Interviste – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 05:00:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerriglia psichica https://www.carmillaonline.com/2025/06/10/guerriglia-psichica/ Tue, 10 Jun 2025 05:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88523 di Fabio Malagnini

Stefano Tevini, Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico, D Editore, Roma, 2025, pp. 224, 16,90 euro

In un futuro distopico dove sopravvivere è tutto ma vivere decentemente un lusso per adesso fuori dalla mia portata, mi sveglio con indosso l’avatar di un essere mutante dagli strani poteri psichici. In qualsiasi momento, mi viene ricordato, il mio corpo potrebbe venire catturato, torturato e sottoposto a un intervento per privarlo chirurgicamente delle sue capacità extraumane, in gergo chiamate “diapason”. Chi ha il diapason può, ad esempio, a seconda delle facoltà ricevute in dote da [...]]]> di Fabio Malagnini

Stefano Tevini, Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico, D Editore, Roma, 2025, pp. 224, 16,90 euro

In un futuro distopico dove sopravvivere è tutto ma vivere decentemente un lusso per adesso fuori dalla mia portata, mi sveglio con indosso l’avatar di un essere mutante dagli strani poteri psichici. In qualsiasi momento, mi viene ricordato, il mio corpo potrebbe venire catturato, torturato e sottoposto a un intervento per privarlo chirurgicamente delle sue capacità extraumane, in gergo chiamate “diapason”. Chi ha il diapason può, ad esempio, a seconda delle facoltà ricevute in dote da Madre Natura, manipolare la percezione della popolazione normale, dare vita ad allucinazioni collettive, diffondere calma e concentrazione tra le fila dei compagni o, infine, dialogare con i dispositivi elettronici nelle vicinanze per metterli in funzione. Il 99% della popolazione – stima arbitraria – il diapason non ce l’ha e non sospetta neppure l’esistenza di questa displasia evolutiva, ad accezione delle guardie e dell’apparato di sicurezza che conoscono i nostri poteri e sanno quasi sempre come neutralizzarli. Noi, cioè io e la mia squadra, siamo in definitiva, tipo i buoni.

Se questo scenario alla X Men vi è familiare, vi gioverà sapere che al termine di ogni missione, dall’esito imprevisto e per lo più catastrofico, la simulazione finisce e subito ci si ritrova in un’aula didattica al cospetto di una specie di Professor Xavier. È proprio la sua voce, anzi, che per tutto il tempo ha commentato la missione, sottolineando il valore della collaborazione, del gioco di squadra e altro, che alla fine valuta lo scenario strategico a cui ci siamo sottoposti e le modalità con cui abbiamo interagito, di regola bocciate.

La struttura di Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico non coincide, ovviamente, né con quella di un manuale di sopravvivenza per superumani o di altro genere, né con la linea di una spy story tradizionale. Semmai con un breviario situazionista, aggiornato all’epoca delle IA, a uso delle giovani generazioni. Ciò che colpisce maggiormente è, nell’ordine, la scelta di un linguaggio totalmente operativo, senza concessioni autoriali, dall’inizio alla fine, e la scelta di ricondurre ogni spunto narrativo, allo status di “simulazione”. In questo senso la narrazione si presenta anche come una macchina testuale funzionale, “anti romanzo”.

L’universo narrativo del Manuale è chiaro e definito, il suo world building non affiora tanto da una massa di dettagli spaziali in emersione quanto dai registri mentali che i componenti della squadra – Hector, Lex, Nina, Sooki, Khaled, che il prof chiama “i miei studenti” – intrecciano telepaticamente, in qualsiasi momento della “missione”.

Più che i mutanti Marvel, qui il mondo intermittente del Manuale incontra un altro ciclo a fumetti, forse meno noto ma destinato a definire negli anni Dieci il canone paranoico degli agenti segretissimi con poteri ESP, ovvero la serie Mind Mgmt (2012-2015) di Matt Kindt per Dark Horse, che Tevini nell’introduzione cita infatti tra le fonti di ispirazione del libro insieme al “nume” Grant Morrison. Il terzo e ultimo riferimento non rappresenta un credito letterario o ispirazionale, se non in senso molto lato: si tratta infatti The Turner Diaries (1978) di Andrew Macdonald (pseudonimo di William Luther Pierce, romanzo di formazione e testo sacro dei suprematisti bianchi che Tevini ha indagato magistralmente nel suo precedente studio White Power (Red Star Press, 2024), assieme all’immaginario dell’estrema destra razzista e rivoluzionaria statunitense. Di scarso valore letterario, tradotto in italiano da Bietti La seconda guerra civile americana, come il testo fu scritto non per fare nuovi proseliti ma per fare da cinghia di trasmissione tra cultura politica, ideologia e mito nel mondo leaderless dei nazisti americani. Tevini lo riconosce e, da una prospettiva politica diametralmente opposta, ammette che anche il Manuale aspira a una scrittura che, andando oltre l’introspezione del romanzo storico, psicologico o “borghese”, vuole collegare la narrazione alla pratica e all’azione politica.

Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico dopotutto non è solo un oggetto narrativo insolitamente originale e poco classificabile ma fa parte della neonata collana Intermundia, diretta da Claudio Kulesko per D Editore, aperta ai giovani autori, ma dedita negli obiettivi a nuovi, dirompenti immaginari di genere (weird, sf, horror e quant’altro).

Riassumendo: ho finito di leggere il Manuale e a caldo mi sembra il primo capitolo di un ciclo più lungo e articolato, la premessa di un progetto, forse multimediale, con una miccia che ne assicuri la detonazione ritardata nel tempo. È veramente così? Nel dubbio, l’ho chiesto direttamente al suo autore assieme a un paio di altri chiarimenti.

Il Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico va pensato come un esperimento a sé stante o come il primo capitolo di una ipotetica saga?

Il Manuale nasce come racconto lungo, quello che trovi a puntate su Metatron, la rivista di Claudio Kulesko, che corrisponde poi al romanzo alleggerito di tutta la parte della simulazione degli scenari. Il discorso della simulazione è figlio del periodo fertile e fin troppo breve che ho avuto con il gruppo che si radunava intorno al blog La Grande Estinzione (Antonio Vena, Andrea Meschiari e tanti altri), abbiamo ragionato moltissimo sull’immaginazione come strumento, come tool, come facoltà conoscitiva fondamentale per la sopravvivenza. Qui sono partito con meno pretese, per fare un lavoro di transizione rispetto ad altre idee che ho in mente, ma gli eventi hanno portato me e il libro verso un’altra direzione. Claudio ha apprezzato molto il mio lavoro e lo ha proposto, chiedendomi di trasformarlo in quel che hai letto perché inizialmente era troppo breve, a Intermundia. Quindi no, non nasce già alla sorgente come capitolo di una saga, lì è stato Emmanuele a vederci una futuribilità. A ogni modo sì, sto pensando al secondo capitolo e, pur senza una scaletta, un’idea a grandi linee della struttura e di dove voglio arrivare a livello di evoluzione del world building ce l’ho. E sì, l’idea di creare una proprietà intellettuale con output molteplici c’è. Bisogna poi vedere come effettivamente andranno le cose ma come minimo un seguito è in programma. Ma sì, vogliamo espandere i vari universi narrativi di Intermundia. Come lo scopriremo lungo la via.

Avevi in mente un lettore ideale? Se sì, quale?
Diciamo di sì, e con una punta di narcisismo ti potrei dire che il mio lettore ideale mi somiglia parecchio. Scrivo quel che mi sarebbe piaciuto leggere e le mie fonti di ispirazione, come avrai potuto notare, sono gli autori che piacciono a me, autori densi dal punto di vista delle idee ma al tempo stesso con un’anima pop. Non mi interessano gli intellettualoidi ma nemmeno l’intrattenimento vuoto. Un caro amico, Luca Tarenzi, ha definito il Manuale come “non un romanzo ma il file .zip di un romanzo” e credo ci abbia preso in pieno. Io quando leggo un lavoro di Grant Morrison, e ci trovo dentro compresso tanto materiale concettuale da farci altre cinque serie, mi carico tantissimo, voglio leggere roba così, voglio scrivere roba così e vorrei raggiungere lettori così.

In che senso il Manuale si collegherebbe anche a The Turner Diaries, come accenni nell’introduzione?

Il manuale diffuso del guerrigliero psichico è, letteralmente, un anti The Turner Diaries. Non so se avrà la stessa incisività a livello politico, temo di no, ma a livello ideale è un controincantesimo a I diari di Turner, anche qui in filigrana c’è un libro che parla di agire politico, che esorta all’agire politico. Parli di linguaggio operativo e sì, ce n’è a pacchi, con un meccanismo che fa venir giù la quarta parete e prova a raggiungerti, un po’ come ne I diari di Turner. Perché non riconoscere l’efficacia di uno strumento solo perché viene da un nemico è stupido, gli strumenti efficaci vanno usati.

La scelta di un linguaggio strettamente funzionale, operativo alla fine risuona come cifra espressiva del progetto. Da dove proviene questa scelta?

Il linguaggio è una cosa su cui lavoro a modo mio perché odio l’atto di identificare la letteratura con lo stile e di conseguenza la bella pagina fine a sé stessa. Figlio di un musicista, mi viene naturale cercare la musicalità nel linguaggio ma ritengo che l’aspetto più affascinante siano proprio le sue funzioni, il suo aspetto “magico”, e per me l’estetica non si slega dalla funzionalità e il linguaggio sì, o è operativo, o si fa da parte per lasciare spazio alle idee o mi irrita.

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Un’intervista a Karem Rohana https://www.carmillaonline.com/2025/06/03/unintervista-a-karem-rohana/ Tue, 03 Jun 2025 05:22:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88827 Di Ludovica Maura Santarelli

“Accento toscano, nome e cuore palestinese” così si descrive Karem Rohana, nato ad Haifa e cittadino di Firenze. Oltre a lavorare come logopedista in un ospedale, è attivista con un forte seguito sui social e racconta la causa palestinese attraverso il suo account Instagram karem_from_haifa.

La sua attività di divulgazione è stata più volte ostacolata e censurata.

Ho avuto il piacere di intervistarlo lo scorso gennaio in merito al mio lavoro di tesi e di discutere assieme di Palestina, degli errori dell’Occidente e del ruolo dei mass media nel conflitto.

 

– Il tuo attivismo è [...]]]> Di Ludovica Maura Santarelli

“Accento toscano, nome e cuore palestinese” così si descrive Karem Rohana, nato ad Haifa e cittadino di Firenze. Oltre a lavorare come logopedista in un ospedale, è attivista con un forte seguito sui social e racconta la causa palestinese attraverso il suo account Instagram karem_from_haifa.

La sua attività di divulgazione è stata più volte ostacolata e censurata.

Ho avuto il piacere di intervistarlo lo scorso gennaio in merito al mio lavoro di tesi e di discutere assieme di Palestina, degli errori dell’Occidente e del ruolo dei mass media nel conflitto.

 

– Il tuo attivismo è una lotta che hai acquisito e sviluppato con il tempo o ti appartiene da sempre per le tue radici palestinesi?

C’è il legame con quella terra, la voglia di esserci legato in modo ancestrale. La parola attivismo viene da attivarsi: negli anni in cui la questione palestinese non era contemplata, per noi palestinesi della diaspora era veramente difficile cercare delle strade da percorrere per sentirci utili. L’attivismo vero e proprio, quello che si intende oggi, l’ho fatto principalmente attraverso i social e a livello locale, ma si è attivato un paio di anni fa quando ho visto che non c’era nessuno che ci rappresentava. Cercavo di creare uno spazio mio, e gli spazi che si possono occupare senza che ci siano troppe censure sono i social network, quindi perché non usarli. Questa attivazione è anche un po’ egoistica: lo faccio per sentirmi parte di questa cosa e per sentirmi utile, e di conseguenza per stare meno male e ricevere meno l’impatto emotivo di ciò che sta succedendo a Gaza, nonostante l’abbia ricevuto lo stesso.

 

– Vivere con un passaporto israeliano: è una contraddizione morale?

No, assolutamente. Non è percepita così all’interno della comunità palestinese; se si ha la possibilità di avere il passaporto israeliano, lo si deve prendere. Intanto ti accorgi di una cosa: la prima cosa che ti dicono gli israeliani, appena inizi ad avere idee dissonanti, è “perché non lasci il passaporto?”. Se un sionista ti spinge in quella direzione vuol dire che a lui fa comodo. Poi è un documento, se nasci sotto occupazione i documenti te li fanno i colonizzatori. A livello pratico è uno strumento: sei sempre sotto occupazione ma hai più libertà di movimento nella tua terra, che non sarà mai quanto quella di un israeliano ebreo, ma sei un palestinese che può vivere nella Palestina storica usando la cittadinanza israeliana. C’è una distruzione dell’identità che punta tanto su questo elemento: ad un certo punto ti senti un cittadino dello stato israeliano ed accetti che hai meno diritti per quel tipo di condizione. Soprattutto se sei in diaspora come me, che vivo all’estero ed ho la cittadinanza italiana, è uno strumento che serve: se ci rinunciassi non potrei più tornare in Palestina. A loro non fa guadagnare niente; a livello morale ed etico non sussiste il problema perché non mi riconosco minimamente in quel passaporto, è un pezzo di carta che mi serve per entrare e per avere un minimo di tutele, poiché probabilmente altrimenti non sarei potuto andare tutte le volte che ci sono stato: se fai un po’ di attivismo, ti rimandano indietro all’aeroporto. È una contraddizione loro questa, che lo stato ebraico al suo interno abbia persone che considerano nemici. Quando ci pensi le prime volte ti viene l’istinto di dire, “lo brucio, mi fa schifo” o “non mi ci riconosco”, ma poi capisci che non è che ti ci devi riconoscere, è uno strumento che puoi utilizzare sia per vantaggi personali ma anche per la causa. È uno strumento contro l’occupante. Forse questa percezione è più sentita nelle generazioni dei più vecchi. Penso ad esempio a mia nonna, al mio babbo che non l’ha mai rinnovato e non torna in Palestina da 20 anni, o ad un suo amico che quando ha preso la cittadinanza italiana l’ha effettivamente bruciato. La loro generazione è quella che ha vissuto più il cambiamento; è vero che prima c’era l’occupazione, ma non era una cosa così distopica e draconiana, in certi contesti potevi far finta di ignorarla. Loro che non riescono più a farlo si tolgono anche la possibilità di tornarci ma perché ci stanno male, non perché si sentono traditori. A un certo punto smettono di vederne l’utilità. I giovani invece vogliono il passaporto perché vogliono avere lo strumento di potere di poter entrare ed uscire con più tutele, nonostante i controlli ci siano sempre, ma sono meno violenti di quelli che subiscono i palestinesi con la carta verde palestinese.

 

– Da italo-palestinese, come reputi l’atteggiamento del nostro governo, apertamente filosionista, nei confronti della questione palestinese e della condotta israeliana?

È filosionista come tutti i governi, l’atteggiamento non cambierebbe con una maggioranza diversa. Non mi concentrerei sul governo, ma più che altro sulla classe politica di questa generazione, che è completamente asservita all’imperialismo americano e di conseguenza ad Israele. La destra al governo poi lo fa anche per ripulirsi la coscienza, sta dicendo “ora i nazisti non siamo più noi, ora difendiamo gli ebrei” ma in realtà lo fa solo in chiave antislamica. Per questo chiamano Israele l’avamposto dell’Occidente in Oriente. Hanno tradito delle garanzie e delle responsabilità che avevano verso i cittadini nostri che esulano anche dall’idea di sionismo, perché hanno semplicemente violato le leggi del diritto internazionale. L’Italia, nonostante l’invito della Corte di Giustizia internazionale agli stati Onu a sanzionare Israele o ad applicare l’embargo alle armi in Usa per il “plausibile” genocidio a Gaza, non solo non introduce sanzioni, ma non smette nemmeno di inviare armi, non smette di dare appoggio politico, di incontrare i rappresentanti israeliani in territorio italiano, e afferma che non applicherà i mandati della Corte Penale internazionale; tutto questo senza minime conseguenze, neanche nell’opinione pubblica. Non ci si rende contro che, nella lontana eventualità che Israele venisse condannato per genocidio, l’Italia sarebbe complice, a livello giuridico. Tajani continua ad inviare armi, Crosetto continua a fare accordi, le nostre università non partecipano ai boicottaggi, nemmeno di accordi che portano allo sviluppo di tecnologia bellica: tutto questo non rispetta la nostra Costituzione, perché stiamo partecipando ad un progetto coloniale aggressivo e genocida che non ha niente di difensivo, anche a livello di diritto internazionale. Magari tra dieci anni pagheremo come stato, come abbiamo già fatto con il fascismo; lo stiamo rifacendo alleandoci con chi commette un genocidio. Stiamo diventando noi una colonia israeliana. La Meloni, che tanto parlava di sovranità italiana, sta asservendo un regime estero, facendo un danno agli italiani, solo per rientrare nelle grazie di Trump e Netanyahu.

 

– Per il tuo lavoro di attivismo hai subito una serie di ritorsioni, sfociate anche in un’aggressione fisica, avvenuta al tuo ritorno a Roma da Gerusalemme. Credi che la repressione violenta delle idee antisioniste e pro palestinesi possa essere considerata sporadica o sistematica? Perché, a tuo avviso, è comune vedere questo genere di rappresaglie da parte dei sostenitori di Israele?

Perché sono abituati alla violenza e all’impunità. Quando, come nel mio caso, arrivano ad usare anche la violenza fisica, rappresentano a pieno ciò che vogliono difendere. Vogliono mantenere l’impunità e la possibilità di punire chi non la pensa come loro senza argomentare o passare dagli strumenti democratici, il dialogo o il dissenso. Siccome difendono un’ideologia violenta, genocidaria, di occupazione e di pulizia etnica, non la possono difendere con argomenti che siano accettabili in qualsiasi contesto fuori dal loro circolo, quindi cercano di limitare la discussione in questi modi. A livello fisico, in Italia, verso gli attivisti, hanno smesso perché hanno capito che era controproducente, perché attirava troppo l’attenzione. Hanno però iniziato ad utilizzare altri tipi di armi, tra cui una grossa rete di lobbying, non grande come quella americana che controlla il Congresso, ma abbastanza ferrata da poter esercitare repressione, anche ad esempio sullo speech online: è facile ricevere una denuncia per un commento non gradito e ritrovarsi la Digos in casa che sequestra telefono e computer. Sono repressioni eterodirette da qualcuno. È una cosa che stiamo ereditando da Israele: controllo e repressione basati anche sui social, il riconoscimento, la punizione del dissenso.

 

– Non solo censura mediatica, ma anche social: il tuo profilo, come quello di molti attivisti palestinesi, è stato più volte oscurato da Meta. Perché i luoghi virtuali, che dovrebbero essere liberi ed esenti dalle dinamiche politiche dei vari governi, limitano anch’essi, in maniera arbitraria, la libertà di parola degli utenti?

I social sono un prodotto del sistema capitalistico e non si discostano mai dai centri di potere. In questo momento storico sono molto vicini ad Israele e i social seguono queste direttive. Bilanciano la loro censura con il fatto che devono mantenere un minimo di utenza: all’inizio la censura online era più spinta, ma in seguito ad una serie di cause legali e all’allontanamento di molte persone dai loro profili, hanno dovuto mediare. La censura è diventata soft. Alcune cose sono comunque vietate: ad esempio non si può far vedere Hamas, nemmeno per parlarne male, perché non si deve umanizzare, perché se uno ascolta il discorso di Sinwar può farsi un’opinione sua. Infatti quando ti levano le storie di dicono che hai mostrato le immagini di un’organizzazione che ritengono pericolosa. È come se avessero una verità storica in mano. Ma viviamo in un momento storico in cui la verità non ce l’ha nessuno e non sappiamo come verrà ricordata quest’epoca; i social si propongono come le nuove piazze pubbliche, ma il fatto che ti impongano una nuova verità assoluta, derivante dalle indicazioni del governo americano, da dove vengono tutte le aziende tech, spegne il dibattito. È pericoloso, ma ce ne siamo resi conto tardi, perché abbiamo sempre creduto fossero le piattaforme del libero pensiero. Li usiamo perché sono strumenti immediati ma non sono la soluzione per il futuro.

 

– L’occidente, forse per un debito morale nei confronti della comunità ebraica, tende, in linea generale, ad assumere posizioni filosioniste e a sostenere il regime israeliano, a discapito del popolo palestinese. Quanto credi sia determinante in ciò la mancanza di conoscenze del mondo arabo, o l’errata credenza secondo cui intere popolazioni si identifichino nelle cellule islamiste che operano sul territorio?

L’appoggio a Israele è dato quasi, più che in chiave di protezione del popolo ebraico, per difesa dall’Islam. Spesso e volentieri la narrativa e la propaganda sia occidentale che israeliana si forma intorno al credere che “se non li ferma Israele, arrivano da noi”, ma ad Hamas questo non interessa. Il pulirsi la coscienza dai crimini nazifascisti dell’Europa e spostarli su Israele fa anche parte della narrativa. Questo succede anche a chi è proPal, che dice “Israele è cattiva”. Ma Israele siamo noi, è l’Occidente, il colonialismo occidentale che sterminava i popoli e che si è poi riversato sugli stessi europei, ed ora subisce un colonialismo di ritorno. La studiosa ebrea americana Naomi Klein ne parla in modo più approfondito, ed in merito è molto interessante anche il lavoro di molte comunità giovani di ebrei che studiano come la strumentalizzazione della memoria della Shoah sia servita a concedere a Israele un’eccezione del consenso internazionale e decoloniale, riformulando tramite il sionismo il colonialismo come ripartizione per il genocidio nazista.  Di fronte ad un trauma che non è stato elaborato, si utilizza la ritraumatizzazione della comunità europea e degli ebrei in diaspora per spingere l’appoggio a Israele ed al suo progetto coloniale. Israele rappresenta anche il modello per le destre mondiali, perché è uno stato con un’unica etnia, un’unica religione, con delle leggi di difesa dei confini violentissime. Quando Salvini e Meloni dicono “Israele è un modello di democrazia” è perché per loro è davvero un modello, che condivide l’idea di ristabilire il nazionalismo che arriva fino al contemplare una razza pura per ogni stato.

 

– I media e gli opinionisti occidentali si trovano divisi nel considerare ciò che sta subendo ed ha subito il popolo palestinese come un genocidio. Dove, secondo te, stanno sbagliando, e cosa non tengono in conto?

