto di un periodo di esistenza lungo e pieno, con fasi di fioritura culturale pari a quelle mai conosciute da qualsiasi altra nazione. Bertrand Russell la ritiene la cultura più grande che questo pianeta abbia mai prodotto: nel suo periodo supremo superò perfino l’Atene di Pericle nella piena padronanza della vita e della bellezza, unico indice razionale del livello culturale raggiunto. Non c’erano contatti con il mondo esterno: tutti i forestieri erano « diavoli stranieri » […] La stessa Grecia era altrettanto eccezionalmente isolata. Sapeva del mondo esterno, ma solo per respingerlo e rifiutarlo. Il termine βάρβαρος (barbaro) serviva a indicare sia uno straniero sia un selvaggio6.

Torniamo ora a quanto sottolineato all’inizio, ovvero la data della lettera: 9 novembre 1929, esattamente quindici giorni dopo il “giovedì nero” di Wall Street che avrebbe trascinato con sé e fatto sprofondare in un autentico maelstrom l’economia e la società statunitense, i suoi lussi, i suoi risparmi e le speranze riposte in un progresso infinito del capitalismo industriale e finanziario.

Così c’è è traccia di quello che stava succedendo e di ciò che, all’epoca, sarebbe potuto avvenire in diverse parti della lettera, in cui si rimpiange la scomparsa di una vera aristocrazia a vantaggio di una nuova il cui prestigio si sarebbe basato sul denaro e l’industria.

Il futuro socio-politico degli Stati Uniti è quello di essere dominati da vasti interessi economici consacrati a ideali di guadagno materiale, attività priva di scopo e comodità fisica; interessi controllati da autorità astute, insensibili e di rado educate, reclutate in mezzo a un branco omologato mediante una competizione di acume affilato e furbizia pratica, una lotta per la posizione e il potere che eliminerà il vero e il bello come obiettivo, per sostituirli con il forte, l’enorme e il meccanicamente efficace. Detesterei avere discendenti che vivono in una simile barbarie, una barbarie così tragicamente diversa dalla vecchia civiltà del New England e della Virginia che appartiene di diritto a questa terra. Grazie a dio sono l’ultimo della mia famiglia: requiescamus in pace!7

Per contrapporsi a ciò, senza affidarsi a «tipi completamente irrazionali e ossessionati dall’etica quali i comunisti o sindacati come gli Industrial Workers of the World», sarebbe occorso:

scoraggiare i contadini e gli operai dal voler diventare borghesi e commercianti alzando quanto più possibile il salario e migliorando le condizioni di vita. Con maggiori benefici e agi per il plebeo e minori per il mercante e l’industriale si potrebbero gettare le basi per una struttura culturale più solida. E […] l’agricoltore andrebbe favorito per primo in quanto proprietà terriera e posizione economica lo vincolano più strettamente alla struttura storica tradizionale della nostra civiltà. Il cambiamento più grande dovrebbe essere un sottile cambiamento spirituale instillato dall’educazione e dalla propaganda, cioè l’insegnamento di una grande verità fondamentale: che volume e « prosperità » non significano niente in sé, e che il solo bene dal valore permanente nella vita è l’agio e la libertà di sviluppare una personalità intelligente e immaginativa. Cambiare lo scopo popolare dalla velocità, dal denaro facile e dalla ricchezza, alla parsimonia, alla sicurezza e al tempo libero riempito con gusto; sradicare l’invidia del plebeo per l’aristocratico agiato dimostrando il valore dell’esistenza di quell’aristocratico nello stabilire criteri che inducono a sopportare il lungo fardello della vita8.

Tralasciando ora, e soltanto per motivi di spazio, altre due lunghe trattazioni riguardanti i disastri e l’eventuale utilità della guerra e la separazione tra amore romantico, attività sessuale e erotismo femminile, diventa importante sottolineare come nel delirio onnicomprensivo e ordinativo dello scrittore sia ravvisabile una sorta di scrittura della crisi, così come poi, ma con ben altri risultati, sarebbe avvenuto con Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (1925), che in qualche modo anticipava la crisi morale prima ancora che economica degli Stati Uniti dei “ruggenti” anni Venti, oppure Le avventure di un giovane americano di John Dos Passos (1939) che, sulla scia del disastro economico e sociale che le riforme del New Deal non bastarono a colmare, giunse a denunciare con fermezza gli errori e le illusioni legate allo sviluppo dei partiti comunisti stalinizzati, sia negli Stati Uniti che nel corso della guerra civile spagnola.

Ma, ovviamente, la crisi di Lovecraft non è soltanto socio-economica e politica: è anche una crisi della ragione che si rifiuta di accettare l’ovvietà del presente e dei suoi disastri e cerca di correggerla con ricostruzioni, indicazioni e modelli, in questo caso quello aristocratico anglo-sassone d’antan oppure in altri quello bolscevico-proletario, che spesso conducono al delirio o a qualcosa di simile se presi troppo alla lettera.

Ecco allora che all’interno di quel caos primordiale, insondabile e orrendo, che fonda l’universo ideato da Lovecraft per dare spazio ai suoi miti e ai suoi incubi e «al cui centro balla un dio cieco, nudo e idiota al suono di una cacofonia di flauti e tamburi blasfemi», possiamo individuare la causa reale del malessere dell’autore che, ancora una volta, si ricollega ad un più generale malessere della società e della cultura americana degli anni Venti e Trenta.

Un disordine irrecuperabile che svela il vero volto di una società sorta dal sogno dell’eguaglianza e del progresso, della libertà e dell’affermazione del singolo individuo; di una Land of Freedom che per essere tale, aveva già fatto scontare col sangue e lo sfruttamento intensivo il proprio predominio ai nativi, agli schiavi e a tutti gli immigrati non WASP. Con una autentica ossessione per la purezza del sangue, di cui si è già parlato qui con la recensione di I Robinson d’America di David W. Belisle, in un disordine morale, economico, sociale il cui autentico dio Azathoth è rappresentato soltanto dall’espansione e dalla voracità del capitale.

Cosa che il conservatore, come amava definirsi, Lovecraft non avrebbe mai del tutto accettato consciamente, ma che sarebbe trapelata in altri scritti non fantastici successivi, come A Layman Looks at the Government (1933), dove guardando da profano al governo avrebbe affermato: «il sistema economico attuale dovrà perire, in primis la concezione attuale della proprietà privata su larga scala, non regolamentata, e del profitto individuale»9. Un’affermazione che costringe i lettori a considerare la possibilità che l’uomo della Maschera di Innsmouth non possa essere sempre e soltanto relegato al ruolo di scrittore razzista, ossessivo e “fallito”, come invece ebbe ancora a definirlo Ursula Le Guin10.


  1. H. P. Lovecraft, Lettere dall’altrove. Epistolario 1915-1937, a cura Giuseppe Lippi, Oscar Mondadori, Milano 1993.  

  2. H. P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, Piccola Biblioteca Adelphi 819, Milano 2025, pp. 13-14.  

  3. Ivi, pp. 27-28.  

  4. In proposito si vedano i saggi raccolti in V. Evangelisti, Le strade di Alphaville. Conflitto, immaginario e stile nella paraletteratura, a cura di A. Sebastiani, Odoya, Bologna 2022 e L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, a cura di S. Moiso e A. Sebastiani, Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2023.  

  5. H. P. Lovecraft, op. cit., pp. 37-38.  

  6. Ibidem, pp. 36-37  

  7. Ivi, p. 99.  

  8. Ibid, pp. 117-118.  

  9. Cit. in O. Fatica, Senza soluzione di continuità, postfazione a H. P. Lovecraft, op. cit., p. 157.  

  10. Sulle contraddizioni in tal senso di H. P. Lovecraft, si veda H. P. Lovecraft, Cthulhu Rivoluzione. Il pensiero politico del solitario di Providence, a cura di M. Spiga, Heinserb3rg Studio, 2017.  

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Il potenziale sovversivo della fotoludica https://www.carmillaonline.com/2025/08/17/il-potenziale-sovversivo-della-fotoludica/ Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89331 di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, Marco De Mutiis, a cura di, Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 684, € 40,00

Il volume curato da Matteo Bittanti e Marco De Mutiis raccoglie una serie di contributi di studiosi e teorici di arte, media e game, incentrati sulla fotoludica, vale a dire sulla fotografia in-game o fotografia videoludica, una pratica artistica e critica in cui si intrecciano l’estetica della fotografia tradizionale e il mondo dei videogame. I diversi contribuiti guardano alla capacità della fotoludica di ridefinire i confini della rappresentazione visiva e al [...]]]> di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, Marco De Mutiis, a cura di, Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 684, € 40,00

Il volume curato da Matteo Bittanti e Marco De Mutiis raccoglie una serie di contributi di studiosi e teorici di arte, media e game, incentrati sulla fotoludica, vale a dire sulla fotografia in-game o fotografia videoludica, una pratica artistica e critica in cui si intrecciano l’estetica della fotografia tradizionale e il mondo dei videogame. I diversi contribuiti guardano alla capacità della fotoludica di ridefinire i confini della rappresentazione visiva e al ruolo attivo e critico che questa permette al gamer che vi ricorre sia come mezzo espressivo per generare immagini inedite, sia come strumento utile alla conservazione della memoria dei mutevoli mondi virtuali altrimenti destinati a scomparire.

La fotoludica viene dunque indagata nei suoi fondamenti teorici e tecnici, nelle sue potenzialità artistiche, creative, documentarie e archivistiche, oltre che negli aspetti politici e ideologici. Come sottolineano i curatori del volume, l’intento è quello di guardare alla fotoludica non solo dal punto di vista artistico, ma anche come a «un territorio in cui la documentazione del virtuale può trasformarsi in un atto sovversivo, sfidando le regole della realtà e riscrivendo il rapporto tra visibile e invisibile, tra ciò che è stato e ciò che è ancora da simulare» (p. 26).

Nell’impossibilità di dar conto in maniera approfondita delle tante questioni trattate dal volume – di quasi settecento pagine – ci si limiterà in questo scritto a fornire almeno una loro mappatura, con l’intenzione di tornare successivamente su alcune di esse approfondendole.

Circa le questioni teoriche e tecniche della fotoludica, alcuni saggi guardano alle modalità attraverso le quali questa, ricorrendo a tecnologie digitali e alle interfacce dei videogame, rimedia e ridefinisce la pratica fotografica tradizionale. Lungi dal limitarsi a riprodurre le dinamiche visive tradizionali, la fotografia nei videogame rielabora e ridefinisce i confini della rappresentazione visiva e il concetto stesso di immagine: Cindy Poremba guarda a come le pratiche di cattura delle immagini all’interno dei videogame conferiscano un ruolo attivo al gamer nella rielaborazione dei mondi virtuali; Seth Giddings mette in luce le potenzialità di espressione visiva della fotografia in-game nel suo confrontarsi con la mimesi del reale; Jan Švelch passa in rassegna le diverse tecniche di cattura dello schermo guardando alla fotografia in-game al di là del contesto strettamente videoludico; Sebastian Möring e Marco De Mutiis si focalizzano sulla rimediazione della fotografia da parte del videogame e sull’incidenza della fotoludica sulla fotografia tradizionale; Gabriele Aroni si occupa della proprietà intellettuale delle immagini catturate dagli universi digitali.

Alle potenzialità visive dei videogame e alle ricadute artistiche, economiche, esperienziali e culturali della fotografia nei mondi virtuali sono dedicati saggi di studiosi e artisti che mostrano come la fotoludica possa mettere in relazione realtà e simulazione, arte e cultura popolare, stimolando una riflessione critica sull’evoluzione dell’immagine nell’era digitale: Marco De Mutiis guarda alle forme di lavoro immateriale a cui è sottoposto il giocatore-fotografo; Justin Berry ai sofferma sulle inedite esperienze estetiche che, attraverso la cattura delle immagini nei videogame, si possono ricavare dagli scenari sintetici; Kent Sheely riflette sul possibile uso sovversivo della fotocamera virtuale a partire dalla resistenza che può attuare nei confronti dell’estetica tradizionale; Adonis Archontides guarda alle potenzialità di evasione e di autoriflessione offerte dalla fotoludica; Leonardo Magrelli approfondisce la possibilità di rievocazione della memoria culturale e storica attraverso la simulazione, focalizzandosi sul rapporto tra paesaggio virtuale e quello reale; Antonio Careri guarda alla rappresentazione del territorio simulato a partire dalla fotografia paesaggistica tradizionale all’interno dei mondi virtuali; Vladimir Rizov si occupa delle potenzialità narrative della fotoludica.

Altri interventi sono dedicati alla fotoludica come strumento di conservazione e memoria storica di mondi virtuali sottoposti a mutamento costante, altrimenti destinati a scomparire: Alex Urban guarda alle fotografie in-game come a registrazioni-testimonianze di esperienze ludiche inesorabilmente condannate a svanire; Kieran Nolan si focalizza sull’archiviazione fotografica dei graffiti nei e con i videogiochi; Florence Smith Nicholls e Michael Cook riflettono sulla possibilità di studiare e conservare le dinamiche videoludiche attraverso tecniche e modalità archeologiche solitamente applicate al mondo reale; Richard Cole indaga la possibilità di rivisitare la Storia e il mito attraverso combinazioni di elementi tecnologici e culturali di natura videoludica; Hans-Joachim Backe indaga le modalità con cui le immagini in-game possono incidere sul significato di un’opera videoludica tanto dal punto di vista estetico che da quello narrativo.

Alle potenzialità di critica sociale e politica della fotografia in-game, al possibile ricorso ad essa per rivelare le strutture ideologico-politiche sottese all’industria del divertimento digitale guardano diversi contributi: Joseph DeLappe e Laura Leuzzi esaminano le performance critiche di DeLappe in cui l’artista interviene ribaltando l’immaginario militarista di videogame di propaganda dell’esercito; Simone Santilli espone come la fotografia in-game possa documentare e criticare la logica estrattivista di un videogame che riflette le dinamiche di sfruttamento proprie del capitalismo globale del mondo reale; Ivan Girina esplora le potenzialità critiche della fotoludica nei confronti delle rappresentazioni convenzionali della violenza, della povertà e della criminalità di un videogame; Matteo Bittanti guarda al ruolo ideologico della fotografia in-game nella rappresentazione dei paesaggi naturali simulati, evidenziando come attraverso le immagini videoludiche sia possibile cogliere le tensioni tra estetica e potere.

