Romanzo a puntate – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Educazione maremmana #6. Che la memoria non si perda https://www.carmillaonline.com/2020/11/15/educazione-maremmana-6-che-la-memoria-non-si-perda/ Sat, 14 Nov 2020 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63106 di Stefano Erasmo Pacini

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Le mie Colonne d’Ercole le avevo varcate mesi prima, dopo l’occupazione e la cacciata di Lama dall’Università di Roma. Avevo pianto di gioia, avevamo infranto l’ultimo tabù, era ora. Le università erano occupate contro la circolare Malfatti, a Roma in particolare il Movimento era fortissimo, i fascisti avevano provato a fare irruzione come nel ‘68, respinti, avevano sparato, ferendo in modo gravissimo un compagno. Alla manifestazione del giorno dopo, il 2 febbraio, in seguito all’incendio della sede dei fasci, c’era stata una [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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Le mie Colonne d’Ercole le avevo varcate mesi prima, dopo l’occupazione e la cacciata di Lama dall’Università di Roma. Avevo pianto di gioia, avevamo infranto l’ultimo tabù, era ora. Le università erano occupate contro la circolare Malfatti, a Roma in particolare il Movimento era fortissimo, i fascisti avevano provato a fare irruzione come nel ‘68, respinti, avevano sparato, ferendo in modo gravissimo un compagno. Alla manifestazione del giorno dopo, il 2 febbraio, in seguito all’incendio della sede dei fasci, c’era stata una sparatoria tra noi e la polizia con altri feriti gravi; le occupazioni però, invece di scemare, erano aumentate ovunque, con il Pci tagliato fuori, il partito che prendeva su di sé il ruolo di gendarme “democratico”, che tacciava tutto il Movimento di essere in mano a provocatori, squadristi, intimandoci di sgomberare le facoltà occupate, che così ostacolavamo la sua politica di compromesso storico e sacrifici.
Quel giorno, in realtà, il Pci non voleva tenere nessun comizio, nessun dialogo, voleva semplicemente affermare di fronte alle istituzioni che con noi non c’entrava più nulla, non eravamo figli suoi né legittimi né illegittimi, eravamo nemici. Era un po’ anche uno psicodramma collettivo, il tradimento dei padri, la rabbia dei figli, non più una contrapposizione politica, ma una guerra, definitiva. Giornali che sino al giorno prima avevano tuonato contro il ‘68 e gli estremisti, che all’improvviso ne tessevano le lodi per contrapporli alla nostra marmaglia violenta, per dividerci. Quel giorno è iniziata l’opera di sistematica distruzione del Movimento, delle forze più vive e critiche della società, della scelta per molti obbligata, e già perdente, della lotta armata. Il Pci è riuscito in questa opera in pochi anni, senza ottenere nulla in cambio, neppure un ministero di lenticchie, senza neanche accorgersi di gettare i semi del suo stesso suicidio, ben prima della caduta del muro di Berlino.
Sin dalla mattina la tensione era palpabile, squadre di persone coprivano tinteggiando le nostre scritte sui muri, erano edili e operai romani del servizio d’ordine del Partito, orgogliosi delle proprie mani rovinate dal lavoro, colmi di diffidenza per noi studenti sfaticati, erano vecchi rispetto ai nostri vent’anni, e venivano da una galassia lontana. Montavano un apparato pazzesco di altoparlanti su di un camion; neppure volendo si sarebbe potuto ascoltare il comizio di Lama, era troppo potente, era assurdo, come la situazione. Il resto è noto, ma rivedo al rallentatore sempre la stessa scena: a un certo punto Mau, di fianco a me, nel parapiglia, con la faccia pesta per una bastonata di un tipo con un impermeabile che ci urlava “Pariolini di merda, in Siberia!” e io che urlavo con gli altri “Via! Via, la nuova polizia!” caricando poi con centinaia di compagni e rovesciando quel camion fortificato che ci sembrava un enorme carro armato russo. Pensai che ce l’avrebbero fatta pagare cara, che ci avrebbero schiacciati, non ci sarebbe bastata una vita per sfuggirli, che eravamo davvero soli, ma almeno, se dovevamo, saremmo morti da esseri liberi e non da schiavi.
Le promesse che seminavamo creavano grandi aspettative, seguite da delusioni immani, disastri emotivi. Ho confinato quei pochi lunghissimi mesi in un recesso della mia mente. Ma mi hanno forgiato per il resto della mia vita. Il 16 marzo del ’78 capii che era iniziata la fine.

Ci eravamo sbattuti tantissimo per creare una radio nostra, libera, anarchica, di movimento. Come e più di Radio Brigante Tiburzi a Grosseto. E lo facemmo con mezzi leciti o meno, coinvolgendo in un canto del cigno anche Alessio e i suoi amici, chiunque ci capitasse a tiro e ci potesse far gioco. A un certo punto era tutto pronto, l’antenna, gli amplificatori, il microfono, con Claudio facemmo anche la prova: “Uno, due, tre, prova, sì, prova, ci siamo, qui Radio Malaria, uno due tre…” Ma non c’era più nessuno in giro, le riunioni andavano semi deserte, sparivano tutti tra Massa, Follonica, Grosseto, chi arrestato, chi suicida, chi con l’ero, chi fuggiva lontano, le donne per conto loro, nelle due stanze nei vicoli non ci passava più nessuno, cosa potevamo dire da soli? Le attrezzature rimasero a prendere polvere, poi le rivendemmo a quattro soldi, alla fine chiudemmo anche le stanze. Ricordo una delle ultime sere, gli chiesi a cosa fosse servita tutta questa nostra storia, tutto quello che avevamo fatto, perché dovesse finire così. Claudio Tuttopenne, il capellone che faceva innamorare schiere di ragazzine, mi sorrise nelle tenebre, ma la sua voce era cupa: “Non è importante che tutto sia finito, è importante che abbiamo fatto quello che dovevamo fare, è importante che sappiamo che è stato giusto farlo, senza nessun rimorso. È importante che rimaniamo liberi, qualcuno deve rimanere per raccontarlo, che la memoria non si perda, almeno quella, mi raccomando, se no moriamo anche noi prima che ci seppelliscano.”

Ho conosciuto la solitudine dopo che per un tempo ostile avevo cambiato spesso casa, città. Ero disposto a tutto prima di perdere la libertà. Invece non si sa per quale combinazione di istinto, caso, amicizia, nessuno mi ha denunciato nessuno mi ha arrestato. Un mio vecchio compagno di Roma che poi è diventato un medico affermato, mi ha procurato un biglietto aereo e i contatti giusti. Mi ha fatto cambiare aria per un po’. Nel posto giusto al momento sbagliato. Sono andato prima a Damasco, poi a Beirut, ospite dei nostri compagni palestinesi del Fplp. Proprio quando l’esercito israeliano ha deciso di regolare i suoi conti con l’Olp, con Abu Ammar, noto in occidente come Yasser Arafat. Mi tornò in mente in quei giorni Lawrence d’Arabia, film che mi fece sognare viaggi esotici dopo averlo visto da ragazzino in paese in un cinema affollatissimo. La vita poteva diventare ferocemente ironica: mi ritrovai in una città bella, dolente con bambini dagli occhi grandi, curiosi e allegri, che correvano a frotte, impegnati in giochi di guerra finta con armi vere. Mi ritrovai in una guerra vera con gli israeliani che giocavano con le milizie palestinesi intrappolate in città come il gatto con il topo. L’urlo delle ambulanze della Mezzaluna Rossa che spesso riportava i pezzi di quei ragazzini.

Ho pensato che almeno mi potevo rendere utile e combattere anche qui la mia battaglia. Non avevo più nulla da perdere. Eppure mi sentivo vivo in quella disperata allegria, in quel mondo che subito mi aveva accolto come un figlio, trattandomi come un ospite di riguardo. Vivevo presso la famiglia di un medico dirigente del Fplp che parlava italiano; si era laureato a Roma. Hamed mi spiegava la situazione politica e militare, mi portava spesso al piccolo ospedale da campo che era stato allestito tra le macerie dei bombardamenti. Nei momenti liberi mi facevo dare lezioni da alcuni miliziani con armi anticarro. Giravo con una pistola alla cintura, che Hamed mi aveva dato dicendomi con un sorriso che così adesso ero diventato la sua guardia del corpo. Visitavamo molte case e campi, decine di volte ci accoccolavamo per prendere tè e dolci, ovunque ero presentato come un rivoluzionario italiano, amico fraterno del popolo palestinese e della sua causa. Ricevevo decine di abbracci e benedizioni, da parte mia masticavo un po’ di frasi in arabo; a parte i convenevoli la mia preferita era “Thawra atta’ nasr – Rivoluzione fino alla vittoria”. A casa, Rashida badava a tre bambini dagli occhi neri, la femmina, Jasmina, faceva il segno di vittoria con le manine e poi sorrideva, guardandomi con aria interrogativa solo quando il tonfo cupo delle esplosioni sempre più vicine faceva tremare tutto come in un terremoto. In quel caso la prendevo in braccio mentre Rashida prendeva per mano gli altri due fratellini e scappavamo con altre famiglie in una cantina che faceva da rifugio antiaereo. Lì, alla luce fioca di una lampada a gas, sotto lo sguardo benevolo dei poster di Arafat, Habbash e Leila Khaled, Rashida mi parlava senza abbassare gli occhi o nascondere con fazzoletti il suo volto, bellissimo. In un inglese, molto migliore del mio, mi diceva come stesse lavorando per l’organizzazione con le donne palestinesi, come fosse fiduciosa che questa rivoluzione ormai in marcia non si sarebbe fermata fino a che la Palestina non fosse stata liberata, i suoi uomini, le sue donne, emancipati. Ero io invece, con imbarazzo, ad abbassare gli occhi quando mi chiedeva della nostra rivoluzione. Era lei a farmi coraggio alla fine, un giorno mi disse di non disperare mai, e mi citò una poesia di Hikmet: “la speranza, la speranza, la speranza: la speranza è nell’uomo”. Non so che fine abbiano fatto, in seguito mi dissero che avevano perso i contatti con Hamed e la sua famiglia, pare si fossero trasferiti a Damasco.
Estate del 1982, bombardamenti dal cielo, dal mare e da terra, tra una partita e l’altra del campionato del mondo di calcio. Ho scoperto che i ragazzini palestinesi erano tutti per noi: “Paolo Rossi, squadrazzurra!” Foto di una umanità urlante ma orgogliosa, bagliori di bombe e di tv con il commento in arabo delle partite, i gol di Pablito intervallati dalle urla dei feriti e dei miliziani, gli shebab che gioivano dei gol. Chissà che bei bianco e neri, ma non li ho mai visti, la Yashica per una cannonata è finita sotto dei calcinacci, le tendine sfondate, i rulli dispersi durante la fuga precipitosa. Dopo un abbraccio frettoloso con Hamed e Rashida, mi hanno caricato quasi a forza su un vecchio Mercedes che mi ha riportato a Damasco, ordini superiori, non volevano martiri italiani, ne avevano d’avanzo in proprio. L’Italia ha vinto il campionato del mondo, ma non abbiamo potuto vedere la finale, l’arbitro era israeliano e le tv arabe non l’hanno trasmessa. La radio sì, urli di gioia nella notte, raffiche di mitra sparate in aria. L’ultima festa per molti di loro, prima che Abu Ammar fosse costretto in esilio a Tunisi, prima del massacro di Sabra e Shatila.

Niente da fare, sono rimasto vivo, sono sopravvissuto anche a questo inferno.

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Educazione maremmana #5. “Sempre viva l’anarchia!” https://www.carmillaonline.com/2020/11/08/educazione-maremmana-5-sempre-viva-lanarchia/ Sun, 08 Nov 2020 12:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63100 di Stefano Erasmo Pacini

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La situazione iniziò a precipitare quando persino nel nostro piccolo paese medioevale ci accorgemmo di essere non solo guardati male dai vecchi del Pci e costantemente spiati dai carabinieri durante ogni sciopero, assemblea, corteo, ritrovo casuale, ma accoltellati alle spalle dalla improvvisa irruzione dell’eroina. Brio di Follonica ce lo disse subito, candidamente: “Ragazzi, non è un caso che per un po’ di tempo si trovasse pochissimo fumo in giro, lo hanno fatto sparire, poi hanno immesso la bianca, a poco, a [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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La situazione iniziò a precipitare quando persino nel nostro piccolo paese medioevale ci accorgemmo di essere non solo guardati male dai vecchi del Pci e costantemente spiati dai carabinieri durante ogni sciopero, assemblea, corteo, ritrovo casuale, ma accoltellati alle spalle dalla improvvisa irruzione dell’eroina.
Brio di Follonica ce lo disse subito, candidamente: “Ragazzi, non è un caso che per un po’ di tempo si trovasse pochissimo fumo in giro, lo hanno fatto sparire, poi hanno immesso la bianca, a poco, a prezzi stracciati. L’hai mai provata? Ah, è bellissima, è pazzesca, come fai a spiegarla? Appena ti buchi senti un’onda calda da capo a piedi, un vero e proprio orgasmo con il tuo corpo, poi subentra una pace liquida enorme, beata, che speri non termini più. Ma quando riemergi non fai più vita, perché avverti quello che hai perso in maniera insostenibile. E allora, che tu lo voglia o no, prima o poi ti rifai, e come ti fai ti accorgi che ti fa un po’ meno e allora magari ti rifai prima e poi… a quel punto sei del gatto, vivi solo per la bianca, non esiste altro, non te ne frega più niente, tutto viene dopo. Mi faccio schifo ma è così, non so che farci”
Neppure noi sapevamo che fare. Cercavamo di cacciare gli spacciatori, ma spesso erano ragazzi come Brio o Alessio diventati tossicodipendenti; i trafficanti grossi erano mafiosi tollerati dal potere. L’equazione era semplice: più eroina, più debolezza, meno giovani arrabbiati, meno guai.
Brio non si compativa né voleva esserlo, spesso metteva su quello che chiamava teatro-guerriglia, con travestimenti, spettacoli surreali di poesia e di mimo. All’Umbria Jazz lo ritrovai che raccontava come avesse fatto l’autostop a un commenda che poi l’aveva ospitato due giorni a casa sua, sfamandolo e rivestendolo, gli era parso doveroso scoparselo prima di andarsene. Brio non si faceva recuperare da nessuno, scappava anche dalle comunità terapeutiche, riusciva sempre ad ironizzare sui propri mali e le sue debolezze.
Su un conto della spesa aveva scritto: “Solo perché voleva vivere lo aiutarono a morire presto.” Una volta riuscì a convincermi a comperare insieme a lui cinquantamila lire di erba. Naturalmente non avevo più visto né le une né l’altra, ma quando lo incontravo glielo ricordavo, così, giusto per farlo sentire un po’ in colpa. Finché una sera Brio mi fissò negli occhi e mi domandò se la nostra amicizia era più o meno importante di quattro soldi, e mi dette un libro di poesie di Ferlinghetti, rubato di fresco. Con l’andare del tempo la legge lo dichiarò delinquente abituale, finì confinato in un paesino di montagna, come fosse un mafioso. Lo incontrai l’ultima volta per caso lì, nel bar alimentari, ma non lo riconobbi subito, aveva i capelli completamente bianchi, sembrava un vecchio, camminava adagio. Era già malato di aids, il ricordo che avevo di lui non collimava più con la realtà. Poi mi parlò, e il suono familiare della sua voce mi fece capire con un tuffo al cuore chi fosse. Mi chiese di rendere giustizia a un suo amico, lasciato morire in overdose da un medico che aveva rifiutato il soccorso. Fino all’ultimo non si è mai disperato, scriveva poesie, alle volte sui muri con lo spray.
Del suo giro di amici, a distanza di pochi anni, non è sopravvissuto nessuno, e questo è accaduto in tutta Italia. Iniziarono a morire dapprima in maniera sporadica, con titoli giganteschi dei giornali locali. Poi sempre di più, a un certo punto a decine, tanto da meritarsi a fatica un articoletto in cronaca locale, tra una premiazione scolastica e una sagra della ranocchia fritta. Una generazione di desaparecidos dell’eroina, senza clamore o ricordo storico, morti senza possibilità di alcuna giustizia sia pur postuma. Di lui mi rimane un libro di Ferlinghetti e una poesia che aveva vergato nell’ultima pagina:

Parlare
iperparlare
la ragione sragiona
e ha ragione
se i mentecatti vinceranno
non ci saranno più i pazzi che ridono.