Questa divisione era più marcata all’inizio, ora è abbastanza condivisa; il dibattito continua più che altro in Italia, ma un punto è stato messo dai report delle organizzazioni umanitarie che confermano le accuse di genocidio. Ora, chi non vuole usare la parola genocidio, può solo giustificarsi dicendo che non si trova a suo agio, ma non riesce più a contestarla. Per noi palestinesi era chiaro sin da subito, perché sappiamo qual è la mentalità israeliana e che per Israele si è da sempre trattato di una guerra di annientamento, che doveva mandare un messaggio, ovvero far capire cosa succede a toccare lo stato ebraico. È un genocidio di vendetta. Loro non vogliono ammetterlo, ma di questa violenza ne hanno bisogno: il sionismo ed il colonialismo sono l’oppressione dell’altro. Ma capisco il contesto nel quale c’è stata un po’ di reticenza dall’ammettere il genocidio. Quelli che lo negavano con forza l’hanno fatto o in malafede, o in completa ignoranza, o perché appoggiavano le azioni genocidarie israeliane, come nel caso dei media mainstream. Quando si parlava inizialmente di genocidio diventava tutto un titolo, come nel caso di Ghali a Sanremo che ha fatto impazzire tutti, ora invece fa notizia chi lo nega, in un contesto un po’ più progressista. Ma i giornali mainstream non si sono mai adeguati, sono sempre stati la scorta mediatica di Israele.

 

– Il sostegno al popolo palestinese è stato più volte espresso nel corso degli ultimi 15 mesi attraverso proteste, presidi e manifestazioni. La repressione da parte delle forze dell’ordine è stata spesso spietata; il governo, utilizzando come pretesto i presunti atti violenti compiuti dai manifestanti, ha approvato il Ddl sicurezza. È un tentativo di silenziare le voci pro-Palestina? Quali potrebbero essere le conseguenze?

È un tentativo di ristabilire un’ideologia fascista, di repressione totale e del pensiero unico. È chiaro che non vogliano il dissenso dell’opinione pubblica su questioni palestinesi, ambientali e su altri temi, ma davvero c’era bisogno di un Ddl sicurezza e di una nuova legge che permette, oltre a vietare le manifestazioni, anche di entrare ed avere informazioni di cosa si dice dentro le università, su studenti, professori, religione e pensiero politico, in un periodo storico dove la maggior parte delle manifestazioni sono non violente? Mi verrebbe quasi da dire “peccato”: ci stanno reprimendo anche se stiamo manifestando con tutti i crismi del caso, in piazza non succede nulla, non ci sono stati tentativi di violenza strutturata e nessuno ha infastidito politici; si stanno comportando come se ci fossero le Brigate Rosse al quadrato. E non serve nemmeno a niente: le manifestazioni, ad oggi, sono utili per fare gruppo, è un ritrovo di persone che decidono di lavorare per obiettivi, ma ci si ferma lì. Siamo una generazione di depoliticizzati, me compreso, e ci si muove tutti a livello individuale perché non si è più in grado di farlo collettivamente. E riescono a reprimere anche questo? Poi usano le scuse dei pro-Palestina, i no-tav e altri attivisti per dire che sono violenti quando in realtà è davvero difficile trovarle queste situazioni violente; anche se ci fossero, sarebbero l’espressione di un disagio che viene dal basso. Mi sembra molto preventivo questo silenziamento del dissenso, forse hanno in mente di introdurlo ora per utilizzarlo quando le politiche del governo diventeranno più aggressive ed il dissenso si inasprirà di conseguenza.

 

– I militanti di Hamas vengono spesso considerati come terroristi mostruosi e sanguinari. In molti casi si ritiene che, con l’attacco del 7 ottobre, abbiano commesso un grave errore, a discapito degli stessi palestinesi. È veramente così? Come sono visti dai palestinesi?  È giusto pensare che, nelle condizioni in cui il popolo palestinese è vissuto negli scorsi 76 anni, la resistenza armata possa essere una risposta plausibile e giustificata?

Non posso parlare a nome di tutti i palestinesi, ma posso condividere la mia idea. Hamas, come movimento politico, non mi fa personalmente impazzire, ma è stato scelto dai palestinesi, a cui erano state permesse libere elezioni, salvo poi dire che sono stati eletti dei terroristi. L’Occidente lo fa sempre, quando non gli piace chi viene votato allora questo diventa un terrorista. Su queste etichette poi ci costruiscono una narrazione. Intanto l’etichetta di terrorismo non ha una definizione ben specifica, quindi ognuno la usa a modo suo (ad esempio per me gli stati più terroristi al mondo sono gli Stati Uniti ed Israele), le azioni terroristiche sono un’altra cosa. Sono anche quelle che usava Nelson Mandela, che per liberarsi dall’apartheid sganciava le bombe; eppure è ricordato come uomo di pace perché la storia, andando avanti, ha poi mostrato come funzionano questi processi. Anche la resistenza palestinese è una resistenza armata in funzione prettamente decoloniale. Che muoiano dei civili durante gli atti di resistenza armata è sempre successo: a me dispiace, vorrei non morisse nessuno, o al massimo solo i militari, ma chi ha messo dei kibbutz sotto un campo di concentramento? Un rave sotto un campo di concentramento? Si responsabilizza sempre la vittima, che può ribellarsi ma con le nostre leggi ed i nostri metodi, che per primi non rispettiamo. Abbiamo attuato l’apartheid, l’occupazione, il colonialismo; Gaza era di fatto un ghetto nazista, come è stato detto da Maša Gessen ed altri studiosi, anche ebraici. Gabor Maté, uno psichiatra del trauma ebreo, che da sionista, analizzando la situazione e stando in Palestina, ha cambiato idea, è arrivato ad affermare che “oggi Gaza è Auschwitz su Tik Tok”. In una situazione di violenza del genere, e soprattutto come ci insegna la storia del colonialismo, che è una macchina di violenza senz’anima che crea sempre violenza, non si tratta di semplice giudizio morale. Se vuoi dire che la risposta armata non ti piace puoi farlo, ma non dire che è un atto terroristico o che stavano andando a caccia di ebrei, perché a loro non fregava niente: se fossimo stati lì, avrebbero preso anche noi. Ma questa cosa è difficile da far passare perché ci hanno lavorato tanto di propaganda, perché c’è un doppio standard razzista occidentale sulla questione.  Per quanto mi riguarda, i miliziani della resistenza di Hamas e di tutte le altre fazioni palestinesi verranno ricordati come partigiani: non per un fattore poetico o eroico, ma per quello che hanno fatto e per quello che hanno combattuto. Poi ognuno li valuta come vuole; ma se si apprezzano i partigiani italiani, non si possono non apprezzare i miliziani, o chi ha lottato contro l’apartheid in Sudafrica, per quanto l’apartheid sudafricano, seppur violentissimo, è stato meno violento dell’occupazione e del colonialismo che applica Israele. Ciò che fa Israele in modo così violento, sistematico e continuativo, si è visto poche volte nella storia. Soprattutto non rispondeva mai alla resistenza non violenta; per me quest’ultima è teatro, se nel momento in cui tu mostri la tua sofferenza ed i crimini dell’altra parte e la comunità internazionale non interviene, cosa puoi fare? Questa è la domanda che dovrebbero farsi tutti: tu, al posto loro, cosa avresti fatto? È facile dire “non usare la violenza”, ma durante le manifestazioni pacifiche del 2018 per la Grande marcia del ritorno, i palestinesi sono stati ammazzati. Anche la questione dell’islamismo di Hamas ha poco conto: non c’è niente di religioso nelle rivendicazioni degli obiettivi politici e militari, se non il poter andare a pregare a Al-Aqsa. Ma Hamas vuole liberare la Palestina perché ammazzano i loro fratelli e i loro figli, e lotta contro l’occupazione. La guerra di religione, semmai, è quella israeliana, per cui “questa è la nostra terra e ci è stata data da Dio”.  In più parlare di violenza antisemita vuol dire non prendere in considerazione i fatti e legarsi alla propaganda superficiale per descrivere i palestinesi come persone meno civilizzate e meno umane di noi.

 

– Di recente sei tornato in Palestina. La situazione che hai trovato è quella che ti aspettavi? Quanto di ciò che accade nella quotidianità dei palestinesi non ci viene raccontato o viene addirittura nascosto?

La cosa più violenta che fa l’occupazione è rubarti il tempo. Lo fanno con i checkpoint; una volta, per andare da Ramallah a Betlemme (circa 27 km) ci ho messo 4 ore, e non c’era ancora la situazione disastrosa che c’è oggi. Ti fanno sentire l’oppressione. Anche in Cisgiordania, dove non c’è la resistenza armata, se non dentro le città per difendersi dalle impulsioni israeliane, non si è mai intervenuti internazionalmente; ci si aspetta che i palestinesi resistano da soli e perdano la testa, per poi stupirsi di ciò che accade. Secondo me bisogna capire che le azioni terroristiche non sono una cosa da non prendere mai in considerazione: nel momento in cui ti tolgono tutto e tu non hai gli strumenti per reagire secondo le regole del diritto internazionale, che tra l’altro nemmeno questa “etnocolonia” che ti sta opprimendo rispetta minimamente, ad un certo punto l’attentato terroristico inizia a far parte delle possibilità che prendi in considerazione, perché è uno strumento. In Cisgiordania la vita è un inferno; io quando sono andato sono stato bene, ma per merito dei palestinesi. Stai bene eppure soffri, infatti quando sono tornato sono stato molto male. È una contraddizione continua: stai in questa terra che ami, circondato da persone che sono felici di viverla nonostante le difficoltà, ma durante la giornata incontri cose come l’occupazione, notizie di violenza e di morte, il coprifuoco, i checkpoint chiusi… È così da sempre. È impossibile da capire fino in fondo se non ci si è stati.

 

– Può davvero avere senso la soluzione dei due stati?

No. Il bello è che Israele non l’ha mai presa in considerazione al suo interno, mai. L’ideologia sionista non opprime solo i palestinesi, ma anche gli israeliani. I palestinesi non vengono uccisi dagli israeliani perché nascono cattivi, per la loro religione o per la loro provenienza. Gli israeliani diventano macchine di morte e di assassinio di massa a causa dell’ideologia sionista. Anch’io, se fossi nato a Tel Aviv da una famiglia israeliana integrata nella narrazione sionista, oggi starei ammazzando bambini a Gaza, e non ci vedrei nessun problema. Non è per deresponsabilizzare chi ha commesso i crimini, ma vogliamo quantomeno salvare le nuove generazioni? Altrimenti Israele continuerà ad essere una fabbrica di assassini di massa. Finché si mantengono due popoli e due stati, e continua ad esistere uno stato fondato su un’ideologia coloniale, di occupazione e di apartheid, violenta ed espansionistica, non ci sarà mai pace con quello stato. Continuerà ad attaccare e a commettere crimini contro l’umanità. Andrebbe istituito uno stato unico e democratico per tutti.

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Il sogno di una archeologia beauty-free. Conversazione con Franco Nicolis (parte due) https://www.carmillaonline.com/2025/05/20/il-sogno-di-una-archeologia-beauty-free-conversazione-con-franco-nicolis-parte-due/ Tue, 20 May 2025 05:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88297 di Valentina Cabiale

A causa del riscaldamento climatico le masse glaciali si riducono di decine di metri e lasciano affiorare tutto quello che hanno conservato e nascosto per decenni: i corpi dei soldati, resti di apprestamenti e di baracche, reperti mobili e molte cose di cui forse neppure ci si accorge, in luoghi ad alte quote non tanto frequentati. C’è la possibilità di conservare tutto questo o il grosso è destinato a deteriorarsi rapidamente una volta esposto?

Dipende dalle condizioni. I ghiacciai sono contesti dinamici, il ghiaccio si muove, avanza e retrocede, si spacca e butta fuori cose. Quello che sta dentro [...]]]> di Valentina Cabiale

A causa del riscaldamento climatico le masse glaciali si riducono di decine di metri e lasciano affiorare tutto quello che hanno conservato e nascosto per decenni: i corpi dei soldati, resti di apprestamenti e di baracche, reperti mobili e molte cose di cui forse neppure ci si accorge, in luoghi ad alte quote non tanto frequentati. C’è la possibilità di conservare tutto questo o il grosso è destinato a deteriorarsi rapidamente una volta esposto?

Dipende dalle condizioni. I ghiacciai sono contesti dinamici, il ghiaccio si muove, avanza e retrocede, si spacca e butta fuori cose. Quello che sta dentro un po’ alla volta tornerà fuori, ma anche in tutt’altro punto rispetto a dov’era. Magari a fondovalle finiscono elmetti e altri reperti della Prima Guerra mondiale, insieme a pezzi di vecchi impianti sciistici. Fino a un po’ di anni fa il ghiacciaio e i crepacci erano un immondezzaio, si buttava roba dentro pensando che tanto non l’avrebbe più vista nessuno. Così, dentro il ghiacciaio c’è immondizia di tutti i tipi e tutti i tempi. Su un ghiacciaio nella zona dell’Adamello, ad esempio, sono emersi pezzi di eternit, che durante la Prima guerra mondiale si usava per le costruzioni, insieme a resti di esplosivi. A volte è il crepaccio, dove il ghiaccio è più stabile, a buttare fuori i resti delle strutture, e dei soldati che sono caduti o sono stati buttati dentro. Succede ogni anno. Il problema è che come escono, poi questi resti ritornano nel ghiacciaio, da dove ne riescono nuovamente magari non l’anno successivo ma quello dopo ancora – e questa continua uscita e rientrata li riduce drammaticamente. Quindi tutto dipende dai tempi degli avvistamenti e delle segnalazioni.

Il recupero e la tumulazione dei resti umani sono competenza specifica del Ministero della difesa ma qui in Trentino sono riuscito a gestire una collaborazione con l’ufficio Onorcaduti così da fare, quando si tratta dei resti di soldati, un recupero di tipo archeologico. Chiunque trovi dei resti deve avvisare le forze pubbliche che avvisano il magistrato, perché ci potrebbe essere evidenza di reato; se durante il sopralluogo con i carabinieri si nota che i corpi hanno, ad esempio, le uniformi della Prima guerra mondiale, il magistrato dà il nulla osta e procediamo noi con il recupero archeologico. Recuperiamo con cautela i resti annotando tutti gli elementi che possono essere utili, controlliamo anche l’area circostante e poi portiamo la salma al cimitero di Trento dove io e l’antropologo Daniel Gaudio facciamo l’indagine autoptica: lui bioantropologica, io archeologica.

Una segnalazione può arrivare giorni dopo che i resti sono usciti dal ghiaccio. A volte inoltre non è così facile raggiungere il luogo – sulle alte quote si arriva in elicottero – possono passare alcuni giorni, e le condizioni dei resti cambiano rapidamente.

Il corpo di Rodolfo Beretta era molto ben riconoscibile, rannicchiato vicino a una roccia: non sapremo mai se era in quella posizione perché rotolando sotto la valanga aveva istintivamente messo le braccia a protezione del viso, oppure se avesse trovato una bolla d’aria. La prima ipotesi sembra più probabile: era completamente svestito nella parte inferiore del corpo, aveva solo la giacca e gli indumenti intimi, il resto lo deve aver perso quando è stato trascinato dalla valanga. Ma l’anno successivo, mentre ero sul posto per la realizzazione di un video-documentario, vicino a dove era stato trovato il suo corpo (lo scopritore ha lasciato, in quella pietraia, un fiore di plastica, a segnalare il luogo esatto) abbiamo ritrovato alcuni frammenti di tessuto, che poi ricomposti in laboratorio si sono rivelati essere quello che restava del suo cappotto.

Questo ti fa capire che il ghiacciaio restituisce quello che vuole quando vuole. È come il mare. Non ci sono regole. E noi recuperiamo quello che possiamo. Senz’altro i ghiacciai stanno regredendo in maniera drammatica, per quanto in modo diverso. Ci sono dei percorsi dove fino a qualche decennio fa dovevi fare dei passaggi sulla neve e sul ghiaccio, mentre adesso ti devi arrampicare sulla roccia per decine di metri. Il ghiacciaio della Marmolada sta sparendo. Anche il ghiacciaio dei Forni è molto calato. Calano le coltri, si ritirano le lingue. Il destino è segnato per molti ghiacciai delle Alpi, alcuni tra 30-40 anni non ci saranno più, chi vive sulle montagne ne è consapevole e vive una forte ansia ecologica. Chi vedeva negli anni ‘80 il ghiacciaio in un certo modo e oggi non lo vede più, capisce che sta succedendo qualcosa di brutto, perché in buona parte è causato da noi. Sopra la piazza dove siamo ora, in passato si sono alternati tre ghiacciai alti mille metri; quindi, il punto non è il futuro della Terra: il punto è come la Terra diventerà per noi. Poi è anche un discorso di tempistiche: da un periodo glaciale a uno interglaciale passavano decine di migliaia di anni, adesso vediamo nel breve tempo umano dei cambiamenti enormi e questo destabilizza le nostre certezze, ci rende fragili.

Tornando ai ghiacciai, probabilmente riusciremo a recuperare in quantità minima quello che uscirà, perché come il ghiaccio conserva perfettamente anche l’odore e i materiali organici, appena il materiale esce da quello stato di equilibrio e viene esposto, si degrada molto rapidamente. A Punta Linke lavoravamo quotidianamente con i restauratori, che mettevano subito i reperti in una grande sala aerata con tutti gli accorgimenti per la conservazione. Se prendi uno delle decine di copriscarponi ritrovati a Punta Linke e li metti al sole, dopo due ore hai solo paglia tritata.

Quindi tutto dipende dai tempi delle segnalazioni. In Svizzera hanno fatto una app, si chiama IceWatcher, prodotta dall’Ufficio Archeologico Cantonale del Vallese, tramite la quale si può fare la foto del rinvenimento, mettere le coordinate del luogo e in automatico segnalare il ritrovamento. Temo però che se lo facessimo qui da noi, arriverebbero centinaia di segnalazioni al giorno, non gestibili. Ci vorrebbe una task force, qualcuno che riceva le segnalazioni e delle guide alpine che salgano ogni volta a controllare. Ho ricevuto per anni la stessa telefonata in cui mi dicevano che avevano trovato i resti del capitano Arnaldo Berni su Punta San Matteo – sappiamo che morì lì nella battaglia del 1918. Ogni anno in realtà erano sempre le stesse ossa di animali.

Punta Linke, banco da lavoro

In Trentino, in questo mi sento un po’ sfortunato, sui ghiacci non abbiamo trovato nulla di età pre- e protostorica. In Alto Adige, invece, in area glaciale e periglaciale sono stati ritrovati resti di tessuti dell’età del Ferro, delle scandole – ovvero tegole di legno – molto antiche, una ciaspola del Neolitico. Qui nulla. Non sappiamo come mai, stiamo cercando di ricostruire, con dei colleghi glaciologici, qual era la morfologia dei luoghi in quelle epoche antiche, per sapere dove andare a cercare queste tracce.

Sulle vette molto alte non ha senso cercare resti antropici, a meno che non si sia sull’Everest, dove di recente hanno ritrovato uno scarpone di Sandy Irvine, che scomparve con George Mallory nel 1924 mentre tentavano di raggiungere per primi la vetta. In quello scarpone c’era ancora un calzino con il suo nome cucito sopra. Il corpo di Mallory era già stato trovato una ventina di anni fa. In realtà non si sa se siano arrivati alla cima e stessero già scendendo, oppure se fossero ancora in fase di salita; quello che ora si cerca è la loro famosa macchina fotografica, che potrebbe conservare le prove del loro percorso.

Ma qui in Trentino, per ritrovare le tracce più antiche, dovremmo cercare quali erano i percorsi e quali passi potessero essere frequentati in antico. In Svizzera, ad esempio, lo Schnidejoch è un passo che nei momenti più caldi era transitabile e dove hanno trovato resti del tardo Neolitico, di età romana, medievale e le pallottole dell’esercito svizzero degli anni ‘50. Tra i reperti poco più recenti dell’età di Ötzi hanno trovato alcune cose molto interessanti, tra le quali una faretra in legno di betulla alta più di un metro e mezzo, un arco e dei pantaloni: speravano di rinvenire anche un corpo, gli avevano anche già preparato un nome (Schnidi), ma non l’hanno trovato. Non credo che di Ötzi ce ne siano tanti.

In ogni caso, per quanto i ghiacciai abbiano costituito una parte limitata degli ambienti frequentati dall’uomo, certamente sono stati frequentati da epoche molto antiche e quello che è rimasto dentro si è conservato. I due ragazzi austro-ungarici ritrovati sul ghiacciaio del Presena, intorno ai 3000 m di altezza, erano stati sepolti insieme dentro un crepaccio: nel 1918 il ghiacciaio era 100 metri più alto, eppure i due corpi sono scesi di quota insieme al ghiacciaio e sono riapparsi, ancora uno accanto all’altro, nei primi anni Duemila.

Riguardo a questo fatto che il ghiacciaio sfalsa un po’ la stratigrafia, ti pongo una domanda su Ötzi, che abbiamo già citato più volte, la mummia di un uomo vissuto 5000 anni fa ritrovata nel 1991 sul ghiacciaio del Similaun in Alto Adige. L’ipotesi che sia stato rinvenuto sul luogo del suo omicidio ti convince del tutto? Soprattutto rispetto all’ipotesi, formulata da alcuni studiosi, che egli sia invece stato sepolto con un ricco corredo (quindi i tantissimi manufatti esposti nel museo non sarebbero quelli che Ötzi portava con sé al momento della morte, ma quelli che sono stati deposti come corredo nella sua tomba). Il museo segue esclusivamente l’ipotesi che il corpo sia stato trovato dove è caduto colpito dalla freccia.

Il recupero di Ötzi e dei suoi oggetti non è stato archeologico; quindi, le notizie che abbiamo ci sono state riferite da coloro che l’hanno ritrovato. Personalmente non credo che sia stato sepolto. È più probabile che si sia accasciato lì, in quella conca, e sia morto. L’ipotesi del seppellimento non ha convinto me come molti altri. Gli oggetti sembrano più funzionali che da corredo, nel senso che molti di essi generalmente non compaiono nelle sepolture. E senz’altro la freccia gli ha causato la morte.

Secondo me Ötzi è un caso straordinario di conservazione, che ci ha dato la possibilità di lavorare su un essere umano come se fosse praticamente ancora vivo. Credo che nessuno abbia ricevuto le attenzioni cliniche, analitiche, che ha avuto lui con tac su ogni millimetro del corpo. Sappiamo tantissimo di lui. Non è stato fatto uno scavo archeologico ma grossomodo la situazione è nota: il contesto era quello di una buca, lui era lì dentro e il ghiaccio gli è passato sopra, altrimenti sarebbe stato ritrovato disperso su una superficie molto più ampia. Un caso più unico che raro.