Il volume curato da Bittanti e De Mutiis si chiude con un paio di contributi che invitano a guardare alla fotoludica come strumento utile a preservare e comprendere la storia del medium videoludico, altrimenti inesorabilmente destinata a perdersi: Joanna Zylinska riflette sulla percezione visiva nei mondi distopici post-apocalittici dei videogame guadando alla fotografia in-game come strumento utile a comprendere e interpretare il mondo virtuale; Henry Lowood, a partire dagli scatti di Ira Nowinski relativi agli spazi fisici delle sale giochi e alle comunità di gamer della Bay Area degli anni Ottanta, riflette sulle possibilità offerte dalla fotografia di realizzare un archivio della memoria videoludica.

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Yamanba. Donne ribelli del Giappone https://www.carmillaonline.com/2025/03/13/yamanba-donne-ribelli-del-giappone/ Thu, 13 Mar 2025 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87128 di Gioacchino Toni

Rossella Marangoni, Yamanba. Donne ribelli del Giappone, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 374, € 22,00

Come vorrei che il dormitorio venisse spazzato via, la fabbrica bruciasse, / e il guardiano morisse di colera! (Canto delle operaie del settore tessile, Giappone, fine del XIX sec.)

Dopo aver proposto con il volume Onibaba (Mimesis, 2023) un affascinate viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri, con il suo nuovo libro, Yamanba. Donne ribelli del Giappone (Mimesis 2025), Rossella Marangoni va alla ricerca degli indizi di ribellione e delle istanze di libertà nei [...]]]> di Gioacchino Toni

Rossella Marangoni, Yamanba. Donne ribelli del Giappone, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 374, € 22,00

Come vorrei che il dormitorio venisse spazzato via, la fabbrica bruciasse, / e il guardiano morisse di colera! (Canto delle operaie del settore tessile, Giappone, fine del XIX sec.)

Dopo aver proposto con il volume Onibaba (Mimesis, 2023) un affascinate viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri, con il suo nuovo libro, Yamanba. Donne ribelli del Giappone (Mimesis 2025), Rossella Marangoni va alla ricerca degli indizi di ribellione e delle istanze di libertà nei comportamenti, nei miti e nella scrittura delle donne giapponesi mostrando come queste abbiano saputo trasformare la mostruosità di cui venivano accusate in un gesto consapevole di rivolta.

La figura della yamanba, a cui fa riferimento il titolo del volume, è la vecchia strega di montagna antropofaga, archetipo del male, demonizzata e percepita come una tremenda alterità minacciosa che, dopo essere stata ridotta per secoli al silenzio, ha saputo ritrovare la voce e sottrarsi al modello di femminilità sottomessa e remissiva che le è stato imposto.

Se l’esotismo occidentale di fine Ottocento ha teso a ridurre la figura della donna giapponese alla silhouette bidimensionale della geisha tra paraventi, ventagli, ombrellini e fiori di ciliegio, non si può dire che la conoscenza più diretta dell’universo nipponico da parte occidentale, che si è data attraverso l’occupazione del Paese al termine del secondo conflitto mondiale, non sia stata da meno nel diffondere una visione della donna giapponese stereotipata, riduttiva e decisamente piegata all’immaginario maschile occidentale: il cinema, soprattutto hollywoodiano, degli anni Cinquanta ha spesso ridotto le figure femminili nipponiche a «delicate bellezze dagli occhi allungati da un trucco sapiente (e sono sempre, o quasi, attrici non asiatiche), a perpetuare il mito della geisha remissiva, sottomessa al volere dell’uomo bianco» (p. 14).

È proprio il constatare il perdurare del fenomeno di esotizzazione occidentale delle donne giapponesi, tanto che lo si ritrova facilmente anche in film ben più recenti rispetto alle produzioni dell’immediato secondo dopoguerra, che spinge Marangoni ad intraprendere la sua ricerca della donna nella società e nella cultura del Giappone guardando ad essa senza piegarla ai desideri dell’immaginario – soprattutto maschile – occidentale con l’intendo di verificare quanto abbia saputo sottrarsi o ribellarsi, nel corso dei secoli, alla remissività ed alla sottomissione imposte dagli uomini.

«Creature ambigue, che suscitano in noi sentimenti ambivalenti, pulsioni contraddittorie di orrore e meraviglia, di attrazione e rifiuto, di fascinazione e, al contempo, di respingimento» (p. 18); i mostri sono esseri ambigui, capaci di suscitare repulsione ed attrazione allo stesso tempo, esseri liminali fra mondi diversi, tra noi e l’altro, tra il buono ed il cattivo, tra il bene ed il male, ma anche tra il passato ed il presente, tra la vita e la morte. Esseri destinati a metterci in discussione in quanto sfidano l’idea di normalità e lo stesso concetto di identità. «Tutti questi temi che stanno alla base del nostro modo di essere nel mondo, di concepirci come esseri umani, sono i temi della mostruosità di cui, nel corso dei secoli, sono state investite le donne. Un’irriducibile anomalia che sconvolge un universo altrimenti armonico, perfetto: quello maschile» (19).

La demonizzazione della donna nel Giappone antico ha certamente a che fare con il pensiero confuciano classico, con la sua insistenza sulle Tre Obbedienze (al padre, al marito ed al figlio maggiore) a cui deve sottostare la donna, così come ha a che fare con l’orrore per la contaminazione del sangue, tipico della spiritualità arcaica e che ricompare nei culti e nei riti dello shintō e in alcuni sutra buddhisti tendenti ad emarginare la donna dalla sfera del sacro e dal sistema di potere che ruota attorno ad esso.

Più che alle radici culturali ed alle modalità di estromissione della donna e della sua riduzione al silenzio, Marangoni decide di guardare alle ribellioni delle donne. Se si risale alle origini della civiltà giapponese, ci si imbatte in un’importante divinità femminile, Amaterasu, per nulla remissiva, in lotta con il fratello. Il conflitto tra i due tra i due si risolve attraverso danze orgiastiche che sanciscono «il trionfo del sesso femminile come artefice di gioia e di vitalità» (p. 24), capace di portare pacificazione e sconfiggere il male (maschile).

Proseguendo nel suo percorso, Marangoni si dice convinta che per quanto si tenda a guardare al Taketori monogatari (Racconto del tagliabambù), trasposizione letteraria del X secolo di un racconto popolare giapponese, come ad una parodia dei costumi di corte, pur con qualche forzatura, sia possibile leggerlo, soprattutto nelle riprese più recenti del testo, anche come la narrazione di una ribellione femminile, visto che narra di una principessa da fiaba che osa sottrarsi all’istituzione matrimoniale, affermando la sua volontà.

Nella raccolta di storie del XII secolo Tsutsumi chūnagon monogatari (Racconti del consigliere medio della riva del fiume), si incontra una principessa incline a farsi beffe del sentire comune, delle convenzioni estetiche e dei costumi del tempo. Per quanto si tratti di un racconto parodico attraverso cui l’autore intende farsi beffe dell’eccentricità delle donne poco inclini a conformarsi ai modelli loro imposti, secondo Marangoni, la determinazione con cui la principessa del racconto persegue le sue passioni e le sue convinzioni, il suo anticonformismo ed il suo disinteresse per il modello di femminilità vigente al tempo, la rendono una figura quasi contemporanea, lontana dall’immagine eterea e dimessa della donna convenzionalmente raccontata.

Per secoli la donna dovrà mettere in essere strategie ingegnose di resistenza, dal silenzio alla vendetta psicologica, sottile ma inesorabile. Mai aperta, sempre nascosta dietro una cortina di ritegno, di sommesso sussurro, come un grido soffocato, la rivolta delle donne in Giappone, nei secoli passati, si è fatta strada dilagando come acqua che tracima da un pozzo, il pozzo della prigionia e della rabbia, come acqua che fuoriesce da un canale e allaga i campi, le risaie, impantanando gli uomini nel fango originato dal loro stesso disprezzo (p. 37).

Sono tanti i volti con cui si è manifestata la rabbia femminile, così come sono molteplici le strategie di ribellione a cui hanno fatto ricorso le donne. Ci sono stati periodi e contesti in cui la possessione ha assunto per le donne le forme di un atto di ribellione. In epoca pre-buddhista, in Giappone, le donne sono state regine sciamane, delle sacerdotesse che svolgevano un ruolo di mediazione tra gli esseri umani ed i kami, le entità supreme che, attraverso danze sciamaniche, prendevano possesso del corpo di queste mediatrici.

Le memorie delle nyōbō, dame in servizio alla corte imperiale, rappresentano una prima forma di riflessione su sé stesse di un gruppo di donne, per quanto appartenenti ad un ambito privilegiato vicino al potere. Nelle loro memorie è possibile vedere un’anticipazione della corrente autobiografica che sarà base della letteratura moderna giapponese. «Scrivere di sé per parlare di sé. Per raccontarsi o per sfogarsi? E sfogarsi non è già prendere coscienza della propria situazione? Denunciarla? O addirittura, pur sommessamente, cercare di opporvi resistenza?» (p. 40).

È interessante notare come lo stereotipo maschile secondo cui “la gelosia è donna” derivi da una società, come quella heian, caratterizzata dalla poligamia maschile, che non può che indurre a sentimenti di gelosia tra le donne. Se il tema della possessione femminile, molto presente nella letteratura classica e moderna, nel teatro nō e nel cinema, con il suo trasformare le donne viventi in dèmoni, può essere letto come monito ad accettare passivamente lo stato di subordinazione al fine di evitare di «uscire da sé stesse e di commettere azioni potenzialmente letali» (p. 57), nella possessione della donna da parte di uno spirito si potrebbe scorgere una delle tante strategie poste in essere dalle donne per palesare il proprio malessere.

Marangoni si sofferma sulla figura dell’anziana antropofaga yamanba che abita nelle montagne presente nel folklore giapponese, ripresa e aggiornata più volte ne corso del tempo. In particolare l’autrice prende in esame la riproposizione che ne fa il teatro che, con le molteplici rappresentazioni che si sono susseguite nel tempo, ha concorso a definire l’immagine di questo mostro femminile generando, al contempo, un archetipo di femminilità.

Pur essendo il dramma imperniato attorno ad una visione della donna propria della sua epoca, fortemente legata al messaggio buddhista ed alla visione maschile della duplicità della donna, seduttiva e minacciosa allo stesso tempo, rappresenta una rilettura capace di ribaltare la narrazione tradizionale e di aprire nuove strade. È infatti al modello della yamanba del , ben più che al demone femminile del folclore, che fanno riferimento le scrittrici novecentesche per creare una narrativa di ribellione, in cui la yamanba viene riletta «come ideale di donna che vive, nella società giapponese, oltre lo stereotipo della femminilità» (p. 70). Insomma, la yamanba, nelle mani delle donne, diviene uno strumento «per raccontare la propria versione della storia» (p. 71).

Altro ambito approfondito dall’autrice riguarda lo spettacolo onna kabuki o yujō kabuki (kabuki delle prostitute) nel Giappone di epoca Tokugawa creato dall’attrice e balleria Okuni. Il kabuki delle donne viene proibito nel 1629 con l’accusa di “disturbo della moralità”; spetterà ai ragazzini che le donne avevano introdotto nelle loro compagnie mantenere in vita questa forma di spettacolo, ora chiamato wakashū kabuki, il kabuki dei ragazzi. Nel 1652 anche questi spettacoli vengono vietati lasciando il posto al kabuki di soli uomini adulti che impersonano anche le parti femminili mettendo in scena una donna sublimata. È così che, paradossalmente, il teatro creato da una donna, Okuni, finisce per essere sottratto e negato alle donne.

Se la figura della yamanba è centrale nei drammi cosiddetti yamanba mono, spetta al dramma Komochi yamauba (Yamauba con un bambino) di Chikamatsu Monzaemon imprimere, nel corso del XVIII secolo, una svolta nella rappresentazione della mostruosa creatura femminile: presentata «non più come la donna anziana di spaventoso aspetto del folclore e non solo come una donna giovane e bella, ma anche come una moglie e una madre devota» (p. 102).

Altro approfondimento proposto dall’autrice riguarda le cosiddette daraku jogakusei, le “studentesse degenerate” delle città del Giappone del XIX secolo che si sta aprendo all’Occidente e che intende modernizzarsi velocemente. Si tratta di giovani poco inclini a seguire le regole e desiderose di studiare. La scolarizzazione femminile permetterà l’accesso alla scrittura diretta delle donne, e la figura della jogakusei degenerata inizia a comparire nelle opere letterarie, come nel caso del romanzo Makaze koikaze (Vento di demoni, vento d’amore) del 1903 di Kosugi Tengai sebbene, in questo caso, l’intento dell’autore sia quello di mostrare come «l’istruzione, per le donne, sia pericolosa se non è mirata alla formazione di una persona che incarni il modello di sposa fedele e madre saggia, una donna patriottica al servizio di una nazione moderna» (p. 131). Prese di posizione moralistiche, votate a mettere in guardia le ragazze da un’istruzione non finalizzata al mantenimento dello status quo, le si ritrovano, a cavallo tra i due secoli, anche in diversi scritti di donne.

Se da un lato il governo Meiji guarda alle giovani donne come esempio della modernizzazione auspicata, non appena queste fanno capolino in ambito pubblico, si affretta a condannarle accusandole di perversione. È in questo stesso periodo che si sviluppa una sorta di “culto della verginità” che, almeno fino ad allora, ricorda l’autrice, non apparteneva alle classi popolari giapponesi. Proprio nel momento in cui il Paese intende darsi una veste illuminata sui modelli occidentali, si assiste ad una sostanziale confluenza fra un moralismo di stampo vittoriano e un rigorismo confuciano in direzione di uno Stato-famiglia (kazoku kokka) incentrato sul controllo della castità della donna “in età da marito”.

