Sport e dintorni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – A proposito di Italia-Israele di calcio e della neutralità dello sport https://www.carmillaonline.com/2025/09/30/sport-e-dintorni-a-proposito-di-italia-israele-di-calcio-e-della-neutralita-dello-sport/ Tue, 30 Sep 2025 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90741 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Le proteste che si sono levate nei confronti dell’incontro tra la nazionale di calcio italiana e quella israeliana del 14 ottobre 2025 allo stadio di Udine hanno determinato, come altre volte in passato, una netta contrapposizione tra chi ritiene che anche lo sport debba, in qualche modo, confrontarsi con gli accadimenti del mondo prendendo posizione su di essi e chi, al contrario, si dice convinto che lo sport debba evitare di farsi coinvolgere in ciò che, in fin dei conti, non lo deve riguardare.

Gli Statuti delle istituzioni sportive nazionali e sovranazionali – a partire dal [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Le proteste che si sono levate nei confronti dell’incontro tra la nazionale di calcio italiana e quella israeliana del 14 ottobre 2025 allo stadio di Udine hanno determinato, come altre volte in passato, una netta contrapposizione tra chi ritiene che anche lo sport debba, in qualche modo, confrontarsi con gli accadimenti del mondo prendendo posizione su di essi e chi, al contrario, si dice convinto che lo sport debba evitare di farsi coinvolgere in ciò che, in fin dei conti, non lo deve riguardare.

Gli Statuti delle istituzioni sportive nazionali e sovranazionali – a partire dal Cio, il Comitato Internazionale Olimpico – si basano sul principio della neutralità e apoliticità della dimensione sportiva. Questo assunto, inteso a preservare il carattere universalistico dello sport e la sua autonomia rispetto alle interferenze politiche, in realtà è risultato spesso funzionale a delle precise scelte politiche. L’apoliticismo proclamato dagli organismi sportivi internazionali ha permesso ad esempio al fascismo e al nazismo di sfruttare lo sport come strumento di propaganda politica e ha consentito di non escludere alcuni regimi autoritari del secondo Novecento dal Cio.

La retorica dello sport come ambito da mantenersi separato dal resto della realtà presuppone che quanti lo praticano o lo seguono operino una sorta di momentanea sospensione dal mondo a cui pure appartengono, sospensione che riappacifica, durante le gare, le conflittualità e le brutalità quotidiane. L’idea che sospendere momentaneamente le tragedie del mondo extrasportivo significhi preservare la “purezza” insita nello sport dalle brutture del mondo, tenerlo al riparo dalla politica, non manca di palesare evidenti contraddizioni; accettare di confrontarsi con le rappresentative di nazioni che si stanno macchiando di inaccettabili atrocità è di per sé una scelta politica, essendo, di fatto, un riconoscimento della condotta dello Stato che gli atleti rappresentano. Accettare di giocare contro una nazionale che, ad esempio, pratica la segregazione razziale, significa, nel migliore dei casi, girare la testa dall’altra parte, dunque evitare di condannare le sue pratiche.

Il convincimento che possa davvero esistere uno sport isolato dal mondo in cui questo si manifesta è, evidentemente, una costruzione retorica di comodo priva di fondamento. Nel caso specifico della partita di calcio tra le nazionali italiana ed israeliana non si sta parlando di singoli atleti provenienti da uno Stato dalla condotta criminale di cui, evidentemente, non sono per forza di cose complici, ma di una rappresentativa nazionale che gareggia in nome e per conto di quello Stato. Confrontarsi con quella nazionale significa riconoscere la legittimità della condotta dello Stato che rappresenta.

Non è evidentemente la prima volta che nella storia dello sport moderno ci si è trovati di fronte a tale contraddizione: sospendere il giudizio, sempre nel migliore dei casi, sulla condotta dello Stato rappresentato dalla sua nazionale sportiva o, viceversa, prendere posizione nei suoi confronti anche in ambito sportivo. Se lo sport è inevitabilmente sempre stato attraversato dalla politica, a creare problemi nella retorica che lo vuole entità separata dal mondo è stata piuttosto l’irruzione di istanze politiche intenzionate a mettere in discussione lo status quo della realtà di cui lo sport è parte integrante.

Di seguito, con riferimento all’Italia, si ricordano, per quanto sommariamente, alcuni momenti in cui, a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, la contestazione politica ha fatto capolino nel contesto sportivo.

Sull’onda delle proteste che infiammano il Sessantotto, anche eventi e spazi dello sport italiano, considerati fino ad allora impermeabili ed estranei alla politica, sono investiti dalla contestazione. A fare da apripista è la manifestazione del 14 dicembre 1968 organizzata da un gruppo di studenti al teatro Ariston di Sanremo in occasione dell’incontro pugilistico valevole per il titolo mondiale dei pesi medi tra Nino Benvenuti e Don Fullmer. Scopo della protesta, repressa duramente dalla polizia, è denunciare il costo esorbitante dei biglietti e i cospicui stanziamenti pubblici riservati all’evento a fronte del sostanziale disinteresse dell’amministrazione pubblica per le tante problematiche sociali cittadine.

Poco dopo sono il mondo del calcio e quello del ciclismo a doversi confrontare con le proteste: le contestazioni studentesche prendono di mira una riunione dei vertici calcistici italiani in un albergo milanese, mentre, a Parma, il Giro d’Italia viene accusato di propagandare alcune grandi ditte mentre in queste sono in corso mobilitazioni operaie a difesa dei posti di lavoro.

In occasione dei Campionati europei di atletica leggera che si tengono ad Atene nel settembre 1969 sono numerosi gli appelli e le prese di posizione che in Italia denunciano l’uso strumentale della manifestazione sportiva da parte del regime dei colonnelli andato al potere in seguito al golpe del 1967.

Nel corso del 1970 lo sport italiano conosce nuove iniziative di protesta: viene contestata la presenza dei marines della VI flotta americana a un meeting internazionale di atletica leggera che si tiene a Formia e, il mese successivo, viene presa di mira la retorica della cerimonia inaugurale dei Giochi della gioventù a fronte delle carenze di impianti e iniziative per la reale diffusione dello sport a livello diffuso.

Per quanto mosse da rivendicazioni prive di spessore e respiro politico, mobilitazioni si danno anche tra gli studenti dell’Istituto Superiore di Educazione Fisica (ISEF). Vengono interrotte gare di basket e di sci, vengono occupate temporaneamente la piscina del Foro italico, gli uffici delle federazioni sportive, il Ministero della pubblica istruzione e il campo da tennis perugino in cui si svolge la partita di Coppa Davis Italia-Bulgaria.

Sull’onda delle mobilitazioni intraprese dalle organizzazioni di sinistra contro i rigurgiti neofascisti che attraversano l’Italia, a partire dal 1970 viene messa in atto una progressiva forma di isolamento degli ambienti sportivi legati al Msi, propugnatori di una logica social-darwiniana che guarda allo sport come a uno spazio in cui la dimensione competitiva, innervata da valori di selettività, eroismo e virilità, è funzionale allo stabilire un ordine gerarchico, in cui l’agone sportivo permette all’atleta di forgiarsi spiritualmente e di distinguersi come individualità vincente in una società massificata.

Terreno di scontro politico-sportivo tra neofascismo e sinistra nell’Italia della prima metà degli anni Settanta è il rugby, disciplina particolarmente apprezzata negli ambienti di estrema destra, esaltata già in epoca fascista come esempio di cameratismo, virilità e spirito di combattimento. A riprova di come i vertici della Federazione Italiana Rugby nei primi anni Settanta siano legati all’universo neofascista è l’organizzazione di una tournée della nazionale italiana di rugby nel Sudafrica dell’apartheid e della successiva trasferta in Italia degli Springboks, destinata ad essere cancellata sotto la spinta di vibranti proteste. È la prima volta che in Italia un movimento di base sposta gli equilibri politici del mondo sportivo. L’importante successo conseguito dalle mobilitazioni antirazziste viene celebrato dagli enti di promozione sportiva democratici come un successo dei principi di civiltà sulla presunta neutralità dello sport.

Altra occasione in cui le discussioni politiche invadono l’universo dello sport in Italia è la semifinale di Coppa Davis che la nazionale di tennis deve tenere a Johannesburg ai primi di ottobre del 1974. Gli organismi sportivi democratici e i movimenti terzomondisti, con il sostengo dalla stampa di sinistra, invitano, in questo caso senza successo, a boicottare l’evento. L’Italia perderà contro il Sudafrica che risulterà poi vincitore del torneo senza dover giocare la finale, visto che l’India si rifiuterà di prendervi parte.

A scuotere il mondo dello sport italiano nel 1975 è la partita di Coppa Uefa che la Lazio deve giocare all’Olimpico contro una squadra spagnola, il Barcellona, il 22 ottobre. Come avviene in altri contesti europei in cui si pone il problema di giocare contro squadre spagnole, le prese di posizione contro la partita derivano dalla condanna a morte di un gruppo di militanti antifranchisti emessa nel settembre dello stesso anno, dopo processi sommari, da un regime ormai al crepuscolo.

Alle prese di posizione contrarie allo svolgimento della partita da parte dell’associazionismo, dei partiti di sinistra e dei lavoratori del Coni che minacciano lo sciopero, il mondo sportivo risponde barcamenandosi all’insegna del “vorrei, ma non posso”, proponendo formule di protesta che non compromettano lo svolgimento dell’evento – l’Associazione Italiana Calciatori, ad esempio, propone di ritardare di dieci minuti l’inizio della partita – e, soprattutto, trincerandosi dietro alla apoliticità dello sport.

Al mito della separatezza dello sport dalla politica si rifà anche il mondo del giornalismo sportivo, pur con qualche eccezione. In controtendenza nei confronti di tanti colleghi, il direttore di «Tuttosport», Gian Paolo Ormezzano, oltre a prendere posizione contro lo svolgimento della partita, decide di pubblicare sul quotidiano sportivo il dibattito interno alla redazione sulla questione, palesando così l’intenzione di mostrare come lo sport e il giornalismo sportivo, al di là dell’evento specifico, non possano pretendere di vivere in una bolla separata dalla realtà extrasportiva.

Il 1976 è segnato dalla contestazione alla trasferta della nazionale tennistica italiana per la finale di Davis nel Cile di Pinochet. Attorno a questa finale si gioca una vera e propria partita politica che vede il mondo dello sport italiano investito da un vasto movimento di opposizione che coinvolge gli schieramenti politici, le forze sociali e la stampa, prendendo di mira il potere politico-sportivo, arroccato nella sua tradizionale difesa della neutralità dello sport, e i settori più conservatori della società italiana che, anche quando non appoggiano direttamente la dittatura cilena, intendono mantenere l’universo sportivo al riparo da istanze considerate eccessivamente progressiste.

Le mobilitazioni non riescono a evitare la partecipazione della squadra italiana alla finale cilena, ma dimostrano che anche attraverso lo sport è possibile manifestare impegno e passioni civili così da incrinare un mondo considerato avulso dal contesto politico e sociale.

È con le campagne contro i mondiali organizzati nel 1978 nell’Argentina del regime di Videla che si esaurisce la spinta propulsiva del Sessantotto nello sport. In un contesto nazionale segnato dalla vicenda Moro e dalla politica di solidarietà nazionale, dall’affievolirsi della spinta dei movimenti nati sull’onda del ’68, le mobilitazioni contrarie ai mondiali argentini stentano a prendere forma.

La conquista del titolo da parte dell’Argentina chiude “il mondiale della vergogna”, quello dei governi che per interessi politici ed economici non hanno boicottato una competizione sporca di sangue, dei giornalisti compiacenti verso il regime dei militari, del silenzio del mondo dello sport sui desaparecidos, dei calciatori che non hanno fatto un minimo gesto per testimoniare contro la dittatura. Fuori da questa “pagina nera” dello sport sono rimasti i giornalisti che non hanno abdicato al ruolo politico e civile dell’informazione e i pochi gruppi che si sono generosamente battuti nel tentativo di rompere la separatezza tra sport e politica (A. Molinari, G. Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 19).

Sullo sfondo dei tragici accadimenti palestinesi che segnano l’attualità, l’incontro di calcio tra Italia e Israele ha fatto riemergere la contrapposizione tra chi ritiene che anche lo sport non possa che confrontarsi con gli accadimenti del mondo prendendo posizione e chi ritiene che debba mantenere la sua neutralità. Una neutralità che, ancora una volta, palesa tutte le sue ipocrisie e contraddizioni.


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Sport e dintorni – Gian Paolo Ormezzano. Un altro giornalismo sportivo è possibile https://www.carmillaonline.com/2025/01/01/sport-e-dintorni-gian-paolo-ormezzano-un-altro-giornalismo-sportivo-e-possibile/ Wed, 01 Jan 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86258 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Pochi giorni fa se ne è andato Gian Paolo Ormezzano, verrebbe da scrivere giornalista sportivo “vecchio stampo” se non fosse che rispetto a quel “vecchio stampo” il Nostro è stato più un’anomalia che non la normalità. Ormezzano ha fatto parte di una generazione di giornalisti sportivi che, spesso trincerandosi dietro la retorica della separatezza dello sport dal mondo in cui questo si esprime, ha inchiostrato le pagine di stereotipi non mancando di dispensare qualunquismo e di esprimere reverenza nei confronti dei potenti di turno – non solo dello sport – senza andare troppo per il [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Pochi giorni fa se ne è andato Gian Paolo Ormezzano, verrebbe da scrivere giornalista sportivo “vecchio stampo” se non fosse che rispetto a quel “vecchio stampo” il Nostro è stato più un’anomalia che non la normalità. Ormezzano ha fatto parte di una generazione di giornalisti sportivi che, spesso trincerandosi dietro la retorica della separatezza dello sport dal mondo in cui questo si esprime, ha inchiostrato le pagine di stereotipi non mancando di dispensare qualunquismo e di esprimere reverenza nei confronti dei potenti di turno – non solo dello sport – senza andare troppo per il sottile. Fortunatamente, in quel mare di qualunquismo e di sport spesso cantato ricorrendo alla peggior retorica nazionalistica e militaresca, qualche voce dissonante, capace di ritagliarsi spazi di intervento pubblico anziché limitarsi a parlare alla riserva, c’è stata. Gian Paolo Ormezzano è stata una di queste voci libere e pensanti.

Passando in rassegna gli articoli di sport comparsi sulla stampa italiana tra la fine degli anni Sessanta e la fine del decennio successivo per la stesura del libro Storie di sport e di politica (2018) abbiamo contattato Ormezzano per discutere con lui della stampa sportiva dell’epoca, ma forse lo abbiamo voluto incontrare ancora di più per il desiderio di conoscerlo. Invitati a raggiungerlo nella sua abitazione torinese, abbiamo così avuto modo di passare una giornata con lui letteralmente rapiti dai suoi racconti di calcio e ciclismo narrati e vissuti con genuina passione, come spetta allo sport, ma anche come eventi non slegati dal mondo che li circonda, cosa, quest’ultima, che lo ha differenziato da tanti suoi colleghi.

Tra i tanti aneddoti su Coppi, a cui era tanto legato, e sulla sua genuina e indissolubile fede granata, nel corso di quel pomeriggio Gian Paolo ha a un certo punto estratto la sua invidiabile quanto logora rubrica telefonica cartacea e ci ha regalato una telefonata a Gianni Minà, suo fraterno amico, oltre alla promessa di stendere la prefazione al nostro volume, che poi ci ha inviato nel giro di qualche giorno, cosa di cui andiamo particolarmente fieri.

Ricordiamo Gian Paolo attraverso un breve stralcio derivato dal nostro libro (pp. 195-197) che racconta un episodio forse poco noto rispetto alle più conosciute vicende della Coppa Davis in Cile e dei mondiali di calcio nell’Argentina dei militari in cui era davvero impossibile guardare allo sport come se attorno ad esso non stesse succedendo nulla.