In un tuo recente articolo sul museo archeologico di Bolzano (che è quasi interamente dedicato a Ötzi) citi marginalmente la questione etica. La mummia, com’è noto, è visibile da una sorta di finestrella che dà sulla cella frigorifera nella quale è conservata. Però riporti una citazione da un articolo di John Robb che definisce Ötzi “an example of “re-socialization” that takes place in the Museum. He is an “object” that deserves anthropological consideration—not only as a uniquely preserved fourth-millennium body which can tell us much about prehistoric Europe, but also as a construction of modern imagination which can tell us much about how contemporary, but usually implicit, understandings of the human body permeate visions of the past….. the Ice Man’s body reveals much about how we understand our own bodies”. [“un esempio di ‘ri-socializzazione’ che ha luogo nel museo. È un ‘oggetto’ che merita una considerazione antropologica – non solo come un corpo del IV millennio a.C. straordinariamente conservato che può dirci molto riguardo all’Europa preistorica, ma anche come costruzione dell’immaginazione moderna che può raccontarci tanto riguardo a come la comprensione contemporanea, di solito implicita, del corpo umano, permei le visioni del passato. Il corpo dell’Uomo del Ghiaccio rivela molto di come noi comprendiamo i nostri corpi”]

È John Robb, tra l’altro, che ha parlato di Ötziography e detto che un corpo deve ricevere un nome per poter diventare una biografia.

Lo esponiamo – cosa che ovviamente non faremmo mai con un soldato della Prima guerra mondiale – perché è un costrutto dell’immaginazione moderna più di quanto sia un uomo della preistoria?

Lo esponiamo semplicemente perché fa soldi. Se in quel museo non ci fosse Ötzi, sarebbe visitato molto di meno. Aver scelto di esporlo non è una colpa. Il cadavere ha due nature: una tremenda, naturale, che è quella della decomposizione; l’altra è quella altamente simbolica della reliquia. Ötzi è una reliquia, è diventato un corpo sacro, perché in lui vediamo noi stessi. Quello di Bolzano è il museo di noi che vediamo la morte, ovvero il pensiero unico che sta dietro a tutte le nostre domande. Non c’è nient’altro che non conosciamo così come non conosciamo la morte. Quindi guardandolo, avendolo lì davanti, ci poniamo ancora domande. È la stessa questione di cui parlavamo prima riguardo al futuro anteriore. E se dovessimo finire anche noi in un museo? Ötzi non era Napoleone, non era un personaggio noto, ma uno delle migliaia di persone che sono vissute sulle montagne ed è morto, e per caso l’abbiamo trovato. Il fatto di vedere un corpo umano in quelle condizioni ci colpisce molto, non ci aspettiamo che racconti così tante cose. Di recente, ad esempio, gli hanno rifatto l’analisi del DNA e degli isotopi, dalla quale si è capito che proveniva probabilmente dalla val Venosta.

Il fatto che gli sia stato dato un nome ancora di più è uno strumento per renderlo vivo. Ma se non ci fosse il corpo, il museo sarebbe un’altra cosa. Il corpo è attraente e repellente nello stesso tempo, e le due sensazioni non sono distinguibili. Inoltre, nella nostra cultura il corpo è poco esposto. C’è un’etica dell’esposizione dei resti umani, che in parte risente delle nostre culture: quella mediterranea è più pudica nell’esposizione rispetto al nord dell’Europa. Ad esempio, ho visto una mostra a Dublino sui bog bodies ovvero sui corpi delle torbiere e ho trovato molto impressionante vedere queste persone uccise e poi buttate nelle torbiere, tra cui un corpo con il solo busto, senza testa, le braccia alzate. In questi casi, di corpi mostrati nella posizione in cui sono morti, ci si interroga riguardo al rispetto. Divago un attimo da Ötzi, per dire che di solito gli archeologi trovano una sepoltura, ovvero le tracce fossilizzate di gesti e rituali che qualcuno ha compiuto deponendo il defunto. Diverso è il caso di Rodolfo Beretta e probabilmente anche quello di Ötzi, dove noi vediamo il corpo nel momento e nella posizione in cui è morto: come i morti di Pompei, e come le persone che si lanciavano dalle Torri Gemelle in fiamme e sono state fotografate. È una cosa diversa. È come se tu fossi lì con loro nel momento in cui stanno morendo, c’è la partecipazione.

Negli ultimi anni si discute tra gli archeologi, anche in Italia, di etica dei resti umani e delle modalità di esposizione. Gli archeologi hanno sempre scavato tombe. L’archeologia funeraria è una delle componenti principali di tutte le archeologie. È difficile immaginare cosa sarebbero i musei e la ricostruzione della storia delle civiltà antiche senza i manufatti prelevati nelle tombe. Di etica molto si dibatte ma non viene mai messa in dubbio, tra gli archeologi, la liceità dello scavare tombe. Si dice, si sottintende: scavare tombe è una pratica scientifica, necessaria per la comprensione dell’antichità. Probabilmente è vero, del resto anche l’idea della profanazione è un fatto culturale e profanazione è legittima, in nome della scienza, finché non compare qualcuno che rivendica quei resti.

Il tema è molto complesso ma vorrei porti una domanda più personale. Ho ripensato a Bruce Chatwin che a un certo punto della sua vita si mise a studiare archeologia ad Edimburgo e poi scrisse che un giorno, durante lo scavo di un sepolcro dell’Età del Bronzo, mentre stava per ripulire uno scheletro, fu assillato da un vecchio verso (che aveva letto sulla lapide della tomba di Shakespeare): “Maledetto colui che muove le mie ossa”. Mollò tutto e abbandonò per sempre l’archeologia. È una domanda un po’ ingenua: sinceramente, tu hai mai avuto dubbi?

No, mai. Con tutto il “rispetto”. Anche se penso che sia giusto porsi questo problema. La relazione che abbiamo con i resti delle persone non è mai equilibrata. Noi in quel momento interveniamo su di loro con una azione monodirezionale. Non possiamo chiedere loro cosa volessero. Quindi, come archeologo, cerco di fare quello che in quel momento mi sembra giusto e rispettoso. Ma ripeto: non so cosa si debba intendere con rispetto. Quando parlo pubblicamente di etica, a volte faccio vedere delle fotografie di un cranio di un ragazzino ritrovato a Mezzocorona, che ho scattato tanti anni fa quando ero un giovane archeologo: in una il cranio ha una sigaretta in bocca, nell’altra gli occhiali da sole. Sono foto irrispettose? Certo che lo sono. Adesso non le farei più. Però io non conosco la categoria del rispetto in queste situazioni perché non so cosa loro si aspettassero. Non si aspettavano niente, probabilmente. Però mi sono domandato se noi in qualche modo li stiamo disturbando. Sai che Paul Bahn ha scritto quell’articolo, “Do Not Disturb? Archaeology and the Rights of the Dead”, sulla opportunità di andarli a disturbare. Sinceramente non lo so.

Le tendenze che ci sono adesso nella costruzione di codici etici in cui si rivendicano le identità diverse dei nativi-americani, degli aborigeni, delle varie confessioni religiose, le trovo difficili da valutare. Credo che il valore più alto che dobbiamo dare a questi resti sia quello dell’umanità, se crediamo che gli uomini siano tutti uguali e non ci siano distinzioni di razze, nazionali, religiose. Quindi credo che anche le rivendicazioni di quelli che, secondo me, sono valori – o meglio, interessi – di comunità identitarie siano comunque meno alte del valore dell’umanità che ci accomuna tutti. Dal mio punto di vista, come archeologo, non ci sono differenze, tra un ebreo medievale, un nativo americano e uno schiavo di età romana. Non mi trovo molto d’accordo con le comunità di patrimonio (heritage communities, come sono chiamate). Per loro l’interesse principale non sta nel fatto che ci troviamo di fronte ai resti di persone, ma a persone di una determinata comunità e con una determinata identità sociale. Per me il valore più importante è quello della natura umana, e quello che conta – in questo vedo il rispetto – è ridare dignità a quei resti ricostruendo il più possibile di quella che è stata la loro vita

Di recente ho fatto il referaggio dell’articolo, per una rivista specialistica, di uno studioso dell’Alberta, in Canada, che ha messo a confronto tutto quello che sappiamo su Ötzi con quanto sappiamo relativamente ai resti di un nativo americano rinvenuti qualche anno fa in Alberta. Di quest’ultimo nell’articolo non compare una fotografia, perché non si può mettere; non sono noti i dati antropologici di base, perché è stato subito ri-sepolto; i discorsi che si possono fare sono molto generici, perché non è stato possibile fare nessuna analisi scientifica. Insomma, su di lui non sappiamo nulla perché i suoi resti sono stati rivendicati dalla presunta comunità di appartenenza e subito restituiti.

Restituzioni di questo tipo, secondo me, rientrano più nel politicamente corretto che nell’eticamente corretto. Tutte le tendenze post-coloniali, relative ad esempio alla restituzione dei reperti archeologici conservati in Europa, sono portate avanti soprattutto da stati che sono ancora colonialisti, ad esempio in Africa, seppure in forme diverse rispetto a un tempo, come Francia e Inghilterra. È un politicamente corretto che maschera un agire diverso, e quindi è ipocrita.

Molti chiedono un codice etico per sentirsi tranquilli e per avere delle regole su come comportarsi. Ma un codice etico non può essere una legge; l’etica sta in mezzo tra la norma e quello che puoi fare liberamente, sei tu che devi capire qual è il comportamento corretto.

Le comunità hanno il diritto di fare tutte le rivendicazioni che vogliono, ma dal mio punto di vista, non appartenendo io a una comunità che è stata emarginata e non avendo credenze religiose, penso che il valore di questi resti umani sia solo e unicamente quello di contenere ancora la natura umana. Forse la natura umana è solo un’idea, però per me è l’unico approccio possibile che accomuna quello che trovi in cima alle Alpi, nell’Alberta canadese o altrove.

Un collega di quello che era il Museo Pigorini di Roma mi ha mostrato una volta delle teste tagliate Maori, tatuate, portate in Italia a fine Ottocento. Alcuni rappresentanti della cultura Maori sono andate a vederle, e quelli del museo credevano che le richiedessero indietro; invece, i Maori hanno fatto le loro cerimonie a porte chiuse e poi se ne sono andati. Hanno spiegato che queste teste mozzate erano di tribù Maori ed erano state tagliate da altre tribù Maori, su indicazioni dei bianchi, e poi erano state tatuate post-mortem perché così i bianchi le avrebbero pagato di più.

Cosa servirebbe riportare le teste in Nuova Zelanda? Se invece trovi il modo di raccontare la loro storia, forse riacquistano un po’ della loro dignità. Il rispetto, secondo me, sta nel ridare un senso alla vita e morte di queste persone. Mostrando anche le nostre azioni negative. Il nostro approccio, credo, sia connaturato all’idea di peccato e penitenza: pensiamo che facendo una penitenza, riportando indietro le cose, è come se il peccato non l’avessimo mai commesso. Ma così alteriamo la memoria. Il passato è quello che è, non bisogna edulcorarlo nascondendolo sotto il tappeto. È fondamentale che noi conosciamo quello che è stato fatto. Nascondere il passato è una delle prove più chiare che non abbiamo capito nulla della storia. La storia è ancora maestra di vita, il problema è che noi siamo dei cattivi alunni.

Sono stata ieri al Museo Etnografico Trentino (METS) di San Michele all’Adige, a pochi chilometri da Trento, uno dei più importanti musei etnografici italiani di ambito regionale. Prima era noto come Museo degli Usi e dei Costumi della Gente Trentina. Nel suo genere è uno dei principali d’Europa. Sparsi per l’Italia ci sono decine e decine di musei di civiltà contadina, spesso nati in modo spontaneo, su iniziativa di un privato che ha raccolto una collezione; espongono reperti databili di solito tra fine XIX e prima metà del XX secolo, espressione di una civiltà pre-industriale che è stata definitivamente surclassata a partire dal Secondo dopoguerra.

Gli archeologi non si occupano di questo tipo di cultura materiale. L’archeologia del moderno e del contemporaneo, che sta prendendo piede e diventando una disciplina accademica, non sembra interessata – almeno in Italia – a questo tipo di materialità che è “vecchia” ma non “antica”.

Perché secondo te gli archeologi ne stanno distanti?

Hai ragione, ma non è, credo, una questione di tempi diversi, dipende da come si osservano le cose. Quello dell’archeologo è uno sguardo diverso da quello dell’etnografo.

Sì, è che paradossalmente l’archeologia del contemporaneo si interessa a una materialità più recente di quella esposta in questi musei. Se ad esempio si guardano i reperti considerati nel recente e interessante libro di Giuliano de Felice, L’archeologia del contemporaneo in 10 oggetti (Laterza 2024), essi sono tutti di età post-moderna, dalla pennetta usb alla lattina. Oppure gli archeologi studiano i contesti drammatici quali quelle delle guerre o delle migrazioni in corso (da Lampedusa al Messico), ma non questa materialità che come quella archeologica è ormai priva di funzione però non è ancor finita sotto terra e vive la sua longue durée tra di noi: nelle case, nelle soffitte, nei fienili, nei mercatini d’antiquariato.

Il rischio, molto forte, dell’archeologia del contemporaneo è in effetti quello di diventare l’archeologia del trauma. Senz’altro c’è una archeologia del passato molto recente che guarda a resti materiali che non sono quelli esposti nei musei etnografici. Non ho mai fatto questa riflessione, è interessante. Bisogna ragionare anche sulle etichette che sono state date.

Sì, il nome stesso di questi musei è ambiguo, perché quando parli di musei etnografici il primo pensiero va all’etnografia dei paesi extra europei. Invece quella dei musei di civiltà contadina è una etnografia del noi.

Le Soprintendenze, del resto, prima erano definite dei Beni “demo-etno-antropologici”, una dicitura che comprendeva vari aspetti che non hanno in sé una natura molto diversa, ma vengono visti con occhi diversi. Gli oggetti conservati nel museo di S. Michele all’Adige sono stati raccolti e sistemati grazie al lavoro di Giuseppe Šebesta, un personaggio geniale, che ha collezionato i manufatti quando erano ancora quasi vivi e li ha portati lì, inserendoli in un discorso sulle modalità del lavoro e della produzione. Che gli archeologi abbiano pochissimo interesse per tutto questo è certamente un dato interessante sul quale bisognerebbe riflettere.

Mi ritorna in mente la domanda di prima sugli oggetti di Rodolfo Beretta, qui su una scala diversa e più grande: quale sarà il futuro di questi musei etnografici?

Col tempo le modalità di esposizione si faranno simili a quelle dei musei archeologici? I musei verranno assimilati dalle istituzioni? Gli oggetti diventeranno “cose” di interesse culturale, archeologico, e quindi entreranno in una sfera di tutela che oggi non li include?

Tutto cambierà ma non so come. Poco tempo fa ho riletto le conclusioni di “Il gesto e la parola” di André Leroi-Gourhan. È stato scritto nel 1965 e a tratti mi sembra profetico. Homo sapiens ha avuto un processo evolutivo enorme da un punto di vista mentale, e anche della mente immaginativa, però lui dice: questo sviluppo è stato fatto con un apparato fisiologico che è quello del cacciatore di renne e di mammuth. Noi siamo ancora quelli là, ma la nostra mente sta andando molto avanti, e come si evolverà non è dato sapere. La nostra strada è senza ritorno. Forse a un certo punto arriverà il momento di cambiare il nome al genere e trovare qualcos’altro al posto di Sapiens.

Leroi-Gourhan è stato un paleo-etnografo e archeologo di grande rilevanza e per lui l’archeologia e la paleontologia erano funzionali per capire cosa è successo e cercare di fare qualcosa per il futuro. Prima ci chiedevamo perché facciamo archeologia nel III millennio A.D. Perché ci piace, perché è bello? Perché – come diceva Kent Flannery – è la cosa più divertente che si fa con i pantaloni addosso? Non credo. Ognuno la fa per motivi diversi, ma qual è la sua principale funzione sociale? A cosa serve? Il termine che detesto di più quando lavoriamo nei cantieri è il termine bonifica. Ci chiedono di fare la “bonifica archeologica”. Finché si tratta di esplosivi va bene, bonifichiamo, ma noi non siamo artificieri. Non dobbiamo rendere innocuo il patrimonio. Oggi archeologia e patrimonio sono visti soltanto come potenziali fattori a favore dell’economia e del turismo. Secondo me l’archeologia è invece una disciplina strumentale a capire noi, non per comprendere come vivevamo un tempo ma cosa ci serve per vivere meglio oggi.

Ringrazio l’archeologia perché mi ha suscitato molte domande, alcune delle quali non mi sarei certamente mai posto se avessi fatto un altro lavoro. Per questo, non sono mai riuscito a distinguere tra la mia vita professionale e la mia vita personale, per me sono la stessa cosa. La parte bella del mio lavoro è la riflessione senza fine che genera, e che spero di continuare a portare avanti ora che sono in pensione.

Descrivi il tuo museo archeologico ideale.

Un museo archeologico ideale, secondo me, è quello uscito dal quale dovresti avere in testa più domande di quelle che avevi quando sei entrato. Vorrei che un museo sviluppasse lo spirito critico. La risposta sta nella domanda.

E questo non accade?

Quasi mai, ma non solo nei musei. Siamo carichi di informazioni e immagini sulle quali non possiamo intervenire, ma informazione non è conoscenza. Quello che manca è proprio la capacità di esaminare. Abbiamo carenze di attenzione, riflettiamo poco e i pensieri sono molto veloci. La velocità dell’informazione è una cosa terribile. Sono riflessioni molto terra terra, le mie. Il pericolo, se ce n’è uno, nell’intelligenza artificiale, non è che l’intelligenza artificiale (ovvero un meccanismo che elabora informazioni e dati a velocità altissima, senza capacità critica, per cui il termine intelligenza è sbagliato) diventi come la nostra, ma che noi diventiamo come l’intelligenza artificiale, ovvero che elaboriamo informazioni senza ricavarne nulla.

Quello che manca, secondo me, all’intelligenza artificiale, è l’esperienza. Toccare questo tavolo, ad esempio. Visto che io sono un po’ fissato con l’idea della morte, mi piacerebbe chiedere a una intelligenza artificiale che cos’è la morte. Probabilmente risponderà citando il pensiero di Heidegger, di Tizio e di Caio, tutti i testi filosofici dai Sumeri a Giorgio Agamben. Può essere utile avere queste informazioni ma non è questo il punto.

Noi dovremmo riuscire ad essere sempre dei bambini che continuano a chiedere perché. Mi piace l’idea, che sembra aver detto il filosofo greco Protagora, che l’uomo è la misura di tutte le cose, per quelle che sono in quanto sono e quelle che non sono in quanto non sono. Siamo l’unico animale che può pensare anche a quello che non c’è. Quello che noi pensiamo essere il mondo e la realtà è il mondo e la realtà secondo il nostro metro, cioè noi siamo la misura, non possiamo pensare come una quercia o un cane. Questo lo vedi chiaramente in tutte le forme antropomorfe che continuamente produciamo. I cartoni animati sono pieni di animali antropomorfi. Non possiamo vedere le cose diversamente. Il mondo non è antropocentrico, lo è per noi.

Non voglio sembrare qualunquista ma penso che farsi domande sia il nostro compito più importante proprio perché non avremo mai risposte definitive. Diciamo che la Natura ha delle leggi, ma queste leggi sono una interpretazione umana. Non saremo mai in grado di comprendere completamente la Natura che ci circonda, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Se guardiamo il cielo stellato quello che vediamo è come una superficie archeologica, tutte le stelle rimandano a un passato diverso: è come uno strato archeologico (un tempo statico, non dinamico) dove vedi uno accanto all’altro un muro di età romana e una buca medievale.

“Nostalgia della luce”, Patricio Guzmán, 2010

Di recente ho riguardato un documentario di Patricio Guzmán, un regista cileno, “Nostalgia della luce”, ambientato nel deserto di Atacama dove non ci sono umidità e inquinamento luminoso e hanno installato dei grandissimi telescopi. Il documentario confronta astronomia e archeologia. L’astronomo come l’archeologo osserva il passato, da qualche secondo dopo il Big Bang ad oggi. Vede l’esplosione di una supernova avvenuta migliaia di anni prima, e non può sapere cosa ci sia in quel punto oggi. Quando ero giovane avrei voluto fare l’astronomo, in effetti. Nel deserto di Atacama ci sono anche le tracce di antiche civiltà e i resti dei corpi dei desaparecidos della dittatura di Pinochet, che le donne (figlie, sorelle) vanno ancora a cercare. Una di queste donne dice una frase che mi ha molto colpito: “come ci sono i telescopi che guardano il passato delle stelle, vorrei che ci fosse un telescopio che guardasse verso il basso, per scoprire cosa è accaduto e dove sono i resti dei nostri cari”. Secondo me l’archeologia un po’ quel telescopio ce l’ha.

Ma se non ci facciamo domande, rimarremo sempre fermi sulle stesse conoscenze effimere. Per andare avanti è necessario porsi domande. E guardare il futuro significa guardarsi indietro. Ci sono delle lingue semitiche dove una stessa parola è usata per dire passato e futuro. È un po’ come l’Angelus Novus di Walter Benjamin, l’angelo della storia, che vorrebbe “destare i morti e ricomporre l’infranto”, ma che è spinto irresistibilmente nel futuro con lo sguardo rivolto verso il passato.

Nel libro di Alain Schnapp, Storia universale delle rovine (Einaudi, 2023), ho letto qualcosa riguardo a questo, sul gusto antiquario dei sovrani dell’antica Mesopotamia che andavano alla ricerca dei templi, dei palazzi dei loro predecessori. Non per mera curiosità ma perché erano portatori di una ideologia nella quale il passato svolgeva un ruolo importante nella costruzione del futuro (il cui termine nella loro lingua letteralmente è traducibile con “quello che ci sta alle spalle”).

Esatto, anch’io l’ho letto lì. Come dice Schnapp, abbiamo guardato il passato in tante maniere diverse, per tanti motivi, le nostre esigenze non sono quelle dei re e dei faraoni passati, tra 10.000 anni le persone avranno altre esigenze ancora per guardare il passato o non le avranno più. Tornando alla tua domanda sul museo archeologico, io sono un grande amante della Grecia e quando vado al Museo dell’Acropoli ad Atene provo davvero delle sensazioni uniche, non tanto per la parte classica ma per quella più antica: ad esempio i resti dell’Hekatompedon, l’antico tempio che c’era prima del Partenone, sono meravigliosi. Prima non volevo sentire parlare di bellezza ma quelle cose lì non sono belle, rientrano piuttosto nella categoria del sublime dove accanto alla bellezza c’è anche un certo timore di quello che ti fanno percepire e capire. Mi succede anche con certi territori, ad esempio con Creta. Incute rispetto, a volte anche paura, non è un paesaggio rilassante ma la sento come casa mia. È molto ancestrale. Riconoscendomi come frutto di una civiltà occidentale, sento le mie radici lì. La cultura occidentale nasce da quella greca, che a sua volta ha le sue origini a Creta, che è un’isola, in mezzo al mare color del vino come diceva Omero, dove si sono incontrati Oriente e Occidente, è una sorta di pietra nello stagno dove devi appoggiare il piede per poter passare oltre. Non a caso vi sono nati alcuni dei miti e degli archetipi più importanti per noi, come il labirinto, il Minotauro, Europa. A Creta mi sento in una culla, non so come mai, e l’archeologia c’entra fino a un certo punto. È stato il mio primo amore, poi un episodio di sliding doors mi ha portato dall’Egeo preistorico alla Prima guerra mondiale sui ghiacciai alpini, ma è andata bene così.