Se è difficile indicare le daraku jogakusei come vere e proprie ribelli, il fatto stesso che siano demonizzate, mostrificate e disprezzate conferisce loro un potere sovversivo, per quanto più percepito che agito. Se a dare voce alla sofferenza e alla disperazione delle donne di epoca Meiji contribuiscono scrittrici come Higuchi Natsu (Ichiyō), anche nella scelta del silenzio è possibile cogliere una forma di resistenza, come accade nel romanzo Onnazaka (1949) e nel racconto Ossa di uomini (Otoko no hone, 1956), entrambi della scrittrice Fumiko Enchi.

Spazio viene dedicato dall’autrice non solo ad attiviste come Kishida Toshiko, Fukuda Hideko e Kusunose Kita, attive sul finire del XIX secolo nella lotta per i diritti delle donne, ma anche a testimonianze che raccontano di come gli ideali del Movimento per la libertà e i diritti del popolo serpeggiassero persino tra le geisha. A tal proposito Marangoni ricorda la nascita nel 1883 a Kyōto di un’organizzazione di geisha denominata Jiyūkō (Associazione per la libertà) e di una associazione analoga a Kōchi, sull’isola di Shikoku, chiamata Geigi konshinkai (Società di amicizia delle geisha) mentre, nella stessa località, alcune di queste donne non mancano di partecipare attivamente alle assemblee prefettizie, mettendo persino in scena una “danza dei diritti civili” (minken odori).

Al libro Jokō aishi (La miserabile storia delle operaie) scritto dall’operaio tessile Hosoi Wakizō nel 1925, tra i fondatori della corrente della letteratura proletaria, si deve un importante racconto delle condizioni di vita delle giovani operaie di periodo Meiji, per quanto le dipinga come «soggetti passivi, inconsapevoli, incapaci di scegliere e di ribellarsi al proprio destino» (p. 209). Anche la moglie e collega di lavoro Takai Toshio racconterà, sebbene diverso tempo dopo, di quel mondo nel suo Watashi no “jokō aishi” (La mia miserabile storia delle operaie, 1980). Storie di vita di giovani operaie sono raccontate, in forma di diario, anche da Wada Ei nel testo uscito postumo Tomioka nikki.

Le avrebbero volute docili, perché così le hanno create: utilizzando abilmente le leggi che impedivano alle donne la partecipazione alla vita politica e che le relegavano perennemente allo stato di minore, attraverso una gestione paternalistica delle manifatture che esigeva lealtà e obbedienza e prevedeva contratti a breve termine per giovani che di lì a poco si sarebbero sposate e avrebbero abbandonato la fabbrica e che quindi non valeva la pena formare e responsabilizzare, i datori di lavoro idearono un prototipo di lavoro femminile che […] avrebbe costituito il modello per eccellenza di lavoro femminile nelle aziende per tutto o quasi il XX secolo. Un paradigma di successo ancora una volta destinato a limitare, arginare, circoscrivere il cammino delle donne verso una vera indipendenza (p. 214).

In realtà, tutt’altro che docili e remissive, le giovani operaie dei setifici e dei cotonifici (che costituivano l’80% della forza lavoro nel comparto tessile), negli anni Venti e Trenta del Novecento, diedero filo da torcere ai datori di lavoro «con scioperi massicci contro gli abusi sessuali dei sorveglianti, per la riduzione dell’orario di lavoro, per l’apertura dei dormitori. Lo faranno organizzandosi da sé, perché gli uomini – anche i loro compagni di lavoro – alla fine si rivelavano tutti preda di un’unica convinzione: che le donne non possano prendere l’iniziativa, che portano guai, che sono deboli e incapaci» (p. 216).

Secondo l’autrice il 1911 rappresenta per le donne giapponesi il momento di svolta in cui hanno acquisito consapevolezza della possibilità di rifiutare l’ideale di femminilità loro imposto. L’anno si apre con la messa a morte dell’anarchica Kanno Sugako, insieme ad una ventina di complici, per aver ideato un complotto per assassinare l’imperatore Meiji. Il 1911 è anche l’anno in cui a Tōkyō debutta in teatro la prima produzione giapponese di Ningyō no ie (Casa di bambola, Et dukkehjem, 1879) di Henrik Ibsen, diretta da Shimamura Hōgetsu con l’interpretazione di Matsui Sumako, la prima attrice diplomata in una scuola di teatro a salire sul palco in Giappone: «la rappresentazione fece scalpore per i contenuti esplosivi del dramma, che rivelavano l’ipocrisia del matrimonio, denunciavano la sottomissione della donna e mettevano in discussione l’autorità del capofamiglia in una realtà, come quella giapponese di fine Meiji, che non riconosceva alla donna neppure lo status di soggetto giuridico» (p. 223).

Lo spettacolo, scrive Marangoni, ha avuto un ruolo importante nello scuotere le coscienze delle donne giapponesi, nell’invitarle a quell’auto-risveglio che in giapponese, ricorrendo a un termine buddhista, verrà detto jikaku. Termine che verrà utilizzato anche a proposito della Nuova Donna moderna giapponese. Se da una parte le vicende della protagonista Nora, messe in scena sul palco, scuotono le coscienze femminili, queste, sottolinea la studiosa, inducono le donne giapponesi a domandarsi quanto sono disposte a sacrificare per la propria liberazione.

L’anno successivo ad essere messa in scena a Tōkyō è Magda (Heimat, 1893) del drammaturgo tedesco Hermann Sudermann, con la regia di Shimamura Hōgetsu. Si tratta di un dramma incentrato su di una giovane determinata a svincolarsi dalle ingerenze del padre per dedicarsi al canto che si trova a dare alla luce un figlio al di fuori del matrimonio ed a causare, suo malgrado, la morte del padre, colpito da un colpo apoplettico dopo aver tentato di uccidere la figlia in preda all’ira. Per l’attacco portato alla famiglia, lo spettacolo viene proibito subito dopo la prima: agli occhi del potere del tempo, quella della protagonista Magda rappresenta un’intollerabile insubordinazione alla famiglia gerarchica e, con essa, allo Stato stesso. Occorrerà aggiungere le scuse finali della donna affinché lo spettacolo possa essere nuovamente messo in scena, ma ormai «Magda, che rifiuta un matrimonio riparatore per perseguire da sola un’esistenza di madre indipendente che sfida le leggi del patriarcato, diventa per tutte l’eroina prediletta, colei che accompagna ciascuna nella presa di coscienza della propria condizione subalterna» (p. 227).

Il 1911 vede anche l’uscita del primo numero di “Seitō”, la prima rivista letteraria redatta e pubblicata esclusivamente da donne che, nei suoi cinque anni di vita, a cui contribuiscono centosessanta autrici, si trova più volte ad avere a che fare con la censura. Se la prima ondata femminista in Giappone, portata avanti dalle pioniere di epoca Meiji, si era battuta per la libertà di espressione, per l’eguaglianza dei diritti e delle opportunità educative, la seconda ondata, a cui prende parte la rivista, presenta nuovi temi e rivendicazioni «quali il riconoscimento di sé, della sessualità femminile e della libertà sentimentale e sessuale, affrontando nella scrittura argomenti finora inesplorati perché considerati tabù: prostituzione, castità, maternità, aborto, infelicità coniugale, divorzio, relazioni omosessuali» (pp. 232-233). Le ragazze di “Seitō”, scrive Marangoni,

sono cattive ragazze e le idee che propugnano di indipendenza, di libertà sessuale e sentimentale, di rifiuto di nozze combinate e di esistenze consumate nel chiuso delle case, queste idee le vivono, ribellandosi ai modelli, assumendo comportamenti che l’opinione pubblica considerava immorali e inammissibili. Sì, volevano vivere liberamente la propria sessualità e lo dichiaravano e lo scrivevano, senza i legami di costrizione, appunto, del matrimonio (p. 234).

L’autrice ricostruisce le tappe principali dell’esperienza della rivista, soffermandosi anche sull’anarchica femminista di Itō Noe che ne assume la direzione nel 1915 affiancando alle tematiche femministe anche istanze del movimento anarchico internazionale e rivendicazioni del movimento operaio. In seguito al grande terremoto della regione del Kantō (il cosiddetto Kantōdaijishin) che semina morte e distruzione (oltre centodiecimila morti e due milioni e mezzo senzatetto) si scatena in Giappone una furiosa e folle caccia ai coreani (incolpati di aver provocato incendi e di aver avvelenato pozzi), agli anarchici ed ai socialisti (accusati di approfittare della tragedia per fomentare una rivolta contro le autorità politiche). A farne le spese è anche l’anarchica Noe, assassinata in prigione, e l’anarco-nichilista coreana Kaneko Fumiko, che si suicida in carcere.

Di un certo interesse sono le modalità con cui viene raffigurata la figura femminile nel Giappone degli anni Venti del Novecento nelle cartoline satiriche chiamate saikun tenka (“il regno delle spose”): «mogli tiranniche che regnano su mariti deboli e li obbligano a occuparsi delle faccende domestiche e della prole» (p. 256). A parte il sorriso che poteva generare questa inversione di ruoli, tali cartoline, scrive Marangoni, rivelano piuttosto «una visione generalizzata decisamente maschilista e delle ansie che le donne moderne del Giappone ingeneravano» (p. 256).

Ad inquietare maggiormente la società giapponese nei primi decenni del XX secolo è la comparsa della shokugyō fujin, la donna lavoratrice che, uscendo di casa, può prendere coscienza della propria condizione confrontandosi con compagne di lavoro, una donna che può, finalmente, avanzare rivendicazioni, esprimere proprie idee ed esibire il proprio corpo e la propria sessualità. Se le popolane si erano già trovate a lavorare fuori casa, ora il fenomeno riguarda anche le donne dalla classe media.

La Nuova Donna di inizio Novecento è un pericolo perché rappresenta l’antitesi perfetta al modello di donna che era stato stabilito per lei, ossia «funzionale al mantenimento della famiglia patriarcale in uno Stato-famiglia sotto la guida di un imperatore-padre» (p. 258). Alla donna remissiva, obbediente, priva di diritti, voce e visibilità, fa da contraltare una Nuova Donna che, evitando di sottostare a tutto ciò, genera timore in quanto mina la stabilità sociale. Se questa nuova figura femminile è considerata svergognata e immorale dai conservatori, non manca di venire attaccata anche dagli ambienti di sinistra che la giudicano edonista e borghese.

Fatte le debite distinzioni, dettate dai differenti contesti, questo nuovo tipo di donna spavalda, con tutte le inquietudini che genera, fa la sua comparsa tra le due guerre mondiali anche in Occidente: la garçonne, la flapper, la Neue Frau, la maschietta ecc. Donne moderne a cui lo sguardo maschile guarda con ambivalenza: seduttive e utili all’economia (sia in ambito produttivo che di consumo) ma anche minacciose per l’integrità delle istituzioni fondanti della società tradizionale.

La modern girl che si ritrova nei romanzi giapponesi – in Chijin no ai (L’amore di uno sciocco, 1924), di Tanizaki Jun’ichirō, ad esempio, vine descritta come viziata e tirannica – è certamente differente da quella che si può trovare nella realtà ove, non di rado, dietro alle apparenze moderne, soprattutto nei locali, si cela un tragico universo di sfruttamento.

Nei primi anni Venti, le cameriere di Ōsaka danno vita ad un proprio sindacato, l’Ōsaka jokyū dōmei – presto sconfessato dalla sezione di Ōsaka della Nihon rōdō sōdōmei, la Confederazione giapponese del lavoro, che le accusa di “scarsa moralità” – con l’intenzione di rivendicare, tra le altre cose, l’abolizione del sistema delle mance che le obbligava a flirtare con i clienti ed il diritto ad essere rimborsate delle spese di lavanderia, dei pasti e dei materiali di consumo utilizzati durante il lavoro per presentarsi come richiesto dagli uomini che guardavano loro sospesi tra attrazione e timore. Per attenuare l’inquietudine che queste donne generano, gli uomini adottando facilmente rapporti di autorità su di esse. Nel raccontare delle forme di ribellione che si sono date in questo Giappone di inizio Novecento teso alla modernizzazione, Marangoni ricorda anche la lotta delle manekin gāru, ragazze impiegate nei negozi per stare in vetrina come manichini viventi.

Negli anni Cinquanta, complici le riviste patinate e lo stesso cinema, la figura della donna propagandata continua a ridurla a moglie e madre, come non esistesse al di fuori di questi due ruoli in cui è al servizio del marito o dei figli e che ha nella figura della casalinga il modello perfetto. Tale modello, però, viene fortemente messo in discussione negli anni Sessanta, quando prende piede una nuova generazione di attiviste femministe che prende il nome di ūman rību e che, nel decennio successivo non manca di lottare a difesa del diritto di aborto e per la legalizzazione della pillola contraccettiva. Particolarmente attivo è il movimento Chūpiren per l’autodeterminazione della donna nato nei primi anni Settanta.

In tale contesto ecco rifare capolino la yamanba: sono le donne stesse, come avviene del resto in Occidente, ad impossessarsi dell’appellativo di “strega”, tanto che i concerti di autofinanziamento organizzati dal movimento ūman ribu vengono chiamati dalle stesse attiviste witch concert. Nelle arti e nella letteratura si fanno sempre più potenti le voci delle donne che, attraverso tematiche intrise di sessualità e di erotismo, affermano un altro modo di essere donna in Giappone.

E il femminile demoniaco diventa così un motivo femminista. Protagoniste o comprimarie di queste narrazioni saranno le yamanba, le figure archetipiche di cui inseguo le impronte, che tornano sotto spoglie diverse nella letteratura giapponese degli anni Settanta, Ottanta e Novanta del XX secolo quali numi tutelari. O forse no, meglio, riappaiono come frecce scagliate contro un sistema che ancora guarda con sospetto questo Altro che è la donna. Andare verso yamanba, però, vuol dire scavarsi dentro, guardarsi con lucidità, per trovare in sé tutta la forza, tutta l’energia utile a uscire allo scoperto, a imporre le proprie idee, i propri desideri, con determinazione, senza vacillare (p. 295).