Mia sorella si era laureata, sposata e stabilita nel lontano Meridione. Mia madre mi disse che aveva discusso con mio padre e ora si aspettavano che anch’io scegliessi una facoltà: “Lascia perdere la politica, tagliati i capelli, datti una regolata e studia davvero e se no, se non vuoi fare l’università, come tecnico minerario sulle piattaforme petrolifere pagano bene, sai?
Ci parlavamo sempre meno, non esisteva più lo spirito del fantastico avamposto di campagna. I nonni uno a uno si erano spenti, sempre più scettici su un mondo irriconoscibile per loro. I miei erano sempre più stressati a causa di lavori che non lasciavano che rari momenti liberi, si sorrideva sempre meno, le comodità, gli elettrodomestici, i soldi, che adesso permettevano di cambiare anche l’arredamento e avere due auto, non compensavano la dignitosa povertà di un tempo. Oltretutto non riuscivano a capire la mia rabbia, il mio gesticolare e maledire, le discussioni finivano spesso male. Mio padre riusciva a mantenere la calma anche se spesso scuoteva la testa, cercava di farmi ragionare portandomi ad esempio Torquato, il nostro vicino di podere diventato senatore del Pci. Non capiva che quel tipo di politica per me non solo era finita, ma nemica. Un giorno, dopo l’ennesima scaramuccia, mia madre non si tenne più: “Accidenti a te e a chi ti ha fatto porcoddissi! Tanto lo sentii appena incinta che crostino saresti stato! E poi dopo la tu’ sorella che mi fece vedere i sorci verdi e non si capiva se sarebbe campata o no…figurati se ti volevo! Ho fatto di tutto per tirarti giù, ballare fino alle tre di notte, dare una mano a tuo padre in campagna, portare secchi pieni d’acqua, pesi… niente, sei nato di quasi cinque chili e hai cominciato a mangiare tutto, anche il buio avresti mangiato! Non arrivavi ancora con la testa al bordo del tavolino e già prendevi la roba da mangiare nel piatto di tua sorella, tanto che lei dalla rabbia ha cominciato finalmente a mangiare, in un certo senso le hai salvato la vita, ma di due figlioli qui non se ne fa uno a garbo!”
E lanciò l’asciughino dentro l’acquaio, uscendo di casa. Rimasi muto, non riuscii a ribattere niente, come facevo solitamente. Impietrito, anche se non lo detti a vedere. “Gli uomini devono essere forti, gli uomini non devono mai piangere, gli uomini non devono far capire cosa hanno dentro, ma agire.” Avevo da essere uomo, per forza.

Alla fine mi iscrissi a Filosofia a Firenze, ma a tempo pieno frequentavo solo i collettivi, spostandomi anche a Roma. Ci eravamo stufati di farci sparare addosso. Iniziammo a fare riunioni semi segrete, a staccarci dai vecchi gruppi che predicavano la rivoluzione a parole e poi partecipavano alle elezioni con risultati pessimi.
Tornai in paese per il funerale di Silvio “il leone”. Lo chiamavo così per via dei capelli forti e foltissimi. Piccolino e sorridente non dimostrava gli anni che aveva; curava la bacheca del gruppo anarchico Pietro Gori, suonava il mandolino e era un bravissimo creatore di mascheroni di carnevale con la carta pesta. Mi aveva raccontato di Pietro Gori, Bakunin, Malatesta e Durruti, delle sue peripezie per il mondo, di fatti meravigliosi e sconosciuti, come l’occupazione della chiesa a Scarlino per farne un teatro, con la storia del Bartolomei che dopo questi eventi, perseguitato dal fascismo era andato in esilio in Francia dove aveva ucciso in una sparatoria un prete italiano spia dell’Ovra fascista, per fuggire poi in Belgio, emigrando definitivamente, all’arrivo dei nazisti, a Montevideo, dove continuò a sostenere con collette e articoli la stampa libertaria. Mi aveva raccontato della vita dissoluta di Quisnello Nozzoli, ciabattino massetano, rissaiolo, agitatore, finito a Barcellona durante la guerra civile a infilzare con una spada i franchisti dichiarandosi anarchico trionfante. Riparato poi in Messico dopo esser transitato per Cuba, e ritornato in Italia alla fine della guerra. Saremmo stati tutto il giorno ad ascoltarlo. Silvio ci offrì di dividere la sua bacheca con i nostri sogni. La sua vita era stata tutta una avventura e noi ragazzi ribelli lo ascoltammo sempre con stupore e rispetto.
Piansi come un bimbo ma stavo piangendo anche quella stagione di scoperte e stupori che mi sembrava così lontana e perduta. Ci ritrovammo tutti insieme, forse per l’ultima volta, vecchi e giovani, riempiendo la via fino alla porta medioevale che guarda verso Siena. Un vecchio compagno del Cln ricordò la sua incrollabile fede in un mondo migliore, libero, solidale. La sua schiena dritta negli anni bui, le persecuzioni patite. Alla fine della cerimonia mentre Mau urlava “Sempre viva l’anarchia!” e il carro funebre con la bandiera rossa e nera partiva per il crematorio di Livorno, si avvicinò silenzioso alle mie spalle Mirto e mi disse in un soffio: “Paco stai attento, ho sentito dal responsabile del Partito che i carabinieri ti stanno curando, stai attento per favore. Questi scherzano poco, buttano via la chiave.” Poi mi dette una occhiata di sbieco scuotendo la testa, si allontanò come se non mi avesse neppure visto.

 

 

Ho cominciato a essere più circospetto, ma neppure per un attimo ho pensato a tirarmi indietro. Istinto e fortuna mi aiutavano. L’istinto animale che ti fa percepire un pericolo senza spiegarlo. Avevamo un appartamento in centro a Firenze dove alcuni di noi vivevano e altri transitavano, per organizzare manifestazioni e diffondere stampa insurrezionalista e movimentista, il cui confine con le formazioni clandestine era labile, specialmente per la polizia. Quella mattina ero appena arrivato nella via sotto casa, ma qualcosa di inspiegabile mi aveva bloccato. Una forza misteriosa mi aveva obbligato a tornare indietro. Dopo un po’ di fronte a una vetrina avevo visto un tipo che mi seguiva. Era sicuramente della squadra politica della questura. Avevo raggiunto apparentemente tranquillo una libreria in centro, sempre col tipo che mi pedinava. Entrato dentro avevo chiesto a un commesso che conoscevo, uno di quei ragazzi assunti per qualche mese che simpatizzavano per noi e spesso chiudevano gli occhi sui libri portati via o pagati in parte, se ci fosse una uscita secondaria. Aveva capito subito, senza fare una piega mi aveva guidato in magazzino e da qui in un vicoletto laterale. A fatica ero riuscito a dirgli un grazie sottovoce. Il giorno dopo da Roma potevo leggere di sei arresti tra gli studenti universitari di Firenze. Alcuni sarebbero stati rilasciati dopo pochi mesi, altri dopo diversi anni.

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Educazione maremmana #4. Con la Yashica nella rivoluzione portoghese https://www.carmillaonline.com/2020/11/01/educazione-maremmana-4-con-la-yashica-nella-rivoluzione-portoghese/ Sat, 31 Oct 2020 23:01:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63028 di Stefano Erasmo Pacini

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Rompemmo gli indugi appena finite le scuole, e decidemmo di partire anche noi e di andare a vedere. Si era sparso un tam tam in tutta Europa: a Lisbona, a Lisbona a sostenere la Rivoluzione! Hanno fatto anche un film di successo su quel periodo, Alla rivoluzione sulla due cavalli. Noi invece andammo con la Mini Minor prestata dal fratello di Alessio, dopo una mega colletta tra tutti gli amici a cui Brio contribuì con un tocco di fumo, le nonne e [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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Rompemmo gli indugi appena finite le scuole, e decidemmo di partire anche noi e di andare a vedere. Si era sparso un tam tam in tutta Europa: a Lisbona, a Lisbona a sostenere la Rivoluzione! Hanno fatto anche un film di successo su quel periodo, Alla rivoluzione sulla due cavalli. Noi invece andammo con la Mini Minor prestata dal fratello di Alessio, dopo una mega colletta tra tutti gli amici a cui Brio contribuì con un tocco di fumo, le nonne e le mamme con salami e bocce di vino. In autostrada pilotava come un pazzo Alì, che aveva la patente da un mese. Alì accelerava sorpassando decine di camion sulle strade spagnole e intanto ci urlava che non si sarebbe mai sposato, nel caso di abbatterlo a raffiche di mitra. Con me faceva scintille, per le mie risate a queste uscite. Oltre tutto la Mini aveva il difetto di non partire a freddo, per cui ogni volta che ci fermavamo per più di un’ora toccava partire a spinta come fosse un bob e poi balzarci dentro al volo. Non sempre c’erano discese ad aiutarci, da qui le discussioni su chi dovesse spingere, degenerate in un’alba piovosa alla frontiera spagnola in urla e spintoni, tanto che la Guardia Civil quasi non ci faceva passare, dopo averci insultato e sputato addosso avendo capito che non eravamo certo turisti.

Stavamo in un vecchio albergo abbandonato con i pavimenti in legno occupato dagli italiani di Lotta Continua, in Rua do Prior a Lisbona. Sopra il portone uno spray rosso aveva tracciato grande la scritta “AARPI”, che stava per Associazione di Amicizia Rivoluzionaria Portogallo-Italia. Dalle finestre vedevamo il Tago e mezza città. Dormivamo sopra brande che erano state dei soldati portoghesi nelle colonie in Africa, ce le avevano portate i soldati rivoluzionari di una vicina caserma, soldati con i capelli lunghi che partecipavano in divisa e armati ai cortei di sinistra che percorrevano tutti i giorni la città; ci sembrava di sognare. Scorrazzavamo insieme a giornalisti tedeschi per il centro di Lisbona o nelle fattorie occupate dell’Alentejo, scattavo foto trattenendo il respiro, sorridendo, immaginando il risultato. Perché quella che si respirava era la Libertà, il rovesciamento della dittatura aveva liberato un entusiasmo immenso. La luce incredibile della città sul Tago mi aveva incantato: vecchi tram, palazzi coperti di azulejos, mercati all’aperto dove potevi trovare di tutto, dalle scarpe all’erba angolana, dagli zingari che suonavano nenie tristi a neri giganteschi che volevano solamente parlarti, curiosi di capire da dove venivi e cosa succedeva nel tuo paese. Studenti universitari attaccavano manifesti giganteschi e striscioni in stile maoista, ragazzini a piedi nudi come i nostri scugnizzi napoletani si rincorrevano dietro un pallone di stracci, un vecchietto malmesso ma con l’aria dignitosa mi domandava se volevo comperare un mensile anarchico che si chiamava “Merda” con la “a” cerchiata. Alla radio nazionale occupata da un collettivo di giornalisti lasciammo in dono alcuni dischi; una mattina accendendo la radio ci emozionammo capendo: “disco, dono di compagni italiani, Area – gruppo popolare internazionale”. Subito dopo sentimmo la voce inconfondibile di Demetrio Stratos:

La mia rabbia legge sopra i quotidiani.
Legge nella storia tutto il mio dolore
canta la mia gente che non vuol morire.

Spesso scortavamo il corrispondente del nostro giornale, un tipo che ci sembrava vecchio, anche se in realtà avrà avuto trent’anni, che la sera tardi dopo aver avuto la linea nel palazzo dei telefoni dettava l’articolo a Roma. Non ci ha capito mai niente comunque, né in Portogallo, né anni dopo in Iran al tempo della rivoluzione contro lo Scià, ma si è prontamente riciclato come opinionista in doppio petto nelle tv del Cavaliere.

Spesso lasciavo poltrire a Rua Do Prior Mau e Alì e me ne andavo con la Yashica a fotografare in giro per la città, felice di trovare ovunque capannelli di persone che discutevano animatamente, leggevano giornali, seguivano manifestazioni improvvisate, mettevano su banchetti dove si vendeva di tutto, in una fiera continua. Manuel era un ragazzo sveglio, un ladruncolo del Rossio in grado di vendere qualsiasi cosa o di procurarla in poche ore. Uno spilungone olivastro la cui mobilità degli occhi neri contrastava con la flemma dei movimenti. Si era incaponito di vendermi un chilo di ottima erba angolana a trentamila lire, come se non avessi dovuto superare le frontiere spagnola e francese al ritorno in patria. Mi raccontava della sua infanzia in Angola, i suoi genitori erano coloni portoghesi poveri, partiti con le pezze al culo e tornati dopo il 25 aprile più poveri di prima. Rimpiangeva il respiro d’Africa, me ne parlava tutte le volte che rimanevo un po’ lì ad ammirarlo lavorare e trafficare: “Il respiro immenso dell’Africa tu lo puoi sentire, capisci? Non ti abbandona mai, è caldo, pesante, ti entra dentro, tu sei quel respiro a un certo punto. La notte è solo un respiro più buio e caldo, ti avvolge passando la zanzariera, la luce accecante del giorno non ce la fa a dissiparlo. È un respiro di tutto il continente, lo capisci a un certo punto, non è solo l’Angola, è tutta l’Africa che ti respira addosso, in faccia, dentro. Amo questa città, ma dall’Africa non si guarisce più, nonostante la fatica, le malattie, l’essere scappati senza neppure un soldo. Non ci tornerò mai più, ma non ne guarirò mai, lo sento.”
Pensavo che fosse possibile esportare ovunque il modello portoghese, ma una sera arrivò una notizia tremenda: in Spagna il dittatore Franco respingendo le richieste di grazia da tutto il mondo aveva fatto fucilare cinque antifascisti baschi e catalani. Un corteo di migliaia di persone mosse verso l’ambasciata di Spagna, distante diversi chilometri; ci unimmo di corsa. Entrammo strada facendo dentro il consolato, poi dentro la compagnia Iberia, polverizzandoli con mazze, picconi e mani nude, non ci fermò nessuno, molti ci applaudivano mentre urlavamo i nomi dei fucilati, la polizia stava a guardare, non voleva rogne. Arrivati all’ambasciata, un palazzo immenso, trovammo un bus a due piani dirottato da un gruppo di ladruncoli del Rossio tra cui Manuel: mentre noi spaccavamo tutto, loro “salvavano” argenteria, quadri, mobiletti, automobili persino; il loro mercato parallelo ci visse per settimane. Dopo alcune ore arrivarono dei camion carichi di paracadutisti, presero a sparare raffiche di mitra in aria per disperderci. Me ne ritornai in Rua Do Prior a piedi, trascinando a mo’ di trofeo una targa dell’ambasciata strappata dal portone. Per strada mi abbracciavano, scambiandomi per spagnolo.

Tornai diverso. Era possibile cambiare anche in Europa, spazzare via i vecchi regimi, cominciare a praticare la rivoluzione. Cadeva la dittatura dei colonnelli in Grecia, dopo che gli studenti avevano sfidato i carri armati, si sfaldava il regime franchista in Spagna, dopo la morte del generalissimo, il vecchio boia della guerra civile. Diventavano indipendenti le ex colonie portoghesi in Africa, i Vietcong entravano a Saigon mentre gli americani fuggivano. Stavamo facendo la storia, cambiavano destini apparentemente immutabili, la nostra adrenalina, la forza stessa della nostra gioventù ci faceva sentire inarrestabili. Cresceva anche in Italia il movimento dei soldati, quello dei disoccupati, a Napoli nasceva un collettivo autonomo di contrabbandieri.
Il regime democristiano veniva travolto nel referendum sul divorzio, anche i miei genitori hanno iniziato a votare il Partito comunista. Basaglia riusciva dapprima a togliere le inferriate, poi a chiudere i vecchi manicomi lager. Di più, in quegli anni spariva praticamente il Festival di Sanremo. In compenso, al concerto di Frank Zappa a Roma, c’erano tutti i fricchettoni d’Italia. Marcello dava un volantino di Stampa Alternativa con scritto a caratteri di scatola “la musica si sente, il biglietto non si paga!” Un gruppetto riuscì a scavalcare le cancellate del palasport inseguito dalla polizia. All’interno la folla si aprì per accoglierli, richiudendosi subito dopo per non far passare gli sbirri; meglio della scena del Mar Rosso nel film su Mosè, e Zappa attaccava con una versione travolgente di Hot Rats. Qualcuno ha detto che la nostra generazione ha preso per un’alba quello che in realtà era un tramonto. Se anche fosse? Aveva colori bellissimi.