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Nel panorama della stampa sportiva, si distingue la posizione di «Tuttosport». Il quotidiano torinese diretto da Gian Paolo Ormezzano, con una scelta controcorrente rispetto alle testate specializzate, decide di non chiudere il giornale in una dimensione esclusivamente sportiva, cerca di promuovere un modo di fare giornalismo meno improntato all’evasione e più all’indagine della realtà sociale, a partire dal contesto sportivo, e invita i redattori a misurare il linguaggio, evitando toni enfatici e retorici.
La nuova impostazione del quotidiano viene assunta in prossimità degli eventi spagnoli; all’indomani dell’assassinio dei cinque antifranchisti, Ormezzano scrive un corsivo intitolato “Morire a Madrid”.

Morire a Madrid
Di recente “Amnesty International” ha denunciato che in centosette paesi del mondo, inclusa l’Italia, c’è gente in carcere per reati d’opinione, per colpe politiche, con processi troppo sommari o addirittura senza processi. Si va dalla repressione più spiccata al bavaglio ricamato. Nella geografia turpe c’è ogni continente, ogni punto cardinale, ogni regime. Si muore di garrota, si muore di manicomio, in fretta o lentamente. Si muore in piccole celle ed in immensi lager, di colpo alla nuca e di tortura. Eventi macroscopici, come quello di Madrid “favoriscono” l’accesso allo sdegno. Stare indietro, stare fuori, e poi magari predicare, nel nome dello sport, una migliore salute globale dell’uomo, è roba da sporchi farisei.
Gian Paolo Ormezzano [«Tuttosport», 27 settembre 1975]

L’articolo, e in generale la linea editoriale proposta da Ormezzano, suscita tra i lettori reazioni contrastanti: nella rubrica delle lettere alcuni dichiarano che non compreranno più il giornale, perché la stampa sportiva “non deve occuparsi di politica”, altri invece apprezzano le aperture del quotidiano che continua a seguire le vicende spagnole e le sue ripercussioni sul piano politico-sportivo.
Con un’altra scelta inusuale, «Tuttosport» pubblica un dibattito interno alla redazione sull’ipotesi che la Lazio non scenda in campo contro il Barcellona. Le posizioni spaziano da chi esprime una posizione favorevole per motivi politici, a chi ribadisce la tradizionale funzione unificatrice e conciliatrice dello sport, o propone altre soluzioni.

Si deve o no giocare Lazio-Barcellona?
Mario Bardi. Lazio-Barcellona s’ha da fare. […] Lo sport deve unire, non dividere, e deve essere d’esempio a un mondo che lo sport discredita ma che dallo sport avrebbe tanto da imparare. Piuttosto sia consentito un suggerimento. L’UEFA si renda promotrice di questa iniziativa: un minuto di silenzio su tutti i campi d’Europa, giochino o no le squadre spagnole. Sarebbe, a mio giudizio, la migliore risposta all’iniquo regime di Franco. […] Roberto Beccantini. A mio avviso Lazio-Barcellona deve essere giocata. Non credo nello sport avulso dalla politica, ma credo nella funzione conciliante, riparatrice dello sport. Personalmente ricorrerei piuttosto a proteste ufficiali durante la partita stessa […]. Al mondo ci sono già tante e troppe cose grandi che separano gli uomini. Lasciamo almeno che questa piccola cosa che è lo sport continui ad unirli. […] Giglio Panza. […] Poiché credo nella democrazia e nella validità delle civili proteste, ritengo che una grande manifestazione antifranchista della popolazione romana avrebbe in Spagna e su chi in Spagna deve tornare, più presa politica che non la ricusazione di una squadra di calcio che col regime non ha niente da spartire. Dimostrando quale buon uso sappiamo fare della libertà, aiuteremo chi disperatamente si batte – come noi abbiamo fatto con la Resistenza – perché anche in Spagna la libertà ritorni. […] Oliviero Beha. […] Sfido chiunque a dimostrare che esista anche una sola ragione perché la partita si disputi, che non sia lo stretto comodo morale di chi non vuole vedere messo in bilico un certo modo rassodato di pregiudizio e di interesse. Chi spiegherà ai due giocatori spagnoli in pericolo per avere portato il lutto in campo che «è meglio, più giusto» che l’incontro abbia luogo, per non contaminare la purezza dell’idea sportiva (trappola!) con la politica che qualche volta assassina? Fulvio Bianchi. Non si deve giocare. I lavoratori della pedata devono essere allineati, soprattutto oggi, con i lavoratori europei nel boicottaggio della Spagna fascista; i calciatori romani, soltanto non giocando, «giocheranno» al fianco del popolo spagnolo, oppresso da un regime dittatoriale e colpevole di cinque barbari omicidi. Giorgio Reineri. Quarant’anni fa l’Italia si macchiò di una colpa gravissima: insieme alle truppe naziste, contribuì a uccidere la repubblica di Azana, martirizzando la Spagna. Oggi il dovere di ogni paese civile è di isolare gli assassini franchisti. Questo la si fa anche attraverso lo sport, che è un fatto di vita e di cultura. No a Lazio Barcellona, dunque, anteponendo agli interessi economici i doveri che ogni autentico democratico deve sentire […].
[«Tuttosport», 12 ottobre 1975]


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Sport e dintorni – Non camminerai mai da solo https://www.carmillaonline.com/2024/10/25/sport-e-dintorni-non-camminerai-mai-da-solo/ Fri, 25 Oct 2024 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85031 di Giorgio Bona

David Peace, Red or dead, ed. orig. 2013, trad. dall’inglese di Pietro Formenton e Marco Pensante, pp. 651, € 23, il Saggiatore, Milano 2014.

Quando il gioco del calcio non è soltanto passione, quando svela una visione più profonda con contenuti e significati che rappresentano un valore sociale e politico di rilievo, a guardare i tifosi non soltanto come una massa amorfa ma andando oltre, ecco… quando non si sa cosa dire allora funziona sempre la frase “calcio di altri tempi”.

Certo, erano altri tempi.

Il calcio è un fenomeno sociale mondiale. Quello che nei tempi attuali conosciamo [...]]]> di Giorgio Bona

David Peace, Red or dead, ed. orig. 2013, trad. dall’inglese di Pietro Formenton e Marco Pensante, pp. 651, € 23, il Saggiatore, Milano 2014.

Quando il gioco del calcio non è soltanto passione, quando svela una visione più profonda con contenuti e significati che rappresentano un valore sociale e politico di rilievo, a guardare i tifosi non soltanto come una massa amorfa ma andando oltre, ecco… quando non si sa cosa dire allora funziona sempre la frase “calcio di altri tempi”.

Certo, erano altri tempi.

Il calcio è un fenomeno sociale mondiale. Quello che nei tempi attuali conosciamo è quello legato al fenomeno televisivo e di conseguenza a un grande potere economico.

Tuttavia c’è un’altra faccia del pallone, quella di un calcio sociale, che non ha mai avuto vetrine, ma che ha un grande impatto con il mondo che rappresenta, creando strumenti per costruire accanto a una società professionistica quella comunità inclusiva per la promozione dei valori fondamentali dello sport.

Ecco dunque la visione di un personaggio che il calcio lo ha vissuto da vicino, Bill Shankly (1913-1981), allenatore dal 1959 al 1974 del Liverpool, una delle squadre più prestigiose del mondo; e ci viene raccontata dalla penna di David Peace (1967), già autore di Il maledetto United (2006). Lì ricostruiva in oltre quattrocento pagine – nell’edizione italiana per il Saggiatore, 2009 – la storia dell’ex-calciatore e poi allenatore socialista Brian Clough, dal Derby County al Leeds United (quarantaquattro giorni, stagione 1974-75). E non stupisce l’attenzione a questa dimensione sociale del calcio da parte di Peace, in precedenza autore di GB84 (2005) – sul grande sciopero dei minatori contro Margaret Thatcher e la sua politica disastrosa per la classe operaia britannica.

L’artefice del successo narrato da Red or dead fu appunto Bill Shankly, figura destinata a diventare leggenda, sotto la cui guida il Liverpool conquistò tre campionati, due Coppe d’Inghilterra e una Coppa Uefa (1972-1973) dove sconfisse in finale i tedeschi del Borussia Mönchengladbach. Per Shankly il calcio rappresentava una missione, una ragione di vita, un sistema per trasformare i giocatori e i tifosi. Partita dopo partita, allenamento su allenamento, preparazione tattica e colloqui intensi con i protagonisti che scenderanno in campo offriva loro motivazioni indispensabili.

Appena giunto a Liverpool, Bill fece un grande programma di ricostruzione della squadra, valorizzando il settore giovanile e inserendo alcuni elementi di talento. Questa sua programmazione a lungo termine diede i suoi frutti ancor prima del previsto: nel 1962 la squadra venne promossa in Prima Divisione, due anni dopo conquistò il campionato e l’anno successivo giunse in semifinale in Coppa dei campioni. Di lì, una serie di successi.

Il libro offre quasi settecento pagine con le formazioni, azioni raccontate come le radiocronache di sessant’anni fa, commenti, risultati e classifiche – e non mancano le parti dedicate alla tifoseria con i cori. Non solo. David Peace ci offre anche curiosità che restano fuori dalla scena, ovvero i risvolti della vita privata, tra le pareti domestiche con la moglie Nessie e le figlie Barbara e Jeanette, dal trasferimento in una casa a Bellefield Avenue, West Derby, Liverpool, dove visse fino al momento della sua morte per infarto nel 1981. E pagina dopo pagina il lettore può trovarsi a condividere emozioni e passione di Bill quasi avvertendo il pulsare delle sue vene.

Un amore che il tempo ricambia e che non cancella, anche se con una decisione sorprendente Bill Shankly darà a un certo punto le dimissioni, una scelta che sconvolgerà giocatori e tifosi e di cui Peace racconta il dramma, tra dubbi e rimpianti di un uomo che desidererebbe ricominciare tutto da capo. E che si aggira per la città come un nobile decaduto, riverito dai tifosi e oltraggiato dalla società che lui aveva portato ai trionfi.

La sua morte sarà un evento di tale impatto che il Partito laburista durante la sua conferenza osserverà un minuto di silenzio per quell’uomo che era sempre stato considerato un socialista. Per onorarne la memoria verrà eretta davanti allo stadio di Liverpool una grande statua in bronzo che riporta la scritta: Non camminerai mai da solo.

Red or dead non è soltanto il romanzo di un uomo, delle sue aspirazioni, dei suoi sogni, ma rappresenta il racconto duro e commosso dell’epoca d’oro del calcio inglese e del suo declino. Certamente un’avventura difficile da raccontare, c’era il rischio di perdersi in una retorica facile: ma non si perde David Peace, raccontandoci con precisione e nei minimi particolari una storia che documenta quell’ascesa e quel malinconico tramonto.

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Sport e dintorni – Irlanda, calcio e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2024/08/24/sport-e-dintorni-irlanda-calcio-e-rivoluzione/ Sat, 24 Aug 2024 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83823 di Gioacchino Toni

Greta Selvestrel, Irlanda, calcio e rivoluzione, Rogas, Roma, 2024, pp. 270, € 21,70

Tratteggiata nella prima parte del libro la storia della presenza inglese in Irlanda, dunque la conflittualità che si è venuta a sedimentare nel tempo tra le due parti, Greta Selvestrel passa ad analizzare come l’universo calcistico, in tale contesto di pulsioni viscerali, si sia storicamente caricato di un complesso intreccio di identità, simboli e culture. La ricostruzione storica proposta dalla studiosa è affiancata, oltre che da un apparato iconografico utile a comprendere l’immaginario locale entro cui viene a collocarsi il mondo del pallone, dall’esperienza diretta [...]]]> di Gioacchino Toni

Greta Selvestrel, Irlanda, calcio e rivoluzione, Rogas, Roma, 2024, pp. 270, € 21,70

Tratteggiata nella prima parte del libro la storia della presenza inglese in Irlanda, dunque la conflittualità che si è venuta a sedimentare nel tempo tra le due parti, Greta Selvestrel passa ad analizzare come l’universo calcistico, in tale contesto di pulsioni viscerali, si sia storicamente caricato di un complesso intreccio di identità, simboli e culture. La ricostruzione storica proposta dalla studiosa è affiancata, oltre che da un apparato iconografico utile a comprendere l’immaginario locale entro cui viene a collocarsi il mondo del pallone, dall’esperienza diretta sul campo che le ha permesso di osservare con i propri occhi e di condurre interviste.

La passione viscerale per il calcio è al tempo stesso tra i pochi elementi che accomunano le diverse componenti che abitano le contee dell’Ulster e un ambito in cui si manifesta la conflittualità che regna tra di esse: «in quelle zone di conflitto, fra marciapiedi e pub segnati dalla rabbia e dal forte desiderio di liberazione, il calcio diventa uno strumento vero di battaglia e di trasmissione di una certa identità culturale» (p. 81). Soprattutto in città come Derry e Belfast, ogni aspetto della vita sociale dei cittadini nordirlandesi – quartieri, lingue, religioni, sport… – è contraddistinto «dalla logica della titolarità, della rivendicazione, della bivalenza, di ciò che avrebbe dovuto essere per naturale evoluzione delle cose e di ciò che invece, è stato imposto» (p. 84).

A Belfast l’ostilità tra repubblicani cattolici e unionisti protestanti si riflette a livello calcistico nella contrapposizione fra le tifoserie del Linfield FC unionista e del Celtic Belfast repubblicano, club fondato nel 1891 nel quartiere cattolico di West Belfast ispirandosi al Celtic Glasgow FC degli emigrati irlandesi in Scozia. La stessa rivalità in Scozia tra Celtic e Rangers è fortemente legata colonialismo inglese; mentre la tifoseria del Celtic non manca di far riferimento alla working class cattolica discriminata, quella dei Rangers si rifà all’unionismo protestante fedele alla Corona britannica.

A Derry la divisione scorre lungo il fiume Foyle che divide in due la città e non solo geograficamente: ad est la componente unionista che rappresenta il 20% della popolazione, ad ovest la comunità repubblicana, il restante 80% Il Derry City Football Club (in gaelico Cumann Peile Chathair Dhoire), nonostante abbia mantenuto una simbologia sostanzialmente neutra, avendo base nel cuore della zona repubblicana della città, è inevitabilmente la squadra tifata da tale comunità nei cui confronti si riversa l’ostilità degli unionisti che invece tendono a supportare il Linfield FC di Belstaf. A riprova dei diversi immaginari che animano le due fazioni, la studiosa ricorda come sugli spalti dei primi anni Settanta, negli scontri diretti tra le due squadre, alle strofe di We Shall Overcome intonate dai tifosi del Derry City in trasferta si contrapponevano da parte dei tifosi del Linfield quelle di God Save the Queen e di Derry Walls, canto che si rifà alle dispute secentesche fra le due parti in lotta.

L’autrice del volume ripercorre anche i problemi di ordine pubblico riguardanti le partite giocate dal Derry City contro il Ballymena United, altra formazione a tifo unionista dell’area a Nord di Belstaf, dunque come i tragici eventi del Bogside del 30 gennaio 1972, giorno passato alla storia come Bloody Sunday, abbiano avuto pesanti ricadute anche sul mondo del calcio, in particolare sul Derry City, le cui vicende sono puntualmente ricostruite nel volume.

Riprendendo l’antropologo Bruno Barba, la studiosa invita a guardare allo sport, e ancor più al calcio, come a

una sorta di educazione sentimentale per un gruppo di persone che si riconoscono in una comunità, in un imprinting, in una maniera peculiare di affrontare la vita. Per tale motivo è importante evidenziare il valore della sua intrinseca espressione collettiva che si può manifestare attraverso un appassionato, un atleta in prima persona ma soprattutto attraverso una tifoseria intera. In quest’ultimo caso, il concetto di “comunità” e cioè la passione, l’identificazione e l’appartenenza sportiva che pretende un impegno costante, assume un peso decisamente maggiore. La magia mistica che collega il momento sportivo a certe manifestazioni religiose attraverso inquietudini, paure, sconvolgimenti, rabbie e stupori conferma la ritualità di uno strumento culturale totale in quanto capace di riassumere una vera e propria fede che assume sembianze differenti all’interno di essa (pp. 111-112).