Quello proposto dalle storie scritte da donne ribelli è un nuovo modo di raccontare la yamanba. Punto di svolta in tal senso è il racconto Yamanba no bishō (Il sorriso della yamanba, 1976) della scrittrice Ōba Minako. La sua yamanba non è quella del folclore che la vuole isolata, ma una donna che vive in società nello spazio urbano, capace di leggere nella mente altrui. A partire da allora si sono susseguite svariate riletture della yamanba, tra queste Marangoni cita il racconto Yamanba (2009) della scrittrice e monaca buddhista Setouchi Jakuchō. Guardando più in generale alle tante riscritture che hanno fatto rifermento alla yamanba, la studiosa evidenzia che

si tratta per lo più di storie in cui l’elemento fantastico è prevalente o di racconti di fantascienza poiché, per immaginare un nuovo modo di essere donna, occorre immaginare mondi nuovi. E, sempre, queste fantasie di violenza, di morte, di antropofagia o di sadomasochismo liberano la donna dallo status di vittima e la rendono protagonista attiva in un percorso di liberazione doloroso e catartico al tempo stesso (p. 312).

Al termine del viaggio proposto da Rossella Marangoni, ci si accorge di come la donna che rifiutava/rifiuta di adeguarsi al modello femminile imposto, diventava/diventa facilmente un mostro, una minaccia per il patriarcato: una yamanba. Dedicato «Alle “cattive ragazze” del Giappone. E a tutte le yamanba che vagano libere», il viaggio proposto da Rossella Marangoni, impreziosito da un ricco apparato iconografico, è davvero un viaggio che vale la pena di compiere.

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La cultura di massa al capolinea https://www.carmillaonline.com/2025/02/03/la-cultura-di-massa-al-capolinea/ Mon, 03 Feb 2025 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86544 di Gioacchino Toni

Vanni Codeluppi, La morte della cultura di massa, Carocci, Roma 2024, pp. 116, € 13,00

Nella prima parte del volume Codeluppi tratteggia come si è guardato alla cultura di massa nella seconda metà del Novecento ricordando come il dibattito che si è sviluppato negli anni Sessanta attorno ad essa risenta in buona parte delle tesi prodotte sin dall’immediato secondo dopoguerra dalla Scuola di Francoforte tendenti a denunciare come il modello economico capitalista soffochi ogni istanza creativa ed espressiva di cambiamento ricorrendo ai media per manipolare le coscienze ed omologare i comportamenti degli individui proponendo spesso nelle sue narrazioni [...]]]> di Gioacchino Toni

Vanni Codeluppi, La morte della cultura di massa, Carocci, Roma 2024, pp. 116, € 13,00

Nella prima parte del volume Codeluppi tratteggia come si è guardato alla cultura di massa nella seconda metà del Novecento ricordando come il dibattito che si è sviluppato negli anni Sessanta attorno ad essa risenta in buona parte delle tesi prodotte sin dall’immediato secondo dopoguerra dalla Scuola di Francoforte tendenti a denunciare come il modello economico capitalista soffochi ogni istanza creativa ed espressiva di cambiamento ricorrendo ai media per manipolare le coscienze ed omologare i comportamenti degli individui proponendo spesso nelle sue narrazioni l’happy end come strategia di soddisfazione immediata volta ad allontanare dall’impegno politico orientato alla giustizia sociale.

Per quanto a proposito della cultura di massa anche in Italia, nel corso degli anni Sessanta, si guardi alle teorie francofortesi, è soprattutto Pier Paolo Pasolini a sviluppare nei suoi confronti una critica radicale accusandola di operare, insieme all’industrializzazione ed al nascente consumismo, un’omologazione distruttrice dell’universo arcaico contadino cancellandone gli stili di vita e la cultura popolare tradizionale.

Mentre il francese Edgar Morin, sin dai primi anni Sessanta, guarda in maniera dialettica alla cultura di massa nella sua complessità, mettendo in relazione il sistema di produzione culturale con i bisogni espressi dagli individui, lo statunitense Dwight Macdonald denuncia il farsi strada di una cultura di livello medio che, pur differenziandosi da quella di basso livello, dietro a forme derivate dalla “cultura alta” diffonde contenuti di scarsa qualità.

A guardare invece alla cultura di massa con inedito interesse sono studiosi come Marshall McLuhan, Roland Barthes ed Umberto Eco. In particole, quest’ultimo osserva come nella cultura di massa il fruitore tenda a ricavare godimento dalle variazioni di una struttura sostanzialmente conservativa e, soprattutto, nel confrontarsi con i tre livelli culturali (alto, medio e basso) proposti da Macdonald, Eco sottolinea come in realtà questi non corrispondano automaticamente a tre differenti livelli qualitativi e nemmeno ad altrettante classi sociali nettamente distinte: ad essere differenti sono piuttosto le modalità di fruizione degli individui, lo sguardo con cui si guarda ai prodotti culturali al di là del loro livello qualitativo e contenutistico.

Codeluppi ricorda dunque come sia in particolare il sociologo tedesco Niklas Luhmann a cogliere, nel corso degli anni Settanta, la progressiva frammentazione della società occidentale, avviata verso una stratificazione fondata su numerose subculture, anche a causa della radio e della televisione e di un generale superamento del modello fordista in direzione di una struttura produttiva reticolare sparsa sul territorio: qua si pongono le basi per quello che sarebbe poi stato chiamato “capitalismo digitale”. In Italia è Alberto Abruzzese a riprendere la Scuola di Birmingham ed i cutural studies che hanno colto come il futuro capitalismo digitale si sarebbe fondato sul nuovo ruolo assegnato ai consumatori, orientati a divenire “prosumer”, cioè sia producer che consumer.

Altro momento chiave su cui si sofferma Codeluppi è la comparsa del concetto di posmoderno introdotto da Jean-François Lyotard sul finire degli anni Settanta, a cui si farà ampio ricorso nel decennio successivo per designare, tra le altre cose, il processo di frammentazione culturale e di disgregazione dei confini tra cultura alta e bassa, che, secondo Fredric Jameson, ha comportato nelle società capitalistiche occidentali un vero e proprio appiattimento da cui è derivata una “estetica della superficie”, prontamente fatta propria dal neoliberismo, fondata più sulla “sensazione” che non sul significato e sull’interpretazione.

Come ha avuto modo di argomentare in Ipermondo (2012), piuttosto che di postmodernità, Codeluppi preferisce parlare di ipermodernità, in quanto individua in quest’ultima un’esasperazione della modernità piuttosto che un suo superamento. L’autore spiega poi come la tendenza messa in luce da Walter Benjamin dei media ottocenteschi, come il telefono, di suscitare nell’essere umano un atteggiamento di soggezione, sia del tutto applicabile anche al grande schermo cinematografico che troneggia su una sala in cui il pubblico è mantenuto al buio ed al televisore che, come evidenziato da Jean Baudrillard, tende ad essere posto su un piedistallo. Come ha notato Byung-Chul Han, le cose sembrano cambiare con gli strumenti digitali e mediatici, visto che questi non creano forme di soggezione in quanto sono stati “naturalizzati”, si potrebbe dire con McLuhan incorporati come protesi, sancendo così l’avvenuta ibridazione dell’essere umano con i dispositivi tecnologici.

I media contemporanei si caratterizzano, oltre che per una inedita accelerazione dei tempi di fruizione, per il ricorso a modalità di “comunicazione di flusso” che non mancano di “fluidificare” gli stessi spettatori: se i media ottocenteschi e della prima parte del Novecento ambivano a “catturare l’attenzione” di una massa, gli strumenti digitali tendono invece a cerare “sciami digitali”, come li definisce Byung-Chul Han, cioè aggregati di individui che condividono una condizione comune sebbene d’isolamento. Al posto di ambire ad identificarsi in un gruppo di grandi dimensioni, gli individui contemporanei ricercano modalità con cui sentirsi differenti dagli altri.

Codeluppi segnala come l’universo televisivo da qualche tempo sembri essersi avviato verso una polarizzazione che vede da un lato i canali generalisti seguiti soprattutto da un pubblico di età avanzata e di basso livello di scolarizzazione e dall’altro le grandi piattaforme a pagamento che vantano un pubblico più giovane e maggiormente scolarizzato. Se tali piattaforme, interne ai processi di digitalizzazione e globalizzazione, da un lato tendono ad omogeneizzare la somministrazione di prodotti audiovisivi agli spettatori delle diverse aree del Pianeta e dei più diversi orientamenti culturali, dall’altro, ricorda lo studioso, non mancano di produrre opere imperniate attorno a specificità locali e culturali rendendole disponibili ovunque e a tutti.

A risultare sempre più evidente nella società contemporanea è soprattutto il ridimensionamento del ruolo svolto dalla middle class che in passato rappresentava il principale target di mercato per i prodotti culturali di livello medio. Soprattutto negli Stati Uniti è evidente come ad essersi indebolito sia quello che a lungo è stato il punto di forza del sistema cinematografico: la capacità di realizzare opere popolari di successo commerciale ed al tempo stesso di discreto livello qualitativo. Per indicare tale processo, Codeluppi parla di “marvelizzazione” della cultura, intendendo evidenziare come a tutto ciò abbia contribuito la Marvel con il suo cinema di supereroi.

Nati negli anni Trenta del Novecento, i supereroi hanno visto scemare il ruolo di grande rilievo che avevano assunto nell’immaginario collettivo alla fine della seconda guerra mondiale venendo per certi versi sostituiti dalla fantascienza, probabilmente più adatta a rapportarsi con le inquietudini del momento. Negli anni Sessanta la Marvel ha drasticamente modificato i suoi supereroi facendoli per certi versi “scendere dall’Olimpo”, umanizzandoli, un po’ come era avvenuto per le divinità della statuaria greca tardo classica, in un memento di crisi delle poleis. Pian piano è stato creato un unico grande contesto – Marvel Cinematic Universe – in cui i diversi personaggi della scuderia possono incontrarsi ampliando a dismisura gli intrecci narrativi e dando al tempo stesso unitarietà all’universo Marvel. Riprendendo la tendenza seriale televisiva, inoltre, i film dei supereroi tendono ad adottare finali aperti che preannunciano futuri sviluppi in nuovi “episodi”.

Il successo del sistema Marvel, sostiene Codeluppi, «ha contribuito in maniera significativa a fare andare profondamente in crisi ambiti in precedenza importanti all’interno del mercato cinematografico, come le commedie sentimentali, i film drammatici e i film indipendenti»; insomma, «il dominio dei film Marvel probabilmente ha accelerato la quasi totale scomparsa dal mercato di quelli che erano in passato i film di fascia media» (p. 69) e che ora non sarebbero sufficientemente redditizi, soprattutto se paragonati agli incassi delle opere con i supereroi, che, tra l’altro, si dilatano facilmente in redditizi franchise e merchandising.

Codeluppi si sofferma brevemente anche sull’universo musicale notando come, a partire dagli anni Ottanta, quando hanno preso piede i videoclip musicali, si è assistito ad un progressiva importanza assegnata all’immagine dei/delle cantanti, vero e proprio prodotto commerciale principale, rispetto alla creatività e alle sperimentazioni musicali e testuali delle canzoni. Si tenga inoltre presente, sottolinea lo studioso, che le stesse modalità di consumo dei prodotti digitali tendono ad abbassare la qualità estetica: i prodotti musicali ed audiovisivi vengono spesso fruiti in condizioni ambientali “disturbate”, esterne, di movimento, di scarsa concentrazione, superficiali, dunque come mero intrattenimento di fondo senza prestarvi particolare attenzione.

Si può pertanto parlare di una vera e propria crisi che riguarda le modalità espressive impiegate per comunicare. Se ciò avviene, è probabilmente perché si pensa che un’attenzione per la qualità estetica possa determinare un rallentamento dell’attività svolta dai flussi in azione nel sistema mediatico. Dunque si ritiene che sia necessario concedere spazio soprattutto a forme elementari e poco distintive, che possono circolare facilmente e senza ostacolare il movimento dei flussi, ma che, proprio per questo, determinano in impoverimento dell’offerta culturale (p. 78).

In un’epoca in cui il modello comunicativo è imperniato principalmente sull’efficacia di funzionamento, e sulla redditività, con conseguente abbassamento della cura formale dei messaggi, a proliferare, afferma Codeluppi, è il “culto del banale”. Basti pensare al successo dei reality show che, in alcuni casi, riescono a far coincidere il flusso della vita quotidiana del pubblico con quello televisivo. Il processo di “vetrinizzazione” di cui lo studioso si è a lungo occupato (La vetrinizzazione sociale, 2007; Tutti divi, 2009; Mi metto in vetrina, 2015; Vetrinizzazione, 2021), particolarmente evidente nei social e in piattaforme come OnlyFans, assume le forme del “bordello senza muri”, di cui parlava McLuhan, privo di cura estetica dei contenuti.

Lo schermo non mostra eventi rilevanti, ma le persone rimangono ugualmente davanti a esso. Evidentemente, non siamo più di fronte a un processo di trasmissione di messaggi dotati di un contenuto, ma a una pura forma di circolazione, a una connessione costante basata su un flusso ininterrotto di contenuti poco rilevanti e finalizzati soltanto a ottenere di essere visti. Forse, è possibile anche sostenere che non siamo più di fronte a un vero processo di comunicazione, ma soltanto a semplici pratiche di condivisione di forme espressive (p. 84).

La stessa tendenza alla gamificazione, al ricorso delle logiche ludiche a scopi motivazionali-prestazionali-profiettevoli, enormemente aumentata con la digitalizzazione, può essere vista come evoluzione di quella proposta televisiva indirizzata, come argomentava a metà degli anni Ottanta Neil Postman, a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, progettati esclusivamente per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito.