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Educazione maremmana #3. Interrail https://www.carmillaonline.com/2020/10/25/educazione-maremmana-3-interrail/ Sat, 24 Oct 2020 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63023 di Stefano Erasmo Pacini

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Per mio padre la differenza tra l’essere un ancora un ragazzo o qualcosa di più consisteva nell’aver conseguito la patente C, con cui si poteva guidare quasi tutti i mezzi. La mattina che tornai vittorioso dall’esame di guida a Follonica mi strinse la mano fino quasi a stritolarmela e mi disse col suo tono più solenne: “Bravo! Ora sì che sei un uomo!” Immediatamente ereditai la vecchia Opel, quella col bagagliaio che avrebbe potuto contenere tranquillamente due maiali, e che tenere [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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Per mio padre la differenza tra l’essere un ancora un ragazzo o qualcosa di più consisteva nell’aver conseguito la patente C, con cui si poteva guidare quasi tutti i mezzi. La mattina che tornai vittorioso dall’esame di guida a Follonica mi strinse la mano fino quasi a stritolarmela e mi disse col suo tono più solenne: “Bravo! Ora sì che sei un uomo!” Immediatamente ereditai la vecchia Opel, quella col bagagliaio che avrebbe potuto contenere tranquillamente due maiali, e che tenere in strada era più che un problema, un miracolo. Iniziai a scorrazzare a tutte le ore del giorno e della notte, visto che bruciava anche la benzina agricola. Inoltre fui assunto come operaio stagionale alla cantina sociale dove mio padre era stato eletto presidente: facevo i campioni dell’uva che arrivava per determinarne il grado zuccherino dopo averla pesata, meritandomi bestemmie e maledizioni a strascico appena comunicavo i risultati ai soci che l’avevano conferita. Contadini, proprietari terrieri, autisti, vignaioli della domenica, tutti egualmente convinti di avere l’uva migliore del mondo e di essere truffati nel peso, nelle analisi, nel vino a cui avevano diritto. Tutti assetati già di prima mattina, pronti a riempire bottiglie e fiaschette dai tini del vino vecchio sfuso, scegliendo con cura e mano lesta tra rosso, rosato o vermentino. La squadra con cui lavoravo era composta quasi unicamente da marchigiani pensionati della “Repubblica di Ca Bernardi”, ovvero un palazzo di Massa abitato interamente dalla comunità marchigiana che aveva raggiunto la Maremma dopo guerra, alla chiusura della miniera locale per trovare lavoro a Niccioleta. Sicuramente grandi lavoratori, fin troppo per i miei gusti, visto che spesso ripartivo dopo le mie otto-nove ore lasciandoli a fare straordinari su straordinari, per il miraggio di qualche lira in più.

Con loro c’era Ganascia, un omaccione che il cantiniere chiamava “baffino” pur essendo sbarbato e calvo, che nel mezzo del lavoro non era raro sentir cantare con un vocione da orco le arie più famose della lirica. Ganascia cantava specialmente la sera quando era stanco, e mentre stava cantando con trasporto “ridi pagliaccio” mise la mano nella diraspatrice che si era ingolfata pensando che fosse ferma e ne uscì con quattro dita mozzate. Lo vidi arrivare con un fazzoletto che teneva stretto sulla mano farra, con calma, e come non fosse accaduto nulla mi chiese: “Paco mi fai per favore questo numero al telefono?” Mentre facevo il numero che mi aveva chiesto guardavo il fazzoletto intriso di sangue e la sua faccia tranquilla, rilassata. Gli portai la cornetta vicino alla bocca quando sentii che squillava dall’altra parte: “Nina, o Nina senti, stasera faccio più tardi del solito che ho avuto un problema, devo andare in ospedale, no, no, ’un è niente di che, non ti preoccupare, ti ho detto che ’un è niente Maremma avvelenata, o su, e basta eh!” La faccia era diventata bianca come un cencio, e fece fico svenendo ma fummo pronti a sorreggerlo e lo adagiammo su un tavolone in attesa dell’ambulanza.
Il lavoro più delicato che svolgevo, in segreto, era quello di assaggiatore dei vini prodotti. Sì, perché la tradizione voleva che il presidente avesse l’ultima parola prima di passare all’imbottigliamento e alla commercializzazione del vino. E mio padre era astemio, il massimo che riusciva a concepire in piena estate era una birra che allungava con acqua zuppandoci certe volte anche il pane. Un po’ se ne vergognava, ma mi aveva raccontato che da ragazzo era stato male per via della vinella, e da allora proprio non riusciva a bere vino. La vinella era la risciacquatura delle botti, il vino buono andava al padrone, il mezzadro consumava anche quella infernale brodaglia. Ma non potendo deludere i soci che lo avevano eletto, portava a casa i vini e il vinsanto da assaggiare, e lì davo il meglio di me nel senso che non ricordo nessuna bocciatura, ma tante bocce vuotate. Solo una volta ebbi qualche scrupolo ad assaggiare un vermentino peraltro notevole. È che in quella vasca ci erano finite le dita di Ganascia.

Dopo la prima vendemmia come operaio di cantina, vista la busta paga gonfia, comprai una tessera ferroviaria Interrail di un mese e partii con Nico Manolesta per Parigi, giorni in giro col naso all’insù, a conoscere gente con i sacchi a pelo da tutto il mondo, a dormire in ostelli sgangherati e barconi sulla Senna. Poi arrivammo ad Amsterdam ospiti di Jan, serate a giocare a carte, bere birra, fumare canne, e ogni tanto mangiare patate fritte. Infine dirigemmo su Londra. Qui, dopo poco, ci separammo: Nico rimaneva nonostante tutto un bravo ragazzo ligio alla famiglia piccolo borghese e aveva promesso di essere a casa entro i trenta giorni per preparare gli esami universitari. Io non ne avevo nessuna voglia, mi aspettavo la cartolina precetto militare e avevo deciso di non partire, di rimanere a Londra come avevano fatto già molti prima di me. Quando lo accompagnai alla stazione mi sembrò nel salutarlo di avere reciso l’ultimo cordone ombelicale, quello con gli amici cari. Nico Nasone lo avevo conosciuto davanti al juke-box della Lucciola, entrambi tredicenni brufolosi e timidi, mettevamo gli stessi dischi dei Rolling Stones e Santana: ci eravamo riconosciuti al volo.

Adesso ero solo, ma avevo conosciuto Michael, un vero maestro. Ebreo di Jaffa, piccolo, sempre in movimento, pareva non potesse mai star fermo, biondo con gli occhi grigi, riscuoteva un visibile successo tra le indigene e le turiste, e oltretutto pareva conoscere tutti dai saluti che somministrava a destra e manca in continuazione. Mi aveva subito preso a benvolere e raccontato, in un linguaggio gesticolato tutto suo che mischiava inglese, francese e spagnolo con parole italiane e yiddish, di essersi rifugiato a Londra perché ricercato due volte: una per aver rapinato una farmacia per procurarsi anfetamine e l’altra per essere fuggito per non essere richiamato militare, per non voler combattere. Girare per Londra con lui era una meraviglia. Mi insegnava tutti i trucchi per non pagare il bus o pagare poco la metro, dove trovare vestiti gratuiti all’Esercito della Salvezza, dove biblioteche con ogni ben di dio compreso il caffè, dove fabbriche di birra con visite e degustazioni, supermercati aperti anche di notte dove imboscare facilmente del cibo, e nel mentre faceva questo mi raccontava instancabile i suoi viaggi in Oriente, traffici piccoli e grandi di droga, icone e opere d’arte, arresti e fughe dalle finestre all’irruzione della polizia. Da due anni abitava con altri squatter in una casa occupata nell’East End vicino al mio ostello gestito da un nazionalista scozzese instancabile ascoltatore dei Led Zeppelin e riscossore a tutte le ore del giorno e della notte della quota giornaliera. Convincermi a lasciare quei letti a castello a due sterline al giorno fu facile, avere una mezza camera per me bello, anche se la cucina spesso non era agibile perché, per motivi a tutti noi oscuri, ci si chiudevano Full e Janis, vestiti di pelle nera da capo a piedi, a scopare urlando e a farsi di coca per ore. Meno facile fu convincermi a investire parte dei miei risparmi per fare con gli altri un acquisto collettivo di mezzo chilo d’erba con cui sostenere la casa, secondo il principio “mezza da fumare e mezza da vendere agli amici”. Alla fine dopo una trattativa araba riuscii a versare un quinto di quanto mi aveva chiesto Michael e per festeggiare decidemmo di arrivare in un pub vicino per un concerto live. “Sono degli sconosciuti” mi disse, “ma faranno strada”. Dopo il concerto mi misi a ridere, “Michael, erano davvero forti, mai visto niente di simile ma questi non sanno suonare, di strada ne fanno poca mi sa”. Lui replicò con un gesto infastidito, come quando si caccia via una mosca.

Quella notte mi sentii entrare Janis nel letto, pensai avesse sbagliato camera, al mattino non c’era più, mi rimase il dubbio di un sogno erotico particolarmente vivido e violento. La situazione con lo scorrere dei giorni stava prendendo una piega interessante, non mi vergognavo più di espropriare i supermarket, dichiarare di aver perso il biglietto su bus e metro e nel caso della richiesta di generalità dare nomi italiani di personaggi pubblici che detestavo. Certe notti Janis mi raggiungeva in camera quando Full si metteva a russare come un treno, senza dire mezza parola, con mezza bottiglia di scotch che mi passava in bocca attraverso i baci o con un po’ di coca. Il giorno mi ignorava quasi del tutto.
Stavo precipitando verso il nirvana meglio che ai tempi della motocicletta. Ma un malcelato senso del dovere continuava ad allignare in qualche mio recesso, per cui una mattina telefonai a carico del destinatario a mia madre in negozio. Non rispose, ringhiò:
“Disgraziato, dove sei? Nico è tornato e te no, ma sei rincitrullito del tutto? Accidenti a te e a chi t’ha fatto! Figlio d’una troia! Uh, l’ho detto, porcoddissi!”
“Ma’ ascoltami, ma’ diolupo chetati, sono a Londra, sto bene, sono in una casa con amici, faccio foto, giro, vedo gente, imparo la lingua e se trovo lavoro ci resto che il militare non lo voglio fare! Non preoccuparti ma’, voi tutto ok?”
Ruggì: “Sei sempre il solito legno torto e i legni torti non si addrizzano! Ecco ci mancava Londra ci mancava! Sì, si sta bene senza te! Comunque ieri è arrivata una raccomandata dal distretto militare di Grosseto, ti hanno scartato per sovrannumero, mai una gioia, ti avrebbe fatto bene un po’ di disciplina, eh, ti avrebbero addrizzato la schiena loro!”
“Come hai detto? Ma’, sei sicura?”
“Sì, sì, il congedo, ti è arrivato il congedo, ora scommetto torni, che roba che mangia torna a casa, e ora fai un po’ come ti pare, io qui in bottega ho gente, devo lavorare!”
Buttò giù il telefono che vedevo le fiamme della sua rabbia a quasi duemila chilometri di distanza. Al ritorno dalla cabina telefonica alla casa non camminavo, galleggiavo a mezza altezza, ero beato, mi si schiudevano un sacco di possibilità, potevo tornare, ma anche rimanere, che cominciavo a masticare bene l’inglese e trovare quello che Michael definiva di volta in volta il ritmo vitale, l’onda perfetta da cavalcare, il momento decisivo, la sliding door. Magari mettere su una storia “lavorativa” alternativa con lui, qualcosa che mi facesse svoltare, magari una storia con Janis, chissà.

Anche Michael aveva telefonato a casa. Pareva un albero schiantato da un fulmine, continuava a scuotere la testa e lamentarsi con una cantilena profonda, viscerale. Janis lo abbracciava e ogni tanto baciava sul petto e sul collo, gli accarezzava i capelli. Aveva appena saputo che sua madre era morta e suo padre lo incolpava per questo. Una settimana più tardi decisi di partire, Michael era troppo dolente e incerto se tornare o andarsene comunque da Londra, l’inverno stava arrivando, i soldi se ne andavano per l’erba e altre droghe che avevamo ripreso a consumare in quantità. Gli lasciai le ultime sterline, ci scambiammo gli indirizzi, ma non seppi più niente di lui. Tornai a casa con la mia Rolleicord biottica rimediata a un mercatino e tre pellicole di scatti londinesi, palazzi occupati, vie grigie, arabi con piccioni a Piccadilly Circus, due foto sfuocate, mosse e buie di quel concerto, di un gruppo di pazzi che si chiamavano Sex Pistols. Dentro la Rolleicord un tocco di fumo e alcuni trip su carta assorbente. Trovai il foglio di congedo illimitato firmato, ironia del nome, dal maresciallo Spezzacatene. Lo incorniciai e poi feci una settimana di festeggiamenti con gli amici, dando fondo alle droghe che avevo portato. Mia madre non cambiò mai idea sul servizio militare: quando si ricordava quei mesi scuoteva la testa guardandomi.

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Educazione maremmana #2. Ebbri di vita davanti alla morte https://www.carmillaonline.com/2020/10/18/educazione-maremmana-2-ebbri-di-vita-davanti-alla-morte/ Sat, 17 Oct 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63016 di Stefano Erasmo Pacini

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Una notte d’agosto organizzai un ritrovo con un passaparola al mio podere, arrivarono tutti e ci mettemmo a bere e fumare fuori, al buio, sotto un tappeto di stelle immenso, eravamo in uno stato di grazia, le nostre parole ci avvolgevano e legavano l’uno all’altro; parlavamo di cambiare per sempre la nostra vita, di metter su una comune, di dividere entrate e spese, viaggi e fatiche, sogni e amori. A un certo punto Eros si lasciò scappare un grido e [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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Una notte d’agosto organizzai un ritrovo con un passaparola al mio podere, arrivarono tutti e ci mettemmo a bere e fumare fuori, al buio, sotto un tappeto di stelle immenso, eravamo in uno stato di grazia, le nostre parole ci avvolgevano e legavano l’uno all’altro; parlavamo di cambiare per sempre la nostra vita, di metter su una comune, di dividere entrate e spese, viaggi e fatiche, sogni e amori. A un certo punto Eros si lasciò scappare un grido e tutti noi ammutolimmo. Una stella cadente immensa aveva solcato la volta celeste e la sua scia si era spenta solo dopo un tempo che ci parve infinito. Mentre fioccavano i commenti, ed Eros parlava del buon auspicio rappresentato da quella stella eccezionale, a me corse un brivido lungo la schiena: pensai che eravamo noi quella scia luminosa bellissima, destinati a durar ancora poco. Eros aveva dieci anni più di noi, ci faceva da fratello maggiore, da teorico dell’amore grande, da sognatore che si era licenziato dalla fabbrica per seguire il suo nuovo amore in una compagnia teatrale. In più lavorava duramente da manovale, sempre immaginando di veder svolazzare via l’uccellaccio del lavoro, come ci diceva. Ma solo diversi anni dopo un infarto lo liberò per sempre.

Progettavamo di partire d’estate con l’autostop per l’India, come già avevano fatto alcuni nostri amici più grandi di cui si rincorrevano notizie confuse e racconti fantastici. Magari si finiva in Europa con l’Interrail, l’importante era comunque viaggiare e poi andare, capire cosa c’era fuori nel mondo, vedere, lasciarsi coinvolgere. Mi ero già innamorato di quel verso di Paul Valery: “si alza il vento, bisogna tentare di vivere.” La nostra rivoluzione voleva viaggiare e scoprire. Frank barba lunga era arrivato in autostop fino ad Amsterdam e ci aveva raccontato di una città libera, del Vondelpark, dove si poteva fumare liberamente e dove dei ragazzi si lanciavano giocando uno strano disco di plastica. Aveva riportato con sé dei fogli di carta assorbente maculati. Abbiamo passato un autunno intero con quei trip, visto i più bei colori della nostra vita, le facce distorte dei mezzibusti televisivi con il loro parlare da serpenti, ascoltato le musiche della West Coast, prima che si cominciasse a parlare di indiani metropolitani, Apache, forse immaginandone già la stessa fine. Un mondo colorato, ma con le certezze in bianco e nero: di qua noi, di là tutti gli altri.

Aveva sparso la voce Mau, troviamoci in Poggio, sotto gli alberini vicini al monumento dei martiri di Niccioleta. Lui aveva portato la chitarra, Frank il sax, io il flauto, Claudio i bongos, Cesare l’armonica e piano piano mentre il Sole accennava a tramontare dietro l’isola d’Elba si erano aggiunte Francesca e Anna, Alì, Nico, Alessio, Eros, Francesca e alla fine era arrivata Stella, la regina degli hippies di montagna, e un bel gruppo di follonichesi, Elena, Ganf, Angelina, Bob, Giuliano, Franchino. La musica era salita sempre più alta e intensa mentre il Sole scendeva, con le prime tenebre illuminate dai nostri sorrisi e poi rischiarate dagli accendini che riscaldavano dello zero zero marocchino portato da Alessio vai a sapere come. Il buio alla fine ci aveva avvolto, ma nessuno aveva voglia di andarsene. Era un momento magico, irripetibile, una sospensione dalla realtà che incombeva là fuori, a trenta metri dal parco. Alcuni si erano cominciati a baciare, tutti stavano vicini, come se avessero paura di perdersi, come se sapessero che di lì a poco si sarebbero persi, che alcuni non sarebbero riusciti a raccontarla, che altri non l’avrebbero comunque raccontata, che l’eroina era dietro l’angolo, li avrebbe falciati tanti, troppi.