A proposito di domande: l’ultima che ti pongo non c’entra niente, la prendo da un libro di Max Frisch, Diario di coscienza, dove ogni capitolo inizia con una sequenza di domande su vari temi della vita. Talvolta sono un po’ spiazzanti. Per te ho scelto questa:

Posto che tu non abbia mai ucciso nessuno: come ti spieghi di non essere mai giunto a farlo?”

Bella domanda. Non me la sarei mai fatta, e non l’avrei mai fatta a nessun altro. Ci devo pensare.

In alternativa puoi confessare un omicidio…

(ride) Posto che non ho mai ucciso nessuno, se non forse con il pensiero, credo che sia solo una questione di fortuna. Il killer vive dentro di me e lo sento sorridere, cantava una canzone degli anni Settanta dei Van der Graaf Generator; c’è qualcuno nella mia testa, ma non sono io, cantavano invece i Pink Floyd. Non è così impensabile ammazzare, l’uomo l’ha sempre fatto con le motivazioni più diverse e più ipocrite. Anche noi, quando intoniamo il nostro inno nazionale e cantiamo “Siam pronti alla morte”, vuol dire che siamo pronti alla nostra morte ma anche a darla agli altri. Come vedi, solo fortuna. Ma la fortuna è un lusso permesso a pochi.

 

Le foto di Punta Linke sono fornite da “Punta Linke. Archivio Ufficio beni archeologici UMSt Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Provincia autonoma di Trento”.

La prima puntata dell’intervista a Franco Nicols di Valentina Cabiale è stata pubblicata il giorno 13 maggio 2025.

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Il sogno di una archeologia beauty-free. Conversazione con Franco Nicolis (parte uno) https://www.carmillaonline.com/2025/05/13/il-sogno-di-una-archeologia-beauty-free-conversazione-con-franco-nicolis-parte-uno/ Tue, 13 May 2025 05:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88296 di Valentina Cabiale

Sei un archeologo atipico, con un percorso professionale curioso: di formazione preistorico, hai lavorato per trent’anni a Trento, dove negli ultimi anni, fino al 2023, sei stato direttore dell’Ufficio Beni Archeologici della provincia; in quel contesto sei approdato, o sei stato trascinato, nell’archeologia del moderno e contemporaneo, in particolare della Prima guerra mondiale. Come riassumeresti in breve la tua biografia?

Beh, come prima cosa ho avuto una esperienza di sliding doors: avrei voluto fare l’archeologo preistorico nell’Egeo, poi un giorno, tanti anni fa, ho perso il traghetto che mi doveva portare a Creta e ho cambiato i programmi, [...]]]> di Valentina Cabiale

Sei un archeologo atipico, con un percorso professionale curioso: di formazione preistorico, hai lavorato per trent’anni a Trento, dove negli ultimi anni, fino al 2023, sei stato direttore dell’Ufficio Beni Archeologici della provincia; in quel contesto sei approdato, o sei stato trascinato, nell’archeologia del moderno e contemporaneo, in particolare della Prima guerra mondiale. Come riassumeresti in breve la tua biografia?

Beh, come prima cosa ho avuto una esperienza di sliding doors: avrei voluto fare l’archeologo preistorico nell’Egeo, poi un giorno, tanti anni fa, ho perso il traghetto che mi doveva portare a Creta e ho cambiato i programmi, dall’Egeo sono passato alle Alpi. Ho fatto il concorso a Trento e sono arrivato nell’Ufficio Beni Archeologici nel 1991. Prima avevo fatto la scuola di specializzazione a Pisa, perfezionandomi in archeologia preistorica. Tuttora tra i miei maggiori interessi c’è una fase particolare della preistoria chiamata età del Rame, il III millennio a.C., molto particolare rispetto a quello che viene prima (le grandi culture neolitiche) e dopo (le solide e molto estese strutture culturali dell’età del Bronzo). L’età del Rame è molto complessa, con una grande frammentazione culturale. Questo è quello che mi interessava, però arrivato a Trento ho dovuto occuparmi un po’ di tutto, dalla preistoria all’età romana, e a un certo punto è successo qualcosa che mi ha cambiato la prospettiva e sono passato, come dico io, dalla clava al missile.

Stavo seguendo lo scavo di un sito protostorico di produzione del rame sull’altopiano di Luserna. È un altopiano, come altri da queste parti, molto ricco di minerali di rame, un metallo che durante le fasi finali dell’età del Bronzo veniva esportato un po’ dappertutto, dalla Grecia alla Scandinavia. E in questo sito le stratigrafie protostoriche sono state tagliate dalle trincee della Prima Guerra mondiale. Era un palinsesto appassionante, dove vedevi le scorie metalliche dell’età del Bronzo insieme ai paletti e al filo spinato delle trincee. Mi ha fatto percepire qualcosa di particolare. Illuminante, per me, è stata inoltre la conoscenza dell’archeologo Armando de Guio che mi ha fatto comprendere, in maniera direi geniale, che cos’è l’archeologia. A livello accademico rimane quella disciplina che si interessa dell’antichità ma gradualmente ho capito che qualsiasi genere di passato è indagabile con metodo archeologico.

A partire da quello scavo è iniziato un mio interesse particolare per la Prima guerra mondiale, che in Trentino ha lasciato delle tracce ancora oggi impattanti e ben visibili, sia sul terreno (i forti austro-ungarici, resti di opere murarie, campali e trincee) sia nelle stratigrafie sepolte. Qui passava il confine tra impero d’Italia e quello austro-ungarico, il Trentino è stato austro-ungarico sino alla fine della Prima guerra mondiale. E qui è stata combattuta la cosiddetta Guerra Bianca: i generali pensavano che conquistando le cime si sarebbero controllate anche le vallate; pertanto, hanno quasi urbanizzato le cime più alte (sino a quasi 4000 m, come l’Ortles). Vi hanno portato materiali e soldati, in buona parte uomini capaci di andare a quelle altitudini, in parte gente che veniva da tutta Italia e non aveva alcuna esperienza delle condizioni di vita sulle alte quote.

Mi sono così trovato a lavorare in un contesto ambientale completamente diverso, in quanto si scava nel ghiaccio e non nella terra. In quel contesto, una esperienza molto forte a livello personale è stata quella di sentire l’odore degli oggetti. È una esperienza che ti fa capire che quello che generalmente trovi, negli altri siti archeologici, è solo una minima parte di quello che è rimasto. Questo tipo particolare di “archeologia glaciale” mi ha poi portato ad occuparmi anche di un altro aspetto, che non è di competenza dell’Ufficio Beni Archeologici ma del Ministero della Difesa, ovvero il recupero dei corpi dei soldati. Anche questo è un capitolo della mia vita professionale che mi ha stimolato molte domande, con quasi nessuna risposta. Il trattamento dei resti umani per l’archeologo è una cosa normale, ma quando hai a che fare con resti umani di età così recenti, che in alcuni casi tornano ad avere un nome, un cognome e dei parenti, è molto diverso. Non si tratta di archeologia forense, perché non ci può essere evidenza di reato; il reato è quello della guerra e ormai è andato in prescrizione… Tutto questo mi ha portato a riflettere sull’etica dei resti umani, di qualsiasi epoca, e mi ha fatto crescere molto umanamente. Mi sono posto e mi pongo domande che vanno al di là della sfera professionale e che riguardano “cosa resta in quel che resta”. Di quello che siamo stati, qualcosa resta a livello materiale, ma cosa c’è in quel che resta? Su questo che è il problema di tutti gli uomini, ovvero la riflessione sulla morte, continuo a pormi interrogativi, del tutto laici, ai quali non trovo e non voglio trovare risposta.

Ecco, questa è un po’ la mia storia. Negli ultimi anni sono ritornato anche agli studi preistorici. Nel 1998 avevo organizzato un convegno sul fenomeno del “bicchiere campaniforme” (in inglese Bell Beaker) nell’età del Rame. Sin da fine Ottocento si discute su questo vaso campaniforme che è stato ritrovato in mezza Europa, a macchia di leopardo, ma che non si sa come interpretare: se è parte di una cultura, di una moda, se è stato portato dai cavalieri nomadi, ecc. Non si è ancora capito. Oggi, con le scienze applicate all’archeologia, e soprattutto con lo studio del DNA, con la genetica, la genomica, la proteomica, i dati iniziano a farsi non più chiari ma più complessi, e la complessità è una cosa positiva: si iniziano a comprendere alcune storie delle persone che portavano con sé il vaso campaniforme. Con un collega di Helsinky e una di Budapest, Volker Heyd e Gariella Kulcsar, abbiamo organizzato due convegni, una prima parte a Riva del Garda, 25 anni dopo quel 1998, incentrato sulla seconda parte del III millennio, e un secondo a Budapest, sulla prima parte del III millennio (intorno al 3100-3000 a.C.) quando c’è una grande migrazione di popolazioni che dalle steppe russe-ucraine si spostano abbastanza velocemente – erano cavalieri – verso l’Europa centrale. Una migrazione ricostruibile sulla base dei dati della genetica, molto utili anche per studiare il genoma attuale. Nel gennaio dello scorso anno su Nature è uscito un articolo in cui si dice che la presenza del gene delle steppe, che si trova ancora soprattutto nelle popolazioni dell’Europa centro-settentrionale, sembra essere correlato alla maggiore presenza delle malattie auto-immuni quali la sclerosi multipla.

A livello archeologico comprendere questi movimenti di persone è più complicato. Solitamente le migrazioni lasciano poche tracce materiali, se non nessuna. Lo spostamento dei Cimbri e dei Teutoni, che conosciamo a livello letterario, non ha lasciato evidenze. Con la genetica invece si riconoscono legami parentelari tra persone distanti migliaia di chilometri. Il problema è che i processi evolutivi genetici non sono direttamente connessi, secondo me, a processi di sviluppo culturale. La mobilità è molto differenziata, e oltre alle migrazioni bisogna tenere in conto i matrimoni misti e gli scambi commerciali. In Gran Bretagna il vaso campaniforme arriva con una migrazione di queste persone con il gene delle steppe, che portano anche la metallurgia, ma in altri posti succedono cose completamente diverse.

Com’è fatto questo vaso campaniforme e a cosa serviva?

È un vaso a forma di campana rovesciata, con un profilo a “S”, di solito con bande orizzontali decorate a incisione o a pettine o a cordicella; solitamente ha un colore rossastro e si ritrova spesso nelle tombe, generalmente insieme ad altri manufatti che compongono un “kit campaniforme”: ad esempio il bracciale da arciere, ovvero una placca di osso o di pietra che doveva proteggere il polso dalla corda dell’arco, alcuni tipi di ornamento e di frecce.

Vaso campaniforme dalla Repubblica Ceca (Wikipedia)

Il vaso campaniforme lo si trova dal Portogallo alla Polonia, dal Marocco alla Danimarca, in modo discontinuo, e dovremmo anche cercare di capire perché c’è ma anche perché non c’è, in certe zone. Credo che la ricerca sia ancora molto lunga e non sia facile, anche perché ragioniamo sempre per categorie: conosciamo la cultura neolitica dei “vasi a bocca quadrata”, la cultura palafitticola “di Polada” nell’età del Bronzo, altre “culture” e in mezzo ci sono tutti questi fenomeni che non hanno le caratteristiche a cui l’archeologo dà il nome di “cultura” ma sono il segno di meccanismi culturali più complicati.

In mezzo c’è molto che non appartiene a nessuna delle “culture” note.

Esatto, o ci sono “gruppi culturali”, “sub-culture”, la nomenclatura è varia e indicativa del fatto che non sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Il fenomeno del vaso campaniforme dura circa 500 anni ma ancora non comprendiamo che cos’è e dove è nato. Ci sono state tantissime ipotesi, ad esempio che si tratti di una moda legata a dei riti come quella del peyote nell’America centrale (dove c’è effettivamente un kit di oggetti funzionali a un rituale). L’ipotesi sarebbe sostenuta dal fatto che all’interno dei vasi si sono ritrovate tracce di bevande alcoliche, in particolare birra, in altri c’erano dei pollini di Filipendula che viene utilizzata per aromatizzare l’idromele. Le analisi chimico-fisiche permettono in effetti di comprendere storie che sarebbero inattingibili dall’archeologia tradizionale. Ad esempio, la storia dell’arciere di Amesbury, un ragazzo sepolto (con alcuni bicchieri campaniformi) vicino a Stonenhenge, intorno al 2400 a.C., dunque nel periodo in cui Stonehenge acquisisce l’aspetto monumentale che vediamo oggi. Con l’analisi degli isotopi dell’ossigeno nei denti si è visto che questo ragazzo non era cresciuto bevendo acqua di quella zona ma proveniva probabilmente dalla Germania o dalla Svizzera, quindi era migrato attraversando il canale della Manica.

È evidente che dobbiamo riuscire a costruire un quadro meno schematico, meno legato alla definizione di cultura, e più connesso alla capacità di questi individui di muoversi in maniera individuale o in piccoli o grandi gruppi. Le migrazioni dei portatori dei geni delle steppe, c.d. “cultura di Yamnaya”, sono ben riconoscibili, ed è possibile che siano state agevolate dalla diffusione di malattie: ad esempio nel periodo delle migrazioni sembrano comparire in diverse aree le prime tracce di Yersinia pestis, il batterio della peste. Quindi è possibile che queste popolazioni abbiamo trovato dei vuoti demografici, che hanno agevolato i loro spostamenti.

Ma, ripeto, le migrazioni sono molto difficili da percepire dal punto di vista archeologico. Spesso inoltre viaggiano le idee (l’idea di un vaso, ad esempio) piuttosto che le persone e gli oggetti. Però l’uomo non è un albero e ha sempre cercato posti migliori dove vivere, o a volte è migrato per necessità, per motivi di sicurezza, o ambientali. Quando sugli altopiani di Lavarone e di Luserna, e presso val dei Mocheni, intorno al 1200 a.C., hanno iniziato a sfruttare i minerali per ottenere rame, andavano sulle alte quote perché lì c’era il legname necessario per fare andare i forni. In quel periodo dobbiamo immaginare decine, centinaia di forni e di siti produttivi. La conseguenza è che hanno probabilmente pelato queste montagne come delle patate, causando un disastro ambientale. Spesso su quegli altopiani trovi i mucchi di scorie metalliche protostoriche accumulati a lato delle trincee scavate nella Prima Guerra mondiale: un palinsesto difficile da far capire a chi non è archeologo. L’archeologo è ancora percepito come quello che trova oggetti, mentre la sintassi di un contesto archeologico è ben più complessa. Provo a raccontarlo negli incontri pubblici quando cerco di spiegare perché chi va a raccogliere in giro oggetti della Prima Guerra mondiale sbaglia. Conosciamo perfettamente la storia di quella guerra, ma in mezzo a quella Storia grande ci sono tante storie di persone, soldati, che non conosciamo affatto. Quei soldati di cui ritroviamo i corpi, è come se non fossero mai esistiti. Quindi se raccolgo in maniera non corretta i loro resti, perdo la possibilità di dare loro un nome. Ci riusciamo raramente, ma qualche volta sì. E per me è un risultato importante a livello non professionale ma etico e umano.

A Trento nel 2018, in occasione del centenario della Prima Guerra, hai organizzato una mostra presso Cappella Vantini di Palazzo Thun, che si intitolava storie senza Storia. Tracce di uomini in guerra (1914-1918). Tra il 2012 e il 2017, a causa dei cambiamenti climatici, sono riemersi i resti di alcuni soldati caduti durante la guerra e in particolare due soldati dell’esercito austroungarico, dentro un crepaccio a circa 3000 m sul ghiacciaio del Presena, e due alpini italiani nel gruppo dell’Adamello.

storie senza Storia, Trento 2018

Nella mostra erano esposti i vestiti e i pochi oggetti personali che questi uomini portavano con sé, tra cui alcuni documenti cartacei che hanno permesso l’identificazione di uno di loro, Rodolfo Beretta. Gli altri tre restano anonimi. I due austriaci sono morti giovanissimi probabilmente durante un combattimento, i cappotti e le giubbe presentano tagli netti e verticali fatti per portare via i loro oggetti personali. I due italiani, invece, avevano del filo telefonico attorcigliato intorno alla vita ed erano probabilmente in cordata quando sono stati travolti da una valanga.

Quella piccola mostra trasudava umanità. È evidente che il primo obiettivo dell’archeologia di quel genere di contesti è di natura etica, in primis ridare sepoltura a corpi insepolti e un nome, dove possibile, all’individuo, e restituire il corpo a una famiglia.

Ma questa archeologia è anche un modo di andare contro alla Storia che li ha travolti, negando la formazione delle loro storie personali? Evidenziare la amoralità di quella Storia.

Senz’altro. Difatti mi piacerebbe fare alcune riflessioni a partire da una suggestione, da un titolo che ho in mente, che è “Siam pronti alla morte?”. Questi ragazzi erano pronti alla morte? Chi è pronto alla morte? È una domanda che ti poni quando ti avvicini ai resti di questi ragazzi spesso giovanissimi, a volte non hanno neanche 18 anni – gli austro-ungarici hanno arruolato non solo i ragazzi del ‘99 ma anche quelli del 1900.

Credo che l’archeologia sia una disciplina strumentale a una riflessione sul nostro passato, perché anche durante questa conversazione mi viene spontanea una domanda, ovvero: Perché facciamo archeologia oggi? Per tutelare un patrimonio? E perché lo tuteliamo? È una domanda che per il momento resta lì. Ma nel caso dei contesti della guerra ho una risposta, che è quella di dare dignità a questi resti. Quello che rimane in quei resti è proprio l’umanità, nel senso di natura umana (in inglese humanness, non humanity). I resti umani, anche il più piccolo frammento di osso, hanno due caratteristiche, secondo me, apparentemente discordanti: ogni frammento di tessuto umano contiene dentro di sé l’intera natura umana, ma al contempo è il segno (e il senso) di una individualità, perché ogni persona è unica. Queste caratteristiche rendono fondamentale qualsiasi resto umano nella nostra storia, e tutti di pari dignità. In tutti i codici etici riguardanti il trattamento dei resti umani – ne sono stati scritti diversi – si specifica che bisogna avere rispetto: ma cosa vuol dire? Lo tocco con i guanti? Per me rispetto significa ridare la dignità a questi resti, mostrare che sono vissuti: questo è il modo per dare un senso alla loro presenza nel nostro contemporaneo. Quando parlo di queste cose mi viene spesso la voglia di citare delle poesie. C’è, ad esempio, una poesia dove Ungaretti racconta di un suo amico africano che si è suicidato perché non aveva più patria. Alla fine dice “E forse io solo so ancora che visse”. Per me questo, riconoscere che qualcun altro è vissuto, significa dare un significato.

Come diceva Mortimer Wheeler, noi archeologi non scaviamo cose ma persone. Ma le persone, quando le troviamo, sono persone. Io sono più dell’idea che scaviamo parole, tutti gli oggetti sono parole che dobbiamo mettere in ordine per creare un discorso e se non lo facciamo in maniera corretta non capiremo nulla. Un fisico, Guido Tonelli, ha detto: se tu prendi le parole dell’Infinito e le metti in un computer, quello te le combina nelle migliaia di possibilità, una diversa dall’altra. Ma c’è un solo testo che è quella poesia di Leopardi: “Sempre caro mi fu quell’ermo colle”. L’ordine è importante; la successione, la grammatica, la sintassi. È la stessa cosa che facciamo noi. Non si tratta solo di raccogliere oggetti. Ogni oggetto ha una sua luce ma getta luce anche sugli oggetti accanto, e questo è il contesto. Così il nostro metodo può aiutare anche a ricostruire quelle vite che Michel Foucault chiamerebbe infami: uomini infami, gente che non è mai stata conosciuta. Preferisco scrivere biografie più che storie. Umberto Eco diceva che nelle biblioteche c’è la nostra memoria; secondo me anche nei cimiteri, dove non ci sono libri ma ogni tomba è un testo. Adoro le biblioteche ma lì non c’è tutta la nostra storia. I resti materiali sono muti ma spesso più attendibili di quelli scritti. Chi scrive lettere, diari, libri, lo fa come vuole e quando vuole. La storia recente della Prima guerra mondiale, così come tante altre, è fatta anche da persone che non hanno lasciato nulla di scritto, ma sono testimoni muti, come le loro uniformi. Bisogna sforzarsi di sentire la loro voce flebile.

Questo è uno degli aspetti che più mi ha appassionato negli ultimi anni, queste “storie senza Storia”. Pensiamo a Napoleone, che ha conquistato il mondo con un esercito che non aveva un nome, perché è soltanto dalla Prima Guerra mondiale che i soldati sono stati registrati. Battaglia di Waterloo, 1815, in una giornata muoiono tra i 10 e i 20.000 soldati, e decine di migliaia di cavalli. I colleghi che si occupano di Battlefield Archaeology hanno fatto delle ricerche sul campo di battaglia, e cos’hanno trovato? Niente. Pochissimi scheletri, di uomini e di cavalli. Dove sono finiti? Andando negli archivi si è visto che in quel periodo nella zona c’è stato un grande sviluppo di zuccherifici. Andavano a raccogliere le ossa per usarle nella raffinazione dello zucchero.

Orazio diceva Dulce et decorum est pro patria mori. Dulce senz’altro, in questo caso. Decorum, non molto. Queste persone sono scomparse, di loro non si sa più nulla. Qual è la dignità di un uomo rispetto a un altro? Io cerco chi non ha lasciato alcun segno di vita, qualcuno che è come se non fosse esistito, gli uomini infami di Foucault ricordati soltanto nei testi dei tribunali francesi dove si diceva quale crimine avevano commesso. Quelle dei milioni di soldati e di civili morti in tutte le guerre sono in qualche modo “vite infami”. Ecco, mi piacerebbe ridare un po’ di dignità a queste persone. So che propriamente il mio lavoro non è questo, ma ho una visione dell’archeologia diversa da quella dove tutto è bello e immaginifico. Vorrei una archeologia beauty-free, perché della bellezza non ne posso più. Questo è il motivo per cui, secondo me, su qualsiasi resto umano, ad esempio anche sulla sepoltura isolata, medievale, che trovi in un contesto urbano e che ovviamente non è identificabile con nome e cognome, bisognerebbe fare le indagini antropologiche, biologiche, genetiche. Per me, da non credente, è il modo per ridare la dignità umana a quei resti. Ricostruire parte della loro vita, il curriculum vitae ma anche il curriculim mortis (pensiamo a quei soldati austriaci con i tagli sulle giacche).