Rispetto ai simulacri (copie di copie che si rinviano senza fine senza che esista più un originale) a cui faceva riferimento Jean Baudrillard, nelle attuali società fortemente mediatizzate, secondo Codeluppi, si è di fronte a “simulacri integrali”, che si costruiscono autonomamente un loro originale, dunque non si avrebbe più a che fare «con un rapporto tra la realtà e un suo modello di rappresentazione, ma con un rapporto diretto tra modello e modello». Si giungerebbe così al tramonto della realtà; non perché questa cessi davvero di esserci, ma perché tende ad essere «sostituita da un altra specie di realtà: quella mediale e digitale. Perché i media tendono a costruire un mondo privo di problemi e decisamente più piacevole rispetto a quello fisico» (p. 96)

Gli strumenti digitali amplificano a dismisura quanto già introdotto dalla televisione: la richiesta ai fruitori di lasciarsi andare ad una comunicazione di flusso tendente ad annullare ogni contenuto profondo. «Il modello che s’impone è quello di un social media come TikTok: video brevi o anche brevissimi e assenza di qualsiasi forma di approfondimento» (p. 99). Altro che società dell’informazione, l’attuale era digitale si sta rivelando in realtà dispensatrice di disinformazione, disorientamento ed ignoranza. È in un tale contesto che, da qualche tempo, ha fatto irruzione l’intelligenza artificiale generativa prospettando per i cantori del mondo sin qua descritto magnifiche sorti e progressive e, per chi guarda a tutto ciò con occhio critico, un panorama decisamente inquietante, ma che può e deve essere cambiato.

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 3 https://www.carmillaonline.com/2024/11/09/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-3/ Sat, 09 Nov 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85113 di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Verso Il golem (1909-1915)

Nel 1908 a Meyrink è nato un figlio, la cui parabola di vita segnerà anche quella di Gustav: il giovane Harro Fortunat si suiciderà nel luglio 1932 dopo aver appreso, in seguito a un incidente di sci, di essere rimasto inguaribilmente paraplegico. L’evento condurrà il padre a non lottare più contro la malattia, e morire sei mesi dopo nel dicembre ’32. Ma siamo ancora lontani da quel triste epilogo.

Gustav si trasferisce nel 1911 a Starnberg in Baviera, dove vivrà per il resto della vita; viaggia [...]]]> di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Verso Il golem (1909-1915)

Nel 1908 a Meyrink è nato un figlio, la cui parabola di vita segnerà anche quella di Gustav: il giovane Harro Fortunat si suiciderà nel luglio 1932 dopo aver appreso, in seguito a un incidente di sci, di essere rimasto inguaribilmente paraplegico. L’evento condurrà il padre a non lottare più contro la malattia, e morire sei mesi dopo nel dicembre ’32. Ma siamo ancora lontani da quel triste epilogo.

Gustav si trasferisce nel 1911 a Starnberg in Baviera, dove vivrà per il resto della vita; viaggia (Lago di Garda, Praga, Berlino, Svizzera) e produce in varia forma. Tra il 1909 e il 1914, per necessità alimentari, traduce opere di Charles Dickens (Nikolas Nickleby, David Copperfield, Oliver Twist, Il circolo Pickwick), Rudyard Kipling, Lafcadio Hearn e Camille Flammarion. Legittimo pensare che l’immersione in Dickens possa giovare ai suoi progetti di romanzo: in questa fase si ha infatti l’incubazione del capolavoro Der Golem, avviato a Monaco fin dal 1907. Intanto, in collaborazione con lo scrittore Alexander Roda Roda (1872-1945), incontrato in un cenacolo viennese frequentato da Eckstein e pure autore del “Simplicissimus”, vara diverse commedie, via via rappresentate: Bubi (Schuster & Loeffler, Berlino 1912), Il Consiglio medico (Schuster & Loeffler, 1912), Lo schiavo di Rodi (un adattamento dall’Eunuchus di Publio Terenzio Afro, Schuster & Loeffler, 1913), L’orologio (Ahn & Simrock, Berlino 1914). Le annotazioni scenografiche di Gustav rivelano l’influenza delle concezioni artistiche degli studi viennesi, e questi testi (assieme alla sua trasposizione teatrale di varie novelle, in particolare L’albino) rivelano un genuino interesse per il teatro, dove inietta le sferzanti satire dei racconti. Se l’insuccesso riscontrato raffredderà le cose, Gustav inizierà a guardare alle ricche possibilità di un’altra arte più di recente emersa, il cinema; e d’altra parte, come mostra l’esperienza del cinema ungherese (brevi proiezioni seguite dall’irruzione in palcoscenico degli attori, a interagire coi propri personaggi: cfr. qui) i due mezzi mostrano al tempo anche interessanti ibridazioni.

Gustav vagheggia anche la fondazione di una rivista “di pura bibliofilia”, contro il gusto che imperversa a Monaco: titolo previsto, “Gent”, e dovrebbe uscire nel settembre 1913 – ma nei fatti il progetto non decolla. Nel marzo 1913 e poi fino all’anno successivo riprende anche un vecchio progetto (1907-08, con Richard Teschner) di teatro di marionette, ma anche questo senza seguito. Negli anni che precedono la Grande guerra, è poi coinvolto dall’amico Hans Ludwig Held, direttore della Stadtbibliotek di Monaco, quale potenziale collaboratore di una vagheggiata Accademia tedesca di Letteratura e Arte “per evitare il tramonto della letteratura tedesca”: una sorta di risposta ai livorosi attacchi dei circoli nazionalisti tedeschi, iniziativa che però non trova concreti sviluppi.

Nel 1913 esce in tre volumi per Langen di Monaco la grande raccolta di suoi racconti Des deutschen Spiessers Wunderhorn per i tipi Langen di Monaco (malizioso fin dalla copertina, parodizza il romantico Des Knaben Wunderhorn di Achim von Arnim e Clemens Brentano, ma Il corno magico – cioè la cornucopia – del titolo non è del fanciullo bensì del piccolo borghese tedesco); e il volume Der Kardinal Napellus. Erzählung seguirà per Bachmair sempre di Monaco nel 1915. Ma Gustav non smette di scrivere testi brevi, seppur meno numerosi.

Così troviamo anzitutto L’imperatore segreto. Frammento (Der heimliche Kaiser: Fragment), scritto nel 1907 e pubblicato nel 1909 come cap. XII dello scherzo letterario a più mani Der Roman der XII di “Peter Squentius Vindobonensis” (uno pseudonimo collettivo per con Hermann Bahr, Otto Julius Bierbaum, Otto Ernst Schmidt, Herbert Eulenberg, Hanns Heinz Ewers, Gustav Falke, Georg Hirschfeld, Felix Hollaender, Gabriele Reuter, Olga Wohlbrück, Ernst von Wolzogen più appunto Meyrink: il sottotitolo Fragment appare però nella riedizione nella raccolta Fledermäuse: Ein Geschichtenbuch, 1917). L’aspetto forse più interessante dell’esperimento è dato dalla partecipazione di Meyrink assieme a quell’Ewers – brillante ed equivoco visionario e pornografo – che in fondo è una sorta di suo ideale contraltare.

Per racconti veri e propri, Il cardinale Napello (Der Kardinal Napellus, “Süddeutsche Monatshefte” 1913), presenta la storia di Hieronymus Radspieller – forse un ex-monaco, che ormai scrive eruditissimi libri contro fede, speranza e promesse bibliche – residente nel piano affittato e sontuosamente arredato di un castello, e che passa molto tempo nella sua barchetta sul lago. Ha messo a disposizione alcuni locali a un gruppo di quattro amici pescatori: tra loro è il botanico Eshcuid, che un giorno arriva con una pianta velenosa strana e altissima, il napello. A un certo punto Radspieller li raggiunge, ma la situazione è stranamente tesa: la sua sonda di piombo ha raggiunto finalmente il fondo del lago, “il punto più profondo della Terra che uno strumento abbia mai raggiunto!”.

Beninteso, l’evento non gli interessa dal punto di vista dell’astratta scoperta scientifica: “la scienza per noi è solo un pretesto per compiere qualcosa, qualsiasi cosa, non importa cosa”, visto che la vita ha prosciugato loro l’anima. Col risultato di far loro inseguire “capricci infantili per dimenticare quanto [hanno] perduto” e solo per quello. Ma quei capricci hanno anche un altro senso, “Non c’è nulla che possiamo fare che non sia magico”: il suo scandagliare nelle ombre è stato solo un atto esteriore, “ma colui che sa vedere e interpretare, già dall’ombra informe sulla parete sa riconoscere chi si è posto davanti alla lampada…”. Poi, alla domanda di uno dei pescatori su quale evento di vita gli abbia inflitto una ferita tanto amara da lasciarlo così rabbiosamente scettico, spiega di non essere mai stato prete ma suo padre era morto in preda al delirio religioso e lui ne aveva ereditato le angosce.

Nella valle dov’è nato, i membri della setta dei Fratelli azzurri cui lui è appartenuto a lungo, all’approssimarsi della morte si fanno seppellire vivi: e nello stemma del loro monastero spicca una pianta velenosa, il cui petalo superiore somiglia al cappuccio di un monaco – è l’aconitum napellus, il napello blu… Nel giardino del monastero cresce quest’erba azzurra, annaffiata con il sangue delle piaghe che i monaci si autoinfliggono a frustate. All’ingresso nell’ordine si pianta un esemplare che riceve il nome del nuovo adepto. Anzi, sul tumulo del fondatore della setta, il leggendario cardinale Napello, sarebbe cresciuta in una notte di plenilunio una pianta mentre il cadavere di lui scompariva, trasformato in essa, e di lì sarebbero venute le altre. I confratelli si alimentano dei semi tossici del napello, che li portano in uno stato tra vita e morte alla mutazione dei loro cuori… ma dopo un po’, resosi conto dell’effetto di accumulo del veleno per assurde speculazioni misticheggianti, Hieronymus aveva distrutto la pianta che recava il suo nome. La notte aveva poi avuto una visione del cardinal Napello con in mano la pianta dai fiori azzurri, i tratti cadaverici – solo gli occhi erano vitali – e spaventosamente uguale a lui… Allora s’era recato di soppiatto al refettorio, aveva forzato l’urna con le reliquie del cardinale e vi aveva trovato solo il mappamondo che ora è lì nella nicchia, ma l’aveva accompagnato nella fuga dal monastero. Per profanare maggiormente la reliquia l’aveva venduta, donando il ricavato a una prostituta: ma il mappamondo era in seguito tornato in suo possesso in modo casuale tramite un amico…

Ora lì tra vette montane e profondità del lago si era liberato di una religiosità necrotica e della “menzogna che la vita avrebbe uno scopo profondo”, mentre non c’è che terra… Ma a quella confessione tutti sono angosciati, e il botanico cerca di reagire studiando il mappamondo, evidentemente una falsa reliquia moderna che riporta i cinque continenti perfettamente tracciati – c’è persino riportato il piccolissimo lago locale… Hieronymus sta sbeffeggiando il cardinale che non gli appare più nei sogni, ma all’improvviso si accorge con orrore e un rantolo strozzato del napello portato lì dal botanico stesso: il quale nel frattempo ha staccato con un ago la pergamena a copertura del mappamondo, che rivela all’interno una sfera di cristallo dov’è fusa “la figura eretta di un cardinale con mantello e cappello che teneva in mano, quasi fosse un cero ardente, una pianta con i fiori a cinque petali dal colore dell’acciaio”.

A quel punto Hieronymus, similmente immobile e con il napello in mano, precipita nella follia. I quattro amici abbandonano il castello e si separano, per non incontrarsi più; ma tornato sul luogo molti anni dopo, il narrante trova solo rovine del castello, con un’enorme aiuola di fiori ad altezza d’uomo. “[…] era l’aconitum napellus”.

Scritto nel 1913, I miei tormenti e le mie gioie nell’aldilà: comunicati attraverso suoni di colpi spiritici (Meine Qualen und Wonnen im Jenseits: Durch spiritistische Klopflaute mitgeteilt, “Simplicissimus”, 13, 1914) è una farsesca storiella sullo stesso Meyrink, in ipotesi suicida per impiccagione, che racconta scene dell’aldilà dopo il passaggio sulla “chiatta, guidata dal primo presidente del club di canottaggio Caronte” e l’incontro con un’angelicata figura femminile dall’“odore pungente di latte di capra” (un odore, ricordiamo L’anello di Saturno, associato alle beghine) che si rivela Emmeline Pankhurst, la leader delle suffragette. In seguito la sua strada si incrocia con quella di Anubi, Torquemada e Lucrezia Borgia… e il tutto si risolve in una satira sulle rivelazioni degli spiritisti.

“Che cosa siamo noi esseri umani se non burattini indifesi, guidati dai fili da un destino crudele – qua e là, solo per poi abbandonarci all’improvviso senza capo né capo, come per un capriccio infantile?”: La storia del rapinatore-assassino Babinski (Die Erzählung vom Raubmörder Babinski, “Die Ernte”, 3, 1915) è narrata da un uomo che sente ormai estranea la sua casa e prende a peregrinare come un wanderer in una Praga nebbiosa sotto monumenti incombenti. Il testo, che troviamo quasi completamente assorbito nel Golem (capitolo “Donna”), vede la comparsa di tre vecchi amici del protagonista, il burattinaio Zwakh (ispirato all’amico pittore e scultore Richard Teschner, 1879-1948, con cui Gustav ha vagheggiato un teatro di marionette), il pittore Vrieslander (l’amico illustratore John Jack Vrieslander, 1879-1957) e il musicista Prokop. “‘Si siederanno nella locanda del ‘Vecchio Ungelt’ con un bicchiere di grog’, immaginai, ‘e si racconteranno storie grandiose e grottesche’”. Ma la sorpresa maggiore per il lettore del racconto è quando il protagonista entra nel locale dove si ritrovano gli amici e viene chiamato Pernath, come appunto il protagonista del Golem: i tre prendono a raccontargli la storia del truce Babinski.

 

“A poco a poco nelle migliori famiglie si cominciò un bel giorno a registrare la scomparsa di questo o quel congiunto, atteso per il pranzo e invece mai più rincasato. Per quanto in principio nessuno dicesse nulla, perché la cosa aveva in certo modo un suo aspetto positivo, dovendosi così durar meno fatica attorno ai fornelli, non si poté d’altra parte passar sopra al forte rischio che ne venisse a soffrire la propria reputazione e si divenisse oggetto di spiacevoli chiacchiere tra la gente.”