Un tardo pomeriggio d’inverno ci sorprese un improvviso black-out mentre passeggiavamo in centro con Nico Manolesta e Cesare. Non ci fu bisogno neppure di una parola. Ci ritrovammo in pochi secondi dentro la Standa, intenti a portar via bracciate di roba; la luce ritornò giusto in tempo che ce la svignavamo nel vicolo, ridendo come matti. Nel caos io avevo beccato uno scaffale di libri, senza accorgermi che erano romanzetti rosa di Liala, Cesare delle gonne scozzesi prendendole per giubbetti. Nico invece, manco fosse un nittalope, era uscito con whisky, Martini e salmone, “la classe non è acqua”, ci disse con un sorrisino soddisfatto. Cesare per non dargliela vinta la sera successiva si presentò con la gonna e un berretto di suo nonno che sembrava uno scozzese verace. Nico gli dette a quel punto una bottiglia di whisky, il salmone invece ce lo mangiammo mentre ci facevamo una canna leggendo passi di un libro di Liala, piegati in due dal ridere.

Cesare aveva preso il treno e aveva fatto un giro al mercatino americano di Livorno, poi aveva raggiunto Pisa per una manifestazione antifascista. Voleva fare qualche foto con la Yashica usata che avevamo comprato insieme pochi giorni prima; forse ricordava le mie raccomandazioni su come fare delle belle foto da esporre in sede, anche se capivo che con l’obbiettivo da cinquanta millimetri fisso non fosse facile.
Cesare ci provò, anche quando scoppiarono degli scontri per una carica improvvisa dei celerini che vollero disperdere il corteo. Rimase calmo a fotografare mentre quasi tutti scappavano. Poi prese un candelotto lacrimogeno in pieno petto. Aveva fatto delle belle foto. Le esponemmo al suo funerale insieme al suo ritratto. Sulla sua bara che portammo a spalla la bandiera rossa col pugno nero. Poi un dolore sordo, costante, un sottofondo a cui avrei fatto l’abitudine col tempo, ma che non sarebbe mai scomparso. Quel giorno lo giurai a me stesso, non finisce qui.

Si cresce in fretta tra sogni e risvegli brutali. Certe ferite sanguinano, ma non si smette di correre, non è ancora tempo di cicatrici e consuntivi. Oltre tutto se ci muoviamo rapidi non veniamo neppure nelle foto. Potevamo stare ore senza dirci niente, magari ascoltando gli ultimi dischi rimediati al mercato. Oppure incartarci in discussioni su cosa fare dopo il diploma, che città e università scegliere, che paese visitare d’estate con l’autostop.
Altre volte prendevamo in moto giù per la montagna sognando di andare verso il nirvana; poi non è che avessimo capito bene cosa fosse questo nirvana, ma la parola ci piaceva, e quando era piovuto con le gomme tassellate era facile cadere e scivolare anche per venti metri, ma evidentemente esisteva uno spirito guida per i folli.
Non conoscevamo la prudenza: un pomeriggio che nevicò di brutto salimmo in due sul motocross mettendoci a sbandare e ridere, finché Cesare in discesa mise la terza e dette gas urlando: “si volaaa!” E si volò veramente dentro una cunetta piena di neve, come nelle comiche di Stanlio e Ollio, che se avessimo provato altre cento volte saremmo finiti a pezzi. Macché, niente, infarinati come da una valanga, ebbri di paura, sollievo, stupore, felicità. Ubriachi di vita, tanto che la morte quel giorno si girò dall’altra parte.

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Educazione maremmana #1. Cadono i recinti delle spiagge private https://www.carmillaonline.com/2020/10/11/educazione-maremmana-1-cadono-i-recinti-delle-spiagge-private/ Sat, 10 Oct 2020 22:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62999 di Stefano Erasmo Pacini

[Iniziamo oggi la pubblicazione a puntate di Educazione maremmana che proseguirà a cadenza settimanale per altre cinque domeniche. Si tratta di un racconto di memorie ribelli che abbracciano un decennio a partire dai primi anni ’70. Si parte dalla Maremma, si va a Londra, poi in Portogallo durante la Rivoluzione dei Garofani, si torna in Italia per dar assalto ai palchi delle burocrazie sindacali nel ’77 e si finisce in Palestina sotto i bombardamenti israeliani. Stefano Erasmo Pacini è nato a Massa Marittima nel 1956, ha fotografato [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

[Iniziamo oggi la pubblicazione a puntate di Educazione maremmana che proseguirà a cadenza settimanale per altre cinque domeniche. Si tratta di un racconto di memorie ribelli che abbracciano un decennio a partire dai primi anni ’70. Si parte dalla Maremma, si va a Londra, poi in Portogallo durante la Rivoluzione dei Garofani, si torna in Italia per dar assalto ai palchi delle burocrazie sindacali nel ’77 e si finisce in Palestina sotto i bombardamenti israeliani. Stefano Erasmo Pacini è nato a Massa Marittima nel 1956, ha fotografato la rivoluzione portoghese, la stagione dei movimenti degli anni ‘70, Genova nel 2001, i campi rom, la guerra in ex Jugoslavia. Nel 2016 ha pubblicato il libro fotografico Noi sogniamo il mondo (Effigi Edizioni) dal quale sono tratte le foto di questa puntata e delle prossime. I suoi scatti sono stati esposti a Cuba, in Bosnia e in Portogallo. Oggi insegna fotografia nei corsi della Corte dei Miracoli, un centro culturale di Siena ospitato in un ex ospedale psichiatrico; lavora nei campi come bracciante, e scrive.]

Questo racconto è parto della mia fantasia e si è ibridato con personaggi realmente esistiti che ho a mia volta elaborato e alterato. Tutti i riferimenti a persone, fatti e luoghi reali sono dunque da considerarsi puramente casuali.

Mi iscrissi all’Istituto tecnico minerario, raggiungere Follonica o Grosseto era fuori discussione partendo da Niccioleta. Era sicuramente il più frequentato della zona con ragazzi che arrivavano anche da fuori provincia. E sin dal 1° ottobre cominciai subito a respirare un clima diverso, a incontrare miei simili, a stringere amicizie molto forti. In pochi mesi crebbi di molti centimetri, ma più che altro cambiai pelle rompendo un guscio che non poteva più contenermi. Quasi tutti i giorni venivano dati volantini o affissi manifesti, il vecchio preside era sempre più spiazzato, decenni di ordine gestito con Don Bini, prete, insegnante, coordinatore scolastico, potenza politica in paese, stavano per essere spazzati via.
I goliardi erano sempre stati incoraggiati dal preside, con la scusa di chiederti un contributo per il loro veglione studentesco miravano a stabilire una gerarchia molto forte basata anche su scherzi e prepotenze pesanti, specie a danno dei nuovi arrivati; con il dirsi apolitici spalleggiavano in realtà la Dc o il Msi e vedevano come fumo negli occhi ogni novità che rompesse le mura che avevano innalzato intorno alla scuola. Era una mattina di metà ottobre, c’era nell’aria una discreta tensione; un gruppo di ragazzi che avevo annusato già da qualche giorno avevano dato un volantino intitolato “NO alla matricola, basta con tradizioni goliardiche e fasciste!” Altri, sicuramente della quinta classe si erano fermati cupi di fronte al cancello d’entrata, cercavano le matricole, i ragazzini di prima come me. Stavo entrando e finendo di leggere il volantino, quando mi venne strappato di mano e un braccio mi bloccò all’altezza della spalla. Mi sibilò bruscamente addosso, tanto che sentii il fiato da fumatore: “Te sei di prima! Ci devi pagare la matricola entro sabato, capito? Sono duemila lire!” Non lo so perché lo feci, non so se vennero al pettine tutte le rabbie accumulate per anni, so che mi ripresi con la sinistra il foglietto, mentre con la destra detti uno spintone fortissimo al tipo che mi aveva parlato, mandandolo contro un motorino il che lo fece franare con fragore davanti all’entrata. Immediatamente mi sentii arrivare uno schiaffo sull’orecchio destro, ma ormai ero partito, non me ne fregava nulla se ero solo contro dieci, avevo una rabbia tremenda e null’altro.
Con due cazzotti secchi il tipo dello schiaffo precipitò addosso all’altro, si alzarono urla, sbandarono gli studenti che stavano entrando, vidi arrivarmi addosso altri tre ma a un metro fermarsi; dietro di me erano arrivati quattro o cinque studenti dei volantini e, soprattutto, al mio fianco si era materializzato Gigione, già leggendario cazzottatore delle medie, che stava andando in cantiere a lavorare. Oltre tutto aveva in mano la catena per bloccare il motorino e, pur non avendo capito il motivo, mi aveva riconosciuto. A modo suo aveva pensato, visto che i tipi che chiedevano la matricola erano di Follonica e Gavorrano, che fosse uno scontro Massa-resto del mondo. “Bravo Paco”, mi disse appena quelli si allontanarono, “ora sì che ti sei svegliato, gli hai fatto vedere che ai massetani non si mangia in capo!” E mi dette una pacca sulle spalle che manca poco finisco per terra. Il giorno dopo non si parlava d’altro, prima d’entrare feci amicizia con Alì, Frank, Mau, Claudio, Nico, Anna, Francesca che mi proposero subito di unirmi a loro per mettere su un collettivo operai studenti sullo stile di quelli nati a Pisa e Torino e rappresentati dal settimanale “Lotta Continua”. Improvvisamente le giornate iniziarono a farsi sempre più brevi e dense e il tempo a non bastarci più.

Sbandierando a ogni occasione il regio decreto del 1929 che ci minacciava di espulsione da “tutte le scuole del regno” per qualsiasi manchevolezza, il preside Zaccardo tentò una controffensiva. Ma i nostri tempi incalzavano. Avevamo creato col nostro esempio l’effetto valanga: adesso ci venivano a cercare, non dovevamo più noi cercare adesioni. Quelli del Pci cominciarono a guardarci male anche loro, gli rubavamo il mestiere e la piazza. Una mattina alla fine della ricreazione volò una notizia, il preside stava per sospendere un ragazzino che aveva affisso un manifesto per la libertà di Valpreda e contro Calabresi assassino di Pinelli sulla porta dei bagni. Fu la scintilla che aspettavamo; irrompemmo nelle classi urlando “Fuori tutti, sciopero, no alla repressione, Zaccardo vattene!” Man mano che scendevamo verso il cortile una fiumana ci seguiva. Non erano rimasti seduti. Fuori sentimmo un rumore di vetri infranti; qualcuno con un tiro magistrale aveva centrato la finestra del preside. La paura di tanti anni era andata in frantumi insieme a quei vetri. Zaccardo se ne andò in pensione a fine anno, la scuola era ormai in mano nostra. Oggi la scuola, pensammo, domani la società. Niente pareva potesse fermarci. Dei ragazzi che avevano la nostra età, tre operai, un imbianchino, si erano uniti a noi, e già ci pareva di poter guidare la classe operaia. La sera ci ritrovavamo in due stanzette affittate a ottomila lire al mese nei vicoli a ciclostilare volantini quasi quotidiani: “Il potere che la società capitalista esercita su di noi ha dei connotati ben precisi. Non esiste più una ristretta cerchia di uomini con potere e una grande massa di sfruttati senza potere. La cosa è molto più articolata; c’è una parcellizzazione del potere che è diventato privilegio di molti. Il potere di consumare ad esempio, la possibilità offerta nello spettacolo della cultura dei padroni, di uno sfogo delle proprie frustrazioni e un incanalamento della propria rabbia. È la negazione della nostra soggettività. È la negazione della vita. Imprigionando gli uomini in questo scenario il potere diffonde sempre più lo squilibrio ed il malessere. Ci trattano come le banane Chiquita, solo uno su dieci avrà il bollino! Ognuno è nella propria vita al centro del conflitto. IL VIVO SI RIBELLA! Come cento anni fa a Parigi, riprendiamoci la vita, spezziamo le catene, fuciliamo gli orologi! Sempre viva la Comune di Parigi! Collettivo operai studenti – Lotta Continua”

La cosa che mi ricordo con maggiore piacere del Movimento è il senso di intimità e tenerezza collettiva, una tribù solidale con un futuro da conquistare. Il non sentirsi mai soli, parte di un fiume in piena. Come nello sguardo di un bambino che cresce, tutta la luce del mondo, tutta la speranza, tutti i sogni e le ansie, gli amori e le delusioni. La prima canna in compagnia del capellone Claudio Tuttopenne dopo aver salato la scuola, in una mattina piena di sole sul poggio da dove si domina il mare. Con me un libro di Kerouac e uno di Ginsberg, un mangianastri con i Rolling e tanta paura di non poter controllare le mie emozioni. Allen scriveva: “Togliete le serrature dalle porte, togliete anche le porte dai cardini!” Correvo felice col motorino giù per la montagna, cantando con il vento in faccia, mi accorgevo dei primi sguardi di Anna, a cui portavo volantini e prestavo l’autobiografia di Malcolm X davanti alla scuola. Ore e ore a camminare per le strade, con ogni tempo, a spalancare i nostri cuori agli amici, a confidarsi e a sentire la loro vicinanza, fratelli, di curiosità e di slanci. Nottate lunghissime a immaginarsi la vita, l’amore, a incazzarsi per le prime testate contro i muri, i primi no di ragazze diverse da noi. E d’estate tutti a Prato Ranieri a Follonica, dove Frank barba lunga aveva messo su una tenda sotto i pini della spiaggia, un campeggio libero e freak che proclamava “lo stato di felicità permanente” con una bandiera rossa e nera. I ragazzi stranieri si fermavano e rimanevano a dormire col sacco a pelo sulla spiaggia, i carabinieri arrivavano sbuffando in bicicletta domandando chi fosse il capo e ricevevano in risposta risate, mentre Frank diceva: “non ci sono, non vogliamo più capi”. La notte buttavamo giù i recinti delle spiagge private, lasciando volantini con scritto: “il mare è di tutti!” Falò a rischiarare la notte, bagni illuminati dalla Luna, i primi baci salati che partivano sempre dalle ragazze.

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Laser game – Ultima puntata https://www.carmillaonline.com/2019/05/26/laser-game-ultima-puntata/ Sat, 25 May 2019 22:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52706 di Nico Maccentelli

(Capitoli 23 e 24)

23.

Le immagini scorrono veloci come in un film muto di Al Roach. Immaginiamocele in bianco e nero, come una pellicola invecchiata. Possiamo sentire anche il rumore sfrigolante del rullo e quello vibrante dell’otturatore, se ci piace.

Silvia scende le scale del liceo con passo ballonzolante, mentre Stefano, appena giuntole di fianco, si gira con uno scatto veloce, è quasi in posa per noi, scuote la testa verso l’ipotetica cinepresa, sorridendo di un sorriso ebete. Silvia ammicca veloce con un’amica all’indirizzo di Glauco, ragazzone filiforme [...]]]> di Nico Maccentelli

(Capitoli 23 e 24)

23.

Le immagini scorrono veloci come in un film muto di Al Roach. Immaginiamocele in bianco e nero, come una pellicola invecchiata. Possiamo sentire anche il rumore sfrigolante del rullo e quello vibrante dell’otturatore, se ci piace.

Silvia scende le scale del liceo con passo ballonzolante, mentre Stefano, appena giuntole di fianco, si gira con uno scatto veloce, è quasi in posa per noi, scuote la testa verso l’ipotetica cinepresa, sorridendo di un sorriso ebete. Silvia ammicca veloce con un’amica all’indirizzo di Glauco, ragazzone filiforme in camicia scozzese, e il viso verso di lui non è tanto veloce a discostarsi. Ma parliamo di pochi secondi, la pellicola va oltre.

Sergio, Sandrone e altri due con capelli lunghi a codino li vediamo invece a un posto di blocco. La vecchia Mini Minor di Sergio viene messa sotto sopra da un carabiniere diffidente. Sembra il poliziotto di Chaplin. I ragazzi gongolano nervosi da una gamba all’altra. Ma tranquilli ragazzi. Stavolta i piedipiatti non vi troveranno il fumo.

La nostra lunga soggettiva va oltre. Ci vorrebbe una vecchia voce enfatica americana, da cinereportage degli anni ‘40, qualcosa alla Frank Capra. Perché ora vediamo l’ingresso del Laser game. Ma preferiamo un cartello in stile liberty. Che potrebbe avere scritto: “Dopo tante disavventure, finalmente riapre il Laser game, la sala giochi del mistero.”