Articolo di Dino Buzzati, Corriere della Sera 13 agosto 1952

Lasciarlì lì, sulle alte vette, come chiedeva Dino Buzzati in un articolo sul Corriere della Sera dei primi anni Cinquanta, non si può più fare sia perché le “bare di cristallo” (il ghiaccio) si stanno sciogliendo, sia perché sono a rischio di vilipendio: ci sono persone, rapaci dal volto umano, che rubano la piastrina e altri oggetti ai cadaveri che affiorano. È chiaro che non basta riportarli giù con le fanfare, e poi dimenticarci di loro.

Qualche settimana fa sono andato alla scuola Gandhi di Villa Raverio, il paese dove è nato Rodolfo Beretta. Ho parlato agli studenti, c’erano anche i pronipoti di Beretta. Sono felice di poter fare questo e lo considero importante. Scoprire l’identità è fondamentale, anche se si riesce raramente. Il nome ha una grande forza. Non è un caso che Ötzi abbia ricevuto un nome: all’inizio lo chiamavano Iceman, l’uomo del Similaun, l’uomo venuto dai ghiacci, alla fine ha ricevuto un vero nome, senza il quale sarebbe restato un oggetto.

Prima parlavi di Waterloo, hai letto Il colonnello Chabert di Balzac? È la storia di questo colonnello che viene colpito da una sciabolata al cranio durante la battaglia napoleonica di Eylau e viene gettato in una fossa comune. Solo che non era morto e dopo qualche ora si risveglia. Esce dalla fossa, passa attraverso tutta una serie di peripezie e finalmente dopo un po’ ritorna a casa, dalla famiglia. Ma molte cose sono cambiate, perché tutti lo credevano morto. È un racconto che fa riflettere sul fatto che, quando qualcuno è dato per defunto, è sparito, non esiste più, può dare un po’ fastidio se poi ricompare, perché scombina il corso delle vite degli altri che dopo il lutto si sono ricomposte.

Non conosco questo racconto però recentemente ho letto il libro di Pete Flamm dal titolo Io?, pubblicato da Adelphi: è la storia di un soldato semplice che torna dalla Prima Guerra mondiale e, in un intreccio espressionista (il libro è del 1926), si rende conto un po’ alla volta di aver rubato l’identità di un ufficiale morto in battaglia. Quel punto di domanda dopo l’Io del titolo fa intuire il vortice psicanalitico a cui va incontro il protagonista.

Tra l’altro, tutto questo mi fa venire in mente un aneddoto, ancora a proposito di Rodolfo Beretta. Dopo averlo identificato, grazie al restauro del materiale cartaceo che portava nella giacca, ho chiamato l’ufficio di Onorcaduti (oggi si chiama Ufficio per la Tutela della Cultura e della Memoria della Difesa) per dire che eravamo risaliti al nome. La prima cosa che mi hanno chiesto è stata: lei come fa ad essere sicuro che quella sia la sua giacca? È una osservazione molto importante. Tempo dopo ho scoperto ad esempio che in Valsugana, dopo la Seconda Guerra mondiale, un tale tornato dalla guerra era stato preso per un fantasma, perché nel frattempo era stato ritrovato un corpo che indossava la sua giacca, con i suoi documenti. In realtà lui aveva imprestato la giacca a un commilitone. Si tratta di situazioni probabilmente non così infrequenti. Su Rodolfo Beretta i dubbi si sono poi sciolti perché abbiamo trovato il certificato di morte, i documenti che parlavano della valanga e quindi abbiamo avuto la certezza dell’identificazione. Ma le biografie di chi torna dalla guerra sono spesso estremamente interessanti.

Gli oggetti di Rodolfo Beretta, tanto più perché appartenenti a un individuo di cui conosciamo nome e cognome, sono commoventi: gli scarponi, una pipa, un pettine, un bossolo di proiettile trasformato in penna stilografica (finta), un anellino femminile forse di una fidanzata, la ricevuta di un pacco che gli era stato spedito e che conservava il suo nome. Sono una materia memoriale stabile, che non muterà; però potranno cambiarne l’interpretazione e le modalità di percezione, perché la memoria è un processo in continuo divenire. Che futuro immagini per questi reperti? Entreranno prima o poi in un museo, non usciranno mai più dai magazzini, tra qualche decennio chi li recupererà da qualche cassetta non sentirà più alcuna prossimità emotiva con essi?

Non so. A me ha fatto piacere che i familiari abbiano concesso gli oggetti per quella mostra, cosa non scontata. Mi piacerebbe molto che andassero a finire da qualche parte, ad esempio al Museo degli Alpini al Doss Trento, però se presentati come un contesto particolare, non come parte del mondo degli alpini, della guerra, dei militaria. Non come oggetti, ma come biografie. Le divise che abbiamo esposto nella mostra non sono le divise o gli scarponi che si trovano nei musei della guerra, di cui si specifica modello, anno ecc., ma contengono ancora le persone che li hanno indossati, sono quelle persone.

Mostra storie senza Storia, Trento 2018 (da www.cultura.trentino.it)

Una cosa che vorrei fare è una pubblicazione completa su tutti i recuperi di resti umani che abbiamo fatto. I contesti di ritrovamento, dagli altopiani sino ai 3200 m di quota, sono di vario genere: scene di battaglia, sepolture opera di altri soldati, caduti sotto valanghe, fosse comuni. Vorrei presentare i risultati delle analisi bioantropologiche e tutti i materiali rinvenuti; raccontare le storie singole, laddove riusciamo. Ad esempio, stiamo studiando una fossa comune austro-ungarica rinvenuta al passo del Tonale. Il rinvenimento deriva dalla notizia che un signore bresciano ha trovato nel diario di suo nonno, dove si dice che una notte, dopo l’“Operazione valanga” (gli austro-ungarici al passo del Tonale volevano infilarsi nelle linee italiane e scendere verso Milano ma non ci sono riusciti, in una notte sono morti migliaia di uomini), in una fossa di granata sono stati buttati 94 soldati austro-ungarici. Abbiamo fatto uno scavo e abbiamo trovato una fossa contenente 12 uomini, gli altri non sappiamo dove siano. I corpi sono stati deposti uno sopra l’altro, su quattro strati, sepolti in fretta con poca terra sopra (infatti abbiamo trovato le tracce di insetti di superficie, non di quelli fossatori). Intrecciando i dati derivati dalle analisi bioarcheologiche e degli isotopi con quelli degli archivi viennesi e con gli elenchi dei dispersi, stiamo cercando di identificare almeno alcuni individui. Se riuscissimo a identificarne anche solo uno, sarei una persona più felice.

Se penso a questi ragazzi che avevano ancora addosso i contenitori con le maschere antigas e i ramponi, morti a cataste e buttati in una fossa comune: cosa rimane di loro? Quello che resta ci dovrebbe dire non solo chi erano, cosa mangiavano, se soffrivano il mal di denti, ma dovrebbe anche farci riflettere. Dovremmo domandarci se fossero pronti alla morte oppure no. In una delle scuole superiori dove sono stato, uno dei ragazzi mi ha chiesto: “Pensa che siano morti per qualcosa?”. I ragazzi riescono a guardare al di là. Qualche anno fa, un insegnante ha fatto scrivere agli studenti delle poesie a partire dal mio racconto, ed è molto interessante che alcune di queste poesie o piccoli racconti vadano molto oltre rispetto a quello che facciamo noi. Noi inseriamo Rodolfo Beretta o quello che è il nostro oggetto di ricerca nel contesto storico. I ragazzi giovani, che hanno la virtù poetica dell’immaginazione, riescono ad attualizzarlo, a farlo arrivare qua, nell’oggi, a farlo diventare uno di loro. Alcuni di questi scritti, per quanto a volte naïf, mi hanno davvero commosso. Questo è uno dei modi per far capire che queste vite non sono finite ma continuano. Il nostro compito è di non dimenticare. La memoria non è un fatto, è un atto. La Storia ha smontato tutte queste vite, noi dobbiamo rimetterle in azione. Altrimenti, come per quell’amico di Ungaretti, soltanto qualcuno saprà che sono esistite.

Nell’atto della memoria, gli oggetti sono fondamentali. Hai scritto, riguardo alla mostra, che la scelta di esporre gli oggetti personali voleva essere una sorta di liturgia laica per celebrare la vita, il loro non essere stati: questo era possibile facendo diventare quegli oggetti personali, quei cappotti esposti sui manichini, soggetti e non oggetti, presenza invece che rappresentazione. Ma questo forse è l’intento che molte comunità e società del passato, anche non troppo lontano, hanno tentato di mettere in pratica seppellendo i loro defunti con un corredo, ad esempio il “kit campaniforme” dell’età del Rame di cui parlavi prima: una scelta di oggetti che in qualche modo assumono funzione vicaria e permettono la continuazione della vita. Quelli esposti componevano un corredo laico, per quanto in differita di un secolo dalla morte?

Sì, il corredo ha un valore molto importante. Però c’è anche da dire che nella sepoltura non c’è solo la persona fisica, ma soprattutto la persona sociale. Come diceva Robert Hertz, la morte è una rappresentazione collettiva. Non è il morto che si auto-rappresenta e si mette il corredo; chi lo fa sono i parenti, che gli mettono quello che, secondo loro, identifica e rappresenta la sua natura. È un rituale collettivo che deve dimostrare a tutta la comunità il valore sociale di quella persona. Quindi quando in una sepoltura neolitica trovi dei vasi bellissimi, le punte delle frecce che erano nella faretra, una ascia in pietra levigata, è tutto parte della rappresentazione collettiva della morte di quell’individuo. Noi conosciamo sempre e solo la morte degli altri e generalmente non prendiamo decisioni sulla nostra.

Gli oggetti di Rodolfo Beretta e degli altri soldati compongono invece un “corredo” che si erano scelti. Le scelte legate alla materialità sono estremamente complesse. La signora che dopo il crollo delle Torri Gemelle ritrova del marito soltanto le scarpe, e tuttavia decide di fargli un funerale, non è una cosa banale: per lei, quelle scarpe sono il marito. Dal punto di vista della percezione gli oggetti sono le persone. Quando c’è stata la mostra a Rovereto sulla Prima guerra mondiale, hanno fatto una installazione di arte contemporanea con molti oggetti provenienti da Punta Linke (una postazione austro-ungarica della Guerra Bianca), disposti in file verticali, come delle colonne. Subito non ne avevo capito il senso. Poi quando hanno finito l’opera, alla base di ogni fila hanno messo un paio di corpiscarponi. Quella era la presenza, per me: non la rappresentazione ma la presenza. Che è cosa del tutto diversa da quella che si può vedere a Redipuglia dove c’è scritto “presente”: quella è una rappresentazione. Le mie sono suggestioni, ma sono convinto che gli oggetti che troviamo con questi soldati e anche in altri contesti archeologici raccontino e incorporino molto di più di quello che solitamente comprendiamo.

Mucchio di soprascarponi in paglia, Punta Linke

Tra i contesti più interessanti della Prima guerra mondiale in cui ho lavorato c’è stato quello presso il Passo del Menderle, dove ci siamo trovati di fronte a una scena di battaglia, vicino a una trincea austro-ungarica, verso la Vallarsa. Ci erano stati segnalati i resti scheletrici di un individuo, recuperati da qualcuno e abbandonati in un sacchetto di plastica. Abbiamo deciso di scavare un tratto della trincea, che era ancora riconoscibile sul terreno. La trincea era vuota ma all’esterno c’erano i resti di tre soldati italiani, uccisi da una granata italiana. Attraverso gli studi degli archivi storici siamo riusciti a ricostruire bene l’accaduto. I resoconti storici dicono solo che gli attacchi italiani avvennero nel luglio del 1916 e fallirono. Non abbiamo nomi dei caduti. Possiamo ricostruire che questi soldati sono arrivati lì di notte, quando si svolgevano operazioni di questo tipo, e si sono appostati all’esterno della trincea mentre gli austro-ungarici si ritiravano in quelle poste più in alto. La mattina dopo aspettavano il contrattacco austro-ungarico da est, perché uno dei tre aveva già indossato gli occhiali anti-riflesso, quindi era pronto a combattere con il sole in fronte. Però con una granata italiana, di cui è stata ritrovata una parte, sono stati uccisi. Siro Orfelli, che ha fatto l’indagine archivistica, ha scoperto che qualche settimana prima gli austriaci avevano catturato un pezzo di artiglieria agli italiani, comprese le munizioni. Facendo il calcolo della gittata, non era possibile che i tre fossero stati colpiti da fuoco amico. Erano gli austro-ungarici che stavano usando l’artiglieria italiana.

Sembra che sul versante della Vallarsa si vedessero sul terreno, fino agli Ottanta-Novanta, diversi elmetti italiani. Sono stati falciati come le mosche. Vedendo queste cose uno non può non domandarsi: a cosa è servito? Quando i ragazzi me lo chiedono, rispondo che non è servito a nulla.

Però questi contesti saranno recenti ancora per qualche generazione, e poi? La memoria è destinata a mutare in fretta e la prossimità emotiva a diluirsi. Non hai l’impressione che questa sia una archeologia provvisoria, temporanea?

Sì, però il contemporaneo diventerà qualcos’altro. Mi sono avvicinato alla Prima Guerra mondiale ma ci sono molti altri passati recenti importanti, ad esempio per me lo sono tutti quei luoghi che sono abbandonati, dimenticati, isolati perché non si devono vedere. Mi interessano perché c’è l’intenzione di volerli abbandonare, non sono ancora sottoterra ma sono messi in disparte, perché non servono più. Il relitto in questo caso non è quello che sta sotto, ma quello che sta fuori da noi. Può essere un contesto anche di pochi anni fa. Un approccio archeologico verso questi contesti è molto più vivo nelle culture dove non c’è una grande archeologia dell’antichità, mentre noi soffriamo, paradossalmente, di un patrimonio antico enorme.

Un altro tema che mi interessa è quello del passato che noi lasceremo: il tempo del futuro anteriore, quando tutto sarà stato, noi non ci saremo più ma sarà restato qualcosa di noi, cosa? Sicuramente sarà qualcosa di diverso da quello che abbiamo trovato noi del passato perché oggi c’è il sistema della tabula rasa. Quando costruiamo qualcosa non manteniamo le fondamenta di quello che c’era prima. Qui dove siamo [Piazza Cesare Battisti, Trento], sotto i nostri piedi c’è la città romana, ci sono le cantine medievali di questo quartiere che si chiamava Sas e che è stato abbattuto negli anni Trenta per realizzare questa piazza. Oggi, invece, quando costruiamo edifici e infrastrutture demoliamo completamente le strutture degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, Sessanta, a meno che non siano entrate in un regime vincolistico. Quello che potrà vedere l’archeologo del futuro sarà la traccia in negativo dell’azione dell’uomo. Tra qualche decennio, chi farà l’archeologo del mondo contemporaneo probabilmente dovrà ragionare in modo diverso da noi, perché ci saranno molti di questi contesti dove a prevalere sarà l’assenza, quello che manca.

Questa è la ragione, peraltro, per cui in molti cantieri ci sono gli archeologi che fanno l’assistenza agli scavi dei mezzi meccanici: per documentare eventuali tracce antiche che saranno del tutto cancellate dalle nuove costruzioni. Ti pongo ora una domanda che riguarda, invece, il livello individuale. L’archeologia come la conosciamo e pratichiamo è una disciplina moderna. Noi che sappiamo che esiste, ne siamo in qualche modo condizionati? Giochiamo di più a fare i morti di quanto facessero i nostri avi? Siamo più attenti alla eredità materiale che lasciamo, sapendo che qualcuno potrà ritrovarla nel futuro?

Non credo. Personalmente non penso di comportarmi nella consapevolezza che qualcuno vedrà cosa lascerò. Ma un esercizio psicologico che mi piacerebbe fare è proprio questo: chiedere a un gruppo di persone quali cose personali vorrebbero che venissero ritrovate dopo la loro morte. Gli oggetti ma anche i contesti. A ognuno di noi può succedere di uscire di casa la mattina pensando “questa cosa la sistemo stasera”, poi di avere un incidente e morire. Ed entrare nel mondo di una persona morta è davvero straziante. C’è un romanzo di Paul Auster, L’invenzione della solitudine, che parla proprio di questo, riguardo alla morte di suo padre. Di cosa significa entrare nella casa, nella cucina, nel bagno, nella camera di una persona che è morta e non sapeva di morire e quindi pensava di tornare a sistemare tutto: la bottiglia di vino lasciata a metà, il bicchiere sporco, i piatti ancora nel lavandino. Questo è il contesto che noi lasciamo senza sapere che lo lasciamo. Mi piacerebbe sapere cosa le persone vorrebbero che rimanesse dopo che loro non ci saranno più.

Risponderebbero onestamente?

Forse sì, e in ogni caso sarebbe interessante. È un esercizio di futuro anteriore. Cosa sarà quando tutto sarà stato, quando il mondo per noi sarà finito ma ci sarà ancora? Me lo sono chiesto più volte. Credo che tutti noi vorremmo che rimanesse qualcosa. Magari non il corpo. Però ognuno ha un desiderio di permanenza e permanere vuol dire lasciare qualche traccia. Cosa si desidera che permanga di noi? Il ricordo prima o poi scompare, quello che rimane è proprio la traccia materiale. E qualcuno, trovandola, ci potrà tirare fuori.

Ho scritto un articolo su tre contabili che lavoravano in un palazzo qui vicino negli anni Cinquanta. Prima parlavi di giocare a morire. Loro hanno fatto proprio questo, secondo me. Hanno scritto una lettera riportando i loro nomi, dove sono nati – come se fosse una lapide – l’hanno chiusa nella stagnola e messa nell’interno di un muro in corso di costruzione. Sapevano perfettamente che qualcuno prima o poi li avrebbe tirati fuori. Sulla busta c’era scritto “Ai posteri”, non era un message in a bottle senza destinatario. Quello che dà idea del loro desiderio di permanenza è che iniziano la lettera con una domanda: “Perché avete abbattuto il muro?”. Il quel momento si ripresentano, sono lì, e tu li tiri fuori. Ecco qual è il nostro ruolo, come archeologi. Li rendiamo per un po’ permanenti. Nella lettera spiegano che scrivono nel maggio del 1951, che c’è stata la guerra, che non si sa se la Russia abbia la bomba atomica, e dicono “voi sapete com’è andata e noi no”. E alla fine scrivono: siamo tre contabili, un contabile capo (sottolineato tre volte) e due signore, arrivederci. Nella naïveté di questa storia c’è proprio il gioco della morte, è come se avessero inscenato la propria sepoltura, i loro corpi trasformati in nome, messi dentro una busta e poi “sepolti”. Solo se ti seppellisci poi puoi tornare, non sarebbe stato lo stesso se avessero lasciato quella busta in un cassetto della scrivania. Quel muro ha funzionato da tomba. Il gioco della morte finisce quando qualcuno ti trova. E qualcuno li ha trovati. Magari erano ancora vivi quando è stata trovata la busta. Ho provato a fare qualche ricerca, poi mi sono fermato. Ovviamente nell’articolo i nomi sono stati oscurati.

Mostra Futur Antérieur

Mi ha affascinato molto quel desiderio di non finire. La scrittura di una lapide su carta. Il discorso del futuro anteriore sta tutto nell’immaginare. E immaginare può aiutare anche gli archeologi. C’è il catalogo di una piccola mostra molto intelligente fatta alcuni anni fa al Museo Romano di Losanna, Futur Antérieur, dove si immagina che gli archeologi del 4000 d.C. (il futuro anteriore) guardino i reperti che abbiamo lasciato noi.

Questi immaginari archeologi del futuro hanno ritrovato, ad esempio, un ritaglio di giornale con la foto di un calciatore con le braccia aperte, e per analogia ci accostano la figura di Cristo senza la croce, che viene interpretato come uno sportivo. L’analogia è uno degli strumenti più utilizzati in archeologia ma è anche rischioso. Proiettarsi in avanti e da lì guardare quello che sarà il futuro anteriore mette anche noi nelle condizioni di capire quali sono le difficoltà che abbiamo, gli sbagli che possiamo fare, i meccanismi mentali ed epistemologici che mettiamo in campo.

Tra il 2009 e il 2013 hai diretto lo scavo archeologico a Punta Linke, effettuato nel ghiaccio, invece che nella terra. Punta Linke, durante la Prima guerra mondiale, è stata una delle più importanti postazioni austriache del fronte alpino, a 3629 m di altitudine, nel gruppo Ortles-Cividale, oggi in Trentino al confine con la Lombardia. I resti della postazione sono stati riportati alla luce, restaurati e oggi sono visitabili in estate: è il luogo della memoria più alto d’Europa.

A Punta Linke la guerra, e il passato, si possono annusare. Hai spesso parlato dell’odore che oggi ancora emanano gli oggetti ritrovati (il legno della baracca, il vaso con i crauti, i soprascarponi in paglia, il motore della teleferica, ….) e hai scritto in modo molto efficace che a Punta Linke “non siamo noi ad essere portati indietro nel tempo, è il passato che ci viene addosso”. La sensazione del “passato che ci viene addosso” l’hai provata solo a Punta Linke, e nei contesti dell’archeologia che si occupa del passato recente, o anche in qualche contesto archeologico “tradizionale”?

Una percezione simile l’ho provata quando abbiamo trovato una sepoltura del Mesolitico, di quasi 8000 fa, a Mezzocorona, a venti chilometri da Trento. Sono rarissime le sepolture di quel periodo in Trentino, ne abbiamo due in tutto. Abbiamo scavato la tomba con estrema cura, lavorando senza sosta, di giorno e di notte, è in una zona isolata e temevamo potesse essere depredata. E quando mi sono trovato da solo davanti a questa signora – era una donna piuttosto matura per quei tempi – ho avuto un po’ la sensazione che non fossi io ad andare da lei ma lei che venisse da me. Lo so, può sembrare un po’ naïf, ma ho percepito in modo particolare la profondità del tempo e anche un senso di destino e nello stesso tempo di spaesamento. Dopo quasi 8000 anni, uno dei pochissimi individui del Mesolitico l’ho incrociato io nella mia vita, con tutto il mondo e i suoi miliardi di persone che nel frattempo ci sono girati attorno. Per questo ho avuto la sensazione, a livello psicologico, che sia stata lei a venirmi incontro, e che il passato mi sia piombato addosso.