Se è pur vero che il tifo comporta faziosità, schieramento e rivalità che possono dar luogo a forme nefaste di campanilismo identitario, sostiene Selvestrel, tale forma di aggregazione può, in determinati casi, assumere connotazioni classiste manifestando una conflittualità tra realtà sociali differenti.

I rapporti tra le tifoserie di stampo irlandese, come il Celtic Glasgow, il Derry City o il Cliftonville seguono dei principi ben precisi della propria cultura al fine di creare legami stretti di supporto e riconoscimento con il resto del mondo ultras. Per questo l’aspetto politico incide fortemente sul rapporto tra tifoserie repubblicane e unioniste: il repubblicanesimo irlandese, a differenza dell’unionismo che tendenzialmente viene supportato da gruppi di estrema destra, deriva da uno scenario culturale tendente al socialismo e di conseguenza le amicizie che si vanno a consolidare con le tifoserie di altri Paesi seguono questo tipo di direzione come, per esempio, il caso consolidato da tempo del gemellaggio Celtic Glasgow-St. Pauli (p. 119).

Nel volume viene fatto riferimento anche all’universo ultras, in particolare la studiosa si sofferma sulla tifoseria del Derry City e sulla recente nascita del gruppo dei Red Partisans di derivazione working-class e legato ai movimenti antifascisti ed antirazzisti cittadini votato, come la Green Brigade del Celtic Glasgow, all’attivismo sociale e al sostegno delle cause indipendentiste come quella palestinese.

Supportata da un ampia ed utile bibliografia, quella offerta da Greta Selvestrel è una narrazione partecipata dei contraddittori intrecci che si sono dati e si danno nella società Nord-irlandese tra calcio, vita comunitaria, memoria, immaginario, classe e politica capace di restituirne la complessità.


Sport e dintorni – serie completa

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Sport e dintorni – Storia dell’allenatore di calcio in Italia. Intervista a Massimo Cervelli https://www.carmillaonline.com/2024/07/02/sport-e-dintorni-storia-dellallenatore-di-calcio-in-italia-intervista-a-massimo-cervelli/ Tue, 02 Jul 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83278 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[Il volume di Massimo Cervelli, L’allenatore di calcio in Italia. Storia socioculturale di una professione (Biblion, 2024), propone una meticolosa ricostruzione della storia dell’allenatore di calcio in questo paese, prima figura professionista dell’universo calcistico nazionale. Di seguito si propone un’intervista all’autore su alcuni snodi da lui trattati nel libro].

D. Per tratteggiare la storia dell’allenatore di calcio in Italia conviene partire dagli inizi, dalla cosiddetta epoca pionieristica, quando questa figura non esisteva…

R. Il 15 maggio 1910 la Nazionale giocava la sua prima partita, ma il football italiano non conosceva ancora la figura dell’allenatore. La [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[Il volume di Massimo Cervelli, L’allenatore di calcio in Italia. Storia socioculturale di una professione (Biblion, 2024), propone una meticolosa ricostruzione della storia dell’allenatore di calcio in questo paese, prima figura professionista dell’universo calcistico nazionale. Di seguito si propone un’intervista all’autore su alcuni snodi da lui trattati nel libro].

D. Per tratteggiare la storia dell’allenatore di calcio in Italia conviene partire dagli inizi, dalla cosiddetta epoca pionieristica, quando questa figura non esisteva…

R. Il 15 maggio 1910 la Nazionale giocava la sua prima partita, ma il football italiano non conosceva ancora la figura dell’allenatore. La gestione della Nazionale era consegnata a commissioni tecniche composte principalmente da arbitri, gli unici che conoscevano i giocatori, avendoli osservati durante le partite. Nelle squadre era emersa la figura del capitano, una sorta di responsabile del comportamento tenuto in campo, nei confronti degli avversari e dell’arbitro. Era lui, il giocatore più esperto e carismatico che, assieme a qualche componente del Consiglio direttivo, decideva la formazione da schierare in campo. Il capitano rispondeva a codici di comunicazione bidirezionali, condivisi con i compagni più esperti: sapere come stare in campo (posizione, controllo degli avversari, calcio del pallone) e iniziazione dei giovani. Era un calcio semplice, basato sul kick and run e col primitivo schieramento sulle tre linee dell’originaria piramide: i terzini, terza linea, i mediani, linea di mezzo, e gli attaccanti, la prima linea.

D. Come nasce la figura dell’allenatore e che cambiamenti comporta nel panorama calcistico italiano?

R. Parafrasando una vecchia canzone socialista del primo dopoguerra, si può dire che, al posto di uno strano soldato, nel calcio avanzasse uno strano mestiere. Nel 1912, il Genoa, il club più organizzato, ingaggiò, grazie alle proprie ascendenze britanniche, William Garbutt un ex calciatore a cui assegnò il compito di guidare la squadra. C’era già Vittorio Pozzo al Torino, ma rappresentava una storia molto particolare. Garbutt ebbe un effetto dirompente, tant’è che ancora oggi l’allenatore viene chiamato mister. Con lui arrivarono altri britannici, una prima, ristretta, avanguardia di tecnici stranieri, fermata dalla grande guerra che confinò il pallone nelle trincee di tutta Europa – dove divenne il miglior passatempo, ma si giocava in mezzo ad una carneficina: 571 mila morti e oltre due milioni tra feriti e mutilati il bilancio italiano.

D: Con gli allenatori, regolarmente stipendiati, arrivò il professionismo. La sua generalizzazione fu immediata?

R. Il calcio non poteva più essere un’attività occasionale, doveva essere un lavoro full time adeguatamente retribuito. Arrivarono le prime denunce: sul Genoa piovvero accuse di professionismo per il pagamento di alcuni calciatori. Era già avvenuto un mutamento delle condizioni in cui si giocava. All’inizio i calciatori dovevano provvedere al loro vestiario, alle spese per gli spostamenti, all’organizzazione dei banchetti da offrire agli avversari dopo la partita e ai costi di gestione del loro sodalizio. I costi determinarono il carattere borghese e aristocratico dei primi club. Con lo sviluppo del movimento l’estrazione sociale cambiò rapidamente, ma l’Italia (“si fa ma non si dice”) non voleva riconoscere il professionismo, lo fece solo nel secondo dopo guerra.

D. Cosa deve il calcio italiano, oltre al professionismo, ai tecnici stranieri?

R. Negli anni Venti, come conseguenza della dissoluzione degli Imperi centrali, arrivarono oltre quaranta calciatori professionisti provenienti da Ungheria, Austria e Cecoslovacchia. Portarono un ricco bagaglio tecnico: finte, abilità nel controllare la palla con tutte le parti del piede, educazione al tiro con le diverse posizioni del corpo… Molti di loro diventarono allenatori, dando al nostro calcio l’impronta del gioco danubiano che, “non lasciava nulla al caso, muovendo i giocatori in campo con la precisione di un giocatore di scacchi che muove le sue pedine”. Una vera e propria colonizzazione sportiva che dette una precisa impronta tattica e stilistica al nostro calcio. Dal 1923 al 1930, i campionati furono vinti soltanto da allenatori stranieri e il primo manuale sulla conduzione di una squadra fu scritto da Arpad Weisz, espulso dall’Italia dalle leggi razziali e poi deportato dai nazisti e ucciso ad Auschwitz.

D. Questo massiccio ricorso ad allenatori stranieri avveniva durante il fascismo…

R. La riorganizzazione dello sport italiano fu parte della fascistizzazione delle istituzioni dello stato che sfociò nella costruzione del regime fascista. Agli inizi degli anni Trenta si posero l’obiettivo politico di creare una scuola per allenatori italiani, con il fine di costruire un futuro autarchico. C’era la volontà di passare dalla bottega artigiana, con l’apprendista che imparava accanto al maestro, ad una scuola di livello superiore, arrivando a regolamentare e disciplinare la figura dell’allenatore. Nel 1933 partì la Scuola Allenatori, ma pochi mesi dopo fu defenestrato, in uno dei tanti scontri tra gerarchi fascisti, Arpinati, presidente della FIGC e la Scuola non venne riproposta.

D. E di corsi per allenatori non se ne parlò più?

R. Nel 1940, per difendere il primato del calcio italiano che aveva vinto due Mondiali e un’Olimpiade, fu creato il Centro di Preparazione Tecnica che aveva anche il compito di definire il ruolo degli allenatori e la sua formazione, ma i primi corsi, per massaggiatori e aiutanti allenatori, vennero organizzati a Firenze nell’estate del 1943, pochi giorni prima della caduta del fascismo.

D. Nel dopoguerra da dove ripartì la FIGC e con quale sintonia con la nuova fase di sviluppo?

R. La FIGC mantenne quasi interamente il corpo dirigente che l’aveva diretta durante il fascismo e ripropose, sia dal punto di vista dell’inquadramento che da quello della formazione, l’approccio maturato. Dal 1949 furono riproposti i corsi, con materie e modalità organizzative che richiamavano le precedenti esperienze, ma con un passo indietro sul piano delle ambizioni: non si pensava più ad una Scuola, ci si accontentava di spiegare il mestiere prima di concedere il patentino per allenare. Nel dopoguerra, nell’Italia repubblicana, prendevano il via i programmi di formazione professionale per rispondere alle esigenze della popolazione adulta, scarsamente scolarizzata, e a quelle della ricostruzione e, successivamente, all’inizio di una fase economica espansiva, a una massa giovanile, anch’essa con scarsi livelli di scolarità. I corsi sviluppavano, con esercitazioni pratiche, capacità di lavoro, dando un mestiere. In questi anni si sovrappongono due fasi della storia economica italiana: l’urgenza della ricostruzione, in cui la forza lavoro va avviata ai mestieri, e quella successiva, dove il lavoro necessitava di una maggiore qualificazione professionale. Il 1950, l’anno in cui il reddito reale pro-capite torna ai livelli d’anteguerra, può essere considerato lo spartiacque tra le due fasi.

D. E poi arrivano gli anni del “miracolo economico” o, per meglio dire, della concentrazione del potere economico in grandi società nazionali o multinazionali e il crescente intervento dello stato nell’economia, il neo capitalismo italiano…

R. Il 1958 è l’anno di inizio del “boom economico” quando, per la prima volta gli operai sono più numerosi dei contadini ed entra in funzione la Comunità Economica Europea (CEE). È anche l’anno zero del calcio italiano che non ottiene la qualificazione ai Mondiali e viene commissariato dal CONI. Il commissariamento termina, l’anno successivo, con l’elezione del ventiquattrenne Umberto Agnelli, presidente della Juventus, alla presidenza federale. La ricostruzione tecnica del calcio italiano viene affidata a Walter Mandelli, dirigente industriale e vicepresidente della Juventus. Nel frattempo (1958) è stato aperto il Centro Tecnico Federale di Coverciano e cominciano, nel 1961, i primi corsi UEFA per allenatori e dirigenti europei. L’obiettivo di Mandelli è formare allenatori convenientemente istruiti e non solo sommariamente abilitati. I corsi per allenatori professionisti diventano biennali, con le fasi residenziali nell’estate per non ostacolare il lavoro, con lezioni di tecnica calcistica, medicina sportiva, storia degli sport, regolamento di gioco, carte federali e preparazione ginnico atletica. La filosofia è ben espressa da Mandelli: “Noi abbiamo l’obbligo di insegnare a tutti le leggi fondamentali del calcio. Fermi non ha scoperto l’atomo, né Fleming la penicillina all’università. Ma è stata l’educazione della scuola che ha dato a Fermi ed a Fleming, perdonatemi l’irriverenza, le basi dei loro studi”. La Scuola di Coverciano respingeva la definizione di fabbrica degli allenatori. L’allenatore lo seleziona il campo, la pratica effettiva. La scuola lo avvia alla professione, aiuta a trasformare la pratica in teoria e la teoria in pratica.

D. Qualche anno dopo si passa dai corsi al Supercorso…

R. Sono sempre le vicende della Nazionale a dettare le politiche federali. Dopo il fallimento ai Mondiali 1974, Artemio Franchi assume la presidenza del Settore Tecnico e punta su Italo Allodi, il dirigente sportivo più quotato, ed anche più discusso, del momento, che presenta un piano per istruire, abilitare e inquadrare gli allenatori nelle nuove condizioni del calcio contemporaneo, con la sistematica istruzione di tutte le figure tecniche attraverso la valorizzazione dei titoli abilitanti. Un corso parauniversitario, con materie inusuali come sociologia, psicopedagogia, sessuologia, alimentazione, psicologia, i compiti del sindacato, le questioni fiscali, la medicina sportiva applicata al calcio. Viene definito Supercorso ed introduce un modello duale nel processo di formazione: lezioni in aula e missioni di studio a contatto con l’esperienza pratica nei maggiori club. Dura nove mesi e sono tutti residenziali, a Coverciano, tranne i periodi di aggiornamento all’estero. Gli allievi possono ricorrere ad un prestito d’onore federale ed utilizzare successivamente borse di studio. È una rivoluzione che pone Coverciano al centro dell’attenzione internazionale e produce anche il primo corso per Direzione di Società di Calcio (1980-81). Le società calcistiche erano diventate aziende di medio-grande dimensione e, come nelle imprese di altri settori e comparti, la loro gestione comportava problematiche sempre più complesse, passando dal modello imprenditoriale-padronale al management organizzato. La rivoluzione finisce nel 1982 con la vittoria ai Mondiali, Bearzot e Allodi erano inconciliabili…

D. Gli anni Ottanta sono gli anni del riflusso, anche in questo settore?

R. Esatto, con la restaurazione dei vecchi corsi, preoccupandosi solo di salvare la dimensione internazionale di Coverciano. Alla fine del decennio, con la gestione Abete, la Scuola Allenatori viene totalmente rivista, con un mutamento di orizzonte nella didattica: maggiore spazio alla cultura, calcistica e scientifica, intensificando scambi e contatti con le maggiori realtà europee ed extra europee. Il corso Master di alta specializzazione per gli allenatori di 1a categoria, diviso in due sessioni estive, e con l’introduzione della comunicazione come materia fondamentale è il suo esito.

D. Ed oggi cosa succede in Italia nel campo della formazione degli allenatori?

R. La dinamicità del football ha portato negli ultimi vent’anni ad una maggiore specializzazione (calcio a 5, calcio femminile, preparatori atletici, preparatori dei portieri, di formazioni giovanili, osservatori, match analyst…) con conseguenti corsi dedicati.
L’allenatore europeo contemporaneo è un gestore di conoscenze in un gioco cognitivo che dipende dalla capacità, singola e collettiva, di dare risposte in tempo reale alle situazioni che si creano in campo. Il paradigma formativo della Scuola di Coverciano è la flessibilità: il calcio si rinnova ogni giorno e bisogna essere pronti a catturare e interpretare le novità, agli aspiranti allenatori vengono spiegate le varie impostazioni e interpretazioni tattiche, le filosofie di gioco applicate dai tecnici. Vengono indicate le novità e i mutamenti del calcio. Alla Scuola sono stati eliminati i libri di testo, poiché, in una disciplina in continuo movimento, esprimono concetti già superati. L’allievo entra senza libri e con delle convinzioni, ma esce senza certezze e con un testo scritto da lui, una prima idea del calcio che proporrà. Come dice il direttore della Scuola, Renzo Ulivieri bisogna “essere meticci, imparare a mescolare le nostre culture”. Flessibilità e ibridazione sono il vero punto di arrivo dopo decenni in cui, seppure in forma diversa, si ripresentava l’utopia di dare una comune identità tecnico-tattica e un medesimo stile di gioco a tutti.