Tanti giovani arrivano barcollando di qua e di là. È la velocità della nostra pellicola immaginaria a dare questa andatura ai passi da duri dei nostri giocatori. Le ragazze hanno una camminata più leggera: sembrano uccellini che si spostano lungo un ramo con graziosi saltelli.

I ragazzi entrano sotto lo sguardo felice del nuovo gestore. Non è obeso e ha i baffi arricciati all’insù, ma un po’ al panzone perfido di Charlot ci assomiglia. Ha le braccia conserte, pronte ad aprirsi per incassare il primo denaro da questi giovani alla ricerca di una breve guerra immaginaria.

Il nuovo mangiafuoco ha rilevato tutto, e a tempo di record, dai parenti dei due napoletani. Ovviamente nei locali del piano superiore altri nuovi gestori stanno progettando un magnifico fast-food, dal nome un po’ inopportuno: “L’antro del serial killer”. Tutto è lecito nel nome del libero commercio.

Ora vediamo i ragazzi entrare a grappoli, mostrare la tessera, pagare al nuovo gestore, ricevere il biglietto d’ingresso e dirigersi verso la porta del Laser game. Una ragazza dal viso largo, quasi fosse una donna cannone, li prende in consegna e li mette in fila. E i ragazzi, come una composta scolaresca (strana a vedersi, dati i soggetti…), attendono il turno della vestizione. A infilarsi il pettorale e ad afferrare il fucile laser, sembrano tanti soldati in un vecchio documentario degli anni ‘40, o in uno dei tanti servizi giornalistici sulla guerra in Afghanistan. La propaganda , come le guerre, si somiglia tutta.

Ma ora che stiamo vedendo il campo di battaglia, la pellicola manda gli ultimi sfrigolii sul rullo, mostrando la sua coda piena di righe. Siamo di nuovo nel Laser game.

I ragazzi armano a turno il fucile nelle zone di caricamento. Poi si avviano ai posti di combattimento. Tutto è pronto. Verdi contro rossi. Partono i primi raggi. I primi colpiti si fermano, proteggendosi le parti vulnerabili dietro un pannello. Le urla, le invocazioni, gli ordini impartiti dai più decisi, rimbombano da un corridoio all’altro.

Ma una vibrazione strana percorre l’aria. È questione di un secondo, nemmeno. Come lame rosse e verdi, i raggi che partono dai fucili dei giocatori squarciano i pannelli di plexiglas, trapassano corpi, tagliano arti, fanno volare teste. E le grida si trasformano in suoni inarticolati, urla di terrore. Qualcuno urla di sospendere il gioco. Ma molti ancora non sanno ciò che accade. Un paio di ragazzi, acquattati dietro un pannello, non sparano da almeno una trentina di secondi, sentono le grida. Commentano tra loro su come sia più entusiasmante di prima questo gioco, e attendono in agguato il nemico. Poi escono appena vedono un avversario e gli fanno un buco nel collo, trasformando il suo sguardo terrorizzato in un’unica orbita spettrale, che dentro pulsa di materia cerebrale.

Come mannaie di luce i raggi non conoscono ostacoli. Continuano a sparare morte anche adesso, che nessuno spara più. Anche adesso che il sangue nel pavimento riverbera di un verde e rosso sinistri. I fucili per terra si contorcono da soli, finché non trovano una posizione adeguata e continuano a sputare il loro getto laser sempre nella stessa direzione, come Meduse inerti ma ancora mortali, prima che Perseo tolga loro lo sguardo definitivamente, nascondendolo al terrore degli uomini. Eccone uno, verde, che si accanisce su un corpo a dieci metri da lui. Lo continua a scavare, finché non lo trapassa del tutto. E la luce può andare oltre, libera, e passare il plexiglas, e andare oltre ancora.

Le urla dei superstiti, si perdono verso l’uscita. Escono con i visi ridotti a maschere di follia, qualcuno con un braccio semistaccato, qualcun altro piegato in due da un morso di luce. Maschere comunque di sangue, misto a orrore.

Mangiafuoco li guarda impietrito. Smette di respirare anche se il cuore batte all’impazzata. È l’infarto che si annuncia.

 

24.

— “Ma non finisce qui…” … e l’aveva anche detto! — Yuri buttò su una sedia il pacco di giornali che aveva tra le mani. Tutti con titoloni in prima pagina riguardanti la disgrazia del Laser game: otto morti, cinque feriti e solo tre ragazzi illesi, ma sotto gli effetti di un violentissimo choc.

Improta sembrava non riuscire ad alzare il capo dalla sua scrivania. Era come impietrito, con lo sguardo assente, rivolto verso la tazza del caffè, ormai freddo. — La grande mattanza… ce l’ha fatta quel figlio di puttana. Ce l’ha fatta.

L’ispettore cercò di tirare su di morale il commissario e proseguì: — Che colpa ne abbiamo noi? Un sabotaggio così sofisticato non s’era mai visto. Un microtimer che dopo cinque minuti di gioco attiva un variatore di frequenze, che a sua volta attiva un modulatore di intensità dei raggi laser: una bomba a tempo. Mutolo aveva installato il modulatore sin dall’inizio. Solitamente per i giochi come il Laser game sono in commercio modulatori a bassissima intensità, che sparano innocui raggi di luce colorata. Il dispositivo che abbiamo trovato nell’impianto aveva il marchio della NASA.

— Chissà com’è riuscito a procurarselo — mormorò Improta.

— Commissario, proprio lei mi fa questa domanda, con tutti i traffici illeciti delle mafie: da quella russa a quella albanese. Ormai il plutonio e le armi sofisticate come appunto i raggi laser vengono trattati anche in mercatini come quelli di Piedigrotta o del Rione Sanità a Napoli, o a Bari, di fianco alle marloboro di contrabbando!

Improta per tutta risposta aprì il cassetto della sua scrivania e tirò fuori la pistola. Yuri sgranò gli occhi e disse con una risata stentata: — Commissario, vabbè che è stato uno smacco, ma non tanto grande da giustificare il suicidio!

— Ma le dimissioni sì — rispose Improta appoggiando la pistola sul tavolo e tirando fuori dal cassetto anche il distintivo e una lettera con quattro righe battute a macchina e una firma fatta con una bic blu.

L’ispettore per un attimo provò una gran pena per quell’uomo battuto, che era arrivato sempre dopo in tutto, come un segugio privo d’olfatto che va ad inciampare sulla carogna di una preda già sbranata da altri cani. Un uomo che per settimane aveva sopportato i “Cattabriga di qua e i Cattabriga di là” dei giornali, che già poteva immaginarsi chi avrebbe preso il suo posto.

Avrebbe voluto fargli un discorsino retorico alla John Wayne, dicendogli che non può abbandonare la lotta contro il crimine proprio adesso, che è una lotta che per i tutori dell’ordine è fatta di vittorie e di sconfitte… tutte stronzate da film.

Avrebbe voluto indicargli Bologna, là fuori, oltre la finestra e dirgli che in quel preciso momento c’era qualcuno che stava tramando per mettere in discussione la sicurezza dei cittadini, per compiere reati e altre cazzate che piacevano tanto al commissario.

Ma a guardare la città, ancora più ingrigita da una settimana di pioggia, gli veniva in mente soltanto che da qualche parte c’era Silvia, che fumava, scopava, ballava, che provava vestitini attillati al mercato o nei negozi del centro, che ogni tanto studiava. Quasi mai.

Non seppe cosa dire, cosa fare, se non appoggiare una mano sulla spalla di Improta, una spalla da vecchio commissario, da ciuccio tirato su a grida di imbecille nella scuola di polizia, da abitante immancabile delle foto di gruppo del sindacato di polizia a Folgaria, papàdifamiglia di quelli che c’hanno nel portafoglio la foto della moglie e dei figli a Panarea, insieme al calendarietto in plastica con i centimetri e i giorni di ferie segnati a penna sin da gennaio, da funzionario orgoglioso dei suoi fugaci momenti di gloria, come la foto incorniciata dov’è ritratto accanto a un sottosegretario agli interni, chissà quale, in visita alla questura di Rovigo tanti anni fa.

I pensieri di Yuri furono interrotti dal un trillo improvviso del telefono. Improta guardò quella scatola di plastica come si osserva una strada all’inizio d’un bivio, come se l’atto di afferrare oppure no quell’oggetto presupponesse comunque una scelta irrevocabile. Al quinto squillo guardò Cattabriga. L’ispettore sorrise e alzò leggermente il capo, in segno d’invito a rispondere. Il vecchio poliziotto al settimo squillo fissò per un istante il distintivo, poi di nuovo il telefono. E la sua mano corse con uno scatto veloce alla cornetta.

— Commissario Improta … quando è avvenuto… sì… lasciate tutto così com’è…

Le sue parole si fanno più indistinte. Vediamo Improta e Cattabriga dall’alto della stanza. Il commissario guarda l’ispettore, gli dice qualcosa, poi continua a parlare al telefono. Ci allontaniamo. Ora li vediamo da fuori, attraverso la finestra. Il commissario ripone il telefono con gesto rapido, si alza, dice qualcosa all’ispettore, poi tutti e due escono quasi di corsa dalla porzione di stanza che ancora riusciamo a vedere. Passa qualche istante e una sirena squilla per le vie del centro. Ora siamo più lontani. Vediamo il palazzo della questura in mezzo a tanti altri edifici. I colori si stemperano. L’immagine appare rovinata dai segni di fine pellicola. E la città va sbiadendo sotto un cielo grigio. Buio. Accendete la luce.

 

 

(Fine)

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Laser game – Dodicesima puntata https://www.carmillaonline.com/2019/05/19/laser-game-dodicesima-puntata/ Sat, 18 May 2019 22:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52592 di Nico Maccentelli

(Capitoli 21 e 22)

21.

La prima cosa che vide, appena velata da una strana coltre luminosa, fu la silhouette di una donna, di spalle, china verso un ripiano che doveva essere un tavolo. No, un carrello. La donna aveva una cuffia da infermiera. Era un’infermiera.

Come una panoramica velocissima, a schiaffo, la sua mente tornò agli ultimi secondi di coscienza, quando aveva Silvia tra le braccia. Chiamò debolmente l’infermiera, che si girò.

— Ah, finalmente s’è svegliato!

— Dov’è Silvia?

— Di chi parla, della ragazza [...]]]> di Nico Maccentelli

(Capitoli 21 e 22)

21.

La prima cosa che vide, appena velata da una strana coltre luminosa, fu la silhouette di una donna, di spalle, china verso un ripiano che doveva essere un tavolo. No, un carrello. La donna aveva una cuffia da infermiera. Era un’infermiera.

Come una panoramica velocissima, a schiaffo, la sua mente tornò agli ultimi secondi di coscienza, quando aveva Silvia tra le braccia. Chiamò debolmente l’infermiera, che si girò.

— Ah, finalmente s’è svegliato!

— Dov’è Silvia?

— Di chi parla, della ragazza che lei ha salvato?

Yuri pensò alla parola “salvato”. Non era mai stata così bella. Annuì debolmente.

— È in chirurgia femminile, in questo stesso piano. L’hanno operata ieri d’urgenza, come lei. Ora sta bene.

L’infermiera si accostò al suo letto e gli rimboccò le lenzuola concludendo: — Adesso però non parli più. Deve solo riposarsi.

Yuri chiuse gli occhi e sospirò. Sentiva un leggero dolore lungo la gamba. Doveva essere sotto sedativo, perché era una sensazione tenue.

Gli occhi si spensero come una dissolvenza cinematografica a nero.

Quando si riaprirono, dopo un lasso di tempo che l’ispettore non era in grado di quantificare, videro il faccione stranamente gioviale di Improta. — Le è andata bene Cattabriga! La lama ha sfiorato il fegato e l’intestino. Un pelo più di lato e ciao!

L’ispettore ripetè in un sussurro: — Ciao…

— Sì, ciao!

— E la ragazza?

Improta ebbe un lampo ironico negli occhi, che subito represse. — La sua Silvia l’avremmo salvata lo stesso. La ferita era brutta, ma non ha leso organi vitali. Più che altro il sangue che aveva perso c’ha fatto per un attimo temere…

Il commissario sbirciò Cattabriga e aggiunse con una punta di sarcasmo: — A proposito la manda a salutare. Sa, la dimettono domani.

Yuri chiuse le palpebre e disse tra sé: “bene!”. Ma quanto tempo era passato? Poi, per la prima volta da che era lucido, pensò a tutta la faccenda.

— Commissario — sussurrò.

— Dica ispettore.

— Ma come avete fatto a trovarci?

— La stavamo già cercando. Ho intuito tardi quello che aveva intenzione di fare…

Yuri osservò mentalmente: “tardi come sempre!”. Ma il commissario come se avesse sentito quel pensiero proseguì con sguardo di rimprovero: — … ma non abbastanza tardi perché lei finisse al creatore. Sa che l’avrei fatta arrestare? Io Caputo e Rosselli eravamo venuti per lei, caro Cattabriga. Volevamo aspettarla al varco. La disobbedienza agli ordini è un’infrazione punibile con una sanzione disciplinare, ma la violazione di domicilio è un reato da codice penale…

— Non vedeva l’ora di sbarazzarsi di me, vero commissario?

— Lei dimostra di essere uno stronzo anche in questo frangente. Per che cosa ha preso la polizia, per un telefilm di Starsky e Hutch?

Cattabriga glissò i complimenti del superiore e chiese con ironia:  — Perché allora siete entrati, visto che non volevate commettere una violazione di domicilio?

Improta scosse la testa sorridendo. —  Abbiamo sentito delle raffiche di mitra. Il resto se lo può immaginare.

— Immaginare cosa? Avete scoperto…

— Sì, ispettore. Ci prende per dei cretini? Abbiamo visto la grata dell’aria socchiusa con il tubo della condotta spostato,  e siamo risaliti fino al covo di quel furioso criminale. Ci abbiamo messo un po’ a capire cosa voleva dire quel bel mucchio di pistole fissate ai muri e quei monitor agli infrarossi. Quando l’abbiamo capito non volevamo crederci. Era ingegnoso quanto pazzo, vero, il Mutolo?

Yuri annuì debolmente. — Ingegnoso il modo di agire. Usciva dalla sala giochi per una manciata di minuti, con la scusa di andare a prendere un panino o un caffè, entrava nell’appartamennto sopra al labirinto…

— Abbiamo scoperto che lo aveva comperato durante i lavori di costruzione del Laser game — lo interruppe per un attimo Improta.

Yuri proseguì: — Da lì sceglieva le vittime guardando i monitor e gli sparava azionando la pistola corrispondente all’area inquadrata. Poi, come se niente fosse, tornava dal collega con il suo bravo sacchetto di sandwiches.

— Bravo ispettore. Aveva già capito tutto.

Cattabriga fece un mezzo sorriso ironico. — Non ci voleva poi molto. La cosa pazzesca è che il Mutolo mi ha voluto spiegare tutto il suo piano per filo e per segno.

L’ispettore raccontò al suo superiore la chiacchierata allucinante fatta con Ciro e il progetto insensato della grande mattanza. Improta alla fine commentò: — Eh, i meandri imperscrutabili della mente di un pazzo… valli a capire.  Certo che per studiare una trappola così geniale e incredibile, ci vuole una mente perversa all’ennesima potenza.

— O un giallista cretino — aggiunse Cattabriga. — No, Improta. Il suo gioco non avrebbe potuto continuare per molto. Mutolo aveva un’intelligenza fuori dal normale, ma una psicosi limitata a produrre effetti immediati alle sue azioni. Un serial killer che si rispetti non commette crimini di corto respiro. Fa piani arditi, gioca con la polizia, ma stando sempre ben attento a non lasciare tracce, se non quelle volutamente fuorvianti. O tutt’al più si fa catturare solo se è lui a volerlo, in un delirio di onnipotenza che non concede al nemico neppure l’onore del merito.

Ma nel dire questo, Yuri ebbe come una fitta nel petto. C’era qualcosa che lo tormentava. Rivisse per un attimo la lotta con Ciro e le sue ultime parole gli suonarono nella mente come versi strani, afflati rauchi d’un moribondo. Lo inquietarono. — Sembrava quasi che il suo desiderio più vivo fosse dimostrare a me, a un avversario, quanto fosse bravo, in un delirio di narcisismo ossessivo.

— Comunque — concluse il commissario, — l’importante è che il caso sia chiuso.

Cattabriga annuì sorridendo. — Stavolta i grandi capi non si possono lamentare.

— No di certo — rispose Improta. — Peccato però che per individuare eventuali suoi complici abbiamo mobilitato un centinaio di agenti, facendogli fare irruzione un po’ bruscamente in qualche decina di appartamenti. Praticamente tutto il palazzo, tre numeri civici.