A Punta Linke invece è stato soprattutto per via dell’odore. Quando sei lì il passato ti sovrasta, a livello epidermico e di suggestione. Non è un escamotage museale con il quale ti fanno sentire l’odore ricostruito, o i suoni, è proprio una sensazione materiale. L’odore lì è un reperto archeologico, è materia. Quando l’ho sentito per la prima volta mi ha spiazzato, e la prima volta non è stata a Punta Linke ma a Punta Cadini: stavo mangiando un piatto di pasta dentro una vecchia baracca, e sentivo l’odore della pasta e nello stesso tempo quello della carta catramata e del legno di cento anni prima. È una delle sensazioni più forti che abbia mai avuto nel mio lavoro. L’odore è il senso della memoria. C’è un odore che, quando lo sento, raramente ma capita, lo collego automaticamente alla morte di mio padre. Ma anche l’odore di Punta Linke è diventato un odore della mia memoria. Una memoria che ho creato.

 

Crediti foto Punta Linke: “Punta Linke. Archivio Ufficio beni archeologici UMSt Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Provincia autonoma di Trento”

La seconda puntata dell’intervista sarà pubblicata il 20 maggio 2025

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Guarda il cielo. Intervista con Matteo Fortuna https://www.carmillaonline.com/2025/04/26/guarda-il-cielo-intervista-con-matteo-fortuna/ Sat, 26 Apr 2025 05:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88066 di Vittorio Benzi e Domenico Gallo

Guarda il cielo è un fumetto realizzato da Matteo Fortuna e Simona Binni, e pubblicato da Tunuè. Il 26 aprile del 1945 a Lonigo, in provincia di Vicenza, il nonno di Matteo Fortuna, Giuseppe Fortuna, viene fucilato da un gruppo di tedeschi in fuga. L’Atlante delle stragi nazifasciste lo censisce con queste parole: “Fortuna Giuseppe, fu Emilio e Nogara Assunta, coniugato con Silvagni Letizia, padre di due figli, nato a Lonigo, di anni 32, sfolato da Genova, partigiano.” Era un partigiano appartenente alla brigata Garibaldi Martiti di Grancona.

Giuseppe Fortuna è uno dei tanti tra partigiani [...]]]> di Vittorio Benzi e Domenico Gallo

Guarda il cielo è un fumetto realizzato da Matteo Fortuna e Simona Binni, e pubblicato da Tunuè. Il 26 aprile del 1945 a Lonigo, in provincia di Vicenza, il nonno di Matteo Fortuna, Giuseppe Fortuna, viene fucilato da un gruppo di tedeschi in fuga. L’Atlante delle stragi nazifasciste lo censisce con queste parole: “Fortuna Giuseppe, fu Emilio e Nogara Assunta, coniugato con Silvagni Letizia, padre di due figli, nato a Lonigo, di anni 32, sfolato da Genova, partigiano.” Era un partigiano appartenente alla brigata Garibaldi Martiti di Grancona.

Giuseppe Fortuna è uno dei tanti tra partigiani e semplici cittadini falciata dalla rabbiosa ritirata tedesca e per mano dei fascisti, ormai in preda all’isteria e terrorizzati dal dover rendere conto delle loro azioni criminali. In realtà quasi nessuno pagò per quei delitti e per le stragi.

Il resoconto storico dell’episodio raccontato nel fumetto del nipote Matteo si trova, per esempio, nell’Atlante delle stragi nazifasciste.

Cominciamo con un testo tratto da Guarda il cielo, sono le ultime parole che Giuseppe Fortuna rivolge alla moglie: “Si dice sempre che l’unica cosa certa è la morte. Ma sai come la penso, che l’unica cosa certa è la vita. Fino a che viviamo, dobbiamo farlo nel modo giusto. Le azioni contano”.
E siccome le azioni contano, Matteo Fortuna, a un certo momento ha sentito il bisogno di compiere un’azione importante che era rimasta, forse a lungo, tra i suoi desideri. Qualcosa di intimo che riguarda la storia della sua famiglia. Vuoi dirci di che cosa si tratta e anche quando e perché hai sentito l’esigenza di raccontare questa storia?

Siete partiti da una parte importante del fumetto che riflette il mio modo di pensare. Spesso sono stato “accusato” di essere il classico uomo di poche parole e quindi, negli anni, mi sono sforzato di parlare un po’ di più con familiari, figli, amici; però continuo a pensare che le azioni e l’esempio siano quello che conta veramente. Quindi credo che la citazione che avete riportato mi rispecchi particolarmente, oltre al fatto che mi piacciono i detti popolari, come quello richiamato in questo testo.
Questa storia ce l’ho sempre avuta dentro. Mio nonno ha compiuto un’azione eroica che gli è costata la vita e, dal mio punto di vista, è stata una spinta per cercare di comportarmi in maniera coerente con il suo esempio. Della guerra, del fascismo e dell’antifascismo, per tanti anni non se ne è più parlato e, secondo me, era un bene; non se ne parlava più perché non si sentiva la necessità di farlo, perché certe conquiste erano date per assodate. Ultimamente purtroppo il fascismo è stato sdoganato e se ne parla come di un’idea politica normale; cosa che mi fa rabbrividire. Si suscitano reazioni simili al tifo da stadio, senza approfondire e, soprattutto, senza considerare che dietro a quelle idee ci sono stati tanti morti, che è quello che veramente conta.
Quindi ho pensato fosse il momento di mettere su carta questa storia, innanzitutto per la mia famiglia, poi anche per vedere se potesse interessare altre persone.
Abbiamo iniziato a lavorarci due anni fa con Simona Binni e, una volta finita, l’editore Tenué ha giustamente deciso di fare uscire il fumetto per il 25 Aprile. In questi due anni, invece di diminuire, problematiche e polemiche sul fascismo e l’antifascismo si sono ulteriormente accese. Questo per me non è un bene.
Il 25 Aprile era una festa gioiosa, festeggiata da tutti, mentre oggi è fonte di polemiche e scontro, perché è stata messa in discussione.

 Nello scrivere la tua storia avevi in mente un target di pubblico particolare, per esempio i ragazzi, e questo è in qualche modo in relazione alla scelta di fare un fumetto, anziché scrivere un romanzo? Com’è nata è nata questa idea?

Inizialmente non doveva essere un fumetto. Quando ho fatto le prime ricerche pensavo al classico romanzo, poi ho cominciato a pensare la storia come per immagini, quasi come un film. Per esempio, quando mio nonno cita all’inizio l’altro detto popolare, che in punto di morte ti passa tutta la vita davanti, io ho immaginato che mio nonno invece nei suoi occhi abbia visto il futuro. E per rappresentare questo vedevo una macchina da presa che faceva lo zoom sui suoi occhi e al loro interno scorrevano le immagini della sua famiglia dopo la sua morte. In quel momento ho capito che dovevo usare le immagini e siccome i soldi per fare un film non li avrei mai avuti, ho optato per il fumetto.
Ho la fortuna di avere un cugino che è del mestiere, Stefano Piccoli, in passato molto attivo come disegnatore, adesso più come organizzatore di eventi, come ARF, un importante festival del fumetto. Mi ha presentato Simona Binni, che inizialmente avrebbe dovuto occuparsi solo di adattare il soggetto al fumetto, poi però l’ho convinta a disegnare la parte di storia che riguarda il viaggio di mio padre negli anni ’70, senza i flashback; poi, piano piano, ne è rimasta sempre più coinvolta e alla fine ha disegnato sia la seconda parte, con gli avvenimenti del 1945, sia i flashback della prima parte. Alla fine ho convinto anche mio cugino a mettere le mani sui disegni, occupandosi in prima persona della postfazione a fumetti, che si affianca a quella classica testuale dello storico Carlo Greppi.

Sono contento di aver fatto un fumetto; penso che questa forma d’arte e di comunicazione meriti di essere valorizzata più ancora di quanto non lo sia già stata. Mi piace anche chiamarlo fumetto rispetto a graphic novel perché con i fumetti ci sono cresciuto.

Il target per cui ho pensato la storia è più adulto di quello dei ragazzi, diciamo “young adult”, poi quando ho cominciato a farlo girare nella cerchia di amici con figli più giovani ho notato che prendeva parecchio anche loro. Penso che possa essere letto a partire dai 10 anni, mi piacerebbe presentarlo nelle scuole; con Carlo Greppi abbiamo già programmato una presentazione al Salone del Libro di Torino in un evento dedicato agli studenti.

Tuo nonno ha sacrificato la propria giovane vita, per questo il tuo papà praticamente non lo ha neppure conosciuto. È stato difficile ricostruire la vicenda del nonno, dal punto di vista pratico ed emotivo? Quello che racconti è tutto vero o c’è qualcosa di immaginato?

La parte ambientata nel 1945 si basa su alcuni racconti familiari e, soprattutto, su due documenti storici che raccontano la liberazione di Lonigo, avvenuta il 26 e 27 aprile 1945. Mio nonno venne fucilato il 26 di aprile. Io e Simona siamo stati molto attenti a rispettare la vicenda storica il più fedelmente possibile, senza introdurre elementi di fantasia, anche per rispetto della memoria dei parenti ancora in vita di quelli che sono stati uccisi con mio nonno, di cui abbiamo riportato soltanto i nomi. Per questo motivo la parte dedicata allo scontro a fuoco, che avremmo potuto dettagliare e animare maggiormente, abbiamo preferito descriverla limitandoci ai tratti essenziali.

Invece la prima parte della storia, quella del viaggio di mio padre da Genova verso Lonigo, è immaginaria. Mi sono figurato mio padre che, nel 1975, nel trentesimo anniversario della Liberazione, tornasse al paese per commemorare suo padre e posare un fiore sotto la lapide che ricorda lui e gli altri che sono stati uccisi. Allora aveva più o meno la stessa età in cui era stato ucciso mio nonno, e si trovava in una analoga situazione famigliare, con due figli, io e mia sorella eravamo già nati, come lo erano lui e il fratello nel 1945.

Per descrivere quel viaggio abbiamo usato la tecnica del flashback, ma quei racconti sono veri. Due me li ha riportati mia nonna, uno mio zio, un altro proviene da altre persone. A parte quello del sogno di mio padre, un’idea di Simona chiaramente immaginata, sono tutti veri al cento per cento.

Anche il riferimento alla canzone si basa su una verità storica. Mio nonno materno mi cantava una canzoncina di Fred Buscaglione, allora ho immaginato che anche mio nonno paterno avesse fatto lo stesso con i suoi bambini. In quei tempi era in voga Maramao perché sei morto? di Mario Panzeri, che fu sospettata, e a ragione, di essere una presa in giro del potere fascista, in riferimento alla morte di Costanzo Ciano, consuocero di Mussolini.

La collaborazione con la disegnatrice Simona Binni ci sembra abbia raggiunto un notevole equilibrio tra testi, disegni e colori. Comunica positività e serenità, pur nella tragicità della situazione. Com’è stato esordire come soggettista e sceneggiatore di un fumetto? Qual è stato il tuo rapporto con Simona e come vi siete organizzati tra voi? 

Io e Simona lavoravamo via WhatsApp, ci scambiavamo messaggi per ricostruire tutti i dettagli in modo più veritiero possibile. Per partire le ho dato le fotografie di famiglia. Mio padre e mio nonno si somigliavano e lei ha creato dei volti così veritieri che ormai il volto che ricordo di mio padre è stato quasi sostituito da quello che ha disegnato lei. Poi ha fatto un lavoro di ricerca sugli abiti e su molti altri dettagli. Per esempio, il colore e la maniglia interna del Maggiolone su cui viaggia mio papà nel fumetto corrispondono proprio a quelli dell’auto che aveva.

Questo lavoro meticoloso di Simona ha portato molto realismo in ogni tavola.
Nella postfazione illustrata, mio cugino Stefano Piccoli ha usato le foto che gli avevo mandato per creare visivamente l’effetto dello sguardo sul futuro di mio nonno. Non potendole inserire nell’occhio, come avevo immaginato di fare con lo zoom di una cinepresa, le ha fatte fluire visivamente dal grammofono che suona.

Ci sono stati fumetti, film o narrativa che hanno influenzato la tua scrittura?

Nessuna in particolare, anche se certamente l’insieme delle tante letture che ho fatto hanno determinato qualche scelta. Il flashback è usuale quando si ricostruiscono storie del passato, così come quella dei giovani che vanno alla ricerca di chi ha vissuto determinati eventi per farseli raccontare. Paco Roca ha utilizzato entrambe le tecniche ne I solchi del destino, ambientato tra il presente e gli anni della guerra civile spagnola. C’è stato un momento in cui la Tenué pensava di commissionare la copertina a Paco Roca, ma quella disegnata da Simona era talmente bella e significativa che poi non se ne è fatto nulla. Se ci fate caso la posizione di mio nonno in copertina che guarda il cielo sognante è la stessa usata nel disegno che ritrae quando viene ucciso. Poi c’è il gioco di ombre generato dalla luce che filtra tra i rami e le foglie, il particolare delle scarpe tolte che fanno capire che lui camminava scalzo sull’erba. Tutti elementi che contribuiscono a definire il personaggio e denotano una grande sensibilità.

Nel testo e nei disegni ci sono diversi passaggi molto molto incisivi. Uno su tutti, l’incipit: “Dicono che quando stai per morire, in un istante ti passa tutta la vita davanti agli occhi… Bé… A me non è successo. Perché io ho visto il futuro”.  Un motivo che ritorna nel titolo Guarda il cielo e nei riquadri del finale. A noi sembra rappresenti l’essenza della rivolta di quella generazione, attraverso scelte etiche e coraggiose in cui le persone si sono sacrificate per gli altri. Dalle migliaia di singole scelte personali di solidarietà e coraggio, alimentate dal desiderio di un futuro di libertà e giustizia, di fatto sono nate la Repubblica Italiana e la Costituzione. Da quello che hai potuto ricostruire della vicenda di tuo nonno, secondo te quanta consapevolezza c’era nella sua generazione che quello che stavano facendo era qualcosa di così importante? Pensi che avessero una reale coscienza politica?

Non lo so, io credo che la maggior parte dei partigiani fosse animata da un impeto più che dalla consapevolezza, che in qualcuno sicuramente c’era, ma in molti penso si sia sviluppata successivamente. Io penso che quando senti di essere nel giusto puoi compiere un gesto che influenza gli altri e questi a loro volta altri ancora. I gesti non sono mai isolati; ho letto che il 70% delle pallottole usate nelle fucilazioni contro i civili e gli antifascisti non andarono a segno. Non è facile essere “buoni”, ma forse nemmeno essere “cattivi”.

Nella storia mio nonno colpisce con un pugno un ufficiale nazista, lo fanno prigioniero, insieme ad altri, ma non infieriscono su di lui e lo liberano; ed è proprio quello stesso nazista che finirà poi per catturarlo e per fucilarlo. Oggi, probabilmente, i ragazzi questo gesto non lo capirebbero, penserebbero che mio nonno, se lo avesse ammazzato, sarebbe sopravvissuto; lo giudicherebbero un ingenuo.
Ma i fatti si devono approfondire e serve spiegarli bene. Non infierendo sui vinti la cosa gli si è ritorta contro, ma lui è rimasto fedele al suo ideale di giustizia e di non violenza, e questo era per lui il messaggio più importante da tramandare. Dobbiamo aiutare i giovani a capire, a contestualizzare, anche per interpretare quello che succede oggi, come la tragedia in Palestina. Parlando di consapevolezza, questo è il tipo di consapevolezza che i giovani devono costruire e penso che le immagini di un fumetto possano essere utili.

Durante la guerra, a parte una componente di antifascisti che appartenevano ai partiti clandestini, si è unita la gente che non ne voleva più sapere della guerra e del Regime. Oltre ai partigiani che combattevano, esisteva un antifascismo diffuso costituito da atteggiamenti di rifiuto, di non collaborazione con il fascismo, che aiutava i partigiani e che praticava forme diffuse di disobbedienza. Atteggiamenti e piccole azioni che, progressivamente, iniziarono a essere praticate collettivamente e a livello di massa. La Resistenza è stata anche questo. Il libro di Claudio Pavone, Una guerra civile, parla di questo clima diffuso di antifascismo. Un sentimento di odio nei loro confronti che i fascisti sentivano, e forse per questo hanno compiuto violenze e stragi inutili durante la ritirata, tante soprattutto in Veneto, come nella storia di tuo nonno.

Carlo Greppi la chiama “ritirata aggressiva”. Da quello che ho potuto ricostruire, in quelle zone del Veneto non c’era stata un grande organizzazione, è stato un moto spontaneo.

Possiamo chiamare memoria la ricostruzione e la divulgazione delle singole vicende degli antifascisti. Ci sono moltissime pubblicazioni in Italia di piccoli editori o autofinanziate dalle associazioni o dalle famiglie. Migliaia di singole biografie che, dopo 80 anni, rischiano di scomparire per fare largo a una storia ufficiale spesso ambigua e opportunistica. Come pensi che questa memoria frammentata e diffusa, di cui Guarda il cielo da oggi fa parte, possa comporsi e diventare la storia della Resistenza italiana?

Intanto io penso sempre che il pluralismo delle informazioni sia indispensabile, non è così esatto che la storia la fa chi vince, diciamo che la scrive chi vince. Quindi è importante che restino le memorie scritte, non standardizzate. Greppi fa proprio quello di cui avete chiesto; in un suo libro parla dalle piccole storie singole che, raccolte insieme, fanno la Storia, e questo concetto lo cita anche nella postfazione. La postfazione è molto bella, si capisce che è sentita e immagino che il fumetto gli sia piaciuto, con la sua autorevolezza ci ha dato una consacrazione. Greppi è uno storico importante con posizioni che oggi vengono definite coraggiose, perché, tornando a quello che dicevamo all’inizio, oggi per affrontare certe tematiche occorre essere coraggiosi. Solo vent’anni fa non era così…


Oggi c’è la tendenza da parte della storiografia fascista di prendere singoli episodi decontestualizzati, privi di analisi numeriche, e di farne il paradigma di tutto un periodo, di un evento grande come la Resistenza e l’antifascismo. Al contrario l’episodio che vide protagonista tuo nonno non fu un caso “strano”; episodi analoghi ce ne furono tantissimi, sia di persone prese per la strada e torturate o uccise, come la ragazza con la bicicletta di Guarda il cielo, sia di gesti di coraggio come quello di tuo nonno. Recuperarne e preservarne la memoria è importantissimo.

I miei figli non sapevano niente della storia del loro bisnonno, io stesso non ne parlai mai con mio padre e con mio zio. Ma forse si tende a parlare con i nipoti più che con i figli.

Non so se hai letto la storia a fumetti di Paco Roca L’abisso dell’oblio, pubblicato in Italia da Tunuè, che racconta la vicenda delle fosse comuni in cui finirono gli antifascisti in Spagna. Il fumetto racconta una storia familiare e la ricerca dei corpi da identificare, usando l’analisi genetica, per restituirli alle famiglie. In Spagna è un progetto finanziato dallo Stato nell’ambito della Legge della Memoria. Credi che anche in Italia, come è stato il caso di tuo nonno, si debba procedere al recupero dei corpi e alla loro identificazione?

Credo che in Italia non succederà mai. Mio nonno stesso è stato sepolto in una fossa comune. Ho letto anch’io il libro di Paco Roca, molto recentemente. In Spagna c’è una sensibilità maggiore e una cultura cristiana un po’ più viva. Per me non è un grande problema che non ci sia la tomba di mio nonno, va bene anche la lapide che è stata posta a Lonigo, e quella di Villa Scassi a Genova, nel quartiere di Sampierdarena. Per mia nonna invece fu una cosa drammatica non sapere dove andare a pregare. Paco racconta molto bene questo sentimento degli anziani che indirizzano le ricerche, perché hanno ancora la memoria di quello che avvenne. Da noi non credo che succederà.

Abbiamo cominciato parlando di azioni che contano, ci avviamo a concludere e vorremmo tornare su questo punto. Tu hai lanciato un laboratorio veramente unico, CDM LAB, Il laboratorio delle ‘azioni buone’. Progetti concreti per un futuro migliore. Vuoi parlarcene?

Io mi occupo di shipping, la mia agenzia marittima si chiama CDM, che è l’acronimo di Crêuza de mä, la canzone di Fabrizio De André. Poi ho una squadra di calcio a cinque, CDM Futsal, anche quella una soddisfazione. Però la mia formazione è di altra natura, sono laureato in lettere a indirizzo storico medievale. Così in quest’ultimo periodo ho voluto dar sfogo un po’ anche al mio lato umanistico e umano e abbiamo fondato il CDM LAB, dove in realtà LAB sta per Le Azione Buone, non per laboratorio. Cerchiamo di proporre aspetti positivi della vita, un’informazione un po’ più “lenta”, gentilezza nel modo di porsi, ottimismo, uno sguardo su ciò che si può fare per migliorare quello che ci sta intorno. Abbiamo tanti progetti, il più importante è il nostro podcast L’ottimista cosmico, dove abbiamo avuto tanti ospiti, tra cui Vinicio Capossela. Mi fa piacere ricordare lui in particolare, sia perché ha letto il fumetto e mi ha lasciato un messaggio bellissimo che tengo per me, sia perché la sua canzone Staffette in bicicletta, mi piace pensare che parli anche della ragazza in bicicletta catturata dai nazisti nella mia storia. Che Maria fosse effettivamente una staffetta partigiana non lo sappiamo con certezza e quindi nel fumetto non lo diciamo, ma la canzone di Vinicio mi ha suggerito questa suggestione.
Sempre con il CDM LAB ogni lunedì facciamo il TG delle belle notizie. Ci occupiamo anche di cortometraggi: siamo coproduttori di un cortometraggio su Sandro Pertini, che uscirà a breve, e stiamo ultimando le riprese un altro cortometraggio su un episodio del giovane Don Andrea Gallo durante la Resistenza, scritto da me ed Edoardo Fantini, con la partecipazione di Bruno Morchio. S’intitola Il giovane Gallo.
CDM LAB è coproduttore anche del fumetto e i diritti d’autore andranno a finanziare un progetto che sponsorizziamo per la piantumazione di alberi nel centro storico di Genova. Perché si parla tanto di “green” e non c’è niente di più verde degli alberi.

Quando si scrive una storia resta tua fino al momento in cui la pubblichi, poi diventa patrimonio collettivo, a maggior ragione se intorno a un tema così importante, forse mai quanto oggi attuale, come la Resistenza.  Come ti senti rispetto a questo e quali sono le tue aspettative? Ti senti appagato per aver compiuto qualcosa che desideravi scrivere oppure questo è un punto di partenza?

Sto scrivendo una storia nuova, legata più alla mia professione nello shipping e ai miei viaggi. Poi c’è un’altra storia che spero di realizzare di nuovo con Simona. Ci sarà un seguito, l’idea è di continuare a proporre una visione positiva sul futuro.