Serie completa – Sport e dintorni

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Sport e dintorni – Il calcio nell’era televisiva https://www.carmillaonline.com/2024/04/29/sport-e-dintorni-il-calcio-nellera-televisiva/ Mon, 29 Apr 2024 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82087 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

È stato detto che dal momento in cui il calcio ha incontrato la radio e, soprattutto, la televisione, questo si è per certi versi trasformato, come (e forse più di) altri sport, in «un genere drammatico». Di quanto e come la rappresentazione televisiva abbia modificato il gioco del calcio e la sua fruizione si occupa il saggio di Giorgio Simonelli, Quasi gol. Storia sentimentale del calcio in tv (Manni Editori, 2024). Il volume ripercorre il rapporto tra calcio e televisione operando una suddivisione per blocchi temporali segnati da svolte dettate da innovazioni tecnologiche, cambiamenti culturali [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

È stato detto che dal momento in cui il calcio ha incontrato la radio e, soprattutto, la televisione, questo si è per certi versi trasformato, come (e forse più di) altri sport, in «un genere drammatico». Di quanto e come la rappresentazione televisiva abbia modificato il gioco del calcio e la sua fruizione si occupa il saggio di Giorgio Simonelli, Quasi gol. Storia sentimentale del calcio in tv (Manni Editori, 2024). Il volume ripercorre il rapporto tra calcio e televisione operando una suddivisione per blocchi temporali segnati da svolte dettate da innovazioni tecnologiche, cambiamenti culturali e di costume, oltre che da scelte economiche e politico-sportive.

A far incontrare nel 1936 il calcio con la televisione sono la Germania, all’interno delle 138 ore di copertura delle Olimpiadi berlinesi, e la Gran Bretagna con la trasmissione dell’incontro Arsenal-Leicester. Quella delle tv degli anni Trenta, sottolinea Simonelli, può dirsi però una «falsa partenza», presto soffocata dal secondo conflitto mondiale. Lo spazio concesso dalla televisione pubblica britannica al calcio alla ripresa postbellica deriva in parte dalla necessità tecnologica della televisione degli anni Quaranta e Cinquanta di tramettere sostanzialmente in diretta non potendo avvalersi di sistemi di registrazione se non ricorrendo alle tecnologie cinematografiche richiedenti tempi di produzione lunghi.

In ambito italiano la prima trasmissione di una partita calcio (Juventus-Milan) si ha nel febbraio del 1950, in via del tutto sperimentale, quando ancora l’emittente non ha iniziato a trasmettere con regolarità. In questa fase embrionale il rapporto della televisione italiana con il calcio secondo lo studioso è dettato tanto dalla volontà di consolidare l’identità nazionale, non a caso ad essere trasmesse sono soprattutto le partite della nazionale, quanto dall’esigenza di ampliare lo sguardo a livello internazionale grazie al confronto degli azzurri, e successivamente delle squadre di club impegnate nelle coppe europee, con le formazioni dei paesi stranieri. Durante questa fase pionieristica la programmazione del calcio nella televisione italiana ha carattere di eccezionalità, non avendo ancora uno spazio fisso e regolare nel palinsesto.

Il racconto delle vicende settimanali del campionato italiano è affidato alla radio e alla carta stampata mentre la televisione è alle prese con i suoi limiti tecnici dettati dal fatto che le registrazioni sono ancora su pellicola. Per qualche tempo i servizi calcistici coprono esclusivamente le partite giocate nelle vicinanze delle sedi milanese e romana della Rai, ove vengono consegnate le pellicole che poi devono essere sviluppate, sezionate e montate in tempo utile per ottenere i servizi da mandare in onda alla Domenica Sportiva, la più antica rubrica della tv italiana. I sevizi riguardanti le restanti partite devono attendere la trasmissione Telesport del lunedì sera.

L’avvento dell’RVM (Registrazione Video Metagenetica) alla fine degli anni Cinquanta contribuisce in maniera fondamentale a togliere al calcio televisivo il carattere di eccezionalità assegnandogli uno spazio fisso all’interno del palinsesto, tanto da prevedere la trasmissione domenicale di un tempo di una partita di calcio. Grazie alle nuove tecnologie di registrazione cambia anche la Domenica Sportiva che anziché limitarsi a mostrare i servizi di alcune partite, diviene una trasmissione con un conduttore (Enzo Tortora) che presenta, commenta e intervista i protagonisti degli eventi sportivi alla presenza di un pubblico.

Simonelli sottolinea anche come in questo periodo il grande interesse suscitato dalle dirette delle partite di coppa dei club italiani non detti il palinsesto che invece obbedisce a un progetto pedagogico che intende mantenere un certo equilibrio tra i contenuti offerti dal servizio pubblico televisivo. Allo spirito pedagogico appartiene anche la decisione di mandare in onda negli anni Sessanta una trasmissione volta a insegnare ai giovani telespettatori i fondamentali della tecnica calcistica come Lezioni di gioco del calcio tenuta da Silvio Piola e Giovanni Ferrari.

L’entrata in scena della moviola nel 1967, poi entrata a far parte della Domenica Sportiva a partire dal 1970, cambia il calcio in tv. «Il ruolo che la Rai affida alla tecnologia è soprattutto spettacolare, motivo di celebrazione dell’occhio infallibile della telecamera, spunto per discussioni che cominciano in studio e proseguono nei bar, sui giornali, momento atteso e popolarissimo tra i telespettatori, tanto che moviola diventa un termine usato come iperbole, metafora, metonimia» (pp. 53-54).

Il 1970 è anche l’anno in cui prende vita 90° minuto di Maurizio Barendson, Paolo Valenti e Remo Pascucci e l’anno di Italia Germania 4-3 ai mondiali messicani. Per quanto riguarda la nuova trasmissione Simonelli sottolinea come questa contribuisca a dare visibilità alle squadre provinciali attraverso giornalisti che, nel giro di poco tempo, ne diventano per certi versi portavoce.

Alcuni sono sobri e professionali, altri invece più confidenziali e originali sia nel look che negli atteggiamenti e per questo vengono criticati ma diventano popolari, il loro linguaggio spicca, la loro breve introduzione è un appuntamento atteso e gustato. 90° minuto non è più solo un programma di informazione calcistica, ma un rito domenicale non privo di una certa teatralità. Ma soprattutto, con la sua formula che consente di passare nel giro di pochi minuti da Genova a Vicenza, da Cesena a Catanzaro, trasforma il campionato di calcio e la sua rappresentazione televisiva in una manifestazione della compattezza del tessuto culturale del paese (pp. 57-58).

Circa i motivi per cui la famosa partita dei mondiali messicani è entrata nella leggenda, oltre all’avvincente andamento altalenante della partita e la presenza del replay immediato delle azioni più spettacolari, vi è chi vi ha visto un momento di rinnovata unità nazionale dopo le fratture dell’autunno caldo e chi hanno messo in luce l’eterogeneità delle squadre di provenienza della formazione azzurra. Simonelli vi aggiunge l’abbattimento del «tabù della notte»; la decisione della Rai di mandare in diretta l’evento nonostante l’orario in notturna.

A cambiare la narrazione del calcio in tv contribuisce il debutto televisivo di Dribbling nel 1973 «un magazine settimanale nato attorno a un gruppo di giornalisti, come Barendson o Minà, desiderosi di trattare il calcio con uno sguardo più ampio, che propone inchieste, interviste agli atleti in grado di andare molto più in profondità e in ampiezza rispetto alla semplice cronaca» (p. 70).

Tra gli altri momenti di svolta importanti per il calcio televisivo l’autore ricorda l’avvento del colore, che contribuisce alla spettacolarizzazione delle partite, e la concorrenza portata alla Rai dalle emittenti della Svizzera e di Capodistria che, per certi versi, anticipano problematiche che si dispiegheranno con l’avvento dei canali radiofonici e televisivi locali (che offriranno copertura capillare alle piccole squadre di provincia), dunque con l’avvento delle televisioni commerciali nazionali che, a livello sportivo a partire dai diritti del Mundialito del 1980, cambieranno l’universo televisivo italiano avviato a quella che Umberto Eco ha definito l’avvento della neotelevisione. Dal punto di vista del calcio in tv le emittenti private introducono «una telecronaca esuberante, gridata, appassionata, ricca di iperboli, di iterazioni, di linguaggi spregiudicati» (pp. 84-85), presto destinata a farsi egemone. Altra novità è data dai programmi che nelle diverse emittenti offrono una narrazione delle partite attraverso ospiti che le osservano in bassa frequenza.

Con gli anni Ottanta si entra nell’era segnata dalla contesa dei diritti televisivi ed un cambio di indirizzo all’interno del servizio pubblico televisivo che abbandona quello spirito pedagogico che lo aveva a lungo contraddistinto facendo prevalere le ragioni dell’audience, come attesta, simbolicamente, la cancellazione dalla programmazione di un evento culturale su uno dei canali Rai (la seconda parte di Fanny e Alexander di Ingmar Bergman) per non intralciare la trasmissione sul canale principale della finale di Coppa dei Campioni Roma-Liverpool nel maggio del 1984. Simonelli pone l’accento anche sul ruolo giocato dall’esultanza popolare del Presidente Pertini mostrata dalla tv nel corso della finale dei Mondiali spagnoli del 1982 vinta dall’Italia nel conferire al calcio un ruolo trasversale capace di infrangere distinzioni di sesso, di classe e di cultura.

Dopo anni in cui era considerato un tipico esempio della cultura di massa, una delle armi di distrazione che la società capitalistica metteva in campo e in cui gli uomini di cultura che nutrivano e confessavano quella strana passione erano un’assoluta eccezione, all’improvviso il calcio godeva di interesse e simpatia da parte del mondo intellettuale: scrittori, artisti, politici, attori si rivelavano appassionati e accaniti tifosi, persino con una punta di snobismo nei confronti di chi non condivideva la loro passione (pp. 90-91).

Ad un calcio sempre più orientato a divenire uno «spettacolo generalista» da prima serata televisiva si rendono necessari nuovi interpreti. A tale esigenza rispondono tanto la riapertura delle frontiere ai calciatori stranieri, bloccate in seguito all’insuccesso della nazionale nel 1966, quanto l’adozione di una narrazione televisiva adeguata alla svolta votata alla spettacolarizzazione dell’evento calcistico. Le riprese televisive abbandonano «l’atteggiamento referenziale per cui la televisione era semplice testimone dell’evento che doveva trasferire al destinatario senza alterarne le caratteristiche ma una dimensione rielaborativa, di decostruzione e ricostruzione dell’oggetto, una costante scelta di spettacolarizzazione in senso televisivo» (p. 94). La fruizione televisiva si è fatta sempre più autoreferenziale ed ubiqua allontanandosi dalla visione dal vivo della partita, mentre il commento verbale, anche nel servizio pubblico, ha abbandonato il tradizionale tono compassato in favore di un linguaggio più esuberante, passionale, ricco di metafore, iperboli e formule proprie dei diversi giornalisti. A spingere sulla spettacolarizzazione dell’evento calcistico, ricorda Simonelli, sono anche alcune modifiche al regolamento come ad esempio il ricorso ai calci di rigore in caso di parità nelle partite a eliminazione, al posto della ripetizione della gara o del sorteggio, il divieto di passaggio con i piedi al proprio portiere, l’introduzione dei tre punti per le vittorie così da incentivare le squadre a non accontentarsi del pareggio. Inoltre, mal conciliandosi il calcio televisivo con i tempi morti, viene incentivata la ripresa veloce del gioco dai falli laterali grazie alla presenza massiccia di raccattapalle ed i direttori di gara vengono spronati a interrompere il gioco il meno possibile. Le stesse società di calcio, sempre più foraggiate dagli introiti televisivi, si adeguano alle esigenze del medium accettando orari di gioco differenziati e spalmati su diverse giornate.

A partire dagli anni Ottanta si sviluppano anche nuove modalità di seguire il calcio in tv; si pensi, ad esempio, al fortunato Processo del Lunedì di Aldo Biscardi che porta in tv a livelli sempre più iperbolici nel corso delle diverse edizioni le modalità sguaiate delle discussioni e delle polemiche da bar ricorrendo a giornalisti che ormai vestono letteralmente i panni dei tifosi schierati a difesa di questa o quella squadra. La trasmissione di Biscardi «affida al talk una dimensione antagonistica, contrappositiva, conflittuale in cui protagonisti appartenenti allo stesso mondo si scontrano su un tema molto preciso» (p. 103), anticipando per certi versi la stagione dei talk show televisivi che si occupano di attualità e politica ricorrendo alle medesime modalità.

Ai margini dei mondiali italiani del 1990 prendono altre trasmissione volte ad affrontare in maniera nuova l’universo del calcio; si pensi alla modalità ironica di Mai dire mondiali del trio di giornalisti noto come Gialappa’s Band, format destinato a prolungarsi nel tempo su Italia 1 nella variante Mai dire gol, oppure alla modalità salottiera introdotta da Galagol su Telemontecarlo, che affianca ai commenti enfatici di José Altafini una conduttrice come Alba Parietti digiuna sino ad allora di calcio. Nel 1993 prende il via la trasmissione Quelli che il calcio di Marino Bartoletti e da Fabio Fazio su Rai 3; in questo caso a informare puntualmente dell’andamento delle partite domenicali di campionato sono semplici tifosi, attorno ai quali il conduttore imbastisce bonari siparietti, che seguono sui monitor gli incontri delle rispettive squadre del cuore. Da tale trasmissione numerose televisioni private deriveranno programmi in cui ad incarnare le diverse tifoserie saranno non semplici sconosciuti ma ex calciatori o giornalisti che in maniera sempre più sguaiata esaspereranno la propria fede calcistica dando vita a iperboliche discussioni. I primi anni Novanta vedono anche la nascita di Pressing su Mediaset, in palese concorrenza con la Domenica Sportiva, di cui ricalca il format introducendo però un conduttore non giornalista, Raimondo Vianello, presto affiancato da Antonella Elia che impersona con «autoironia il ruolo della bionda un po’ svampita» (p. 119), a cui succede dopo quasi un decennio Controcampo che, pur condotto da un giornalista sportivo come Sandro Piccinini, esprime una vocazione teatrale.

Insomma, a partire dagli anni Ottanta il calcio in televisione non ha più quel carattere di eccezionalità che aveva caratterizzato l’incontro dell’evento sportivo con il medium, è diventato, sottolinea Simonelli, «un materiale di consumo come tanti altri, un consumo quotidiano, e ha perso il ruolo più discreto e affascinante di luogo e tempo di celebrazione della festa» (p. 108).

I primi anni Novanta inaugurano anche l’era calcio delle pay tv da Tele+ a Stream fino a Sky e, molto più recentemente Dazn. Se ci si poteva attendere dalle pay tv, rivolte come sono ad un pubblico selezionato di appassionati di calcio, programmi più sobri incentrati sugli eventi di campo forti anche di tecnologie di avanguardia, in realtà man mano si assiste a un sempre più marcato processo di spettacolarizzazione e teatralizzazione. «Nell’ultimo decennio del secolo si afferma un modello di rappresentazione del calcio verso cui convergono tutte le televisioni pubbliche, commerciali, a pagamento, una omogeneità basata su una grammatica, una sintassi e una retorica audiovisive comuni» (pp. 124-125).

Negli ultimi tempi le telecronache si sono fatte sempre più corali visto che, almeno negli incontri più importanti, il telecronista viene affiancato non solo da ex calciatori o ex allenatori a cui viene assegnato il commento tecnico, ma anche da altre voci a bordo campo che concorrono alla narrazione spettacolarizzata dell’evento. La vocazione a guardare al calcio internazionale, presente sin dagli albori del calcio televisivo è ulteriormente ampliata dalle coperture dei campionati stranieri da parte delle pay tv che però, rispetto al passato, non si limitano a mostrare le partite in sé ma allargano la visione alla storia delle società, ai loro stadi e alle tifoserie contribuendo così ad sprovincializzare la visione calcistica dello spettatore italiano. È importante notare, segnala l’autore, come a fronte della frammentazione, del consumo impressionistico ed effimero delle immagini sportive, si siano ultimamente ritagliate visibilità programmi di approfondimento dal taglio documentaristico, volti ad approfondire anche questioni di carattere culturale legate ai personaggi ed agli eventi sportivi. Si pensi ad esempio alle produzioni sviluppate da Sky, con giornalisti come Federico Buffa, Giorgio Porrà, Matteo Marani, o da Dazn, con Emanule Corazzi o, ancora, da altre piattaforme televisive.