— Sembra che lei ci prenda gusto a rompere i coglioni alla gente.

— Si riposi Cattabriga — tagliò corto il commissario, — si riposi sui suoi allori, visto che la sua brillante operazione l’ha fatto diventare il grande eroe per tutte le televisioni e i giornali del paese. Guardi qua! — E mostrò all’ispettore i quotidiani di due giorni prima. Avevano titoloni cubitali, tutti sul tono: “Intrepido ispettore di polizia salva ragazza da folle e risolve il caso della sala giochi”.

Yuri li lesse velocemente con un certa indifferenza. Sentì che non gliene fregava nulla. Commentò soltanto: — Un bel colpo per la nostra squadra.

— Un bel colpo per lei, Cattabriga! ora saranno costretti a promuoverla.

Quest’ultima frase Improta la disse con un po’ di risentimento. Grazie alle sue tesi sbagliate, sapeva di non uscirne bene. Aggiunse con una punta d’astio: — Da una sicura incriminazione per disobbedienza ai superiori e violazione di domicilio, a una veloce carriera nella Pubblica Sicurezza: non c’è male!

— È la vita, commissario — rispose un po’ sornione Yuri.

— È la vita — gli fece di rimando Improta.

— Che ne sarà ora del Laser game?

— Beh, è lì. A tutti gli effetti l’impianto e i locali sono di proprietà degli eredi di Mutolo e del ciccione. Comunque lo abbiamo fatto sigillare.

In quel momento entrò l’infermiera. — Ora basta commissario, me lo sta stancando troppo. — Poi rivolta all’ispettore: — Il paziente ora si farà un bel sonnellino.

Cattabriga s’addormentò un quarto d’ora dopo, mentre nella sua mente si accavallavano la voce di Ciro, i brontolii di Improta e le risate di Silvia.

 

22.

Le settimane di convalescenza per l’ispettore trascorsero noiose e lente, tra programmi demenziali nel piccolo tv a colori, frutto di una colletta in questura e visite di amici, parenti, colleghi. Venne a trovarlo anche Eva. Gli regalò una collanina di corallo che aveva fatto apposta lui. Gli disse che era pronta a ricominciare tutto, che era diversa, che era cambiata, che ora però stava per partire con degli amici per il Nepal, che quando sarebbe tornata, allora…

Yuri girò la testa verso la finestra. In pochi istanti comprese la distanza che ormai li separava, un abisso incolmabile.

Sì, tante cose sono cambiate, Eva. Neanche te le immagini. Parti, Eva, parti. E torna possibilmente la settimana che ha due giovedì.

Silvia venne a trovarlo il pomeriggio di un sabato, quando lui era ancora sotto stretta osservazione. Era venuta per salutarlo, ma lui dormiva. Quando glielo dissero, si trattenne a stento dal tirare un pugno sulla spalliera del letto. E ora non poteva chiedere di lei. Improta non aveva spifferato certo la cosa ai quattro venti. Ma ora che lui era al centro d’un caso clamoroso, la stampa non avrebbe certo mangiato la foglia.

Già, la foglia. Fumarsi qualche foglia con la piccola a casa sua, come quella sera. La foglia. La voglia. La voglia del sapore della sua pelle, dei suoi seni, della sua piccola lingua calda dolce e metallica insieme, la voglia della sua bocca.

Aveva desiderio di lei, ma paura del sentimento che si era fatto strada nella coltre del suo cinismo disincantato come un fiore insolito, nato troppo tardi. Tre settimane, sono passate tre settimane? Sì tre settimane. E non viene. Mettiamoci una pietra sopra, sì un bel masso definitivo.

Fu una mattina, dopo due mesi di degenza, che entrò. Entrò nella sua stanza con Stefano. Yuri spense il suo sorriso iniziale in uno sguardo interrogativo, quasi diffidente verso il ragazzo.

— Ciao — disse lei, come se si fossero lasciati ieri

— Ciao — rispose lui.

— Ciao — disse Stefano con voce un po’ stentata. Il ragazzo aveva davanti a sé il suo persecutore, forse il più comprensivo, quello che non aveva creduto alla tesi della sua colpevolezza, ma pur sempre persecutore, o più semplicemente sbirro.

Per un attimo fu il silenzio. Lo ruppe lei: — Sai, ero venuta da te prima di uscire, ma…

— Ma dormivo — concluse Cattabriga scuotendo la testa con un mezzo sorriso pacato.

Silvia annuì. — Dormivi.

Lo fissò per pochi istanti, poi si scosse. — Ah, è vero. Ti abbiamo portato questo.

Tirò fuori dal suo zainetto un piccolo pacco. Yuri lo prese e lo tastò con aria interrogativa. — Cos’è?

— Indovina! — rispose lei.

— Indovinare i regali non è mai stato il mio forte.

Scartò il pacco, cercando di non rompere la carta, come volesse conservare tutto di lei, anche le più piccole cose, anche quello che si deve buttare via.

Ne uscì una maglietta inscatolata. La svolse: era piena di spille, spillette, strass, tutti attaccati al corpo caricaturizzato di una donna in hot pants e body. Un inno al peircing. — E questa dove la indosso, in Questura?

— La metti per venire da noi quando ci sono dei casini a scuola — disse Stefano.

— Non sono mica della Digos — commentò Yuri con scherzoso risentimento. Poi guardò Silvia dritto negli occhi. Lei lo fissò a sua volta. Yuri sentì un rimescolo al petto. La ragazza si distaccò velocemente da quello sguardo, abbassando il viso. Non per pudore, no. Era un addio. Tornò a guardarlo con un sorriso diverso.

Yuri scosse impercettibilmente la testa in segno di assenso. Avrebbe voluto dire: sì, è meglio così, non poteva funzionare. Avrebbe voluto stringerla e salutarla. Ma quella dolce straordinaria sbarbina era più saggia di lui. Non era un vaffanculo detto sulle scale di un liceo, tra un libro di matematica e un pacchetto di marlboro da dieci. Non erano quattro abbracci piagnucolosi e poi via, la settimana dopo con un altro e un’altra, a memoria zero, e altri pianti, altri vaffanculo. Non era nulla di tutto questo. Lo sapevano tutti e due.

— Ispettore — disse Stefano un po’ confuso, — la volevo ringraziare.

— E per cosa?

— Lei non ha mai creduto neppure per un istante alla mia colpevolezza…

— Io non credo a nulla Stefano. Ragiono. E all’inizio ho pensato anche all’ipotesi della tua colpevolezza.

Poi, Yuri lo fissò un istante, raccolse tutta l’aria da sbirro che poteva fare dentro quel pigiama padellato, in quella stanza di Chirurgia Due ed esclamò: — Ho fatto il mio dovere.

Silvia prese per mano Stefano e disse: — Beh, dobbiamo andare.

— Andate ragazzi e mi raccomando… — ma la frase restò lì, nella sua bocca, appesa al labbro. Scoprì in un istante che non sapeva cosa raccomandargli. Era una frase fatta, nata solo dallo sforzo di recitare la parte dello sbirro fino in fondo.

Silvia sorrise ironicamente. — Mi raccomando tu. E quando non sei di servizio vieni pure a trovarci. Magari fumiamo qualcosa insieme.

Stefano si girò verso di lei con aria interrogativa, mentre il cuscino arrivava in faccia a tutti e due.

— Via di qua! — esclamò Cattabriga ridendo. Ma quando le voci e le risate dei due ragazzi si persero in fondo al corridoio, il suo sorriso si era già trasformato in una smorfia amara.

 

 

(Fine della dodicesima puntata, la prossima: domenica 26/05/2019)

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Laser game – Undicesima puntata https://www.carmillaonline.com/2019/05/12/laser-game-undicesima-puntata/ Sat, 11 May 2019 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52473 di Nico Maccentelli

(Capitolo 20)

20.

— I shot the sheriff, but I did not shoot the deputyyy…

La testa gli ronzava come un vecchio frullatore.

— I shot the sheriff, but I did not shoot the deputyyy…

E quel canto sgangherato gli rimbombava nella cervice come un gesso che riga una lavagna.

— All around in my home tooown…

Cattabriga scosse la testa per scacciare la voce. Non riusciva ad aprire gli occhi perché una grande luce si insinuava tra le palpebre, aggredendo le pupille.

— They’re trying to [...]]]> di Nico Maccentelli

(Capitolo 20)

20.

— I shot the sheriff, but I did not shoot the deputyyy…

La testa gli ronzava come un vecchio frullatore.

— I shot the sheriff, but I did not shoot the deputyyy…

E quel canto sgangherato gli rimbombava nella cervice come un gesso che riga una lavagna.

— All around in my home tooown…

Cattabriga scosse la testa per scacciare la voce. Non riusciva ad aprire gli occhi perché una grande luce si insinuava tra le palpebre, aggredendo le pupille.

— They’re trying to track me down…

Dov’era, chi storpiava quel pezzo di Bob Marley… cos’era successo…

— They say they want to bring me in guilty, for the killing of a deputyyy!!

Il labirinto… Si coprì il volto con un gomito per abituare gradatamente gli occhi alla luce.

— Buongiorno ispettò!

A poco a poco riuscì a mettere a fuoco l’ambiente. — Ciro?

— Indovinato ispettò!

— La figura che aveva davanti divenne sempre più nitida. Ciro Mutolo imbracciava una mitraglietta Uzi e lo fissava con un’espressione affabile. Dietro di lui, appeso a un gancio per il mento, dondolava placidamente il corpo di Tore Russo, con la faccia e la camicetta a fiori insanguinate. Era letteralmente crivellato di colpi in tutto il corpo e sotto i suoi piedi si era già rappresa una pozza scura.

— Lui? Eh sì, ho dovuto farlo. Voleva vendere tutto. Poteva farlo, aveva la maggioranza delle quote e io non potevo comprare la sua parte. Addio Laser game: ci avrebbero fatto un fast-food o chissà cos’altro. E io non potevo permettermelo, vero Tore?

Ciro diede un buffetto affettuoso su una guancia del cadavere.

— Dov’è Silvia?

— Una cosa alla volta, ispettò! Prima mi deve dire cosa ci faceva in una proprietà privata.

La constatazione del napoletano suonò grottesca, come quella di un inquilino intento a questionare sui millesimi della cantina durante un terremoto.

— Lei è un assassino, Mutolo.

L’espressione affabile di Ciro si trasformò all’improvviso in un ghigno perfido. Puntò l’arma contro Cattabriga e strillò: — Volevate fermarmi, bastardi!!

— Si calmi Mutolo, si calmi. — Il cuore di Yuri batteva all’impazzata. Più della sua pelle però, gli stava a cuore la sorte della ragazza. Ma non doveva farlo intuire al pazzo, per non dargli un’arma in più, la più importante, se ancora c’era…

Il tono di Ciro tornò calmo: — Risponda ispettò.

— Ho fatto solo il mio dovere.

Il pazzo gridò: — Ha fatto solo il suo dovere, eh? Nessuno le ha mai insegnato l’educazione?! — Poi aggiunse più a se stesso: — Voleva mandarmi a puttane la grande mattanza…

E restò a fissare il vuoto con un’aria stralunata.

— Grande mattanza?

Ciro scosse la testa. — Venga ispettò, cosa fa ancora lì per terra? si alzi.

Yuri si sollevò in piedi. Sentiva un gran dolore alla spalla, fortunatamente però non aveva perso sangue. Il piombo lo aveva solo accarezzato, ma non poteva dirsi fortunato. — Mi risponda Mutolo. Cosa intende per mattanza?

— Stia lontano e con le mani bene alzate — gli intimò Ciro. E rispose: — Ha mai pensato a un grande magnifico eccidio, a un assassinio simultaneo di almeno una ventina di guaglioni?

— Assassinio simultaneo?

— Sì, di stupidi ragazzi senza arte né parte, individui inutili, figli di individui inutili.

— Lei è pazzo, Mutolo.

Il napoletano cambiò rapidamente espressione, allargando gli occhi con sguardo minaccioso: — Non mi dia del pazzo, ispettò!

— Mi scusi. Però converrà con me che è un po’ troppo severo con questi ragazzi.

Gli occhi di Ciro si spalancarono con fervore. — Ma ci pensi solo per un istante. Ha mai notato il loro modo di vestirsi, i loro stemmini del cazzo? Simboli che significano tutto e nulla, che rivelano il vuoto. È una questione di igiene, caro ispettore, di igiene mentale. Se la loro vita è un gioco, io lo farò diventare un gioco di morte.

— Come ha fatto nei luna park di mezza Italia, vero?

— Vedo che è venuto qua con le idee molto chiare, ispettò. Francamente non mi aspettavo un’alta capacità deduttiva da uno sbirro. Comunque la risposta è sì. Ci ho messo molto tempo per mettere a punto questo progetto. Anni. Doveva essere qualcosa di ineccepibile.

— E i due ragazzi uccisi come rientrano nel suo piano?

Ciro sorrise beffardo. — Dovevo pur fare delle prove generali. E il sistema ha dimostrato di funzionare alla perfezione. Non potevano bastarmi i fantocci che ho usato per mesi. Dovevo sperimentare il sistema su oggetti in movimento. Tanto valeva iniziare con questi luridi vermi.

— Ma si rende conto delle cose insensate che sta dicendo?

— Non mi contraddicaaaa!!! — urlò Ciro con il volto deformato da un ghigno di rabbia e puntando la Uzi con mano tremante contro l’ispettore.

Yuri si riparò istintivamente la testa con un braccio. Poi tornò a guardare il pazzo, che ora stava ansimando in preda a una crisi. Doveva assecondarlo fino in fondo: era l’unico modo non solo per prendere tempo, ma per rendersi conto dei suoi folli scopi.

— Stia calmo, Mutolo. Va bene, sono ragazzi inutili, come dice lei e il suo sistema può eliminarli. Ma mi sfugge ancora il come.

— Venga ispettò, guardi!

Ciro lo fece passare attraverso una porta controllandolo con la Uzi, poi passò a sua volta. Cattabriga vide un lungo corridoio e, ogni tanto, in alcuni punti, c’erano dei revolver 38 special infilati dentro delle feritoie rotonde. Erano le armi che avevano sparato nel labirinto, comprese subito. I calci delle pistole erano fissati su dei supporti metallici, probabilmente con funzione antirinculo, agganciati a loro volta alle feritoie.

Sui grilletti erano appoggiate delle aste metalliche a forma di martelletto, da cui partivano dei fili elettrici che si snodavano lungo il muro, riunendosi tutti in un unico fascio. Sembravano un avviluppo contorto di radici umide e tetre, che convergeva verso un punto ben preciso del corridoio. Lì c’era una console piuttosto lunga e piena di monitor disposti su tre file.

— Guardi, ispettò. Guardi pure! Questa non è la televisione: è meglio!

Cattabriga si avvicinò all’enorme marchingegno e comprese come il pazzo potesse controllare ogni scorcio del labirinto. Infatti i monitor, almeno una trentina, dovevano essere apparecchi a raggi infrarossi, perché le immagini erano incredibilmente nitide, nonostante l’oscurità. Ognuno aveva un mirino al centro. In questo modo era possibile individuare con precisione ogni sagoma di passaggio e sparare al momento giusto.

— Bello, vero?

— Ingegnoso, Ciro, ingegnoso.

— Grazie ispettò.  Ma lei è troppo furbo e ha scoperto tutto!

Cattabriga guardò una trentotto che aveva a portata di mano. Ma tentare il tutto per tutto sarebbe stato troppo rischioso. Disinserire il grilletto dal martelletto e dal groviglio di cavi elettrici era già una bella impresa. Senza considerare che Ciro aveva certamente il colpo in canna nella mitraglietta. Doveva continuare a dargli corda e poi agire una volta scoperto cosa fosse accaduto a Silvia.

— E la mattanza per quando è in programma?

— Chissà? Quando mi va! Adesso che l’ordine di chiusura del locale è stato sospeso, ogni momento è buono. Peccato però che lei non ci sarà Ispettò. Avrebbe assistito a un bello spettacolo.

— Se il biglietto non costasse troppo, sarei allettato a venire anche dall’inferno — commentò Cattabriga cercando di buttarla sullo scherzo. E la tattica dava i suoi frutti, perché Ciro ora aveva i muscoli del volto più rilassati. Solo il suo sorriso enigmatico emanava qualcosa di inquietante.

— Lei ha voglia di scherzare, ispettò! Ma venga, venga… per di qua! — lo esortò il napoletano aprendo una piccola porta scura, che Yuri non aveva ancora notato.

— Entri, entri pure. Dopo di lei!

Il poliziotto dovette inginocchiarsi perché quello che doveva affrontare era un budello lungo e stretto. — Dove mi sta facendo andare, Mutolo.