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Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale. Intervista a Michele Cometa. https://www.carmillaonline.com/2025/03/04/paleoestetica-alle-origini-della-cultura-visuale-intervista-a-michele-cometa/ Tue, 04 Mar 2025 06:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86864 di Valentina Cabiale

In Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale sostiene che bisognerebbe applicare allo studio dell’arte preistorica i metodi della cultura visuale, sostenuti da quelli delle neuroscienze cognitive e dell’archeologia cognitiva. Il suo saggio è un tentativo di “riflettere sulle capacità cognitive che presiedono al nostro fare-immagine e che, come dimostra un’ampia letteratura, condividiamo con i nostri antenati paleolitici”. In una intervista ha dichiarato che le è sempre piaciuto “sbirciare” nel campo accanto. Che cosa l’ha spinta a sbirciare nelle grotte dipinte del Paleolitico e che reazioni ha avuto dal mondo della paleoantropologia e dell’archeologia cognitiva?

L’idea di andare a cercare altrove [...]]]> di Valentina Cabiale

In Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale sostiene che bisognerebbe applicare allo studio dell’arte preistorica i metodi della cultura visuale, sostenuti da quelli delle neuroscienze cognitive e dell’archeologia cognitiva. Il suo saggio è un tentativo di “riflettere sulle capacità cognitive che presiedono al nostro fare-immagine e che, come dimostra un’ampia letteratura, condividiamo con i nostri antenati paleolitici”. In una intervista ha dichiarato che le è sempre piaciuto “sbirciare” nel campo accanto. Che cosa l’ha spinta a sbirciare nelle grotte dipinte del Paleolitico e che reazioni ha avuto dal mondo della paleoantropologia e dell’archeologia cognitiva?

L’idea di andare a cercare altrove fa parte della mia forma mentis ma ha una motivazione teorica. Nel senso che credo sia improponibile studiare la letteratura – io sono una letterato di formazione, un germanista, anche se da sempre mi occupo di arti figurative e di cultura visuale – come sganciata da tutto il resto. Per esempio dal tema della visualità. Così è nata la mia attenzione per campi che dovrebbero essere quelli dell’estetica, piuttosto che della storia dell’arte. In realtà, a parte il fatto che ogni libro ha una sua forma, un suo layout, i grandi libri sono sempre stati  accompagnati da immagini, anche i grandi classici della letteratura; I promessi sposi venne illustrato da Manzoni che andava personalmente in tipografia a scegliere le immagini.
Questo libro, Paleoestetica, che sembra totalmente eccentrico rispetto al mio percorso, ha invece un senso, perché nasce da una domanda che mi ero posto ancora una volta sbirciando fuori casa, mentre scrivevo Perché le storie ci aiutano a vivere, ovvero: va bene parlare di narrazione, della centralità della letteratura, del fatto che non possiamo fare a meno delle storie, ma quali sono le motivazioni antropologiche, biologiche, cognitive di questo fatto? Così ho cominciato a scavare per cercare di capire quali fossero le condizioni antropologiche da un lato, e cognitive dall’altro, del fare storie. In quell’indagine inevitabilmente bisogna affrontare il passato, che ha un grande vantaggio, soprattutto il passato preistorico: ci libera immediatamente dal nostro eurocentrismo, dal pensiero che tutto accada, sia accaduto, soltanto in Europa – questo vale per la letteratura e per l’arte – poi ci libera dall’antropocentrismo, dall’idea di essere gli unici viventi in grado di comunicare e di produrre un certo tipo di artefatti. Questo per me è una mossa teorica importante. Paleoestetica ha questa funzione, in primis: mettere in crisi tutte le nostre consolidate idee su che cos’è un’immagine e sul perché facciamo le immagini, la convinzione che tutto il nostro fare-immagine possa essere ridotto ai pochi attimi che l’intera storia dell’arte rappresenta rispetto ai tempi immemoriali dell’evoluzione.
Interroghiamoci, piuttosto, sulla funzione cioè sul vantaggio adattivo che ci danno cose come la narrazione (e da qui il libro Perché le storie ci aiutano a vivere) e le immagini (e da qui Paleoestetica). Se è vero come che facciamo da sempre storie e immagini, ci dev’essere qualcosa di profondo in questo “fare”, qualcosa che ha una valenza evolutiva. Questo tipo di interrogazione interrogativo mette subito in allarme i professionisti della letteratura e dell’arte – e questa è un po’ la storia di tutta la mia vita – che dicono “sì ma come fai ad acquisire queste conoscenze?”. Con Paleoestetica il rischio aumenta perché mi sono avventurato in ambiti veramente lontani dal mio specifico: la paleontologia, l’archeologia cognitiva, ecc. Però è un libro frutto di dieci anni di lavoro, non è improvvisato. Di Paleoestetica sono usciti degli saggi preparatori in inglese, e quindi ho avuto modo di confrontarmi con neuroscienziati che lavorano su temi archeologici e ho capito che le cose che andavo ipotizzando non erano del tutto peregrine. Anche loro, tra l’altro, sono sedotti da ragionamenti filosofici ed estetologici, talvolta le tentano in modi spesso ingenui e dicendo delle cose che per uno che si è occupato di estetica tutta la vita sembrano delle banalità. Allo stesso modo, è possibile che alcune cose che sostengo possano essere corrette, rivedute e riconsiderate da parte di paleontologi e archeologi, però è proprio così che vanno avanti le scienze: rischiando, non facendo o dicendo sempre la stessa cosa.
Il punto è che noi siamo animali che fanno immagini, le abbiamo sempre fatte e tra di esse queste immagini hanno una inquietante somiglianza.

Statuine di Berekhat Ram

Nel libro mi interrogo sul perché abbiamo sempre fatto miniature; perche abbiamo sempre cercato superfici su cui poggiare le nostre immagini, superfici da toccrae, da attraversare, per immaginare cosa c’è dall’altra parte; e, infine, perchè abbiamo sempre fatto ibridi. Prendiamo il caso delle miniature, le figurine per lo più femminili che si trovano sparse in tutta Europa, e non solo.  Siccome questi artefatti non li possiamo spiegare dal punto di vista dei significati perché stiamo parlando di 40-50.000 anni fa, in alcuni casi di un tempo ancora più remoto – le più antiche statuine ritrovate a Berekhat Ram in Israele risalgono probabilmente a 500.000 anni fa, quando non eravamo neanche Sapiens – allora la domanda non può che essere di carattere cognitivo: perché ci interessa, ci piace, ci è utile tenere in mano quelle miniature? Tento delle risposte che non sono definitive, sono dei paradigmi che ho messo insieme lavorando su quello che vanno facendo i neuroscienziati e gli archeologi cognitivi, cercando di ragionare sul perché facciamo questi oggetti dato che riflettere sui significati è veramente insensato: quando ci rendiamo conto che una grotta del Paleolitico è stata usata per 25.000 anni è inutile discutere di rituale, di magia della caccia… sono interpretazioni plausibili, certo, ma altrettanto certo è che questi significati sono stati trasformati nel corso dei millenni.
Quindi non mi preoccupa quanto rischio avventurandomi in un territorio di questo tipo. Quello che ho fatto per la letteratura, domandandomi che cosa la narrazione abbia a che fare con Homo Sapiens – altri l’hanno fatto per la musica, ad esempio – l’ho fatto per le immagini. Ci dev’essere un motivo perché facciamo proprio queste immagini e non abbiamo mai smesso di farle, e questo motivo che va cercato. Faccio delle ipotesi, sono sicuro che ce ne sono altre possibili, mi auguro che qualcun altro vada avanti su questo fronte. Un estetico o comunque qualcuno che ha riflettutto sull’arte e sulle immagini  magari non si rende conto di alcune sfumature in termini di datazione o del tipo di materiale usato, insomma, del lavoro specifico che fanno gli archeologi, però non può non rendersi conto che una statuina come quella dell’uomo-leone è una svolta epocale dal punto di vista della cognizione umana.

Lei sostiene che il fare-immagine del Paleolitico è analogo al nostro, ci è familiare, in qualche modo riconosciamo quelle immagini anche se il significato resta inattingibile. Se è così, e forse la domanda suona provocatoria o paradossale, come dovrebbe essere un fare-immagine del tutto diverso? Non lo riconosceremmo neanche? e forse esistono già altre culture animali che producono in qualche modo immagini che non siamo in grado di recepire perché distanti dalla nostra cultura visuale?

Bisonte delle grotte di Altamira. Museo de Altamira

Il fatto è che noi vediamo questi animali rappresentati nelle grotte del Paleolitico, li riconosciamo, ci sembrano molto belli. Pare che Picasso dopo aver visto alcune di queste immagini abbia detto qualcosa del tipo “Qui hanno già fatto tutto”; poi lui in realtà si è messo a disegnarlo, un toro, e con dei tratti che potremmo definire paleolitici. Questo riconoscimento naïf significa, secondo la mia ipotesi, che abbiamo delle capacità cognitive che ci permettono di comprendere questa cosa, certo non possiamo pensare che vediamo tutti, da migliaia di anni, le stesse cose e alla stessa maniera, tuttavia prevale la sensazione che queste immagini in effetti ci parlino ancora ed evidentemente la capacità di leggere, di capire e di emozionarsi di fronte a queste immagini discende dalla nostra struttura cognitiva. Sicuramente ci sono state delle piccole trasformazioni Dire che la mente è sempre la stessa significherebbe negare qualunque prospettiva evoluzionista, però che esistano delle costanti cognitive selezionate durante l’evoluzione è evidente, e che essa abbia una sua stabilità e che sia in grado, per esempio, di riconoscere le forme, come ci hanno insegnato i grandi teorici della Gestalt.
Secondo me il vero guaio di qualunque approccio umanistico è il fondamentalismo ovvero pensare che le nostre interpretazioni siano l’unica possibile verità. Bisogna essere sempre molto cauti, anche nel caso di questa coerenza millenaria, però non c’è dubbio: chiunque entra – ormai purtroppo è quasi impossibile –  in una di queste grotte si rende conto di essere di fronte a uno spettacolo straordinario, la “cappella Sistina della preistoria” come si diceva di Altamira. Ci ritroviamo circondati da immagini che ci raccontano delle storie, e questo è un altro capitolo importante: è evidente che l’evoluzione delle immagini è parallela all’evoluzione della nostra capacità di raccontare storie a partire dalle immagini o attraverso di esse. Credo che facendo dei passi avanti dal punto di vista cognitivo saremo in grado di capire le somiglianze ma anche eventualmente le differenze, ma è fuori discussione che Homo sapiens, per tutta la sua durata, ha prodotto immagini che sono in qualche modo riconducibili ad alcune famiglie ben chiare. Non posso immaginare che esistano immagini che non sono fatte in questa maniera, che ci possa essere un altro dall’immagine.
Peraltro c’è anche in altro problema molto importante dal punto di vista antropologico. La questione non è tanto l’immagine, che è “applicato” sulla parete di una caverna o su un piccolo manufatto. La questione su cui vale la pena interrogarsi è quella che riguarda i nostri “comportamenti” al cospetto delle immagini.  L’antropologia culturale negli ultimi secoli ci ha dimostrato che il nostro modo di rapportarci alle immagini è riconducibile a poche modalità. Ci sono diverse teorie, chi è strutturalista pensa che le modalità siano quattro, invece che ha ascendenze hegeliane organizza tutto in triadi. Con modalità intendo ad esempio il totemismo, il feticismo, l’animismo. Con le immagini infatti “facciamo” delle cose e ci comportiamo da sempre alla stessa maniera. Non c’è dubbio, ad esempio, che utilizziamo delle immagini come totem; lo abbiamo fatto nei tempi più remoti e continuiamo a farlo ancora oggi con oggetti che sono completamente diversi. Basta pensare a tutti i piccoli feticci che ci portiamo appresso sotto forma di immagini, nei nostri telefonini. Quindi il problema non è tanto quello di scoprire il mistero del fare immagine, ma soprattutto di interrogarsi su quello che noi esseri umani facciamo con le immagini. Tra le cose che facciamo, ad esempio, c’è il fatto che da sempre cerchiamo di animare le immagini, tanto che alla fine abbiamo inventato una cosa che si chiama cinema. E questo era già sicuramente presente nel Paleolitico. Un esempio è nella grotta di El Castillo dove il nostro antenato ha visto uno spuntone di roccia con una forma simile a quella di un bisonte, lo ha retroilluminato facendo in modo che questo spuntone/bisonte si proiettasse nella parete di fronte con un’ombra, e poi sulla parete ha disegnato le gambe dell’animale, cioè la parte che nello spuntone mancava. Ebbene, questo è un genere di cose che abbiamo fatto sempre e continuiamo a fare regolarmente. Ma pensiamo anche a “invenzioni” più complesse, come la caverna platonica. Platone si inventò questa storia e se la guardiamo dalla prospettiva di ciò che c’eraprima di Planote, ci rendiamo conto che che probabilmente non si trattò di pura invenzione ma di un’esperienza fortemente radicata negli umani: questi giochi di ombre erano una realtà consolidata nell’umanità.  Invece Werner Herzog, il grande regista, quando fece il film documentario su Chauvet [Cave of forgotten Dreams, 2010] si accorse che una parete della caverna era illuminata attraverso una serie di lumini e che era possibile mettersi tra la parete e i lumini, in modo che la persona venisse investita di luce e proiettata sulla parete. Chi meglio di un regista come Herzog poteva capire che cos’è un’ombra… Insomma, i paleolitici avevano immaginato la possibilità di entrare nell’immagine attraverso una retro-illuminazione. Noi abbiamo usato questa tecnica in tutta la storia del teatro e continuiamo a usarla oggi con tecnologie raffinatissime.
In sintesi, credo che il fare immagine sia caratteristico dell’Homo sapiens, che le modalità siano relativamente simili nel corso dei millenni. La questione è che noi davanti alle immagini, come ci hanno spiegato peraltro grandi storici dell’arte come David Freedberg, abbiamo atteggiamenti di devozione, di desiderio sessuale, atteggiamenti totemistici, e via dicendo.

Nella capacità di creare oggetti che rispondono ai nostri bisogni e nello stesso tempo ci danno piacere (un’ascia bifacciale del Paleolitico, ad esempio, che unisce creatività, progettualità, estetica), noi contemporanei condividiamo con i preistorici anche una vanità simile?
Anche pensando al fatto che ogni immagine è una proiezione del Sé, per cui godere dell’opera significa godere di sé.

Grotta di Chauvet, dettaglio del pannello dei leoni

La parola vanità certamente è giusta ma alcuni archeologi, in particolare gli scopritori delle prime  ornamentazioni a Blombos in Sudafrica – tra cui Francesco D’Errico –  ci hanno detto che da quello che i nostri antenati hanno fatto 70.000 anni fa (collane di conchiglie, disegni con l’ocra), quindi 30.000 anni prima di Lascaux, si deduce l’inizio di una forma di differenziazione sociale. possiede una collana è un individuo consapevole di se stesso e del fatto di differenziarsi dagli altri. Quindi questa “vanità” ha una valenza sociale potentissima. È un modo di affermare una differenza sociale ma soprattutto, cosa più importante dal punto di vista teorico, l’unicità del Sé. Naturalmente questo significa la nascita della coscienza. È un tema delicato, tra l’altro non dimentichiamoci che noi non ritroviamo quasi nulla di quello che era il mondo dell’ornamento e della decorazione che nasce quasi sicuramente dai tatuaggi e dalle pitture sul corpo (che, per inciso, continuiamo a fare ancora oggi). Gli scopritori degli ornamenti di Blombos, Francesco D’Errico e Christopfer Henshilwood, correttamente li interpretano come forme di affermazione del sé, che non è cosa da poco calcolando, ripeto, che siamo intorno ai 70.000 anni fa. Peraltro questo gioco all’indietro ci dimostra che forse dobbiamo ipotizzare una continuità non solo per Homo Sapiens ma anche tra Sapiens e gli altri ominidi perchè quando parliamo di 500.000 anni fa non abbiamo a che fare con Homo Sapiens ma con HomoEergaster, ad esempio, per cui la “Venere” di Berekhat Ram che si trova al museo di Gerusalemme è stata fatta da un ominide ancora lontanissimo dai Sapiens europei. Forse dobbiamo riconsiderare seriamente la continuità tra animale e umano. È evidente che non ci sono scimmie che scrivono la Divina Commedia però che, per esempio, si servano di strumenti in maniera rudimentale e sappiao che alcuni uccelli sanno trasmettere delle “tradizioni di canto” ai loro “discendenti”. Quindi il discorso sulla continuità tra animali ed umani va riconsiderato e per altro ci permettere di comprendere meglio il nostro ruolo sul pianeta e, come ho già detto, di ridurre il nostro antropocentrismo trionfalistico.

Prima accennava alla connessione tra l’origine del fare immagine e la dimensione narrativa (già prima dello sviluppo del linguaggio). Ma in tutto questo c’è anche un’idea del tempo? Della memoria, intesa come modalità di comunicazione con il futuro. Secondo lei, cioè, gli uomini e le donne del Paleolitico avevano il pensiero che quelle immagini sarebbero sopravvissute a loro?

Dettaglio del pannello dei cavalli, da Chauvet 2 (replica della grotta originale)

Assolutamente sì. Peraltro ciò che è non sopravvissuto probabilmente è altrettanto importante: penso ai rituali, alle performance che dovevano svolgersi in queste grotte: ricordiamoci che già solo per raggiungere questi luoghi spesso bisognava fare una fatica non irrilevante e rischiare la pelle. Sappiamo che andavano in gruppo, anche con bambini, c’era tutta una costruzione sociale di avvicinamento a queste immagini. Poi c’erano sicuramente delle storie, alcune strutturazioni narrative o micro-narrazioni sono evidenti. Quindi aspetti performativi, teatrali, recite, canti, tutte cose di cui non ci resta quasi nulla! Ora si comincia a studiare in maniera molto seria l’aspetto sonoro delle caverne, cioè il fatto che le caverne producono dei suoni, amplificano e riducono i suoni. Tutto questo era compreso da chi le frequentava. Le impronte ritrovate dimostrano che ci si muoveva davanti a queste immagini. Nell’insieme si doveva trattare di esperienze che  definiremmo multisensoriali. Naturalmente noi oggi vediamo soltanto le immagini.
Ma per tornare alla domanda, non c’è dubbio che queste cose duravano, erano una raffigurazione che aveva senso proprio nel momento in cui il Sé si stabilizza e anche il fatto di scendere in una caverna al buio piena di insidie non doveva essere una esperienza semplice che chiunque a cuor leggero poteva fare. C’era probabilmente una forte auto-consapevolezza che comprendeva anche il desiderio di fare memoria di se stessi, di raccontare di essere esistiti, di potersi proiettare oltre i propri limiti temporali, oltre la morte.
Purtroppo nulla sappiamo dei meccanismi transgenerazionali. In alcuni casi queste caverne sono state utilizzate per 25.000 anni, e quindi è chiaro che c’è stata una trasmissione, qualcuno che ha raccontato della caverna a un altro. In questi casi la trasmissione intergenerazionale è inevitabile e questo significa la costruzione di una memoria.
Uno straordinario storico dell’arte, oggi quasi dimenticato,  Max Raphael, un ebreo tedesco che fuggì negli Stati Uniti e scrisse a New York un libro, Prehistoric Cave Painting, ipotizzò per primo che quello che era stato dipinto ad esempio ad Altamira era la rappresentazione di una guerra fra clan. Raphael parlò di una “Iliade della preistoria”. Detto così naturalmente fa storcere subito il naso agli archeologi, ai paleontologi e persino ai letterati. Resta il fatto che l’idea che questi tori rappresentassero una guerra fra i clan, quindi siano una memoria storica a tutti gli effetti, è una idea affascinante che poi ha stimolato delle riflessioni molto serie e ci ha fatto capire che le immagini nelle caverne non sono casualmente disposte sulle pareti. Saranno poi Annette Laming-Emperaire e André Leroi-Gourhan a capire che le immagini delle cavere hanno una relazione tra di esse, sono cioè “strutturate” secondo regole condivise. C’è un intreccio, una storia che organizzale immagini. Se ci troviamo di fronte a una “Iliade della preistoria”, si tratta con ogni evidenza di modi per fare memoria, per raccontare chi siamo, cos’è un gruppo e anche cos’è un individuo.

Grotta di Lascaux

Nel Paleolitico immagina una distanza tra “artisti” e “pubblico”, per quanto questi termini siano ovviamente inappropriati?

La domanda è una proiezione moderna di ciò che noi sappiamo su epoche e sistemi sociali del tutto diversi. Però una cosa bisogna dirla: ricordiamoci che per dipingere quelle immagini bisognava avere delle capacità manuali straordinarie. La reazione di Picasso di fronte alle pitture, pensare che lì ci sia già tutto quello che è stato fatto poi nell’arte, è indicativa.
Quindi a questa domanda tutti risponderebbero: no, la figura dell’artista è un’altra cosa. Ma che ci siano dei soggetti che avevano delle capacità che altri non avevano è fuori discussione. Magari non si chiamavano artisti e neanche artigiani come nell’antica Grecia.  E forse, come sostengono i sociologi che si occupano di questo tipo di culture, si deve immaginare una differenzazione di ruoli, per cui alcuni andavano a caccia e altri stavano a casa a dipingere; questo presupporrebbe però una economia che consentiva a un’artista di non “lavorare”.
Dietro le capacità di chi ha fatto queste pitture ci sono probabilmente lunghe fasi di prove ed errori, lo dimostra il fatto che ad esempio molte disegni sono stati re-incisi e ripassati in mille modi e questo ci induce a pensare che non dobbiamo immaginare un’opera d’arte, come facciamo noi oggi, in termini di unicità. Pensiamo per esempio alle immagini dei cosiddetti aborigeni australiani, che hanno ridipinto i loro disegni per decine di migliaia di anni e continuano a farlo ancora oggi. È un atteggiamento nei confronti dell’arte profondamente diverso dal nostro fondato su categorie come l’originalità, la non-riproducibilità, l’unicità, il genio individuale.

Il primo capitolo parla delle incisioni della grotta dell’Addaura, presso monte Pellegrino vicino a Palermo. Si tratta di incisioni sviluppate su tre pareti di una grotta, con molte figure antropomorfe, un unicum nel Paleolitico. Inoltre, si tratta di rappresentazioni raffinate, realistiche ad esempio nella resa della musculatura. Sono state realizzate in una fase che ci appare di svolta, sul finire del Paleolitico (tra Epigravettiano finale e Mesolitico): ci si smarca dalle raffigurazioni animali e si approda a una nuova estetica della figura umana. È l’inizio di un “nuovo umanesimo”, lei scrive. Come è stato possibile? È una svolta biologica, neurologica, arrivata d’improvviso, o ci sono delle cause?