Altra novità importante nella storia del rapporto tra calcio e televisione, sottolinea Simonelli, è la copertura totale del fenomeno sportivo, soprattutto calcistico, offerta da canali come Sky Sport 24 in cui l’evento è esteso ben al di là della performance sportiva in sé, contemplando la preparazione, l’attesa, le ipotesi, le analisi, i commenti trasmessi in una sorta di loop man mano aggiornato lungo l’intera giornata e settimana. Infine, a sancire quanto il rapporto tra calcio e televisione si sia fatto inestricabile, non si può che far riferimento all’introduzione del VAR sul finire degli anni Dieci del nuovo millennio. «L’immagine televisiva non è più solo il testimone maggiormente attendibile di ciò che è avvenuto in campo, capace di ristabilire la verità in astratto, ma un concreto attore dell’avvenimento agonistico, un “quinto uomo” che assiste i quattro giudici con potere decisionale, un’immagine che scende in campo» (pp. 149-150).

La conclusione di questo interessante volume di Simonelli sul rapporto tra calcio e televisione è dedicata a un episodio che stride rispetto all’invadenza dei un medium che ha preteso persino di entrare negli spogliatoi pochi minuti prima del calcio di inizio. Il riferimento è a quanto accaduto a Copenaghen durante la partita Finlandia-Danimarca, quando danese Eriksen è restato al suolo in arresto cardiaco e il capitano della squadra Kjaer fa prontamente schierare i compagni attorno all’attaccante a cui i sanitari praticano il massaggio cardiaco preservandolo dagli occhi delle televisione. Con quel gesto spontaneo Kjaer ribalta il rapporto comunicativo. «A scegliere la disposizione dell’inquadratura, a decidere cosa mostrare e cosa no, non è la regia ma un protagonista, un calciatore di solito oggetto e in quel caso autore della rappresentazione» (p. 156).


Serie completa – Sport e dintorni

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Sport e dintorni – Autobiografia di John Carlos, inossidabile “eroe dello sport” https://www.carmillaonline.com/2024/04/16/sport-e-dintorni-autobiografia-di-john-carlos-inossidabile-eroe-dello-sport/ Tue, 16 Apr 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81595 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

John Carlos, Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, a cura di Dave Zirin, tr. it. di Gigi Roggero, DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 192, € 18,00

John Carlos rientra a pieno diritto in quella ristretta cerchia di sportivi che possono fregiarsi del “titolo” di “eroe dello sport”. Appartiene a tale categoria chi, a differenza del “campione”, oltre ad essere celebrato per le prestazioni in gara, assume una rilevanza che esula dal semplice successo sportivo, faccia breccia nella memoria collettiva, ispirando ideali e rispecchiando valori. Alla costruzione dell’“eroe dello sport” è [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

John Carlos, Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, a cura di Dave Zirin, tr. it. di Gigi Roggero, DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 192, € 18,00

John Carlos rientra a pieno diritto in quella ristretta cerchia di sportivi che possono fregiarsi del “titolo” di “eroe dello sport”. Appartiene a tale categoria chi, a differenza del “campione”, oltre ad essere celebrato per le prestazioni in gara, assume una rilevanza che esula dal semplice successo sportivo, faccia breccia nella memoria collettiva, ispirando ideali e rispecchiando valori. Alla costruzione dell’“eroe dello sport” è necessario un pubblico che si appassioni alle prodezze dell’atleta instaurando con esso una relazione stabile e fiduciaria, identificandosi con le sue vicende sportive ed extrasportive.

Oltre a ciò, il processo di eroicizzazione necessita di una narrazione adeguata e se agli albori del Novecento la figura dell’eroe sportivo risulta strettamente legata alla fatica fisica, al coraggio e alla caparbietà con cui l’atleta si impone di raggiungere l’obiettivo attingendo senza lesinare a tutte le forze di cui è in possesso, al mito delle origini difficili, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale – una figura spesso sfruttata dalla propaganda dei sistemi totalitari –, esiste un numero ancora più ristretto di casi in cui, invece, l’eroe diventa il simbolo del riscatto di un’intera comunità, quando non addirittura di un intero continente: un eroe che, affrontate con successo le prove che si presentano lungo il suo viaggio, riesce a condividere la vittoria con la sua gente e, al contempo, farsi portavoce di quest’ultima.

Tale variante di “eroe dello sport”, che si sottrae alle dinamiche della propaganda di regime (tanto nelle sue forme dittatoriali che democratiche), non a caso si sviluppa all’interno di quell’immaginario collettivo conflittuale proprio della “stagione dei movimenti”, tra la fine degli anni Sessanta del Novecento e la fine del decennio successivo, quando lo spazio dello sport, grazie anche alla sua inedita esposizione mediatica, viene travolto da una serie di eventi che ne riconfigurano gli spazi – sino a quel tempo “chiusi” alle dinamiche del mondo esterno – come spazi aperti, fluidi e contesi.

L’adesione nel 1964 del pugile afroamericano Cassius Clay ai Black Muslims, con tanto di cambio del nome in Muhammad Ali, e il suo rifiuto, espresso nel 1967, di prestare il servizio militare, dunque di prendere parte all’intervento armato statunitense in Indocina, intreccia due dei principali nervi scoperti che attraversano gli Stati Uniti dell’epoca: la guerra nel Vietnam e le lotte della comunità afroamericana. A fare di Ali un “eroe dello sport” è la sua capacità di usare contemporaneamente le armi del corpo e quelle della parola, abilità che gli consente di identificarsi con la sua comunità e le sue cause mentre questa, a sua volta, si riconosce nelle sue gesta e nelle sue parole.

Qualcosa di analogo avviene alle Olimpiadi del Messico del 1968, quando Tommie Smith e John Carlos entrano a far parte degli “eroi dello sport” nel momento in cui alla grande prestazione sportiva affiancano i pugni chiusi levati al cielo durante le premiazioni e pronunciano parole al vetriolo nel corso della conferenza stampa. È il momento culminante della battaglia antirazzista intrapresa dagli atleti afroamericani aderenti all’Olympic Project for Human Rights apertasi con la minaccia di boicottaggio dei giochi in segno di protesta contro il razzismo imperversante negli Stati Uniti e una serie di richieste che andavano dalla restituzione del titolo di campione dei pesi massimi a Muhammad Ali, la rimozione del razzista Avery Brundage da capo del Comitato olimpico internazionale, il divieto di partecipazione ai giochi olimpici alla Rodesia e al Sudafrica dell’apartheid.

Quanto è successo alle Olimpiadi messicane è entrato nella storia. Il 16 ottobre 1968, alla finale dei 200 metri piani, Smith vince la gara ottenendo il nuovo record mondiale della specialità mentre Carlos si piazza al terzo posto. Alle premiazioni i due atleti afroamericani decidono di salire sul podio scalzi, indossare un guanto nero e assistere all’inno statunitense a capo chino alzando al cielo il pugno chiuso. La successiva conferenza stampa, tra l’imbarazzo degli organizzatori e dei rappresentanti della delegazione statunitense, offre ai due l’occasione di spiegare il significato delle loro gesta sul podio: dare voce alla rabbia e alla volontà di lotta degli afroamericani contro la discriminazione razziale. Se a renderli campioni sono state le loro prestazioni atletiche, a farne degli “eroi dello sport” è stata la loro presa di coscienza di incarnare un’intera comunità e di agire e parlare in suo nome, contribuendo così a infiammare e dare forza agli oppressi, anche oltre la comunità afroamericana di appartenenza.

Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo di John Carlos (DeriveApprodi, 2024) risulta interessante non tanto per la curiosità di conoscere la vita di un “campione dello sport”, quanto piuttosto alla luce del fatto che Carlos continua a rappresentare – in compagnia di Tommie Smith e Muhammad Ali – una delle figure di “eroe dello sport” più inossidabili del pantheon dei “dannati della terra” afroamericani e non.

Come scrive Gigi Roggero nella Prefazione all’edizione italiana, dopo le Olimpiadi del Messico, Smith e Carlos erano visti come «appestati, colpevoli di non essersi limitati a correre per vincere medaglie, ma di aver voluto alzare la testa spostando l’attenzione sui diritti negati e una certa America, probabilmente la maggioranza, non glielo aveva perdonato». Ed è così. La “colpa” di Carlos, come del compagno Smith, è stata appunto quella di non essersi “accontentato” di essere un “campione” olimpico statunitense, ma di aver voluto “caricare” la sua impresa di gesti e parole in favore di una comunità sfruttata e mantenuta ai margini della società nordamericana. La “colpa”, come per Ali, è la presa di parola a nome di una collettività che si è prontamente riconosciuta in lui. L’autobiografia di Carlos assume dunque uno specifico valore proprio in questo, nel significare le vicende personali di una vita alla luce del ruolo che questa ha saputo incarnare nell’immaginario dei “dannati della terra”.

«Sento il fuoco per come i miei eroi Malcolm X e Paul Robeson sono diventati francobolli. Sento il fuoco per come Muhammad Ali è diventato un francobollo ambulante, un uomo senza voce. Sento il fuoco perché Martin Luther King è una tazza commemorativa da McDonald’s. Sono arrabbiato perché tutti i nostri denti politici sono stati sottoposti alla devitalizzazione della cultura pop». Così scrive Carlos guardando a come il potere ha tentato di riassorbire – riuscendovi solo in parte – la portata rivoluzionaria di gesta e parole come le sue in quei lontani giochi olimpici messicani. «“La rivolta dell’atleta nero”. Ora potete portarla al macero. È un modo per tenerci in campo, sicuri, dolci e vendibili. Non la vedo affatto come la rivolta dell’atleta nero. È stata la rivolta dell’uomo nero. L’atletica era il mio lavoro. Non ho fatto quello che ho fatto come atleta. Ho alzato la voce per protestare come uomo».

La storia della famiglia di Carlos è una delle tante storie di migrazione. Un padre calzolaio proveniente dalla Carolina del Sud chiamato a giocarsi la vita nella prima guerra mondiale trattato dagli ufficiali bianchi «come una merda» e una madre assistente infermiera, di origini giamaicane ma cresciuta a Cuba prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Una quotidianità fatta di lotte ed espedienti per sbarcare il lunario, di speranze più o meno frustrate di poter migliorare le condizioni di vita, di angherie a volte mandate giù a fatica altre combattute per garantire alle nuove generazioni tempi migliori.

Nato e cresciuto ad Harlem, a pochi passi dal Cotton Club, in un quartiere in cui bianchi e neri hanno convissuto senza farsi troppi problemi di pelle fino a quando la televisione ha mostrato marce per l’integrazione e lo spauracchio del “nero che si ribella” ha iniziato a togliere il sonno agli abitanti dalla pelle chiara che, in un battito di ciglia, hanno fatto i bagagli e abbandonato un quartiere “destinato” a vedere la droga diffondersi affiancandosi all’alcol e smembrando la comunità.

«Ero ad Harlem e la maggior parte delle persone che entravano nel nostro paradiso uptown erano bianchi provenienti dal centro». «Crescendo ad Harlem, non sapevo di essere “nero”. Ero un essere umano». «Ma andando al Savoy ho visto chi serviva e chi veniva servito. Vedevo chi mangiava bene e chi si occupava dell’intrattenimento». Il desiderio infantile di Carlos di andare alle Olimpiadi come nuotatore si infrange quando il padre trova le parole per spiegargli che il vero problema per avere accesso alla piscina per gli allenamenti non era dovuto alla retta di iscrizione al club ma al colore della pelle.

Carlos racconta di quando da ragazzino con la sua banda si appropriava come Robin Hood di cibo e vestiti depositati sui treni per distribuirli nel quartiere rincorso – invano, nel suo caso – dalla polizia. I ricordi vanno poi all’incontro con Malcom X nella sua Harlem. «Malcolm mi ha dato la giustificazione verbale e la fiducia politica per fare ciò che ho sempre sentito nel mio intimo: agire».

Ben presto in diversi si sono accorti della velocità con cui il ragazzino correva, dunque l’improvvisa opportunità di allenarsi al New York Pioneer Club, uno dei migliori club di atletica leggera newyorchesi nella difficoltà di procurarsi un paio di scarpette decenti. Il matrimonio con Kim in giovane età ed il trasferimento nel Bronx, ove sarebbe nata la figlia Kimme, dunque il periodo trascorso nell’East Texas. «Ho poi imparato qualcosa che ho portato con me fino a oggi: l’assoluto rifiuto di essere sfruttato. Ecco cosa e rimasto impresso nella mia mente dall’esperienza nell’East Texas. Ho visto come il mio dominio in pista generasse contratti per gli allenatori, fondi per il dipartimento di atletica e facesse aprire i cordoni della borsa agli investitori. Ho visto da vicino come ci fossero soldi per tutti, tranne che per le persone che ci mettevano il sangue, il sudore e le lacrime. Ecco perché ancora oggi, ogni volta che parlo, chiedo che gli atleti universitari ricevano una piccola parte della torta».

Dunque il ritorno a New York. «Era l’inizio del 1968 ed era ora di tornare a casa. Non sapevo quale sarebbe stata la mia prossima mossa. A quel punto non sapevo se avrei provato a partecipare alle Olimpiadi o se le avrei boicottate, stavo solo cercando di far uscire la mia famiglia da una situazione molto brutta. Ecco dove avevo la testa. Era ora che il “cavallo” tornasse ad Harlem». È questo il momento in cui la vita di Carlos si intreccia con quella dei leader dell’Olympic Project for Human Rights, con Lee Evans e Tommie Smith. Le infinite discussioni circa il “che fare” in vista delle olimpiadi messicane: «Il punto più basso e stato quando abbiamo dovuto discutere con altri giovani atleti la necessità del boicottaggio. Ci guardavano come se capissero e fossero d’accordo con noi, ma non avessero altra scelta che voltarsi dall’altra parte».

Poi, nell’aprile del 1968, l’assassinio di Martin Luther King a Memphis. E di nuovo tante discussioni circa la necessità di boicottare Messico 1968, tesi ormai sostenuta soltanto da Harry Edwards, Tommie Smith, Lee Evans e Carlos: «i ragazzi che si opponevano al boicottaggio e che mettevano il successo individuale al di sopra di tutto, avevano tragicamente capito in che direzione stesse andando il mondo. Farsi i fatti propri, mandare al diavolo gli altri, dimenticarsi delle proprie sorelle e dei propri fratelli: ecco cosa ha definito l’epoca moderna». La retromarcia del Cio sul Sudafrica ha contributo a spegnere l’idea del boicottaggio; non restava che trovare il modo per manifestare all’interno dei giochi olimpici la rabbia in corpo che non era venuta meno.

Anch’io volevo restare a casa, ma dopo aver riflettuto a lungo ho deciso che non potevo. Sentivo che se fossi rimasto a casa qualcuno avrebbe vinto una medaglia e sarebbe salito sul podio, e sarebbe stato al posto in cui dovevo esserci io. Non avrebbe rappresentato ciò che volevo e dovevo rappresentare in quel momento. Entrare in quella squadra era un imperativo. Era un imperativo vincere una medaglia, perché se non fossi rimasto a casa, volevo essere a Città del Messico per esprimere ciò che sentivo. Non sapevo cosa avrei fatto, ma qualcosa andava fatto e l’avrei fatto.

Il resto lo sappiamo. Quanto avvenne alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968 è l’inizio della storia di Carlos e al contempo ciò che risignifica la sua intera esistenza di “eroe dello sport”. Per fregiarsi di questo “titolo”, come detto, non basta essere “campioni”, occorre far parte di una “comunità di dannati in lotta”.