— Vada vada, non abbia paura!

Il corridoio non doveva essere alto più di ottanta centimetri e largo sessanta.

— Vedrà la sorpresa che le ho preparato.

Dopo venti metri circa, Cattabriga arrivò all’altezza di una lastra di metallo. — E adesso?

— Non si preocupi, ispettò!

— Qui non si va più avanti.

— Lo dice lei. Spinga, sposti pure la lastra verso la sua destra!

Yuri fece leva con le mani e spostò la lastra senza fatica. Si accorse che il budello ne intersecava un altro. Appena entrato nel nuovo cunicolo, scorse davanti a sé una grata..

— Non inizia a capire, ispettò?

— Le condotte dell’areazione!

— Bravo. Arriverebbe primo a Uestepoint! — commentò Ciro. E aggiunse: — Spinga ispettò, spinga!

Cattabriga tirò una spallata alla grata, che si aprì agevolmente, ma cigolando come lo sportello d’un pensile da cucina.

— Esca, non abbia paura.

Yuri mise fuori prima un piede, poi l’altro. Spiccò un piccolo salto e si trovò in un ambiente pieno di pannelli neri. L’arena! Ciro sembrò leggergli nella mente. — Certo ispettò — confermò mentre spiccava il piccolo salto anche lui, senza smettere di tenere la Uzi puntata sul poliziotto, — è proprio il campo di gioco che conosce già molto bene. Il Laser game! Il giro è finito, si torna al punto di partenza.

— Va bene, ma la ragazza.

— Una cosa alla volta ispettò. Una cosa alla volta.

Yuri strinse i pugni. Ciro stava giocando con lui come il gatto col topo. Si inoltrarono per gli oscuri corridoi. Il dedalo era proprio grande: sembrava non finire mai.

— Mutolo, mi spiega perché mi ha portato nel suo nascondiglio? Non poteva risolvere tutto qui nel suo bel labirinto?

— È una domanda che offende la mia e la sua intelligenza, ispettò. Un ospite di riguardo come lei non poteva non conoscere…

— … la sua genialità prima di essere fatto fuori.

— Sì, ci tengo a rivelarle tutto. Ma sulla sua prossima dipartita da questa valle di lacrime si può anche sbagliare; perché le darò un’opportunità.

— E come?

— Con una una bella partita.

— Ma cosa dice!

— Si giocherebbe la sua vita, ispettò?

— Lei è pazzo!

— Tanto cos’ha da perdere a questo punto? Le propongo una bella partita, un gioco ideale per appassionati di armi come noi. Per estimatori. È da tanto che sogno di farne una, ispettò!

— E come si svolgerà questa… partita?

— Adesso vedrà! Ma prima le avevo detto che c’era una sorpresa per lei.

Arrivarono in un punto più largo. Silvia era sopra la pedana della base, legata, a coprire il bersaglio. Indosso aveva solo la sottanella.

— Yuri! — gridò.

I suoi seni erano schiacciati dalle corde, e i capezzoli spuntavano a malapena tra un canape a l’altro.

— Silvia, stai bene?

— Sì, la sua puttanella sta bene, contento?

— Ti ha fatto qualcosa?

— Mi pare di no…

— Lei è un porco, ispettò. Un vero porco! Se l’è sbattuta per bene la fichetta, vero? Lei non è un gentiluomo come me!

— Preferirei essere fottuta da un cane rognoso, piuttosto che essere toccata da un lurido assassino come te!!

Ciro si avvicinò alla ragazza, la guardò, fissò per un breve istante l’ispettore con con un ghigno sarcastico. Poi, all’imporvviso, le tirò un manrovescio. Il collo di Silvia fece una torsione scomposta, la guancia destra aveva il segno rosso del colpo, e dai suoi occhi scesero piccole lacrime, che contrastavano con la sua aria strafottente

— Tutto pepe, la piccola, vero ispettò? — commentò Ciro. Poi con una mano afferrò il viso della ragazza per le guance e, guardandola con una smorfia delirante, strinse con forza. — E chi te lo dice che ti vorrei fottere, stronzetta? Magari voglio solo ammazzarti, no? Che ne sai? Che ne sai tu di un campo di grano?

Il napoletano mollò la presa con violenza e aggiunse: — Come le ho detto voglio lasciarvi una chance.

— Ne dubito — disse Cattabriga. — Voleva aggiungere “Lo sai benissimo che se noi usciamo vivi da qui, per te è finita”, ma si trattenne. Alludere a questa eventualità, scombinando il folle ragionamento del pazzo, avrebbe potuto far precipitare la situazione. 

— Sì ispettò: io sono di parola. Una chance: la partita! Ecco le regole. Numero uno ci giochiamo la ragazza e ovviamente la vita. Niente prigionieri ispettò. Numero due, lei ha esattamente trenta secondi per andare al punto di caricamento: troverà un’arma identica alla mia. Numero tre, deve agire al più presto.

— E perché?

Ciro girò l’arma di centottanta gradi e sparò un colpo di Uzi alla ragazza, senza neanche guardarla.

Silvia ebbe un sussulto.

— Nooo!! — urlò Yuri.

Il sangue iniziava a uscirle da un fianco. Le sue labbra tremavano facendo uscire un debole lamento.

— Numero quattro, perché in caso di vittoria suppongo che dovrà trovare al più presto l’uscita! — E aggiunse istericamente: — Non vorrà mica che la puttanella muoia dissanguata.

— Se non è morta prima, figlio di puttana!!

Ciro guardò l’orologio. — Uno…

— Bastardo!!

— … due…

— Silvia!!

— Sta perdendo tempo ispettò, tre…

Yuri si mise a correre a casaccio. Davanti agli occhi aveva ancora Silvia con la testa a ciondoloni e i suoi fremiti d’uccello ferito. Nella testa, la sua piccola voce roca.

— … cinque…

Doveva trovare la zona di caricamento. Ma quale delle due?

— … otto…

E poi era vero che avrebbe trovato un’arma? Non era meglio appostarsi e giocare il tutto per tutto puntando sul fattore sorpresa?

— … tredici…

I corridoi sembravano uguali tra loro.

— Diciannove…

Vicoli ciechi, svolte verso altri vicoli ciechi.

— … venticinque…

La luce giallo-elettrico ossessiva,

— … ventotto…

il dolore alla spalla, all’anca, il cuore in gola,

— … ventinove…

La morte col volto metallico di una mitraglietta di fabbricazione israeliana.

— Trenta! — urlò Ciro.

Yuri girò la testa verso un lungo corridoio. Dove si trovava ora, dove perdio! Dove portava questo budello nero! Lo percorse con la forza della disperazione. Avrebbe potuto trovarsi davanti il pazzo. No, era il punto di caricamento. E c’era l’arma! La estrasse dalla fondina di plastica nera. Un suono psichedelico si propagò tra i corridoi del labirinto. Una risata fece eco.

“Merda!” gridò col pensiero “è uno di quei fottuti aggeggi di plastica che sparano laserate innocue!”

— Piaciuto lo scherzo? — gridò da lontano Ciro.

Doveva allontanarsi dalla zona di caricamento, che il napoletano sapeva benissimo dov’era. Doveva anche far parlare l’avversario per sapere dove si trovava. Il fattore sorpresa era decisivo. Solo che le sue parole avrebbero rivelato anche la sua posizione. Doveva richiamare l’attenzione di Ciro non più di una volta, due al massimo, e capire dalla sua risposta il punto preciso dove appostarsi.

— Sei un bastardo, Mutolo! — urlò.

— E sennò che criminale sarei, ispettò!

Da destra, la sua voce viene da destra.

Nella sua folle corsa, imbracciando la mitraglietta, anche Ciro si orientò verso il grido di Yuri. Correva lanciando urla insensate. Poi iniziò a sparare raffiche. I proiettili produssero botti sordi forando i pannelli di plexiglass, e scheggiando i muri, rimbalzando di corridoio in corridoio. Seguì una risata sgangherata.

È da questa parte, commentò tra sé Cattabriga, svoltando veloce a destra. Ma doveva stare attento, la nuova risata era ancora più vicina. Iniziò a sentire anche lo scalpiccio della corsa. È troppo sicuro di sé perché è armato… devo fare leva su questo fattore, pensò. Si bloccò rasente un muro e attese.

— Non dice più nulla, ispettò?

Ecco, doveva aver capito che il suo silenzio era quello di un animale in attesa della preda.

— E va bene — urlò Ciro, — giochiamo pure a nascondino!

Il napoletano smise di urlare, rallentò il passò e avanzò guardingo, puntando rapidamente l’arma contro eventuali e improvvisi bersagli a ogni svolta, come nelle azioni antiterrorismo che si rispettino, quelle delle teste di cuoio.

Yuri sentiva che i passi dell’avversario si avvicinavano sempre di più. Ora capiva anche che provenivano da un corridoio alla sua sinistra. In quel momento avrebbe voluto smettere di respirare, fermare le pulsazioni del cuore che sembravano grandi tamburi che squarciavano il vuoto con tonfi cupi.

Pensò a Silvia. Non sentiva più i suoi deboli lamenti. Forse perché era lontano dal luogo in cui era legata e sanguinante. Forse invece…

Non voleva, non doveva pensarci. Oltre ai passi di Ciro, ora distingueva anche il fruscio dei suoi pantaloni. Doveva essere a non più di cinque o sei metri. Era dietro l’angolo… era lì!

Non stette neppure a pensare, balzò fuori con le mani protese verso il collo dell’uomo. Ciro si girò di scatto e lasciò partire una raffica simultanea al volo dell’ispettore.

L’impatto fu forte. Il napoletano cadde all’indietro, sbilanciato dall’urto col poliziotto. Yuri lo seguì nella rovinosa caduta. La Uzi nel cadere per terra fece alcuni giri su se stessa lasciando partire ancora qualche colpo a ripetizione. Poi tacque.

I due uomini si agitarono in una lotta cieca. Ciro emise un grido rauco per lo sforzo e sibilò: — Anche se muoio, ispettò… non finisce qua!!

Cattabriga sentì un forte bruciore all’anca sinistra. Guardò in basso. Il pugno di Ciro stringeva un pugnale da guerra, con scanalature nella lama. Era conficcato per un buon terzo nelle sue carni. Il sangue iniziò a uscire dal giubbotto a piccoli zampilli intermittenti. Il dolore gli velò gli occhi.

Contrasse le dita con la forza della disperazione, stringendo quanto più poteva la sagoma che aveva davanti. Sentì che la presa dell’avversario si era allentata.

Alzò lo sguardo. Ciro lo fissava con il suo ghigno insensato. Solo in quel momento si accorse che le sue mani tenevano stretto il collo del napoletano, quasi fossero due naufraghi aggrappati a un relitto come ultima speranza di salvezza.

Si accorse che il volto dell’avversario era paonazzo, quasi viola. Brevi contrazioni partivano dalla schiena di Ciro, scuotendo tutto il corpo. A poco a poco si ridussero a fremiti sempre più deboli, fino a divenire quasi impercettibili. Il napoletano sembrava sempre di più un pupazzo sgonfio. Poi l’immobilità e il silenzio avvolsero i due uomini.

Yuri mollò la presa con precauzione. Ciro giaceva inerte. Merda, come aveva fatto a strozzarlo così, in pochi secondi!

Tornò con la mano sul collo dell’avversario, stavolta per tastargli la giugulare. Andato. Afferrò il pugno che stringeva ancora il coltello e, con un colpo deciso, sfilò la lama dalla sua anca. I rivoli di sangue divennero un fiotto violento. Solo allora si scostò dal corpo esanime con un sospiro e gli si sedette a fianco. Guardò l’anca: sì, perdeva molto sangue. Le scanalature della lama dovevano aver fatto un bel danno anche nell’uscire. Stava tirando le cuoia, lo sapeva. A pochi metri da Silvia, forse già morta.

Tra poco le forze gli sarebbero venute a mancare del tutto. Già aveva voglia di sdraiarsi, di affondare in quel mare di sangue che si stava propagando per tutto il pavimento. Ma non era sangue solo suo. Solo in quel momento notò che sotto l’ascella sinistra di Ciro c’era una curiosa rientranza. Raccolse le forze e scostò il braccio sinistro del cadavere. Un foro di proiettile aveva aperto una fontana di sangue rosso vivido, che scendendo per terra si mischiava al suo. Tre secondi di guerra. Tre secondi di sfortuna per il pazzo.

Cattabriga capì che la mitraglietta ballerina, forse folle e perversa proprio come il suo padrone, aveva fatto giustizia, come spesso fanno i giochi e gli strumenti dell’uomo, carnefici inconsapevoli, al di là del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.

Notò che gli echi della colluttazione, del tonfo tremendo per terra, delle raffiche, si erano spenti anche nella sua testa. E sentì per un attimo il freddo silenzio della morte. Ma ora che in quel corridoio cosparso di sangue, in quel maledetto dedalo indecifrabile e scuro aveva chiara la coscienza dell’assenza di ogni rumore, udì qualcosa. Piccole grida di donna, versi remoti e inarticolati che non avevano altro senso se non quello di dire: “Sto crepando”.

“Silvia, non può finire così!” urlò dentro di sé. Un urlo che uscì anche fuori, nello spazio, spezzando quel silenzio. — Silviaa!!

La ragazza rispose con un grido più alto. Yuri lottò per qualche secondo col pugno rigido del cadavere, ma alla fine riuscì a strappargli il coltello. Poi fece leva sulle braccia, raccolse le forze residue e si alzò. Fece qualche debole passo barcollando e appoggiandosi al muro. Doveva procedere così, a tentoni, trovando sempre qualcosa a cui attaccarsi. — Parlami! parlami Silvia!! — gridò. “Se continui a parlare posso trovare la strada fino a te, amore…”, aggiunse tra sé, facendo morire la frase nella bocca.

Furono minuti lunghissimi, passati a trascinarsi da un muro all’altro, con passo sempre più pesante, guidato dalle grida di Silvia, che si trasformavano sempre più in rantoli impastati e gorgoglianti. Tante volte si trovò in vicoli ciechi e altrettante volte percorse a ritroso strade già fatte. La testa gli ronzava sempre più forte.

Finalmente la vide. Respirava appena. E il sangue le scendeva lungo le gambe, formando già una pozza per terra. Doveva avere una forte emorragia. Non avrebbe vissuto ancora per molto.

— Sono qui, piccola! — mormorò con voce roca.

Silvia alzò debolmente la testa, sorrise e sussurrò: — Ce ne hai messo di tempo, cazzone!

E la sua testa crollò come quella di un fantoccio. Yuri ebbe un moto di disperazione. Si avventò rabbiosamente su quel piccolo straordinario corpo. Tagliò le corde che lo legavano, strinse i denti e, non seppe mai neppure lui come, lo prese in braccio.

Nel camminare verso l’uscita perse la cognizione del tempo. La testa ormai gli girava vorticosamente. Finalmente vide la porta. Barcollò ancora qualche metro prima di stramazzare al suolo. Nel perdere coscienza riuscì solo a constatare che con quella fottuta porta, quella notte, era stato sfigato due volte.

 

(Fine della undicesima puntata, la prossima: domenica 19/05/2019)

Per avere il romanzo completo in formato libro

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Il promovideo

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Laser game – Decima puntata https://www.carmillaonline.com/2019/05/05/laser-game-decima-puntata/ Sat, 04 May 2019 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52414 di Nico Maccentelli

(Capitolo 19)

19.

Doveva condurre quell’indagine a modo suo. Sapeva che quello che stava per fare, soprattutto dopo il suo esonero, non solo gli sarebbe costata la carriera, ma sarebbe anche potuto finire in galera e per un bel po’.

Quando arrivò sul posto si guardò attorno con fare circospetto. Erano le due di notte e la porta del Laser game chiusa da una serranda a maglie larghe e con la grande insegna giallo fosforescente sembrava l’ingresso d’un antro demoniaco. O più semplicemente una presa in giro costruita apposta per [...]]]> di Nico Maccentelli

(Capitolo 19)

19.

Doveva condurre quell’indagine a modo suo. Sapeva che quello che stava per fare, soprattutto dopo il suo esonero, non solo gli sarebbe costata la carriera, ma sarebbe anche potuto finire in galera e per un bel po’.

Quando arrivò sul posto si guardò attorno con fare circospetto. Erano le due di notte e la porta del Laser game chiusa da una serranda a maglie larghe e con la grande insegna giallo fosforescente sembrava l’ingresso d’un antro demoniaco. O più semplicemente una presa in giro costruita apposta per far fare le nottate insonni a un onesto ispettore di polizia.