 

Babinski, curiosamente, vive nell’idilliaco di Krtsch presso Praga, in una casetta dal giardino fiorito di gerani: e prende a seppellire le vittime sotto un tumulo erboso che attira sospetti con la sua crescita progressiva. Infine arrestato, viene condannato a un’economica impiccagione, ma allo spezzarsi della corda del cappio la pena è commutata in ergastolo. Viene apprezzato dai funzionari dell’istituto, e infine, amnistiato, è assunto come portinaio nel monastero delle Sorelle della Misericordia. Si emenda, e dalla locanda il sabato sera torna sempre presto, rattristato dalla bassa morale degli avventori. Indignato che a Praga si vendano sue statuette in cera come pericoloso assassino, biasima il fatto che si continuino a sottolineare gli errori di giovinezza di una persona – ed espressosi così sul letto di morte otterrà il divieto di quel commercio.

Come il dottor Hiob Paupersum portò rose rosse alla figlia (Wie Dr. Hiob Paupersum seiner Tochter rote Rosen brachte, “Simplicissimus”, 20, 1915), ambientato a Monaco, è un apologo di critica a una società cinicamente indifferente alle sofferenze dei poveri (il protagonista ha il nome parlante di Giobbe – in riferimento al personaggio biblico – “Pauper sum”, “Sono povero”): dopo aver portato un mazzo di rose alla tomba della figlia, Hiob si taglia le vene, conficca le mani nella terra e il sangue cola “giù verso colei che riposava là sotto”. La scena richiama la morte di Charousek nel Golem, ma, nel caso del povero padre, “Sul suo volto bianco […] era dipinto lo splendore di una pace superba che nessuna speranza era più in grado di turbare”.

Il gioco dei grilli (Das Grillenspiel, “Simplicissimus”, 23, 1915) richiama invece una visione avuta dall’autore nel 1915 sulle cause occulte che starebbero dietro alla Grande guerra. Apparentemente si ambienta nel mondo degli entomologi: in questione è “la scoperta di una nuova specie di grillo bianco” nel luglio 1914 in Bhutan, allora Tibet sud-orientale e oggi stato autonomo, “usato dagli sciamani per pratiche magiche ed è chiamato Phak, una parola che è anche un epiteto ingiurioso per tutto ciò che ha somiglianza con un europeo o con un individuo di razza bianca”. A turbare l’autore della scoperta, lo studioso Johannes Skoper, è l’incontro con un Dugpa, un sacerdote-diavolo della religione Bön che sostiene di discendere dal demone dell’Amanita muscaria (ricordiamo le commistioni umane/vegetali dei racconti e i personaggi che si chiamano come vegetali tossici) ed esperto nel sentiero della Mano Sinistra: ha “il volto dai bagliori verde-olivastri come non avevo mai visto in nessuna creatura vivente” (cfr. il successivo romanzo Il volto verde), un cappuccio rosso in testa ed è addirittura un Samtscheh Mitschebat, “un essere che non è più lecito definire uomo” con illimitati, allarmanti poteri,. Tanto più dopo una scena che mostra l’influsso strano del Dugpa sulla specie di grilli sconosciuta: al comando magico del sacerdote-diavolo, in grado di sciogliere e legare, gli insetti hanno preso a combattere furiosamente e dilaniarsi in modo ripugnante.

 

Non riuscivo a liberarmi da quelle parole: Egli scioglie e lega. A poco a poco esse venivano ad assumere nella mia mente un significato spaventoso e nella mia fantasia quel mucchio di grilli sussultanti si trasformava in milioni di soldati morenti.

Mi mozzava il respiro l’incubo di un senso di responsabilità inspiegabile e mostruoso che era tanto più tormentoso tanto più ne ricercavo invano dentro di me la causa.

 

Lo studioso non torna vivo dal Tibet, mentre si rivela vivo l’esemplare di grillo creduto morto, e chi si appresta a conservare. Invano inseguito dagli studiosi:

 

Scuotendo la testa, il vecchio [Demetrius, il custode] li osservava da dietro la grata della finestra inseguire il grillo con i retini per le farfalle, poi volse lo sguardo verso il cielo serale che imbruniva e mormorò: “Che strane forme assumono le nuvole in questi terribili tempi di guerra! Quella nuvola là ha le sembianze di un uomo, il volto verdastro e il cappuccio rosso, se gli occhi non fossero così distanti avrebbe quasi un aspetto umano. È proprio vero che anche in veneranda età possiamo diventare superstiziosi”.

 

Sempre nel filone delle storielle maliziose con animali, Amadeus Knödelseder, l’incorreggibile avvoltoio degli agnelli (Amadeus Knödlseder, der unverbesserliche Lämmergeier, “Simplicissimus”, 30, 1915) è una favola satirica fino allo sberleffo sui compatrioti bavaresi (ma ce n’è anche per gli italiani).

Racconti insomma nel complesso interessanti, anche se il periodo va soprattutto ricordato come quello di incubazione e presentazione del capolavoro di Meyrink, Der Golem. Il romanzo è apparso serializzato su “Die Weißen Blätter” tra dicembre 1913 e agosto 1914, e dopo vari rifiuti viene edito infine a Lipsia per i tipi Kurt Wolff, 1915. Che la stampa decisa di duemila copie venga realizzata in ventimila per un errore editoriale pare ovviamente una leggenda: ma il risultato è un bestseller che esaurisce le copie in pochi mesi (145.000 copie vendute in due anni) e a oggi continua a essere riedito e ristampato, anche in Italia.

Tradotto in italiano nel 1926 (in due volumi, per i tipi Campitelli di Foligno, dal goriziano Enrico Rocca, amico di Stefan Zweig, sull’onda del successo per la scrittura modernista che – come vedremo – connota l’opera), in ceco, inglese e francese alla fine degli anni Venti, il romanzo presenta la storia di Athanasius Pernath, un restauratore e intagliatore di pietre preziose che vive nel ghetto di Praga. Ma la presenta facendola vivere con uno stratagemma narrativo molto interessante, che già conduce sulle vie sottili dell’interiorità: all’inizio del Novecento un giorno, nella Cattedrale, l’innominato narrante – uno scrittore che legge un libro sulla vita di Siddhartha Gautama prima di andare a letto, virtualmente Meyrink stesso – scambia per errore il suo cappello con quello dell’ormai anziano Pernath, e ne rivive la vita da trent’anni prima, la sua ricerca identitaria nonché la rete di vicende di una serie di persone a lui connesse. Risvegliatosi dopo un inquieto dormiveglia nei panni del quarantenne Pernath, si vede dunque commissionare da un misterioso sconosciuto (il golem?) il restauro di un antico, fatale libro, Ibbur, che gli spalanca le dimensioni dell’interiorità. Accanto a Pernath e idealmente alle sue spalle, come i geni antitetici del male e del bene del Faustus di Marlowe, sono due personaggi del ghetto: il ricco, spiacevole rigattiere Aaron Wassertrum, uomo dell’Ombra e forse assassino – sorta di repellente precipitato di tutti gli stereotipi razzisti antiebraici – fronteggiato dalla sua nemesi e figlio naturale, lo studente di medicina tisico Innozenz Charousek, di cui ha sfruttato sessualmente la madre (il personaggio pare ispirato a Meyrink dallo scacchista ungherese Rudolf Charousek, 1873-1900); e il luminoso, saggio mistico Hillel, impiegato al municipio ebraico, mentore di Pernath sulla via del Talmud e della Cabala, della cui compassionevole figlia Mirjam, la ragazza che crede ai miracoli, il Nostro s’innamora.

Circondato da presenze deliziose (i tre impagabili amici Zwakh – il burattinaio suo padrone di casa –, il pittore Vrieslander e il musicista Prokop) o torbide (la ripugnante prostituta quattordicenne dai capelli rossi Rosina, in apparenza parente di Wassertrum; i gemelli Loisa e Jaromir; l’ambiguo adultero seriale dottor Savioli e la contessa Angelina sua amante…), tra cadute morali e aspirazioni alla luce, Pernath viene accusato falsamente di omicidio e finisce in carcere – come Gustav anni prima. Peccato che durante quel periodo lo sventramento urbanistico del quartiere ebraico e una serie di convulse vicende cancellino il suo mondo e facciano sparire gran parte dei personaggi… Così quando il Nostro viene liberato si mette alla ricerca di Mirjam. La restituzione del cappello alla fine (teniamo presente che Meyrink stesso vede alla luce del passato e della distanza la Praga da cui è partito tanto tempo prima) ha il sapore di un lieto fine e di un riposizionamento spirituale, di un recupero identitario su un piano più alto.

La stile onirico, ellittico e febbricitante – ma anche, a tratti, surrealmente vignettistico e caricaturale, in un legame mai perduto con la produzione breve dell’autore – si collega anche con la genesi editoriale e la forma a puntate della narrazione che deve ogni volta rilanciare sia nel segno del mistico che degli effetti di “presa” sul lettore. Merita ricordare che le illustrazioni inizialmente varate da Alfred Kubin per Il golem (la corrispondenza risale al 1907), a fronte dei ritardi di Gustav, finiranno nel romanzo kubiniano L’altra parte: e in effetti, senza alcuna necessità di denunciare imprestiti tra l’una e l’altra opera, tra l’onirica Praga di Meyrink e la straniante Perla di Kubin emergono interessanti analogie.

A questo quadro sfuggente pertiene la stessa figura del golem: qui non un gigante d’argilla sollevato misticamente dai rabbini a tutela della comunità del ghetto, come nelle leggende, ma una creatura sfuggente, perturbante (emblematico il volto attribuitogli da Hugo Steiner Prag nell’edizione originaria, oggi riprese in quella italiana per Tre Editori, 2015) che vediamo di rado ma pare evocare gestalticamente spirito e psiche collettiva del ghetto – dove appare con regolarità – e dei suoi abitanti, prendendo consistenza dalla sofferenza storica dei medesimi. E che, come un doppio, rispecchia anzi qualcosa dell’anima della singola persona che lo incontra, delle sue ossessioni e angosce. Insomma,

 

La leggenda dell’essere formato da polvere o argilla che prende vita attraverso l’evocazione rituale di una combinazione di lettere per aiutare la comunità nel testo di Meyrink assume da subito sfumature moderniste. […] La rappresentazione del golem, più che essere la figurazione mistica della tradizione, in Meyrink si lega perciò già all’inizio del romanzo a una riflessione narrativa sull’identità e il doppio, l’inconscio e il fantastico. [Cristina Fossaluzza, Composizione surrealista con figura invisibile. Il golem di Gustav Meyrink nella traduzione di Enrico Rocca, “Ticontre. Teoria Testo Traduzione”, 18 (2022)]

 

D’altra parte, così come rende interiore e psicologica la funzione del golem, allo stesso modo Gustav compone un intreccio che – descrizioni d’ambiente a parte – è tutto interiore. Hillel spiega a Pernath che Sapere e Memoria sono identici, trascendendo le polarità di razionale e irrazionale. I momenti di sogno sono sempre più numerosi, il racconto ne viene via via saturato e la coscienza (lo si veda nell’uso stesso dei tempi) viene inghiottita dal subconscio.

Vano dunque porsi il problema dell’oggettività delle esperienze di Pernath e in fondo dell’anonima voce narrante: il tutto si traduce a sogni, visioni, allucinazioni o eventi interiori, trascendenti, che ritmano la vicenda lungo il suo corso. Tra l’altro emerge che Pernath ha avuto in passato un crollo mentale per mal d’amore, ed è stato a lungo ricoverato in manicomio prima di un blocco della memoria indotto dall’ipnosi – ma il tutto resta sfuggente e rimosso, come il suo stesso pregresso giovanile, per riemergere all’incontro con Angelina, oggetto del suo antico sentimento. Da perfetto narratore inaffidabile, guardato con perplessità dagli amici nella sua stabilità mentale, il protagonista sfida così il lettore a capire quanto gli eventi siano reali – almeno su un certo piano – ma, appunto, il problema rischia d’essere malposto.

Freddino sull’insieme, Kafka vedrà in Meyrink e nella Praga del Golem anzitutto la forza di una pittura d’atmosfera: e certo l’ambientazione resta uno straordinario punto di forza dell’opera. A dispetto di ogni banalizzazione turistica odierna sulla Praga “magica”, l’attenzione dei lettori può così focalizzarsi su quello storico quartiere ebraico di Praga che al momento della pubblicazione è ormai completamente ridisegnato.

Il risultato è un enorme successo editoriale. Presentato in modo un tantino forzato: un “sensazionale romanzo poliziesco” sul “Demone di Praga”, che insieme crea suspense e stimola una riflessione etica sui temi dell’anima del destino. Se non manca chi lodi la dimensione filosofica e teosofico-religiosa del romanzo, molti vi vedranno semplicemente un fantastico tout court dalle caratteristiche un tantino cervellotiche, o magari un semplice, per quanto suggestivo, romanzo dell’orrore. Per quanto Meyrink flirti talora con le sirene della Schauerliteratur, con le sue perversioni e le forti tinte tanto vivide nei colleghi Ewers e Strobl, dove “il compiacimento nell’orrore si allea ad una segreta accettazione dell’ordine costituito” (Jean-Jacques Pollet), il suo posto è piuttosto in un altro filone di inquietudine, dove l’espressionismo traduce il turbamento in una visione apocalittica e imposta l’interrogativo identitario nella domanda radicale: “Chi è adesso ‘io’” con cui si chiude il primo capitolo del Golem. Quel che nasce qui è un nuovo tipo di fantastico, prettamente novecentesco. virato sullo sguardo di chi vede piuttosto che sull’oggetto visto.