Sport e dintorni

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Sport e dintorni – El Diez dal destino epico e buffo di cui noi miserabili non riusciamo a fare a meno https://www.carmillaonline.com/2024/03/28/sport-e-dintorni-el-diez-dal-destino-epico-e-buffo-di-cui-noi-miserabili-non-riusciamo-a-fare-a-meno/ Thu, 28 Mar 2024 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81724 di Gioacchino Toni

Alfonso Amendola, Jvan Sica (a cura di), Studiare Maradona. Storie, tracce, emozioni, Rogas, Roma 2024, pp. 150, € 15,70 ed. cartacea, € 9,99 ed. ebook

Diego Armando Maradona appartiene a quella ristretta cerchia di personaggi del mondo dello sport a cui il titolo di campione va decisamente stretto, non esaurendo quanto è stato in grado di rappresentare nell’immaginario di tanti esseri umani che hanno instaurato con la sua figura un rapporto che è andato ben oltre il riconoscimento della sua grandezza sportiva. Se Muhammad Ali, Tommie Smith e John Carlos sono divenuti simboli del riscatto afroamericano e con [...]]]> di Gioacchino Toni

Alfonso Amendola, Jvan Sica (a cura di), Studiare Maradona. Storie, tracce, emozioni, Rogas, Roma 2024, pp. 150, € 15,70 ed. cartacea, € 9,99 ed. ebook

Diego Armando Maradona appartiene a quella ristretta cerchia di personaggi del mondo dello sport a cui il titolo di campione va decisamente stretto, non esaurendo quanto è stato in grado di rappresentare nell’immaginario di tanti esseri umani che hanno instaurato con la sua figura un rapporto che è andato ben oltre il riconoscimento della sua grandezza sportiva. Se Muhammad Ali, Tommie Smith e John Carlos sono divenuti simboli del riscatto afroamericano e con esso di una più estesa comunità di “dannati della terra” sfruttata e marginalizzata, ciò lo si deve anche al particolare periodo storico in cui si sono cimentati nelle loro imprese, coincidente con quella “stagione dei movimenti”, compresa tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in cui, a livello internazionale, davvero “tutto” è stato messo in discussione. Sebbene Maradona abbia fatto capolino quando ormai quella stagione poteva dirsi esaurita, anche nel suo caso la rilevanza assunta è andata al di là delle prestazioni sportive, pur essendo state queste ultime – così come per gli altri atleti citati – indispensabile premessa al rapporto che si è instaurato tra il campione e la “sua gente”. Certo, rispetto ad Ali, Smith e Carlos, Maradona è sicuramente un personaggio meno lineare, più complesso e contraddittorio, così come meno facilmente definibile è la relazione che si è costruita tra lui e i suoi tifosi.

Prima uscita del Centro studi “10”, il volume curato da Alfonso Amendola e Jvan Sica non poteva che essere dedicato a El Diez per eccellenza: Diego Armando Maradona, personaggio che, al di là delle prodezze in campo, come scrivono i curatori nella Prefazione, ha «invaso, toccato o sfiorato tanti campi dello scibile, influenzando non solo le sorti delle sue squadre, ma anche microeconomie, visioni cinematografiche, storiche, filosofiche, giuridiche, sociologiche, parabole artistiche e tanto altro».

A ridosso della scomparsa di Maradona, su “Carmilla online”, Giovanni Iozzoli, come tanti altri, a partire dall’emotività diffusa, per certi versi difficilmente spiegabile, che si è sprigionata da quel lutto, si è domandato cosa e quanto avessimo «investito nel mito Maradona – prima come genio calcistico, poi come iperbole umano-letteraria, infine come sublime simbolo populista» per determinare emozioni solitamente riservate alla scomparsa di qualcuno a cui si è strettamente legati. Per certi versi sono interrogativi che attraversano lo stesso volume curato da Amendola e Sica da poco dato alle stampe da Rogas edizioni.

Per quanto sia stato un personaggio di rilevanza mondiale, il fenomeno Maradona non può essere disgiunto dalla sua terra natale, l’Argentina, e dalla sua città di adozione, Napoli. Ecco allora che Domenico Maddaloni ricostruisce la Napoli di Maradona, tratteggiando cosa fosse all’epoca la città partenopea che, sin dalla sua presentazione al San Paolo, è sembrata quasi percepire che quel Diez non sarebbe stato “soltanto” un grande campione.

La Napoli del decennio maradoniano ha vissuto un periodo del tutto particolare segnato da una vitalità che ha toccato gli ambiti sportivi, non solo calcistici, culturali, musicali e cinematografici, un fermento da cui sono emerse personalità capaci di conquistare rilevanza ben oltre il contesto campano, come Pino Daniele e Massimo Troisi, in un clima segnato dal desiderio diffuso di rivalsa nei confronti del Nord e della Capitale. Una Napoli che si è sentita, e per certi versi ha saputo porsi, al centro del Paese cullandosi nell’illusione – difficile dire quanto inconsapevole – che quanto stava vivendo sarebbe durato e avrebbe portato benefici all’intera comunità. «Ma dietro questa effervescente vitalità», scrive Maddaloni, «si muovevano forze che avrebbero finito per trascinare Napoli e gran parte del Mezzogiorno sul sentiero della stagnazione, del declino, di una collocazione sempre più marginale nella divisione internazionale del lavoro e nella scena economica e politica italiana». Una città, insomma, che ha vissuto un’illusione, per quanto intesa, destinata a “breve scadenza”.

Gli anni Ottanta per Napoli sono anche il decennio in cui si andava esaurendo «la stagione dell’intervento straordinario che, pur tra squilibri e contraddizioni, e con l’aiuto considerevole (almeno fino al principio degli anni Settanta) delle migrazioni di massa dalle aree interne, si era tradotta in un incremento sostanziale degli standard di vita nel Meridione». Pur vantando la piazza napoletana un ruolo tutt’altro che marginale nell’industria e nella finanza pubbliche, la spinta propulsiva degli investimenti pubblici, con tutte le loro contraddizioni, si stava ormai esaurendo lasciando il posto a una stagnazione economica strisciante e ad un mesto ritiro della locale borghesia dalle attività produttive. «In un clima simile, i due grandi interventi pubblici nel Sud degli anni Ottanta, la ricostruzione post-terremoto e gli investimenti per il Mondiali di calcio che l’Italia avrebbe poi ospitato nel 1990, non vengono più iscritti in una strategia generale di sviluppo dei territori, ma vengono piuttosto usati come ulteriore fattore di spinta in direzione della ricerca della rendita».

Se è pur vero che nessuno potrà togliere alla piazza partenopea le gioie calcistiche regalate dal Napoli di Maradona e con esse la sensazione, per quanto di breve durata, di contare finalmente qualcosa oltre i confini meridionali, sottotraccia al diffuso entusiasmo del periodo covavano già quelle trasformazioni economiche, politiche e sociali che avrebbero, da lì a poco, condotto al declino e all’emarginazione che poi si sarebbero palesati in maniera evidente in apertura degli anni Novanta.

Jvan Sica ricostruisce puntualmente il Maradona visto, pensato e scritto da Gianni Brera, che non ha esitato ad apostrofarlo ricorrendo, contemporaneamente, agli estremi “divino” e “scugnizzo”, «perché della stessa alterità rispetto al mondo sono fatti», a segnalare la sua unicità prodigiosa e inarrivabile, dai limiti «al momento ignoti», Uno «sgorbio divino, magico, perverso», «un goffo orsacchiotto miracolato dal buon Dio, però non abbastanza da assurgere a macchina», uno che «finché gli gira, comanda lui. E gli altri, zitti».

Brera non mancherà, tuttavia, di riferirsi a Maradona chiamandolo «Sua Rotondità», di segnalare come «Tener palla masturbando calcio non significa dominare», dunque, in un crescendo di critica venata di malinconia, giungerà ad apostrofarlo come «Vecchio istrione criollo», «logo discolino», «capriccioso despota argentino», autore di «primedonnacciate» «la cui sazietà agonistica è divenuta ormai un fatto patetico». Per poi concludere scrivendo amaramente: «Diego Armando era Baudelaire, poeta sublime; io componevo e balbettavo versi appena corretti. Fuor di metafora, avevo delirato calcio e all’improvviso mi era apparso il messia, quello vero. Ho visto scaturire prodezze inaudite dai suoi piedoni di belva andina; il suo tronco atticciato ha espresso obliosi prodigi di grazia e di fantasia per i quali andavo in estatica meraviglia». «Grazie, Diego Armando Maradona. Altro non voglio dire, solo grazie per i prodigi di stile e di invenzione che ci hai prodigati nei tuoi brevi anni. Anche Napoli, che ha cuore, ti saprà perdonare, e naturalmente rimpiangerti. Adios».

La riflessione di Mauro Cozzolino, nel testo steso insieme e Paolino Cantalupo, prende il via dalla constatazione di come Maradona sia stato al contempo calciatore geniale dotato di immenso talento ed essere umano fragile e debole, «espressione di un empowerment individuale e sociale che ha oltrepassato tutto e tutti, unendo diversi popoli, specialmente quelli del sud», incarnando però «drammaticamente la debolezza in tutte le sue intime forme». Ad affascinare e catturare l’interesse di tanti (studiosi e non) è il suo essere stato, assieme, “Eroe” ed “Antieroe”, la sua tendenza a declinare le “diverse qualità” di cui era in possesso «in relazione al contesto, all’obiettivo e all’interlocutore».

Nel caso di Maradona la “dinamica degli opposti” propria della natura umana non si è risolta né nella scelta di una delle due nature, né nella paralisi della scelta. Egli, suggerisce Cozzolino, ha provato «a sfidare pericolosamente quelle forze profonde che, come Eros e Thanatos, si contrappongono tra loro. Il tentativo del protagonista e coraggioso e per certi versi ingenuo che si fa insieme, eroe e antieroe, provando a domare la complessità insita nella dinamica tra bene e male, individuo e società, giustizia e ingiustizia sociale, ed altre innumerevoli componenti del nostro universo esistenziale».

In vita Maradona si è trovato a confrontarsi con la povertà, la sofferenza e lo stress determinato dal trovarsi investito dall’idealizzazione e dall’idolatria delle folle ma anche con l’odio di tanti mossi da invidie e dal non sopportare il farsi spazio di un popolano incapace di deferenza, colpevole di oscurare i più nobili lignaggi sportivi e sociali. A ciò si è aggiunga la violenta pressione esercitata da una società vorace «che sa perfettamente costruire e distruggere, in relazione al solo ed esclusivo bisogno dell’hic et nunc» in anticipo, per certi versi, alla deriva contemporanea che attraversa i social network.

Se nella mitologia l’eroe carica su di sé la responsabilità della battaglia e se si considera il calcio un linguaggio archetipico, allora, sostiene Cantalupo, è possibile vedere in Maradona l’incarnazione dell’eroe della contemporaneità. «Ma ogni eroe ha un destino tragico. L’eroe della mitologia si dona e poi cade rovinosamente. Nel senso rovesciato, l’ambivalenza del mito mostra l’ambiguità fondamentale dell’archetipo. […] Gli eroi della mitologia dopo l’impresa mostrano la loro umana debolezza, la contraddizione della loro miseria emotiva».

Maradona è stato un eroe venuto dal fango delle favelas portandosi dietro lo stigma del sottoproletario ribelle, incapace di “stare al suo posto”. Se questo è ciò che tanti, più o meno consapevolmente, non gli hanno mai perdonato, è però stato anche il motivo per cui si è creato un legame indelebile con Napoli, «la città col più esteso sottoproletariato marginale d’Europa. È questo che trasfigurava i suoi gesti atletici in arte romantica. Romantica rivolta proletaria, sfrontato insulto contro i potenti del mondo e i potentati del calcio».

Virgilio D’Antonio apre le sue riflessioni domandandosi se all’uomo «che, in campo, giocava, beffava anche le regole della natura» si possa «chiedere di rispettare leggi “artificiali”, cioè create dal legislatore di turno, contingenti, imperfette, spesso contraddittorie, destinate al continuo mutamento». A tal proposito Saverio Sicilia passa in rassegna le vicende giudiziarie argentine e italiane che hanno attraversato la vita privata e affettiva di Maradona intrecciandole con il suo incarnare, più meno volontariamente, i desideri e la voglia di riscatto di folle di tifosi e al tempo stesso con il business che la sua immagine era capace di attivare. «È proprio questo il tratto saliente della figura di Maradona capace non soltanto di generare opportunità di business, ma anche di trascinare con se ideologie e aspirazioni della gente comune».

Indubbiamente «la tensione costante al superamento del limite che è forza e fonte di ammirazione – venerazione, nel caso specifico di Maradona – nello sport può diventare maledizione quando trasposta oltre i confini del rettangolo di gioco», ma, scrive Virgilio D’Antonio, «possiamo forse pretendere qualcosa di diverso da un calciatore che amiamo, ammiriamo profondamente per un gol segnato contro ogni regola del gioco del calcio, con un pugno verso il cielo? Ecco: il rapporto tra Maradona e le regole, così come quello tra noi spettatori, Maradona e le regole è tutto in quel pugno alto contro il cielo che fa finire la palla in rete».

Tratteggiato il clima culturale della città e ricordato come l’anno di approdo di Maradona a Napoli, il 1984, sia lo stesso della morte di Eduardo De Filippo e dell’uscita dell’album Musicante di Pino Daniele, Elio Goka argomenta come l’epopea di Maradona a Napoli possa essere pensata come «un romanzo di formazione tradotto in una specie di enigma dell’apparizione. Da ostetrico a saluto estremo. La sua parabola tragica è iniziata da una riformulazione della fanciullezza a un addio in forma di fuga. Per nulla annunciato. Senza sospetti. Dopo una domenica di campionato. La sua fine a Napoli è coincisa più con uno svanimento che con una scomparsa. Nemmeno il dolore per la sua morte ha saputo soppiantare il lutto anticipato che in una notte di fine inverno sottrasse la ragione della felicità a milioni di persone».

La felicità portata alla città, resta forse questa la chiave principale del passaggio dell’indimenticabile Diez a Napoli, sottolinea Goka. «Di Maradona, più d’ogni altra cosa, resti l’incanto d’aver riunito in pochi anni il desiderio collettivo e le felicità individuali attraverso un disvelamento istantaneo, fugace, ma drammaticamente visibile e ammaliante dell’ebbrezza nella sua forma più tangibile e traumatica. Questa è una formula che supera l’epica, la gloria, la caduta e l’acclamazione».

Napoli, scrive Massimiliano Amato, è stata attraversata da tante rivolte, mai tramutatesi in rivoluzioni, accomunate, in fin dei conti, dal non essere state «una forzatura, un colpo di mano arbitrario o, ancora peggio, strumentale» e dall’avere «puntualmente abbandonato durante il loro compiersi la dimensione dialettica della storicità per entrare nello spazio più ampio e indefinito del simbolico». In tutti i modi, sostiene lo studioso, si è trattato di rivolte capaci, nella loro specificità, di trasmettere al mondo esterno «riflessi profondi nel tempo storico in cui si sono sviluppate», anche quando a muoversi è stata una piccola minoranza della popolazione.

Nell’ultima rivolta, come per effetto di un moto spiraliforme la faglia si è allargata e approfondita repentinamente per cerchi concentrici. Arrivando a inghiottire tutto, vale a dire la Napoli “alta” e la Napoli “bassa”, riunite in un progetto comune: sovvertire le gerarchie del pallone e affermare il regno della Grande Bellezza. L’incontro tra il Dio del calcio e una città che nel calcio cerca da sempre la catarsi rigeneratrice che la aiuti a rinascere ogni volta dalle proprie miserie e debolezze non poteva non accendere la miccia di una rivolta epocale. Per sette anni Napoli è stata laboratorio di uno stravolgimento senza precedenti di codici consolidati da decenni di strapotere delle squadre del triangolo industriale del Nord.