Cattabriga si guardò attorno con circospezione. Quello che stava per fare era tutt’altro che regolare. Se le sue intuizioni non erano giuste, sicurosicuro si giocava il posto. La serranda non aveva più i sigilli della procura.

Però, quante cose accadute nell’arco di poche ore. Il secondo omicidio a scombinare le belle congetture di Improta, l’intervento del questore su pressione delle solite associazioni di categorie sifacesseroicazziloro, proprio quando ci stavano arrivando a capo. E Silvia. Quella sbarba che l’aveva stregato e che ora era diventato un chiodo fisso nella sua testa, impossibile da estrarre, impossibile da tenere.

Frugò in una tasca del giubbotto e afferrò il passe-partout. Dopo tutto se l’era cercata lui, le aveva dato corda sin dall’inizio, era andato in quel fottuto liceo, l’aveva invitata a bere qualcosa. Anche se non si sarebbe mai aspettato una reazione così diretta da parte della ragazza.

Infilò il passe-partout nella toppa della serranda. Ah, le ragazze d’oggi, sanno sempre ciò che vogliono. O forse no. Anche in questa vicenda c’era qualcosa che gli sfuggiva.

Fece scattare la serratura e si guardò ancora in giro. Non c’era nessuno. Bene. Con un colpo rapido sollevò di scatto la serranda. Il rumore che fece gli sembrò amplificato dalla violazione che stava commettendo.

E uno. Ora c’era la serratura della porta a vetri. I napoletani non avevano installato alcun allarme. Meglio. Armeggiò ancora per qualche istante, poi la porta cedette. Entrò rapido. Doveva fare le cose velocemente. Qualcuno poteva notare la serranda aperta, magari dei vigilanti, e sarebbero stati guai seri.

Fece qualche passo e accese la torcia. Dunque, l’arena è laggiù. Percorse velocemente l’atrio e arrivò fino alla porta che dava accesso al campo di gioco. Bene, è aperta. Il dedalo di muri neri gli sembrava ancora più sinistro, così, spento nell’oscurità.

Cercò il punto preciso dove era avvenuto il primo delitto, quello di Luca. Chi cazzo si ricorda… Poi gli venne in mente che il luogo dov’era avvenuto il secondo delitto doveva avere ancora il gesso della silhouette della vittima.

Infatti: eccolo lì. La sagoma disegnava un corpo piegato. Sembrava il graffito di qualche antica e misteriosa civiltà. In realtà era la mano di Menozzi, esperto della scientifica ed esperto rompicoglioni, scientifico anche in quello. Lui e le sue collette pro-tutto, le sue feste noiose, il re del dopolavoro. Uno scassaballe, ma bravo nel suo lavoro. Molto. 

Altezza dei corpi: uno e settantacinque tutt’e due. Una coincidenza favorevole. Speriamo. Tirò fuori un metro e misurò sul muro di fianco alla sagoma un metro e settantacinque dal suolo. Segnò il punto con un gesso. 45 gradi…

Si avvicinò al muro opposto e lo scrutò attentamente. Era liscio. No, no non va, deve pur esserci qualcosa… perlustrò l’interstizio che univa i due pannelli. “Accidenti, non ho portato una scala!” pensò. Guardò in alto, verso la fine del muro. 45 gradi significano che il punto di partenza dello sparo poteva essere lassù.

Udì uno scalpiccìo lontano. “Merda! hanno visto la serranda aperta!” Spense subito la torcia e afferrò istintivamente la pistola. A chi cavolo sparo, a un vigilante? No, gli consegno l’arma e tanti saluti. Ma poteva anche essere quel fetente di Ciro.

I passi ora erano più vicini. S’acquattò. Pronto a balzare agli onori della cronaca o a cambiare mestiere.

Pochi metri ancora, i passi erano dietro il pannello di plexiglas nero di fronte a lui. Appena vide la figura saltò fuori dall’angolo, accese di colpo la torcia e puntò la pistola. — Polizia!

— Aaah! — Silvia fece un salto indietro. Cattabriga vide il bianco dei suoi occhi e la bocca allargata in una maschera di terrore.

— Che spavento! sei proprio uno stronzo!

L’ispettore era furente, ma non tanto da non notare la sottanella corta di jeans, che dava alla ragazza un’aria ancora più infantile. — Silvia, che ci fai qua!

La ragazza si portò una mano al petto, riprese fiato e disse: — Anche se sapevo che qui dentro c’eri tu, mi hai fatto prendere proprio un bello spago!

Cattabriga imprecò, poi, facendosi forza per non perdere la pazienza, chiese: — Come sapevi che ero qui?!

— Semplice: ti ho seguito.

— Mi hai seguito?!! — Yuri non riuscì a trattenersi e tirò un pugno su un pannello. —  E come hai fatto?!

— Con lo scooter. Ho aspettato che tu uscissi dalla centrale.

Cattabriga provò una certa ammirazione per la piccola, ma si sentì anche un discreto coglione. Il che lo fece arrabbiare ancora di più. La afferrò per un braccio. — Ma cosa credi, che io stia qui a giocare a guardie e ladri?

Silvia si divincolò e lo guadò in cagnesco. — Di ladri, anzi, di assassini ne vedo pochi. In compenso vedo uno stronzo.

— Silvia, non sto giocando.

La ragazza proseguì come se non l’avesse sentito. — Vedo uno stronzo che mi ha scopata, che si è divertito e mandata affanculo.

“Che faccia tosta la ragazzina!” pensò l’ispettore.

— Silvia, non sto giocando!

— Hai giocato! sì, hai giocato!

Yuri mise una mano sulla bocca della ragazza. — Zitta! — le intimò. Rimase un attimo in ascolto. Forse aveva sentito qualcosa. Uno strano ronzio.

Silvia mugolò per un istante, ma sopportò di buon grado quella mano grande. Gli alitò sopra delicatamente, scostò le sue labbra e gli leccò con dolcezza il palmo con la punta della lingua.

Cattabriga ebbe un sussultò e scostò la mano. — Zitta — disse ancora, ma stavolta con un sussurro che non poteva celare un certo turbamento.

Sentì una vibrazione metallica, giungere da un punto remoto. — È una tubatura dell’acqua chissà dove — concluse.

Tranquillizzatosi, ripose la pistola nella fondina. — Senti, rimandiamo la nostra questione a dopo…

— Davanti a un buon caffè. O forse vuoi giocare ancora?

— Mi sembra che ci fossi anche tu a giocare. Anzi se ben mi ricordo l’idea è partita da te, o sbaglio?

La ragazza ebbe uno scatto insofferente.

— Comunque sia, Silvia, ora in ballo ci sei anche tu e mi devi aiutare.

— Mago Zurlì ha bisogno della piccola bimba?

Yuri le fece una smorfia e indicò la parte alta del muro in pietra. — Sì. Dovresti salire sulle mie spalle e dirmi cosa noti là sopra, tra i due blocchi di pietra, dentro l’interstizio.

— Sì buana! — rispose Silvia imitando la voce di un africano.

Si chinò flettendo le gambe. La ragazza gli afferrò le spalle da dietro e con un salto gli fu sopra. Strinse subito il collo dell’uomo con le cosce, prendendo la torcia che lui le porgeva.

— Guarda a venti centimetri circa dal soffitto — le suggerì Yuri, sollevandosi lentamente. Sentiva quellacosa tenera e viva tra capo e nuca. Al tatto poteva distinguerne la forma. Qualche pelo soffice usciva dalle mutandine facendogli il solletico sul collo. Anche l’odore era intenso. Ebbe una vertigine. Barcollò.

— Ma che fai! — strillò Silvia. La torcia piombò a terra fracassandosi e tutto divenne buio.

— Porca troia! — smoccolò Cattabriga appoggiandosi al muro per diminuire il carico che aveva sulle spalle.

— Forse sono troppo pesante — osservò con ironia la ragazza.

“Cinquantotto chili di gnocca sulle spalle! altro che peso!” Cattabriga si trattenne dal dirlo.

— Adesso siamo nella merda — concluse.

— Ho io un accendino.

— Meglio di niente. Passamelo che voglio vedere com’è messa la torcia.

Silvia si frugò un attimo in tasca e l’allungò all’ispettore.

— Uno zippo…meno male. — Accese. La pila giaceva come una povera bestia inerte, col vetro rotto. Era uscita persino la lampadina. Un danno irreparabile. — Bene! — gridò Cattabriga. — Dovremo controllare il muro con l’accendino.

Ripassò lo zippo acceso a Silvia. — Sei pronta?

— Se tu non fai altre stronzate, sì.

Ancora una volta gli sembrò di sentire un ronzio.

— Non c’arrivo! — disse la ragazza.

— Sali coi piedi sulle mie spalle.

La ragazza eseguì.

— Vedi niente?

Silvia scrutò la parte finale del muro e vide, quasi verso il soffitto, un piccolo foro.

— C’è un buco!

Yuri si girò di scatto. Un altro ronzio. — Grande come?

— Boh, non so. Forse mezzo centimetro.

— Come supponevo. Vieni giù. — L’ispettore aiutò la ragazza a scendere, sentendo tutto il corpo di lei che scivolava sul suo.

Rimasero un attimo abbracciati l’uno all’altro, a guardarsi nel tenue pallore giallognolo dello zippo. Cattabriga prese l’accendino tra le mani. — È come pensavo. Il colpo di pistola è uscito da lì. L’assassino, che a questo punto dev’essere proprio Ciro Mutolo, ha agito non dentro il labirinto, ma fuori. Deve esserci un ambiente qui dietro.

— Piuttosto grande — constatò Silvia, — perché la distanza tra i due luoghi degli omicidi è almeno di trenta metri.

Yuri allungò l’accendino verso la parte alta del muro.

— Comunque Ciro è fregato. Questa volta neppure il ministro in persona potrà impedirmi di tornare qui con un mandato di perquisizione esteso a tutto il palazzo.

— Perché Ciro?

— è un discorso lungo.

— Bene caro il mio ispettore, dovresti ringraz…

— Zitta!

Yuri bloccò la ragazza e rimase un attimo in ascolto. — Hai sentito anche tu?

— Sì, questa volta il rumore era chiaro.

— Non riesco a capire cosa possa essere, ma di sicuro non una tubatura. E ora è più vicino.

— Cosa può essere?

L’ispettore non le rispose, ma la squadrò come per saggiarne le caratteristiche fisiche.

— E adesso cosa c’è? — chiese lei. — Cos’è quello sguardo penetrante. Ti sembra il momento di…

— Mi sto chiedendo se le tue spalle sono in grado di reggere il mio peso.

— E come no! Di bestioni di ottanta chili me ne carico tutti i giorni!

Gli occhi del poliziotto ebbero un lampo ironico, e colse l’occasione. — Sì, vorrei proprio sapere quanti.

— Stronzo! E poi se speri che io…

— Poche storie, ladygodiva — tagliò corto Yuri, soddisfatto per la reazione della ragazza. — Unisci le mani e chinati.

Silvia eseguì brontolando qualche insulto. L’ispettore appoggiò il piede sulle dita intrecciate della ragazza e fece leva col ginocchio. Poi con l’altro piede salì su una spalla di lei. — Se ti appoggi al muro fai meno fatica.

Quando fu sopra la ragazza con entrambi i piedi, avvicinò l’accendino verso l’interstizio. E vide il piccolo buco. — Eh sì, qui ci passa giusto giusto un calibro trentotto. Vediamo l’interno.

— Fa attenzione! — esclamò Silvia.

Cattabriga introdusse il polpastrello del mignolo dentro il foro. — Metallo! è una vera e propria canna…

Questa volta il ronzio fu più forte delle altre volte.

Si girò di scatto verso la fonte del rumore. A pochi centimetri da lui vide un tubicino alla cui fine una lente convessa lo fissava come un occhio asettico e perfido.

— Una microtelecamera! — esclamò.

Il tubicino tornò a ronzare, muovendosi come un piccolo mostro metallico.

Ora la vedeva anche Silvia. — Una microtelecamera?!

— Sì! siamo stati spiati sin dall’inizio! — confermò l’ispettore. E aggiunse: — Tienimi!

Appoggiò le mani per un istante al muro per coordinare il salto che stava per fare.

— Gne! ble! stronzo, porco! — gridò Silvia verso l’obiettivo con smorfie e boccacce, e alzò il dito medio della mano destra mentre appoggiava la sinistra all’interno del gomito, dove solitamente si tiene il manico dell’ombrello chiuso.

Yuri si trattenne un attimo dal lanciarsi. — Ma ti sembra il modo, accidenti!

— Quel pezzo di merda ci sta sicuramente guardando! — E proseguì con gli sberleffi.

— Silvia, ma non capisci che potrebbe…

Il sibilo fu forte e qualcosa sfiorò un orecchio di Cattabriga, che perse l’equilibrio e cadde sul fianco. Fu di nuovo buio. Aveva un’anca e una spalla doloranti.

— Yuri!  dove sei! ti sei fatto male?

— Accidenti, ha sparato! Silvia, dobbiamo uscire al più presto di qua! L’accendino, aiutami a cercare l’accendino!

Di colpo si accese la luce giallognola fosforescente dell’impianto.

— Ci vuoi vedere bene, eh bastardo? — urlò Cattabriga.

La ragazza gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi. Ma lui la strattonò verso il basso. — D’ora in poi non alzarti più in piedi, hai capito?! Chissà quanti buchi ci sono, pronti a sparare.

Silvia si strinse al suo collo. E per un attimo lui sentì la sua guancia sfiorargli l’orecchio. La prese per mano. — Vieni, seguimi. Stai chinata come me.

Iniziarono a percorre il dedalo di muri e pannelli. Partì la musica del Laser game: una miscela psichedelica di suoni elettronici, che ora davano un tono ancora più sinistro al labirinto.

Svoltarono un angolo. Partì un altro botto. Il proiettile sibilò sulla loro testa e rimbalzò sul muro di fronte. — Merda! — gridò la ragazza — ci vuole fare la pelle!

Sopra di loro, in ogni corridoio, le telecamere scrutavano verso il basso, come bestie riportate alla luce da nascondigli remoti. Qualcuna si muoveva come un cobra col capo eretto, che gira seguendo la preda, pronto a scattare.

Yuri guardò a destra e a sinistra con aria confusa.

— Dov’è l’uscita!?

Un altro colpo partì, trapassando un pannello di plexiglas e sibilando a non più di venti centimetri dalla testa dell’ispettore.

Fecero ancora una svolta, ma si trovarono in un vicolo cieco. Tornarono indietro, ma un altro colpo fracassò una finestrella di plastica trasparente, passando proprio in mezzo a loro, appena sopra le mani unite. — Passa sotto alle feritoie!! Ci vede anche da lì!

— Benvenuti al Laser game, per un’altra indimenticabile battaglia! — gracchiò una voce registrata da un altoparlante. — Siete pronti per il combattimento? … Sì? …Allora che vincano i migliori!

Silvia quella voce anonima e metallica, l’aveva sentita tante volte, tante volte aveva percorso quei cunicoli, con il fucile laser in pugno, alla ricerca dei suoi amici. Ma poi, alla fine si usciva sudati, si commentavano i punti fatti e si tornava a casa. Ora lì dentro stava vivendo un incubo.

— Forse l’uscita è di là! — gridò Cattabriga, vedendo un aumento di luce in fondo, appena girato il corridoio che stavano percorrendo. Un altro colpo partì da uno dei buchi, rimbalzò sul muro ed entrò nel suo giubbotto. L’ispettore urlò piegandosi su se stesso fino a toccare la testa al suolo.

— Yuri!! — gridò Silvia.

— Sono stato colpito! — La spalla gli bruciava. Controllò.

Il proiettile aveva bucato gli indumenti, e tracciato un breve solco rosso e nerastro sulla pelle, come un ematoma.

La ragazza balbettò: — È… è grave?

— No, è di striscio.

Riprese la mano di Silvia e la trascinò per un’altra svolta. — Presto, dobbiamo andare verso quella luce! — urlò.

I due ripresero la corsa meno chinati, per prendere velocità. In fondo al corridoio svoltarono e furono investiti da un muro di luce e di fumo. A pochi passi da loro, la porta aperta dell’uscita.

— Dai! — gridò il poliziotto alla ragazza. Ma la falcata della loro corsa si faceva più incerta, e a ogni passo perdevano le forze. — Il fumo! — gridò Yuri con la testa che gli girava come in una giostra impazzita. Crollò a terra a due metri dalla porta.

Silvia si accasciò dietro a lui, rimase inarcata, per un attimo, sui gomiti e le ginocchia, col sedere all’insù e la sottanella alzata, cercando lo sguardo dell’ispettore. — Cazzo, che fumo questo! — Fu l’ultima cosa che disse.

 

(Fine della decima puntata, la prossima: domenica 12/05/2019)

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