Altro equivoco, la mancanza di filologicità di Meyrink rispetto alla tradizione sapienziale ebraica: da cui critiche ingenerose e dogmi interpretativi infondati. Scholem, grande studioso di Cabala, pur apprezzando del testo la forte suggestione d’ambiente, criticherà l’uso fantastico fino al grottesco delle idee teologiche ebraiche, le forzature sincretiste nel segno del pensiero indiano e di un certo confuso esoterismo alla Madame Blavatsky: il golem diventa nel romanzo una sorta di ebreo errante, lontanissimo dal profilo della tradizione. Ma se, proprio a Scholem, Meyrink chiederà allegramente di spiegargli alcuni aspetti del romanzo che lui stesso non avrebbe capito bene, sembra di vedervi un ridimensionamento del peso dell’elemento mistico – pur presente – a favore di quello narrativo e psicologico. Non è un caso che, incontrando il golem, i personaggi vi ritrovino qualcosa come una rifrazione oscura di sé, almeno parziale: a rinnovellare col modernismo la grande riflessione letteraria sul doppio.

Tanto più che in realtà inizialmente il titolo generale non faceva affatto riferimento alla figura mitica ebraica, e suonava Der Stein der Tiefe. Ein Guckkasten (La pietra del profondo. Un mondo nuovo) – così il frammento pubblicato sulla rivista di letteratura e arte “Pan” nel 1911 –, con Golem come titolo del quinto capitolo. Il cambio viene suggerito dall’editore: ciò a ridimensionare non la simpatia di Meyrink verso la cultura ebraica ma il peso della medesima nell’economia del romanzo, che – com’è stato osservato – va letto piuttosto nel segno dell’attenzione modernista alla psicologia (la pietra del profondo in questione, che somiglia a un pezzo di grasso, è un oggetto delle ossessioni di Athanasius, e non c’entra con il pensiero cabalistico). Torniamo così alla citata “riflessione narrativa sull’identità e il doppio, l’inconscio e il fantastico”. Semmai qualcosa della tradizione ebraica – ma non solo – può emergere nel sottotitolo: il Guckkasten è il mondo nuovo o mondonovo nel senso della macchina ottica anticipatrice del cinema, e nel romanzo si ricorda come Rabbi Löw avrebbe proiettato con una lanterna magica immagini paurose di defunti alla corte di Rodolfo II. Ma ciò finisce con l’evocare anche le ombre del cinema al tempo in evoluzione (inevitabile pensare ai film espressionisti sul golem poi varati con grande successo), e comunque un tipo di visione narrativa a base di giochi d’ombre inseguita in tutto il testo. Come sintetizza Fossaluzza, “Il risultato è una dimensione narrativa in cui sogno e realtà, psicologia e mondo reale si fondono completamente”. E il golem si rivela in fondo una figura umbratile e sfuggente da lanterna magica, oggetto di una “narrazione prolifica” (la leggenda udita invade il racconto): “Né sveglio né dormiente, scivolo in una sorta di sogno in cui ciò che ho vissuto si mescola a ciò che ho letto e sentito”. La coscienza collettiva afferra l’Io, l’Io è un Altro. Ma dunque il golem è insieme anche doppio e revenant (il ritorno del rimosso, il Perturbante): la sua apparizione è un ritorno, conduce alla stanza proibita dove incontrare il Subconscio. La sostituzione dei cappelli non è un semplice artificio buffo, ma rimanda a uno sdoppiamento. E il finale garantirà della fondatezza del sogno, almeno fino a un certo punto: l’imbarazzo del fantastico resta, e l’Io appare in scena – e questo è autenticamente espressionista – attraverso il teatro del mito.

L’equivoco condurrà peraltro alle critiche più stolide, livorose e incarognite al romanzo, quelle da parte dell’estrema destra nazionalista. Sui relativi giornali Meyrink viene accusato di propaganda a favore della “politica e cultura ebraica”: su “Deutsches Volkstum” e nell’opuscolo Gustav Meyrink und seine Freunde, Albert Zimmermann manifesta i suoi sospetti che Meyrink debba essere ebreo, tanto è interessato ai temi ebraici, e avvicina le satire antimilitariste dell’autore agli scritti critici del poeta ebreo tedesco Heine. Per Carl Gross, l’obiettivo principale del Golem sarebbe senz’altro “promuovere la politica e la cultura ebraica”. Invano interverranno a difesa di Gustav l’Associazione degli autori tedeschi e letterati come Heinrich Mann ed Hermann Hesse; e più tardi, alla salita al potere dei nazisti, i libri di Meyrink verranno pubblicamente bruciati come espressioni di “uno spirito non tedesco” (maggio 1933), con la distribuzione delle sue opere vietata. Ma al tempo lui è già morto (4 dicembre 1932), e mentre si avviava alla fine della vita sentiva l’approssimarsene come una grazia.

Mentre l’enfasi squilibrata sugli aspetti esoterici, a detrimento delle altre dimensioni presenti – compresa una che potrebbe definirsi pre-surrealistica – renderà il libro gradito agli estremodestri italiani, il sottomondo del Gruppo di Ur e i loro eredi anche odierni.

 

Su un piano poetologico, la concatenazione di “realtà”, “psicologia” e “magia”, […] non è tuttavia solo lo sfondo tematico del romanzo. “Realismo”, “psicologia” e “magia” sono anche le categorie estetiche su cui esso si fonda. Letto in questo senso, Il Golem non appare più solo come il manifesto letterario delle correnti mistico-esoteriche di quegli anni, ma si rivela essere un romanzo genuinamente modernista. Il Golem è infatti uno dei pochi testi della letteratura di lingua tedesca riconducibile ante litteram alla corrente estetica che nel 1925 il critico d’arte Franz Roh (riferendosi alla pittura) proprio in Germania definirà «realismo magico». [Cristina Fossaluzza, Composizione surrealista con figura invisibile. Il golem di Gustav Meyrink nella traduzione di Enrico Rocca, cit.]

 

Col che non si intende, come ovvio, che nel Golem la dimensione esoterica manchi, ma che sia stata sopravvalutata in modo deformante a danno di altre, meno rispondenti alla facile chiacchiera e meno facilmente prone a fantasie e ossessioni di alcuni critici predatori e dei relativi bacini di lettori (l’esoterico piace e intruppa sotto labari che conosciamo). Sul tema dovremo comunque tornare.

(3-continua)

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Kaibyō. I gatti soprannaturali del Giappone https://www.carmillaonline.com/2024/09/15/kaibyo-i-gatti-soprannaturali-del-giappone/ Sun, 15 Sep 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84058 di Gioacchino Toni

Zack Davisson, Kaibyō. I gatti soprannaturali del Giappone, Traduzione di Gilda Dina, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 150, € 16,00

Che si tratti di paciosi e viziati felini accovacciati negli ambienti domestici o di energici cacciatori di topi nelle località meno urbanizzate, di gatti commemorati negli spettacoli di teatro kabuki o rappresentati in antiche stampe, nei manga e anime moderni, di micetti trasformati in giocattoli viventi o in “cute”, di “tigri ben nutrite” dei periodi Heian e Edo o di terrificanti mostri e mutaforma del folclore, di certo si può dire che i gatti abitano gli [...]]]> di Gioacchino Toni

Zack Davisson, Kaibyō. I gatti soprannaturali del Giappone, Traduzione di Gilda Dina, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 150, € 16,00

Che si tratti di paciosi e viziati felini accovacciati negli ambienti domestici o di energici cacciatori di topi nelle località meno urbanizzate, di gatti commemorati negli spettacoli di teatro kabuki o rappresentati in antiche stampe, nei manga e anime moderni, di micetti trasformati in giocattoli viventi o in “cute”, di “tigri ben nutrite” dei periodi Heian e Edo o di terrificanti mostri e mutaforma del folclore, di certo si può dire che i gatti abitano gli spazi e gli immaginari nipponici da lungo tempo.

È dei terrificanti felini mostri e mutaforma del folclore, dei gatti soprannaturali dotati di poteri magici che inquietano l’immaginario nipponico da secoli che si è occupato lo statunitense Zack Davisson nel suo volume dedicato ai kaibyō giapponesi.

«Il termine yōkai racchiude i mostri, gli spiriti dei fiumi e delle montagne, le divinità, i demoni, i goblin, le apparizioni, i mutaforma, la magia, i fantasmi, gli animali e qualsiasi genere di evento misterioso». Se tutti gli animali possono trasformarsi in yōkai in speciali circostanze, alcune specie – come le volpi giapponesi (kitsune), gli autoctoni cani procioni (tanuki) e i gatti chiamati neko – sono dotate del magico potere henge, cioè mutaforma. Stando al folclore nipponico, mentre gli autoctoni cani procioni sono magici sin dalla nascita, le volpi e i gatti acquisiscono i loro poteri magici soltanto alla fine del loro ciclo vitale, attorno ai cinquant’anni le prime e sui dodici o tredici anni i secondi.

I poteri attribuiti ai kaibyō (gatti strani) sono innumerevoli: «cambiano forma, manipolano i cadaveri come pupazzi, portano fortuna, infliggono maledizioni». Nel corso del volume Davisson passa in rassegna i principali tipi di gatto soprannaturale che fanno parte della tradizione giapponese a partire dai bakeneko mutaforma che, stando al folclore, nonostante siano in grado di assumere sembianze umane imitando persone esistenti o creandone di nuove, nella maggior parte delle leggende che li riguardano sono descritti come gatti che mantengono le sembianze feline pur indossando abiti umani e parlando la loro lingua. Sebbene nella tradizione solitamente il potere mutafroma viene acquisito dai bakeneko in tarda età, non mancano leggende in cui i poteri magici sono derivati dal bevendo il sangue di esseri umani di cui poi i gatti assumono le sembianze.

Altra tipologia di gatto soprannaturale è quella del terribile nekomata a due code che le leggende raccontano iniziare questa sua seconda vita al raggiungimento dell’età anziana, quando, all’improvviso, si dota di una seconda coda ed inizia a camminare sulle zampe posteriori posseduto da minacciosi poteri magici. I racconti relativi al nekomata del periodo Kamakura (1185-1333) lo descrivono spesso come una spaventosa bestia delle montagne, priva di particolari poteri magici ma di grandi dimensioni, simile a una tigre o un leone, che vaga per le foreste incline ad attaccare, uccidere e mangiare gli esseri umani che osano avventurarsi nei meandri delle montagne. Le leggende del periodo Kamakura, probabilmente derivate dalla minacciosa presenza nella zona di grandi felini, hanno conosciuto un’evoluzione nel periodo Edo (1603-1868), quando il nekomata è descritto di dimensioni sempre maggiori e, soprattutto, anziché come uno misterioso grande felino selvatico, viene ritenuto un gatto domestico che in tarda età si è trasformato in essere mostruoso. Pur non essendo popolare come il bakeneko mutaforma, durante il periodo Edo anche il nekomata inizia a fare la sua comparsa nel mondo dell’arte.

La leggenda del kasha, il demone che sottrae e mangia i cadaveri, rappresenta secondo Davisson uno dei maggiori enigmi di tutti gli yōkai giapponesi. La presenza di numerose mostruosità spaventose nel periodo Kamakura è forse da mettere in relazione alle credenze apocalittiche buddhiste dell’epoca che generarono una forma d’arte chiamata jigoku-zōshi, (pergamene infernali) raffiguranti le pene e le sofferenze spettanti a chi non seguisse la via del Buddha nell’imminenza della fine dei tempi. Probabilmente l’origine dell’aspetto felino del kasha deriva dall’artista Toriyama Sekien (fine XVII sec) che con le sue opere ha esercitato notevole influenza sui racconti del periodo. Se numerose leggende ritengono che il kasha, così come il nekomata e il bakeneko, derivi da una misteriosa trasformazione del gatto domestico in tarda età, secondo altre versioni il mutamento deriva invece dalla prolungata presenza del felino al cospetto di un cadavere; una volta trasformato in kasha il gatto si prodiga nel trascinare via il corpo per poi cibarsene.

Nel periodo Edo, tanto nei romanzi d’appendice kiboshi, quanto nelle sharben (guide dei distretti del piacere), sono numerosi i racconti sulle prostitute bakeneko adescatrici di clienti ignari della loro natura felina basati sullo schema che vuole il cliente scoprire nel cuore della notte che l’ombra della donna con cui giace sembra quella di un gatto. A tali racconti si affiancano leggende decisamente più terrificanti che raccontano di prostitute yōkai che placano la loro fame cibandosi della carne umana dei clienti. Pur mutata nel corso del tempo, in generale si può dire che la figura della prostituta bakeneko di origine felina ha spesso esercitato attrazione, tanto che le cortigiane del quartiere del piacere di Yoshiwara non hanno mancato di sfruttare la leggenda creando un alone di mistero circa la loro reale natura per compiacere l’immaginario dei clienti. Secondo Davisson in queste storie delle prostitute bakeneko si possono individuare le radici del recente fenomeno della ragazza-gatto presente in numerosi manga, anime e videogame nipponici.

L’ibrido umano/felino neko musume rappresenta invece un essere del tutto particolare all’interno del bestiario mitico nipponico. Tale figura derivata, probabilmente, dalle “esibizioni delle stranezze” degli spettacoli popolari misemomo ad Asakusa di Edo andati in scena tra l’epoca Horyoku e l’epoca Meiwa (1751-1771). Il venir meno degli spettacoli relega nell’ombra la figura della neko musume, salvo poi ricomparire nell’Ottocento, grazie anche alla pubblicazione del racconto Ashu no kijo (La strana donna di Ashu), la cui storia viene raccontata nuovamente nel 1830 nel testo satirico Kyoka hyakki yakyo (Poesie della parata notturna di cento demoni) pur essendo chiamata name onna (ragazza che lecca) anziché neko musume. A dare nuova vita nel 1936 alla figura della neko musume è Shigeo Urata, uno dei pionieri della narrazione kamishibai (teatro di carta), tenuta da cantastorie ambulanti.