Ciò è stato, a tutti gli effetti, un atto di ribellione. Se del Maradona legato a Fidel, a Chavez e, più in generale, ai movimenti ribelli latinoamericani, così come della sua battaglia contro la Fifa, è stato scritto parecchio, poco, troppo poco, sostiene Amato, è stato indagato l’impatto che ha avuto sugli equilibri consolidati del calcio italiano e l’inedita capacità, «in un contesto in cui il calcio rappresenta il principale, se non unico, fattore di identificazione collettiva», di unire in maniera identitaria l’intera città.

Enrico Ariemma ricorre ai classici per rileggere la parabola pubblica e privata del personaggio Maradona. Potrebbe trattarsi dell’ultimo «barthesiano mito d’oggi, soggetto e oggetto insieme di una narrazione che è popolare e agglutina su di sé pance e passioni di milioni di uomini comuni, ma è anche colta ed esoterica perché attraversa diagonalmente discipline di studio e di ricerca. Un dio sporco. Il più umano degli dei. Un dio sporco e umano che ci assomiglia». Oppure, continua Ariemma, potrebbe trattarsi più semplicemente di un eroe capace di rompe le regole, lottare contro il potere o, ancora, di un «genio anarchico, ribelle, passionale, nato umile ma capace di emergere e di far fronte alle difficoltà grazie alla sua abilita, generoso con gli amici, astuto sul campo ma capace di farsi ingannare più volte nella vita».

Angelo Cirasa scrive di come Maradona avesse «una sua fede nel giusto, nel bello, nella provocazione», disponesse «di una lama logica, critica», di come sapesse usarla, e di come tutto ciò sia percepibile nella bellezza dei suoi gesti in campo, una «bellezza che è incanto artistico, religioso, politico».

Giuseppe Foscari ragiona, invece, maniera semiseria attorno al “talento dei mancini” nello specifico calcistico, caratteristica che, al pari della bassa statura, dunque del baricentro basso, negli estrosi come il nostro Diez, contribuisce a mandare in tilt gli avversari. «La “mano di Dio” era un diverso, un estroso, un creativo, un genio, un talento, a immagine e somiglianza del Padreterno? E se Dio fosse mancino? Altro che neuroscienze e fisica, e Lui che, per chi ci crede, si sarebbe scelto l’alter-ego nel calcio. Per la vita avrebbe scelto altri modelli, ma, si sa, la perfezione è un requisito che spetta solo a Lui».

Mariella Palmieri guarda alla figura di Diego Armando Maradona come a una “contraddizione popolare”. A fare di lui un’icona popolare potrebbe essere stato il suo incarnare in maniera marcata e sotto i riflettori le mille contraddizioni vissute dalla gente comune. «Questo aspetto comune dell’esistenza rende la contraddizione una condizione popolare». La palese imperfezione sul lato umano è per certi versi ciò che permette a chi è lontanissimo dalla sua grandezza calcistica di immedesimarsi in lui, rintracciandovi almeno una delle proprie imperfezioni, e al contempo di condividere con il campione le prodezze sportive.

«La rivendicazione alla contraddizione diviene pubblica. Pubblicamente, quindi non solo più nella sfera privata, si può rivendicare il diritto all’errore, alla sbavatura, a un percorso di vita caotico, non lineare». Maradona non si presenta come modello perfetto; fortissimo in campo è debolissimo fuori da esso. «E come un ossimoro, questa imperfezione diventa modello. Ovvero, più esattamente, diventa qualche cosa che innesca un processo di identificazione differente. Non ci si identifica più con un modello perfetto, bensì si guarda alle imperfezioni, oserei dire ai margini. Non è la figura nel suo intero che è al centro di questo processo, ma i margini che sono oltrepassati dalla contraddizione». È come se, con le sue debolezze, Maradona mostrasse che «l’imperfezione è connaturata ad ogni persona», consentendo ad ognuno di trovare in lui la propria imperfezione, il proprio motivo di identificazione.

Pensare Diego Armando Maradona come una contraddizione irrisolta, che cioè non trova sintesi, è il punto di vista che permette di uscire dal un certo moralismo che ha spesso contraddistinto alcuni giudizi su lui. Il moralismo, che è conseguenza dell’ordine morale prodotto dalle classi dominanti (e che quindi non ha nulla a che vedere con la morale), prevede e detta le linee di condotta per le persone. Produce ed organizza le norme, crea i valori e li gerarchizza. È un sistema compiuto, finito, senza discrepanze, dove l’incongruenza, quindi la contraddizione, non è contemplata. È in questo sistema che la contraddizione vivente Maradona non ha possibilità di esistere, perché potrebbe mettere in pericolo lo status quo.

In fin dei conti identificarsi con lui può significare rifiutare il moralismo dei detentori il potere.

Alfonso Amendola e Annachiara Guerra tratteggiano una cartografia dell’immaginario maradoniano che attraversa la letteratura, il cinema, l’arte, la musica, il teatro e il videogame.

In ambito letterario tra gli autori a cui guarda Amendola figurano: Eduardo Galeano, che identifica Maradona nel più umano degli dei, vittima della stessa fama che lo ha sottratto alla miseria, una divinità sporca che dunque consente l’identificazione; Osvaldo Soriano, con il suo raccontare delle prodezze calcistiche del diciottenne militante nell’Argentinos Juniors destinato ai grandi club europei; Luis Sepulveda, che parla di “epica del calcio” riferendosi a ciò che si è costruito attorno alla figura di Maradona; Gianfranco Pecchinenda, che dal personaggio ricava un labirintico gioco di specchi in forma di romanzo ove si intrecciano il vero e l’immaginifico letterario, la realtà e la menzogna.

In ambito artistico lo studioso passa in rassegna: il celebre murales nei quartieri spagnoli, realizzato tre decenni fa da Mario Filardi, divenuto luogo di pellegrinaggio in cui si sono accumulati cimeli e ricordi lasciati dai visitatori; il murales nel quartiere San Giovanni a Teduccio, realizzato nel 2017 da Jorit Agoch; gli interventi di street-art realizzati da Tvboy a Barcellona e a Napoli; l’acrilico su carta Dance with me realizzato nel 2019 dalla street-artist Roxy In the Box; il Sandokan (Maradona) di Flavio Favelli; la mostra del 2016 La Mano de Dios dell’artista libanese Rayyane Tabet, curata da Leonardo Bigazzi al Museo Marino Marini.

Per quanto riguarda l’universo cinematografico vengono trattati: Amando a Maradona (2005) di Javier Vazquez; Maradona – La mano de Dios (2007) di Marco Risi; Maradona di Kusturica (2008) di Emir Kusturica; Maradonapoli (2017), tratto da un soggetto e una sceneggiatura di Antonio Di Bonito, Cecilia Gragnani, Jvan Sica e Roberto Volpe; Diego Maradona (2019) di Asif Kapadia.

Nel richiamare gli omaggi musicali al campione più celebri, Annachiara Guerra ricorda: La mano de Dios interpretato da Rodrigo Bueno e scritto da Alejandro Romero; Tango della buena suerte di Pino Daniele; Santa Maradona dei Mano Negra; La Vida Tombola di Manu Chao; Diego Armando Maradona di Francesco Baccini; Doma il mare, il mare doma degli Stadio; Maradò dei Los Piojos; Dale Diez di Julio Lacarra; La favola più bella, una canzone-ringraziamento della squadra nei confronti dei tifosi partenopei in occasione dello scudetto 1986/87. Infine, nel passare in rassegna i videogiochi che, in qualche modo, si sono intrecciati con Maradona, Guerra guarda a: Peter Shilton’s Handball Maradona (1986); Seibu Cup Soccer (1992); Pro Moves Soccer (1993); Football Manager 2020; Fifa 18 e Fifa 22, in cui però la presenza dell’icona di Maradona aprirà contenziosi legali.

Giunti a fine volume, che si chiude con una nota dell’editore che, da romano e tifoso della Roma, si sente in dovere di rendere a suo modo omaggio a Maradona, tornano in mente le domande che si/ci poneva Iozzoli su “Carmilla online” in occasione della scomparsa di Maradona a proposito del “mistero”, che probabilmente non potrà mai essere decifrato compiutamente, del particolare legame instauratosi tra l’icona Maradona e le “masse popolari” in tutte le loro declinazioni.

Era Diego, che dietro il suo aspetto caricaturale, eccessivo, celava un qualche magnetismo segreto e inafferrabile, come i grandi clown o i grandi dittatori? O eravamo noi (masse popolari […]) che avevamo traslato su di lui, inconsapevole mentecatto, una carico di aspettative e narrativa devastante? E non è stata forse tutta questa “letteratura” (popolare) ad uccidere l’uomo? Gesù non sfuggì al suo destino, a Gerusalemme ci andò con le sue gambe; e pure Ernesto Che Guevara in Bolivia ed altri ce ne sarebbero, da aggiungere alla lista: tutti costoro si avviarono sul Golgota spontaneamente, perché su di loro si era addensato il peso insostenibile di un Eggregore gigantesco, mostruoso, il condensato di milioni di anime perse, stanche, miserabili e indomite che ti esigono morto e glorificato, per scaldare un po’ le loro vite esangui? Si è sacrificato, Diego (supplizio autoinflitto a coca, cibo e alcol – e poteva andargli peggio), perché non poteva sottrarsi al suo ruolo? Lo abbiamo spinto noi, sul crinale infuocato della leggenda?
Maradona è stato così amato perché ha caricato su di sé tutti i peccati del mondo, in un’espiazione godereccia e torbida, esplodendo dall’interno come una stella marcia e luminosissima. Anzi, si è caricato sulle spalle il vero peccato, il Peccato Originale: la mediocrità dei mediocri, delle vite irredimibili, prive di salvezza, incapaci di tirare avanti senza i deliri di un qualche eroe, o sedicente messia. Destino epico e buffo – com’era nel suo stile arruffato, disordinato, folle, con così poco tango nelle vene.

Forse, al di là del legittimo desiderio di “comprendere razionalmente” il “mistero Maradona”, occorre non accontentarsi, si badi bene, ma saper godere di quel che resta indelebile del Diez di noi tutti, riassumibile attraverso un semplice passo della filastrocca che Leonardo Acone gli ha dedicato in apertura di libro:

Quaggiù in ogni slargo, cortile o campetto
Se vedi una finta o un esterno perfetto
Riappare il sorriso del Diez malandrino
Ritorna del calcio l’incanto bambino


Serie completa – Sport e dintorni

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Sport e dintorni – Il valore del gioco nelle società non moderne https://www.carmillaonline.com/2024/03/26/sport-e-dintorni-il-valore-del-gioco-nelle-societa-non-moderne/ Tue, 26 Mar 2024 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81335 di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo [...]]]> di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo millennio, del fenomeno della “gamification”. Molto più semplicemente, si pensi a come alla spontaneità del calcio giocato dai bambini nelle strade e nei parchetti, con le giacche o gli zaini a fare da pali delle porte inesistenti, si stiano sostituendo le “scuole calcio” a cui i genitori iscrivono i figlioletti non appena sono capaci di stare in piedi con la malcelata speranza di rendere “produttivo” quello che dovrebbe essere il gratuito e spontaneo divertimento dei bambini.

Il soffocamento del gioco improduttivo ha però una lunga storia ed ha certamente a che fare con l’avvento dello sport moderno nato nelle scuole inglesi come dispositivo finalizzato alla creazione di élite e gerarchie che ha esacerbato lo spirito di squadra, il cameratismo e l’attitudine al comando, ossia tutto ciò che, come sostiene l’antropologo Philippe Descola nel volume-intervista Lo sport è un gioco?, «è necessario al buon funzionamento della solidarietà dei dominanti in una società di classi, e anche in una società di caste […] costituita da una molteplicità di strati sovrapposti che comunicano abbastanza poco tra loro… Solamente le grandi operazioni come la guerra o le celebrazioni sportive permettono di superare queste barriere di casta»1.

Nei primissimi anni Settanta, la studiosa Ulrike Prokop2, legata alla Scuola di Francoforte, intendendo demistificare la retorica olimpica a partire dall’ideologia pedagogico-sportiva del fondatore dei Giochi olimpici moderni, De Coubertin, evidenzia come il modello pedagogico di riferimento per il francese sia quello promosso a metà Ottocento dal reverendo Thomas Arnold che, per arginare le turbolenze degli allievi nel collegio da lui diretto, ricorre allo sport come a una «forma di “concorrenza regolata”, basata su criteri “oggettivi” che legittimano la formazione di gerarchie. Prestazioni valutate secondo criteri “neutrali” portano gli studenti ad accettare come “naturali” le posizioni di potere scaturite dalle competizioni. Ad una situazione caotica, che degenera in contrasti spesso violenti tra gli allievi, si sostituisce così una disciplina fondata sull’autocontrollo. […] Prokop vede nel modello della “concorrenza regolata” e della disciplina autoimposta desunta da Arnold il fondamento della concezione decoubertiniana dello sport, cardine di un progetto pedagogico di ispirazione positivista funzionale alla creazione di una società armonica nella quale gli individui sono portati a riconoscere l’autorità “oggettiva” della tecnocrazia». Insomma, secondo Prokop si tratterebbe di «un modello di democrazia “formale” che cela, dietro un’apparente uguaglianza, sostanziali stratificazioni sociali rappresentate come “leggi naturali”»3.

La preoccupazione di matrice positivistica per la coesione e la pace sociale di De Coubertin, secondo Prokop, è facilmente ravvisabile anche nei progetti pedagogici per le masse operaie (il “Ginnasio greco” e le “Università operaie”) che il francese elabora dopo la prima guerra mondiale con il fine, secondo la studiosa, di contenere i conflitti sociali e il potenziale rivoluzionario del proletariato.

All’interno del clima di generale messa in discussione della società che caratterizza il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta del Novecento, le critiche all’universo sportivo mosse da Prokop si affiancano ad altri interventi che, attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, mettono in discussione lo sport e la cultura del corpo della società capitalistica denunciando come l’invito alla pratica sportiva celi un intento educativo di stampo repressivo. Si possono vedere a tal proposito gli scritti Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm, usciti sulla rivista francese “Partisans” e pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione, e del sociologo tedesco di ispirazione francofortese Gerhard Vinnai, il cui saggio Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista viene pubblicato in Italia nel 1970. Si tratta di testi che, nella loro critica allo sport inserito nella dimensione dell’industria, del “campionismo”, dell’individualismo, della spettacolarizzazione e della ricerca del risultato ad ogni costo, hanno contribuito a formare una visione critica dello sport nell’associazionismo sportivo italiano di sinistra, come l’ Uisp, e di matrice cristiana, come il Csi, che, proprio in quegli anni, sviluppano una visione politica e sociale radicalmente alternativa dello sport, come attestano gli interventi che compaiono sulle rispettive riviste (“Il Discobolo” e “Stadium”) e nel saggio di Claudio Bucciarelli Lo sport come ideologia: alienazione o liberazione?, uscito nel 1974. Sebbene, letti a distanza di anni, tali saggi appaiono viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine riduttiva del fenomeno sportivo, rappresentano però i primi importanti tentativi di guardare criticamente allo sport prospettando una visione e una pratica di esso meno votata alla performance e più inclusiva4.

Visto che l’Occidente ha imposto al resto del mondo – tra le altre cose – il suo modello di sport competitivo caratterizzato da individualismo, diseguaglianze e sentimenti nazionali esasperati, confrontarsi con l’idea di gioco propria di mondi altri, lontani e residuali può essere utile ad una riflessione sullo sport moderno. Quando, ad esempio, gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana osservati dall’antropologo Descola – come del resto avviene in altere società “non moderne” – affrontano una partita di calcio, ad essere importante per loro non è il prevalere sull’altra squadra ma il gioco in sé, consistente nel segnare evitando che la partita conduca a diseguaglianze.