Nel corso del periodo Edo sono numerose le leggende locali che narrano di una strega-gatto, un bakeneko che assume le sembianze di un’anziana donna che nei villaggi e nei santuari attira con gentilezza viaggiatori e fedeli per poi cibarsene. Tra le leggende più famose vi sono quelle delle streghe-gatto di Okazaki e Okabe. Nel primo caso un ruolo importante spetta all’adattamento del drammaturgo Tsuruya Nanboku IV nel 1927 per il teatro kabuki del romanzo popolare Hitori tabi Gojūsan Tsugi (Il viaggio solitario di Gojūsan Tsugi) in cui evoca il gatto bakeneko, ancora oggi rappresentato con il titolo Okazaki no neko (Il gatto di Okazaki). Dallo spettacolo teatrale numerosi artisti ukiyo-e hanno poi derivato stampe effigianti streghe-gatto. Nel caso della versione di Okabe si deve alle stampe di Utagawa Kuniyoshi di metà Ottocento la diffusione della leggenda poi ripresa anche dalla serie I cinquantatré paralleli per la strada del Tōkaidō di Utagawa Kuniyoshi, Utagawa Hiroshige e Utagawa Kunisada. Ulteriore leggenda incentrata sulla figura della strega-gatto si deve all’opera monumentale sul folclore The Fairy Books (1889-1913) di Andrew Lang.

Curioso è il caso del gotoku neko, appartenente alla tipologia del nekomata, gatto particolare in quanto a differenza della maggior parte degli animali non teme il fuco tanto da posizionarsi nei pressi dei camini preoccupandosi di ravvivare i focolari. Introdotto probabilmente per la prima volta in una yōkai (raccolta di apparizioni spettrali) del periodo Muromachi (1336-1573) da parte dell’artista Tosa Mitsunobu, che lo mostra con un tripode in testa, toccherà ad artisti successivi elaborare una mitologia.

Decisamente diffuso ancora oggi, e non solo in Giappone, è l’immagine, o la versione tridimensionale, del maneki neko, un gatto, solitamente bianco – ma può anche essere rosso, nero, oro, recentemente anche rosa o di altri colori –, con un piccolo foulard e un campanellino al collo, che compie un gesto di invito con una zampa anteriore. A questa tipologia di gatto, che ha fatto la sua comparsa in età Edo, si rifanno negli ultimi tempi numerosi prodotti commerciali che fanno leva sull’attrattiva esercitata dall’aspetto “cute”.

Sul finire del volume l’autore ricorda come quando, a metà dell’Ottocento, il Giappone termia l’isolamento aprendosi al mondo europeo e statunitense, consapevole del ritardo accumulato nei confronti dell’Occidente a proposito di conoscenze scientifiche, il governo nipponico abbia voluto sradicare la credenza negli yōkai. Il soprannaturale viene bandito dal mondo delle arti e dagli spettacoli di teatro kabuki e gli scrittori vengono costretti a correggere le prefazioni dei loro libri, dichiarando la matrice del tutto fantasiosa di eventuali yōkai presenti nelle storie. Così, per diversi decenni, i kaibyō e gli altri yōkai vengono relegati nell’ombra.

Occorre attendere gli anni Sessanta del secolo scorso affinché, grazie ad artisti come Shigeru Mizuki, che su finire del decennio precedente aveva condotto la neko musume fuori dal teatro kamishibai, introducendola ai manga kashihon come un personaggio dell’orrore, si abbia un vero e proprio recupero del folclore yōkai tradotto nelle diverse arti da personalità come Miyuki Saga, Misao Mochitsuki, Bin Kato, Aoi Hiragi, Utagawa Kuniyoshi e Takashi Murakami.

Il mistero che circonda l’universo felino ha dai tempi antichi condotto i giapponesi, e non solo loro, a nutrire nei confronti dei gatti una particolare attrazione in cui si mescolano una propensione affettiva spontanea e un inconscio timore forse derivato dall’insondabilità che li contraddistingue. Il particolare stato d’animo con cui l’essere umano si rapporta all’indecifrabile universo felino sembra concorrere a mantenere vivo un legame con quello spazio soprannaturale che la razionalità e l’efficientismo moderni hanno pensato di dovere e potere eliminare facilmente.

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Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

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L’umanità tra mistica e cultura digitale https://www.carmillaonline.com/2024/05/30/lumanita-tra-mistica-e-cultura-digitale/ Thu, 30 May 2024 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82581 di Gioacchino Toni

Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 212, € 17,00, ebook € 9,99

Nell’indagare la dimensione mediologica assunta ultimamente dal politico e l’immaginario attorno a cui si sviluppa, Guerino Nuccio Bovalino, nel suo volume Imagocrazia. Miti, immaginari e politiche del tempo presente (Meltemi 2018) [su Carmilla], ha messo in luce come alle figure deistiche, mitologiche, religiose e ideologiche a cui l’essere umano ha storicamente fatto ricorso per colmare il vuoto fra sé e il mondo che abita, si siano ormai sostituiti i media e [...]]]> di Gioacchino Toni

Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 212, € 17,00, ebook € 9,99

Nell’indagare la dimensione mediologica assunta ultimamente dal politico e l’immaginario attorno a cui si sviluppa, Guerino Nuccio Bovalino, nel suo volume Imagocrazia. Miti, immaginari e politiche del tempo presente (Meltemi 2018) [su Carmilla], ha messo in luce come alle figure deistiche, mitologiche, religiose e ideologiche a cui l’essere umano ha storicamente fatto ricorso per colmare il vuoto fra sé e il mondo che abita, si siano ormai sostituiti i media e gli immaginari derivanti dall’intrecciarsi di nuovi e vecchi simboli trasfigurati dalle nuove tecnologie.

Con il suo nuovo libro, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale (Luiss University Press, 2024), lo studioso continua la sua analisi indagando come, per affrontare le paure di questo mondo, gli esseri umani tendano sempre più ad affidarsi messianicamente alla tecnologia confidando nelle sue capacità salvifiche. Al centro del volume sono dunque le modalità contemporanee di sottrarsi alla realtà, tentativo che da sempre contraddistingue gli esseri umani «tra esodi e ritorni, tra terra e cielo, carne e spirito, beatitudine e dannazione, pesanti macchine e religioni eteree, algoritmi e preghiere». Modalità che oggi, sostiene Bovalino, guardano sempre più all’universo dell’intelligenza artificiale e, più in generale, al mondo delle tecnologie più avanzate come a potenze in grado di garantire una fuga dalla realtà, l’accesso al paradiso terrestre.

Con la Rivoluzione industriale prende il via il processo di colonizzazione dell’immaginario collettivo da parte delle macchine; l’essere umano, affogato in una massa indistinta, tenuto a vivere all’interno del sistema fabbrica/metropoli, si trova a vivere una situazione di spaesamento a cui non riesce più a dare risposta la proiezione salvifica personificata dalle tradizionali divinità.

Tale inedita configurazione dell’immaginario, scrive Bovalino, ha il suo mito fondativo nel frankensteiniano essere costituito con parti tratte da diversi corpi, efficace metafora «della massa indistinta che ha con-fuso gli esseri umani nel magma indistinto della nuova metropoli, e ibridato gli stessi con le macchine con le quali operano nelle fabbriche dalle quali sono agiti»1. Inoltre, il mostruoso frankensteiniano, non essendo più un’entità riconducibile al non-umano, si differenzia dall’idea di mostro propria dell’epoca pre-industriale. Non più figura pre-umana o dis-umana, il mostro si trasforma in un essere iper-umano o post-umano nella mitologia del cyborg e dell’androide. Si tratta di «una trasformazione sociale che sancisce la nascita di una relazione inedita tra organico e inorganico, carne e macchina»2. Come scrive Bovalino, si inaugura così una nuova idea di mostruosità non più fatta derivare da un qualche castigo divino, bensì proiezione di un disagio umano figlio delle trasformazioni introdotte dal processo di industrializzazione con la sua disseminazione di macchine.

L’avvento della fotografia sancisce il trionfo della dimensione immateriale su quella materiale; essa vampirizza il reale rendendo morto ciò che è vivo proiettandolo verso un’immortalità artificiale. La dilatazione delle esistenze determinata dall’eliminazione delle distanze spazio-temporali introdotta dalla metropoli trova nel cinema e, successivamente, nella televisione medium capaci di amplificare un processo che viene ripreso e amplificato dagli schermi dei computer e degli smartphone che, però, non rappresentano più una superficie trattenente ma un vortice, una vertigine risucchiante.

È ormai evidente la frattura tra l’essere sé stessi e l’essere ciò che si vuole apparire. I soggetti si muovono dentro le rete come fossero in esilio dal mondo fisico. Fuori dalla realtà cercano di ricostruire una verità alternativa di sé stessi e del mondo che li circonda. È l’affermarsi di una bolla, di un micromondo che il soggetto edifica lentamente, creando un ambiente digitale abitato molto spesso dai propri “simili”, coloro con i quali si condivide la visione del mondo o con cui, perlomeno, si reputa degno condividere le proprie idee3.

L’utopia digitale si è velocemente trasformata in distopia. «Lo splendore del consumo e il capitalismo gioioso si rovesciano, come katastrophé, in una fase cupa e crepuscolare caratterizzata dal controllo tecnologico e dallo sfruttamento dei dati degli utenti. È l’era della disillusione. Il crepuscolo delle tecnoutopie»4.

In Squid Game (2021-in produzione) di Hwang Dong-hyuk, nel suo presentarsi come “il gioco della fine”, suggerisce Bovalino, è possibile vedere una metafora della “fine dei giochi”, la catastrofe di un capitalismo che si manifesta direttamente nella sua crudeltà senza nemmeno mascherarsi dietro l’illusione spettacolare del consumo. L’universo messo in scena dalla serie coreana è costruito sulla colpa e sul debito. Chi partecipa al gioco mortale lo fa per ripagare i propri debiti così da poter essere reintegrato nel circuito perverso del consumo capitalista. Un circuito che non prevede via d’uscita non contemplando una reale espiazione del debito, della colpa: anche estinguendo il debito, il vincitore resta prigioniero delle atrocità commesse per raggiungere lo scopo.

Al capitalismo digitale si affida il compito di ordinare il mondo ma, scrive Bovalino, si tratta di un capitalismo triste e crepuscolare, palesante «una discrasia evidente fra le promesse di felicità e la rinuncia alla dimensione edonistica e onirica cui sottopone»5 l’essere umano.

La smaterializzazione digitale si trova ora costretta a confrontarsi con la percezione della fragilità umana, con la morte che, tra malattie e guerre, ha fatto irruzione nella realtà facendo riemergere il senso di finitudine umana. «Si tratta di un processo di ri-umanizzazione, fra androidi in lacrime perché bramano di divenire umani, guerre combattute sul campo, identità rinascenti, necessità di appartenenza e rinascita della più importante delle mitopoiesi realizzare dall’uomo: il ritorno del divino nella vita quotidiana»6.

Curiosamente, nel momento di massima espansione tecnologica, riemergono forme di vissuto arcaico in una variate che Vincenzo Susca ha definito tecnomagia [su Carmilla]: la dimensione magica viene riattivata dalla tecnologia. Alla smaterializzazione dei corpi umani succede l’umanizzazione delle macchine e l’intelligenza artificiale, con le sue capacità oracolari, si presenta come lo strumento di tale trasformazione, vera e propria tecno-magia.

La tecnologia non è la profezia ma “il profeta”: essa parla per conto dell’uomo nuovo, colui che vuole disintegrare ogni forma esistente e riconfigurare ogni ambito umano, ossia i nuovi creatori come Zuckerberg, Musk e Altman, i guru di Meta X e Open AI. Dio parla ai profeti come l’uomo parla alla tecnologia, la con-forma e le fa “pronunciare” le parole che costruiscono e configurano il tempo a venire. L’IA è l’oracolo che parla la lingua dell’ultima versione, il più recente upgrade dell’homo deus. Nel profetizzare i futuri stravolgimenti, essa trasforma il reale e come ogni nuova lingua costruisce una inedita architettura della realtà, la ri-forma7.

A ben guardare, suggerisce Bovalino, l’IA ricalca, estremizzandoli, i valori della società capitalista contemporanea – velocità, efficienza, semplificazione, funzionalità – indirizzati al profitto associandoli ad una dimensione del controllo iperstatalista.

È un capitalismo antilibertario costruito su un patto iniquo fra il singolo che elemosina illusioni social tecno-utopiche e le grandi aziende che gliele forniscono chiedendo in cambio di poter nutrirsi dell’intimità del soggetto sotto forma di dati, materiale che usano per rendere più efficienti le loro macchine disumanizzanti. È un processo surreale per cui l’uomo concede alle azione ciò che consente alle medesime di tenerlo sotto scacco8.

Il paradosso è che, come ormai tanta fantascienza di matrice distopica ha messo in scena, le ibridazioni tecno-umane finiscono per desiderare di essere soltanto umane. E ciò palesa l’incapacità dell’essere umano di immaginare qualcosa totalmente fuori da sé.

Opporsi alla nuova utopia/distopia del progressismo apocalittico, rimasta l’ultimo appiglio tattico cui aggrapparsi per sopravvivere dopo il fallimento definitivo del fideismo progressista, cesura che ci ha trasformati in zombie intenti a consumare la nostra residua energia nella lotta per scansare la fine. Soggetti e individui oppressi nell’ultima possibile narrazione: l’ideologia del penultimo. Il progressismo ormai ridotto alla stancante ricerca di estemporanee soluzioni utili a contrastare l’eterno non compiersi dell’apocalisse, che ci si prospetta di continuo sotto forma di mutanti di virus, catastrofi ambientali e nuove guerre nucleari. L’uomo si è cristallizzato nella figura tragica di un disperato che staziona inerme al bordo di un precipizio: schiavo della paura che scaturisce dalla percezione dell’imminenza della morte mentre cerca di eluderla9.

Se, come è sempre stato, l’essere umano si trova a fare i conti con il vuoto, ad essere profondamente cambiato è il contesto e, con esso l’essere umano stesso, costretto a confrontarsi con inedite e disorientanti tecnomagie.


  1. Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, p. 39. 

  2. Ibid

  3. Ivi, p. 59. 

  4. Ivi, p. 115. 

  5. Ivi, p. 136. 

  6. Ivi, p. 139. 

  7. Ivi, pp. 183-184. 

  8. Ivi, p. 186. 

  9. Ivi, p. 194. 

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