“Gioco” è una nozione ampia di cui si sono occupati pionieristicamente Johan Huizinga,5 che ha insistito sulla sua natura pre-sociale e ne ha sottolineato l’importanza nella cultura europea, e Roger Caillois6, che ha proposto una classificazione del gioco in base al predominare della competizione (agon), del caso (alea), della mimica (mimicry) o della vertigine (ilinx). Interessanti riletture di questi testi pionieristici alla luce del contesto videoludico contemporaneo sono state prodotte da Alexander Lambrow7, che contesta l’enfasi con cui Huizinga insiste sull’autonomia del gioco, per quanto sottolinei come vada riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui è stata espressa, e Lars Kristensen insieme a Ulf Wilhelmsson8, che mettono in relazione l’improduttività del gioco, dunque il suo distinguersi dal lavoro, espressa da Caillois con la lettura del sistema capitalista proposta da Marx.

Consapevole di quanto sia difficile individuare una definizione generale di gioco, da parte sua Descola, a partire dalla sua conoscenze di antropologo, ritiene sia necessario «distinguere il gioco come attività di emulazione e apprendimento che viene praticata nell’infanzia e nell’adolescenza, che è universale e che va oltre le frontiere dell’umanità»9 – visto che è riscontrabile anche tra altre specie animali –, da un gioco più sistematico e regolamentato, praticato soprattutto dagli adulti, di natura rituale, consistente «nella cooperazione tra due gruppi di persone che sono generalmente molto ben definite: dei lignaggi distinti, dei gruppi di filiazione, dei rappresentanti di diversi villaggi ecc. L’idea di cooperazione è più importante di quella di competizione; si tratta di collaborare a un’azione comune, di mettere in atto un processo che va oltre la volontà individuale di tutti i partecipanti»10.

Tra gli achuar, ma in generale in tutta l’Amazzonia, sostiene Descola, «si fa ricorso al gioco come attività di svezzamento, di apprendimento di ciò che è utile per la vita e di assimilazione delle tecniche, caratteristica dell’infanzia e dell’adolescenza»11. Ad esempio si fanno giocare i bambini di cinque-sei anni con mini cerbottane in bambù con palline d’argilla affinché, divertendosi, apprendano un’abilità tecnica a cui faranno ricorso quando, un po’ più grandi, si confronteranno con cerbottane più grandi per la caccia da appostamento, dunque, una volta cresciuti, possano destreggiarsi con la versione per adulti.

In queste società la caccia non si risolve semplicemente nell’atto del colpire la preda, ma presuppone innanzitutto trovare l’animale e adottare il suo punto di vista per avere la meglio su di esso e questo, ricorda l’antropologo, è ciò che si fa anche quando si gioca, ad esempio, a scacchi. In questi casi è dunque possibile assimilare la caccia al gioco.

Nelle società animiste anche la guerra “a bassa intensità”, consistente in raid di vendetta e scontri tra un numero limitato di individui, è stata a lungo un’attività che, come la caccia, presuppone la capacità di mettersi nei panni dell’altro. «In un certo senso, si potrebbe pensare che, nell’animismo, il gioco inteso nel senso della seconda definizione, il gioco collettivo diciamo, viene sostituito da attività di questo tipo: la caccia, la guerra, la pesca, che sono attività di emulazione, di competizione, che presentano dei rischi – spesso ne risulta un’uccisione – che prendono il posto del gioco»12.

Se il gioco ha scarsa rilevanza nelle società riconducibili a una ontologia “animista”, sostiene l’antropologo, risulta invece importante nelle società basate su sistemi “analogisti” – come nel mondo andino, in Messico, in gran pare dell’Asia Centrale e in Africa – in cui ha una funzione rituale, oltre che propedeutica. Si tratta di giochi in cui si compiono operazioni mentali con degli oggetti, che spesso prevedono una sfida tra due persone o tra gruppi che si affrontano faccia a faccia, propedeutici nel senso che predispongono a rintracciare legami tra elementi disparati.

Facendo riferimento alla sua esperienza tra gli achuar amazzonici, Descola ricorda che se un tempo tali giochi rituali erano ancora trasposti nella guerra e nella caccia, successivamente, poco a poco, le cose sono cambiate anche per l’introduzione nella loro società, da parte dello Stato nazionale ecuadoriano, del calcio e dell’Ecuavolley (una variante della pallavolo che si gioca in tre). In entrambi i casi, ha notato l’antropologo, gli achuar giocano senza porsi lo scopo della vittoria di una squadra sull’altra. Nel gioco del calcio da loro praticato tutti corrono dietro al pallone, portieri compresi, e le squadre hanno un numero di partecipanti variabile e non regolamentato; «ciò che conta, in fondo, è il gioco, prendere palla e segnare un gol»13, non farne uno in più dell’altra squadra. Ciò era già stato rilevato da Lévi-Strauss nei giochi con la palla arrivati tra i gahuku-gama in Nuova Guinea e lo stesso accade nel cricket praticato nelle isole Trobriand al largo della stessa nazione. Si tratta evidentemente di un’idea di gioco che privilegia l’attività ludica rispetto al risultato.

Lo sport, così come lo conosciamo e pratichiamo nelle società moderne ed ipermoderne, tende a rivelarsi un’attività di gioco particolare visto che presenta una serie di regole codificate e prevede competizioni orientate a uno specifico obiettivo: avere la meglio su altri partecipanti. Pur trattandosi di un’idea di gioco esclusiva al mondo moderno, è però all’interno di quest’ultimo che più marcatamente il conseguimento del risultato tende a soffocare l’attività meramente ludica.

«Mettere a confronto lo sport moderno con il gioco presso gli achuar o gli aztechi», scrive Stefano Allovio nella Prefazione al volume Lo sport è un gioco?,

ha la forza, per opposizione, di rendere chiara la stretta connessione fra la competizione sportiva e una specifica concezione dell’individuo emerso nella modernità: un individuo proprietario del proprio corpo e focolaio non solo della propria emancipazione e della propria libertà, ma anche [come afferma Descola nel libro] “focolaio di una competizione per acquisire beni, prestigio ecc.”. L’individualismo moderno “è racchiuso in maniera evidente e in modo permanente in quei dispositivi di competizione che consistono nell’acquisire dei vantaggi rispetto ad altri […]. Lo sport è la quintessenza intinta di bellezza di questo meccanismo. Ed è in questo che lo sport è diverso dal gioco”14.

Confrontarsi con «logiche differenti, sistemi di relazioni diversi e schemi collettivi altri, concernenti anche i contesti in cui si sviluppano e assumono senso le attitudini motorie» – sottolinea Allovio –, «permette di cogliere meglio le logiche e le epistemologie in cui ci troviamo e in relazione alle quali assistiamo storicamente all’affermarsi dello sport moderno»15.

Riflettendo su come si è evoluto lo sport in termini sempre più competitivi, mediatizzati e mondializzati allontanandosi dalla sfera del gioco, Descola ricorda come nei sistemi totalitari del Ventesimo secolo lo sport sia «stato considerato come un elemento di fierezza e di identificazione con degli eroi»16 e come, sin dagli anni Trenta, sia stato piegato alle ideologie nazionali o identitarie.

Quello che è cambiato, penso, da una ventina d’anni a questa parte – e non sono il solo a riscontrarlo –, è l’espansione, l’irruzione del capitale finanziario nello sport e il fatto che la selezione passi, in particolar modo per le grandi squadre di calcio, dal denaro e dalla capacità di attirare dei giocatori di eccezione. Lo sport così si ritrova in un certo senso spaccato a metà tra la pratica che ciascuno di noi può sperimentare all’interno di federazioni, grazie a un sistema che funziona relativamente bene, che è relativamente democratico, e poi una sorta di microsocietà d’élite nella quale questi stessi meccanismi, tutto d’un tratto, non funzionano più. A livello locale dei club sportivi, la maggior parte delle federazioni funziona bene ma, quando si giunge a quel livello in cui si gestiscono somme ingenti di denaro, i criteri, in particolare quelli morali, elementari, propri della vita civica, della vita comunitaria, scompaiono. È chiaro che le squadre finaliste, nel calcio, sono le squadre più ricche. La cosa va da sé17.

Descola si sofferma anche su come, in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato dal trionfo dell’individualismo e da un certo modello di competizione sportiva, lo stadio risulti, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, comunque uno dei pochi luoghi pubblici che permette agli individui di fuoriuscire dalla loro sfera privata e di socializzare, di passare «dal dominio di interesse a loro proprio, per proiettarsi verso un progetto comune che è quello della loro squadra di calcio» sancendo un momento di rottura «con l’attitudine del consumatore esclusivo»18. Alla luce dei rischi di identificazione identitaria costruita per contrapposizione – basti pesare a quanta nefasta retorica nazionalista si possa creare attorno a tali fenomeni con i media che, spesso, non si “limitano” a fare da grancassa –, nulla di cui compiacersi a cuor leggero, aggiunge l’antropologo, ma la frequentazione dello stadio resta una delle rare occasioni per uscire da se stessi.


Sport e dintorni


  1. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, p. 37. 

  2. Ulrike Prokop, Soziologie der Olympischen Spiele. Sport und Kapitalismus, 1971. Il saggio viene pubblicato in traduzione italiana alla vigilia dell’apertura delle Olimpiadi di Monaco con il titolo Olimpiadi dello spreco e dell’inganno, Guaraldi, Bologna, 1972. 

  3. Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 119-120. 

  4. Per una disamina di tale fenomeno si rimanda al saggio: Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica, cit. 

  5. Johan Huizinga, Homo ludens. Proeve eener bepaling van het spel-element der cultuur, H.D. Tjeenk Willink, Haarlem 1938; tr. it. Homo ludens, Einaudi, Milano, 2002. 

  6. Roger Caillois, Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1958, tr. it. I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Giunti, Firenze, 2017. 

  7. Alexander Lambrow, Prendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica, in Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 73-98. 

  8. Lars Kristensen, Ulf Wilhelmsson, Roger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies, in Matteo Bittanti, Reset, cit., pp. 79-133. 

  9. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 12. 

  10. Ivi, p. 13. 

  11. Ivi, p. 15. 

  12. Ivi., p. 20. 

  13. Ivi., p. 24. 

  14. Stefano Allovio, Prefazione a Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. XX. 

  15. Ivi, p. XXII. 

  16. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 50. 

  17. Ivi, pp. 50-51. 

  18. Ivi, p. 56. 

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Sport e dintorni – I migranti del pallone https://www.carmillaonline.com/2023/11/07/sport-e-dintorni-i-migranti-del-pallone/ Tue, 07 Nov 2023 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79810 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, Prefazione di Sergio Giuntini (Le Monnier, 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«Seguire le vicende dei calciatori stranieri approdati in Italia permette di ricostruire una storia della società e del costume nazionali e aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche» Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport

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Sin dalle origini, [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, Prefazione di Sergio Giuntini (Le Monnier, 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«Seguire le vicende dei calciatori stranieri approdati in Italia permette di ricostruire una storia della società e del costume nazionali e aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche» Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport

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Sin dalle origini, la storia del calcio è stata caratterizzata dalla mobilità dei giocatori. I migranti del pallone sono oggi presenti in tutti i campionati professionistici del mondo. […] Nel caso italiano, alla fine dell’Ottocento una pattuglia di svizzeri e inglesi giunti a vario titolo nella penisola – come imprenditori, rappresentanti di compagnie commerciali e di navigazione, ingegneri, tecnici – diede un contributo decisivo alla nascita del football in Italia. Quasi un secolo e mezzo dopo, l’Italia era il secondo paese scelto come meta professionale dai calciatori espatriati.

Tra questi estremi, si dipana una storia nella quale i giocatori stranieri hanno avuto una parte importante nel calcio italiano, non solo dal punto di vista strettamente sportivo. La loro presenza in Italia ha suscitato passioni contrastanti e alimentato polemiche politiche; ha condizionato gli equilibri economici del mondo del pallone e dato vita a contese giuridiche; ha rappresentato talvolta una cartina di tornasole degli atteggiamenti delle istituzioni e dell’opinione pubblica nei confronti degli stranieri in generale.

Le vicende di questi atleti, come singoli o come gruppi legati dalla provenienza geografica, si sono configurate come un racconto polifonico di grande interesse nel quadro della storia dello sport e dei suoi intrecci con la società italiana e la dimensione internazionale.

Gli studi storici sul calcio italiano hanno trattato il tema in modo sporadico, all’interno di ricostruzioni complessive della storia del gioco. In campo internazionale, le prime ricerche dedicate alle migrazioni degli sportivi risalgono agli anni Novanta del secolo scorso e si sono articolate successivamente in varie direzioni attraverso indagini sociologiche e ricostruzioni storiche.

Gli studi sociali hanno messo in luce le relazioni tra fenomeni migratori e globalizzazione, hanno elaborato tipologie dei migranti sportivi e sviluppato modelli esplicativi dei flussi dalla “periferia” ai centri principali del calcio mondiale.

Gli studi di carattere storico, meno numerosi, hanno sottolineato tra l’altro la necessità di collocare le migrazioni dei calciatori, come degli altri sportivi, nell’ambito dei processi migratori generali, suggerendo di applicare al caso dello sport le categorie interpretative utilizzate nell’approccio storico alla mobilità internazionale del lavoro.

Particolarmente interessanti risultano le chiavi interpretative e le indicazioni metodologiche proposte da Pierre Lanfranchi e Matthew Taylor che nei loro contributi hanno studiato il quadro complessivo della mobilità internazionale dei calciatori e analizzato alcuni casi specifici. Altri interventi su segmenti particolari dell’emigrazione calcistica hanno arricchito da vari punti di vista la conoscenza storica del fenomeno.

In una prospettiva storica si colloca anche questa ricerca, articolata in un arco cronologico compreso tra il calcio delle origini e gli effetti della “sentenza Bosman” del 1995 che liberalizzò i trasferimenti dei calciatori nell’Unione europea.

La ricostruzione ripercorre le vicende delle migrazioni calcistiche verso l’Italia sul versante sportivo e nei loro risvolti sociali, politici, economici, culturali, di costume, delineando le traiettorie geografiche dei flussi migratori e i profili delle più significative figure del calcio straniero in Italia, dai grandi protagonisti a personaggi minori, le cui storie esemplificano le vicissitudini professionali dei migranti del pallone.

La ricerca si concentra su diversi aspetti del fenomeno, come i fattori economici di spinta e di attrazione che hanno portato i giocatori alla scelta di emigrare, uniti ad altre cause di natura culturale, sociale, politica, geografica; le variabili sportive ed extrasportive che hanno condizionato le aperture e le chiusure delle frontiere calcistiche e il dibattito politico-sportivo che ha accompagnato questi passaggi; le reazioni nei paesi di partenza e le ricadute delle migrazioni sul calcio italiano; le modalità di integrazione dei nuovi arrivati nella realtà locale; le rappresentazioni del calciatore straniero e gli atteggiamenti nei suoi confronti, tra fascinazione per un modello esotico e pulsioni xenofobe e razziste.

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La ricerca si è basata su numerose fonti a stampa (testate sportive, d’opinione e politiche) e su documenti di archivio; in particolare, per gli anni Cinquanta e Sessanta, sono state utilizzate diverse carte conservate a Roma presso l’Archivio nazionale del CONI.

Nella ricostruzione si è cercato di dare conto nel modo più ampio possibile della presenza dei giocatori stranieri in Italia per restituire la complessità e le articolazioni delle traiettorie seguite dai flussi migratori, senza una pretesa di completezza che esula dalle finalità di questo lavoro.

Dato l’elevato numero di atleti arrivati in Italia, è stato necessario operare una selezione. Sono stati presi in considerazione i calciatori più rappresentativi e di maggiore valore tecnico, quelli che costituiscono casi interessanti per diversi risvolti delle loro vicende (sportivi, sociali, politici, di ambientamento, di costume) e altri che esemplificano efficacemente le dinamiche e le caratteristiche del mercato calcistico italiano nei suoi rapporti con i paesi europei ed extraeuropei.


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