Incisioni dalla Grotta dell’Addaura, Mondello (PA). Fonte preistoriainialia.it (ph. S. Vassallo, R. M. Cucco, 2015)

Le risposte possono essere molteplici. La prima, più naïf, è di carattere sociologico: è chiaro che si arriva a forme di diversificazione sociali tali da indurre queste popolazioni primitive a distinguere sempre più il lavoro umano in vari livelli: per esempio all’Addaura ci sono questi due giovinetti al centro della rappresentazione  poi tutta una teoria di figure attorno che performa un rituale, quindi c’è già una distinzione, forse in quel caso tra chi doveva essere ancora iniziato (i due giovani) e quelli che invece erano già stati iniziati. Così come c’è una figura, tra le più belle forse della preistoria, di un cervo accompagnato da un uomo con un bastone in mano, forse un pastore.
Quindi la prima risposta è relativa alla differenzazione sociale, tema con il quale torniamo al discorso di prima sulla costituzione del Sé. Poi, certo, qui tocchiamo uno degli argomenti più cruciali: tutta la grande figurazione del Paleolitico superiore trascura l’uomo. La figura umana è quasi del tutto assente, a volte rappresentata in piccoli disegni rudimentali, , quasi caricaturali che accentuano nasi, occhi, arti. Nella raffigurazione animale, invece, il Paleolitico arriva a una perfezione assoluta, per tornare al discorso di Picasso. Successivamente, le cose sono evidentemente cambiate.
Ci viene in aiuto una figura come George Bataille il quel sostenne che gradualmente prende corpo una distinzione degli umani dall’animalità. Questa è la nostra tragedia: oggi cerchiamo di riscoprire in letteratura e nell’arte, proprio il nostro contatto e rapporto con l’animale. L’emergere della raffigurazione umana determina una centralità antropocentrica nella quale un filosofo come Bataille vedeva il distacco dall’animalità che era stata centrale per decine di migliaia di anni in un contesto dove evidentemente l’uomo si percepiva come una parte degli animali. Evidentemente a un certo punto qualcosa si rompe. Dire “nuovo umanesimo” è poco più di una battuta. Però certamente il focus dell’Addaura è l’uomo. Siamo in un’epoca in cui la percezione del Sé è molto più matura. Le capacità tecniche fanno sì che l’uomo si distingua sempre di più dall’animale, nel senso che egli capisce che può, attraverso l’uso di strumenti, essere meno a rischio della vita.
Ci tengo però a dire che ho usato la grotta dell’Addaura anche come plot narrativo per sottolineare il fatto che noi al cospetto di queste immagini proviamo delle emozioni estremamente forti. Questo è successo a tutti quelli che hanno scoperto le grotte principali ma è successo anche a me, si parva licet. Quando vidi per la prima volta queste immagini fu una rivelazione – stiamo parlando degli anni Settanta-Ottanta, quando ancora non c’erano tutte le riproduzioni fotografiche e digitali che ci sono adesso – perché si trattava di rappresentazione completamente diverse da quelle conosciute. Al di là delle riflessioni più scientifiche, il fatto è che chiunque entri lì dentro e si metta di fronte a questi disegni non può restare insensibile a quello che vede, tanto che l’Addaura è un piccolo anfratto, una grotta “prêt-à-porter”. La frequentazione di questa grotta poteva essere quotidiana, non si trattava di scendere per decine di metri al buio. E nonostante tutte le modifiche intercorse successivamente, che hanno determinato il cambiamento del piano di camminamento e quindi l’altezza alla quale si vedono le immagini, ancora oggi se entriamo lì dentro subiamo uno shok visivo. Veniamo risucchiati in questa performance e ci chiediamo chi siano questi due ragazzini che volano, se delle vittime o degli iniziati. Aggiungo il fatto che, come ha dimostrato la letteratura scientifica, vi compare anche un’idea di proiezione assonometrica. Non vediamo una teoria degli animali, disposti uno accanto all’altro: nell’’Addaura è rappresentato lo spazio, quasi una prospettiva. Anche pensando a questo, ho parlato di “nuovo umanesimo”.

Riguardo all’aspetto emozionale della vista delle pitture, ho trovato molto interessante la sua osservazione che quasi tutti gli studi sull’arte del Paleolitico partono sempre raccontando esperienze personali, quindi dalla propria reazione di fronte alla visione delle pitture. Scrive che la vista diretta delle immagini è necessaria per sperimentare l’ambiente, la posizione dell’osservatore, la consistenza materica delle pitture; una esperienza emotiva e cognitiva nello stesso tempo. Come sappiamo, però, è un’esperienza che pochissime persone al mondo oggi possono fare; quasi tutte le grotte sono chiuse al pubblico per ragioni conservative e si possono visitare soltanto delle repliche (Altamira, Chauvet, Lascaux, ecc).
Cosa pensa di queste repliche?

Penso che le repliche abbiano due funzioni: la prima, di permettere un minimo di fruizione a un pubblico vasto e quindi anche far acquisire la consapevolezza dell’importanza di tutelare questi luoghi. Tra parentesi, continuo a lamentare, come già facevo insieme al mio compianto amico archeologo Sebastiano Tusa, il fatto che un posto come l’Addaura sia chiuso al pubblico e non abbiamo un museo dedicato.
La seconda funzione, ancora più importante, è che attraverso queste riproduzioni comprendiamo un sacco di cose su come venivano dipinte e prodotte queste immagini. Quindi la replica ha senso anche da un punto di vista scientifico. In futuro con meccanismi di realtà virtuale sempre più raffinati potremo simulare di camminare dentro questi spazi, ma non ci sarà nessuna tecnologia in grado di riprodurre fino in fondo tutte le stimolazioni sensoriali che si hanno in una caverna vera. Chiunque abbia fatto l’esperienza di entrare in una di quelle ancora visitabili (ad esempio in Francia a Les Eyzies) sa benissimo che bisogna mettere in conto il freddo, l’umidità, la posizione, la dimensione claustrofobica, la sonorità, il buio e di conseguenza la luce. Sicuramente quella delle grotte era un’esperienza multisensoriale.  Oggi nelle repliche possiamo vedere le immagini, forse toccarle, ma negli spazi originali l’esperienza era ben più complessa, aveva una dimensione di embodiment incredibilmente più potente. Quindi ben vengano le riproduzioni perchè ci spiegano tante cose, ma sicuramente non tutto. Hanno una funzione educativa, ci permettono di renderci conto della profondità immemoriale del tempo e del nostro essere Sapiens.
Attenzione però: molte grotte giustamente non sono visitabili per motivi di conservazione, ma l’arte rupestre è sparpagliata in tutto il pianeta. Ci sono centinaia di luoghi in cui fare un’esperienza molto vicina a quella dei nostri antenati paleolitici, penso alla rock art, ai petroglifi che si trovano ad esempio negli Stati Uniti, nell’America del sud, in Australia, in ambienti ancora molto simili a quelli dei nostri antenati.

Secondo André Leroi-Gourhan le prime “collezioni” di reperti, scoperte in livelli post-musteriani nella grotta di Arcy-sur-Cure, composte da oggetti curiosi (tra cui alcuni fossili) selezionati e messi da parte da quelle genti preistoriche, sono il primo segno di una coscienza estetica.
Lei cita un esempio ben più antico di possibile ‘coscienza estetica’, ovvero un ciottolo di diaspro ritrovato a Makapansgat in Sudafrica, attribuito a tre milioni di anni fa, a un Australopithecus Africanus: un ciottolo naturale ma dalle forme particolari che ricordano un volto umano. Quindi saremmo di fronte a un ominide che ancora non produceva arte ma sapeva in qualche modo riconoscerla e ne sentiva il bisogno, se questo ciottolo se lo portava con sé.
L’idea di fare arte, l’aspirazione all’arte, parte da uno sguardo? Dall’accorgersi e dal guardare in modo diverso quello che ci sta intorno?

Ciottolo di Makapansgat (Fonte Wikipedia)

Beh, questo è dimostrato non soltanto dal ciottolo di Makapansgat. Non c’è dubbio che quel ciottolo sia stato preso e trasportato per moltissimi chilometri, e quindi sia il segno di una esperienza di riconoscimento che oggi chiamiamo estetica. È probabile che questo volto riconoscibile nel ciottolo fosse interpretabile sulla base di una esigenza forse religiosa, alla stregua di un interlocutore, o un Dio.
Una cosa è sicura: siamo in grado di riconoscere i volti anche quando volti non sono, e in quel caso il nostro antenato ha riconosciuto un volto umano, il che la dice lunga sul fatto che l’esperienza estetica ha molti aspetti: da un lato c’è la ricezione, la capacità di riconoscere alcune “cose belle” e questo vale per il ciottolo ma anche per i paesaggi naturali. Poi c’è l’aspetto della produzione in termini moderni, ovvero quando produciamo un oggetto con delle finalità di tipo estetico; ma c’è anche, come al solito, una questione di comportamenti che sono sempre gli stessi. Perché il nostro antenato ha preso questo ciottolo e l’ha portato con sè? Qual è il significato del gesto?
Tutta la psicologia delle prime fasi di vita ci dimostra che il volto umano è qualcosa che fa la differenza nella percezione di un infante che è capace di riconoscere soprattutto il volto della madre, e questa abilità fa parte della nostra costituzione genetica. Ma al di là di questo, chi ha preso quel ciottolo probabilmente vi ha proiettato dei significati che potrebbero essere stati sociali, religiosi o anche semplicemente di gioco. La dimensione del gioco è tutt’altro che secondaria nella nascita dell’estetica, così come quella ripetizione: portando quel ciottolo con sé, quella “persona” ha potuto ripetere più volte l’esperienza del riconoscimento di un volto.
L’esperienza estetica crea una continuità tra l’animale e l’uomo. La capacità di riconoscere un volto, ad esempio, è propria anche degli animali. Gli animali riconoscono, attraverso  la simmetria degli occhi un potenziale predatore o al contrario un amico. La simmetria ha a che fare con la storia dell’ornamento ma anche con il nostro percorso evolutivo: se vedo due occhi colgo non solo la simmetria ma anche la possibilità di difendermi da un potenziale nemico. Quindi quel riconoscimento ha delle valenze importantissime; riconoscere un volto ci ha aiutato a sopravvivere,  a conoscere i nostri simili e forse anche a conservarne la memoria.

Andrea Tagliapietra (La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica dell’immagine, Donzelli Editore, 2023) ha scritto che la prima immagine in assoluto è stata il riflesso di qualcosa o qualcuno nell’acqua, dove quello che conta “non è il riconoscimento di chi o di cosa si riflette nello specchio, bensì la raggiunta consapevolezza che quella che stavamo guardando è, in effetti, un’immagine”.Lo specchio è un manufatto ambiguo, in quanto nello stesso tempo “cosa” e immagine. Ci fa vedere oltre la portata del nostro sguardo e in primo luogo noi stessi: una esperienza formativa e identitaria in qualche modo ingannevole (nello specchio c’è un riflesso della realtà e non la realtà in sé) ma anche strumento di conoscenza.
È d’accordo sul fatto che il riflesso di sé possa essere stata la prima immagine?

Certamente il tema del riflesso entra nella questione dell’idea del Sé. Sulla scoperta del Sé c’è tutta una mitologia che insiste su questi temi (basti pensare a Narciso). Sul fatto che questa possa essere l’esclusiva nascita dell’immagine ho i miei dubbi, per il semplice fatto, di carattere etico piuttosto che estetico, che non credo alle origini e alle spiegazioni uniche. Sono incline a pensare che qualunque fenomeno sia il prodotto di progressioni evolutive molto complesse, di avvicinamenti, errori, prove, durati migliaia e migliaia di anni.
La nascita delle immagini potrebbe essere vista nel riconoscimento del ciottolo di Makapansgat che è, in fondo, una forma di rispecchiamento. Perché evidentemente se so chi è l’altro, forse allora so anche chi sono io e magari mi sono già visto per esempio riflesso nell’acqua. Però cosa viene prima? Il riconoscimento del volto umano, che comunque fa parte dell’esperienza di un qualunque neonato, o il fatto di affacciarsi su una superficie riflettente, o di trovare una pietra che ricorda le sembianze dei miei compagni? Probabilmente si tratta di tutte queste cose messe insieme e verificate per migliaia di anni. Verosimilmente il primo individuo che si è rispecchiato non ha neppure capito di che si trattava e forse si sarà spaventato, non riconoscendosi affatto.
Dobbiamo anche tenere in conto l’elemento della casualità. L’idea che tutto abbia una causa è ingannevole; alcune cose succedono per caso eppure possono cambiare il nostro modo di vedere e di comportarci. Pensiamo ad esempio a un altro evento fondamentale, l’essere diventati bipedi: quanti passaggi di migliaia e migliaia di anni ci saranno voluti?

Nel mondo contemporaneo il digitale ha una valenza e una pervasività sempre maggiori ma le immagini digitali hanno pur sempre ancora bisogno di un supporto materiale per essere prodotte (uno schermo, gli occhiali per il tridimensionale, una pellicola per le immagini oleografiche, …). Quindi c’è un supporto mediale come prima c’erano i dispositivi ottici e prima ancora le pareti delle caverne, i frammenti di osso e avorio sui quali incidere raffigurazioni, ecc.
Secondo lei il digitale sta cambiando il nostro modo di fare immagini o non si tratta di una svolta così importante?

La mia risposta, un po’ polemica, è che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Non tanto perché pensi che nel contemporaneo non troveremo nuovi modi di fare immagine, li troveremo e saranno sempre più virtuali e complicati. Però se spostiamo l’attenzione verso i nostri comportamenti e approcci nei confronti delle immagini, credo che lì invece ci sia una stabilità notevole che ancora stentiamo a decifrare. Perché, ad esempio, baciamo una immagine? Perché un’immagine in qualche modo ci chiama, ci coinvolge, sembra avere una agency che ci induce a fare determinate cose? Se riflettiamo su queste cose forse andiamo un po’ più avanti rispetto alle magnifiche sorti e progressive della tecnologia. Le immagini, come ci hanno insegnato i grandi della cultura visuale (W.J.Y. Mitchell, David Freedberg, Alfred Gell) alla fine ci fanno fare sempre le stesse cose.  Quindi, per quanto mi renda conto che le tecnologie facciano la differenza, sposterei sempre il discorso dalla parte della ricezione; anche con l’intelligenza artificiale facciamo in modo che si producano immagini con le quali abbiamo delle relazioni fin troppo scoperte, evidenti e “primitive”.

Nel libro ribadisce spesso che non dobbiamo andare alla ricerca del significato, della spiegazione, quantomeno ribadisce che lei non intende farlo. Mi ha fatto venire in mente il famoso saggio di Susan Sontag, Contro l’interpretazione (1964), dove Sontag si pone contro l’interpretazione dell’arte, e dice che bisogna ritornare a sperimentare un’opera dal punto di vista sensoriale (e questo mi fa pensare alle descrizioni delle visite nelle grotte paleolotiche). Ci hanno insegnato che il contenuto è prioritario sulla forma, e ci aspettiamo sempre che l’opera d’arte dica qualcosa; davanti a un quadro o a una installazione artistica ci scervelliamo alla ricerca del vero significato, dando per scontato che voglia dire qualcosa. Mentre la moralità dell’arte, dice Sontag, sta nel fatto che risveglia la nostra sensibilità: l’esperienza estetica è una risposta morale alla vita.
E poi scrive:  “Nessuno di noi potrà mai ritrovare quell’età dell’innocenza anteriore a ogni teoria, in cui l’arte non aveva alcun bisogno di giustificarsi, né ci si chiedeva cosa dicesse un’opera d’arte, perché si sapeva (o si credeva di sapere) cosa facesse.”
Crede che sia impossibile tornare a quello sguardo innocente?

Non credo che ci siano sguardi innocenti. Gli sguardi sono costruiti, hanno una dimensione storica, una memoria visiva. Se uno studia il Paleolitico per raggiungere la verità sulle immagini piuttosto che su qualunque altra cosa, è sicuramente sulla strada sbagliata. Il Paleolitico, lo ribadisco, ci serve soprattutto a smontare le nostre sicurezze estetologiche, etiche, sociali, politiche; a ridurre le nostre pretese antropocentriche, eurocentriche e anche generocentriche. Pensiamo per esempio a tutta la tradizione delle interpretazioni delle statuine femminili, le c.d. Veneri; giustamente la cosiddetta Gender Archeology (Margaret Conkey in testa) ha fatto un lavoro di decostruzione dello sguardo maschile su questi manufatti: è stato detto che non potevano che essere donne incinte o comunque collegate al tema della fertilità, addirittura ci sono stati degli archeologi che hanno parlato di Paleo Porn, cioè hanno ipotizzato che le statuine avessero delle finalità sessuali. Oggi abbiamo capito che questi oggetti potevano avere moltissime altre funzioni, anche se alcune di esse continueranno a rimanere un enigma. Un grandissimo studioso delle figurine soprattutto neolitiche, Douglass W. Bailey, sostiene che questi artefatti siano degli “strumenti” filosofici, che ci permettono di riflettere sul Sè, sull’ornamento, sul nostro stare nel mondo.
Penso che il mio libro, se ha un senso, sia quello di dire: sappiamo tante cose, abbiamo inventato l’estetica, la storia dell’arte, ma ogni tanto lo sguardo in una dimensione immemoriale ci permette di ridurre il nostro superomismo filosofico e ci fa intuire quanto sia limitante interpretare tutto a partire solo dalle ultime fasi della storia evolutiva di Homo Sapiens.
Riconsiderare, come stanno facendo tanti filosofi, il tema dell’animalità, cioè il fatto che viviamo in un contesto dove siamo soltanto uno dei tanti animali sulla Terra e neanche il più forte, probabilmente neanche il più furbo, al massimo il più colto, ha anche una valenza etica perché ci aiuta a comportarci nella società reale e politica. Iscriverei questo libro in una logica di riduzione delle nostre presunzioni.

L’accenno a Sontag mi permette di farle una domanda un po’ divagante, ma fino a un certo punto: Sontag ha scritto molto di “cultura visuale” e del rapporto tra metafora (nella quale rientra la produzione di immagini) e la realtà (basta pensare al suo saggio sulla fotografia).
Ho ascoltato una sua conferenza in cui ha analizzato due saggi di Sontag, La malattia come metafora e Davanti al dolore degli altri. Nel secondo, in particolare, Sontag si chiede come dobbiamo porci di fronte a immagini di morte, di dolore; osserva che è impossibile districare tra compassione (uno sguardo buono, ben intenzionato, positivo) e voyeurismo (uno sguardo perverso). Lei conclude quella conferenza con un giudizio negativo su Annie Leibowitz, la famosa fotografa che fu compagna di Sontag e che pubblicò poco dopo la morte della scrittrice americana un libro di fotografie (A Photographer’s Life 1990-2005) nel quale comparivano anche diverse immagini di Sontag malata nel letto di ospedale, e poi morta. Dice che Sontag forse non avrebbe apprezzato. Personalmente più che le foto in ospedale o sul letto di morte, trovo impietose certe altre foto di Sontag ancora viva e non malata, distesa sul divano, trasandata e poco curata. Mi riesce difficile pensare che Sontag non immaginasse che Leibowitz prima o poi avrebbe pubblicato tutte le foto che le scattava. Pare che anche la celebre foto di Demi Moore nuda e incinta di sette mesi, scattata da Leibowitz e che fu una copertina di Vanity Fair nel 1991, fosse uno scatto nato come privato.
Tutto questo vale come spunto per chiederle: come si fa a ripulire la nostra visuale dalle immagini? A decidere che qualcosa non si deve mostrare, non si deve vedere. Nei nostri comportamenti al cospetto delle immagini, e nelle possibilità di diffusione e riproduzione delle stesse (possibilità che non c’erano nel Paleolitico), non c’è in fondo una forma di impertinenza, di patto con il diavolo, che rende le immagini inarrestabili? – e questo, in fondo, pure, ci è necessario, come il fare-immagine in sé.

Il punto è che noi abbiamo un serio problema con le immagini. Abbiamo delle forme di comportamento fobiche, ad esempio, come ci ha insegnato Aby Warburg già all’inizio del secolo scorso. Certe immagini hanno su di noi una presa che ci mette seriamente in questione. Probabilmente questo è anche il loro fascino ed è il motivo per cui continuiamo a cercare l’origine dell’immagine. Ma scendendo da questa astrazione e andando sul piano dell’uso delle immagini, e dell’uso eventualmente immorale, proprio Susan Sontag, che considero la più importante filosofa del Novecento oltre che teorica della letteratura, ci ha spiegato che dobbiamo prendere delle decisioni di fronte alle immagini perché esse spesso ci inducono a comportamenti dissacranti. Come racconta in quel libro meraviglioso sul dolore degli altri, godiamo di certe immagini perché siamo fatti costitutivamente così, ci saziamo del dolore degli altri, usiamo impropriamente le immagini. La decisione che dobbiamo prendere è quindi di carattere morale.
Ho insistito sul fatto che non avrebbe accettato quelle ultime immagini – è vero che ce ne sono di peggiori, rispetto ad esempio a quella dove appena si intravede il suo corpo su una barella mentre viene caricata su un aereo – perché se si segue la storia della malattia di Sontag, si capisce che lei  non si è mai rassegnata a questa sofferenza e alla distruzione della sua umanità. Quindi credo che non avrebbe santificato in alcun modo questi ultimi momenti della sua vita, come ha fatto Leibowitz trasformandola in una sorta di icona del dolore. Sontag odiava la malattia, l’ha sempre combattuta, disprezzata, considerata un animale dentro se stessa che non poteva controllare. Per questo non riesco a immaginare, soprattutto dopo l’ultima fase che è stata particolarmente dolorosa e durante la quale è rimasta per gran parte cosciente, che potesse avere cambiato idea. Mi sono fatto questa convinzione leggendola attentamente, rigo per rigo, leggendo anche tutti i diari. Non riesco a pensare che avrebbe potuto avere un atteggiamento estetico o religioso o devozionale nei confronti di queste fotografie.
Poi è chiaro che, nella dinamiche relazionali, accadano cose imperscrutabili. Le foto più impudiche di lei dentro il bagno scattate dalla Leibowitz sono anche atti d’amore reciproci, sono cose che uno fa o si lascia fare magari per amore o senza rendersi conto fino in fondo delle implicazioni. Però studiando approfonditamente la teoria dell’immagine di Sontag e i suoi pensieri sulla malattia, è evidente che lei non indulge mai in un atteggiamento teistico, per non dire cattolico romano, di compiacimento per le sublimazioni artistiche di queste esperienze. In Davanti al dolore degli altri non c’è neanche un minimo compiacimento estetico. A maggior ragione considera intollerabile, insopportabile, la malattia, nella quale non c’è redenzione o trasfigurazione possibile. Anche nei momenti più bui e sofferenti esprime astio nei confronti della malattia. Leibowitz invece ha santificato la malattia, l’ha trasfigurata esteticamente: l’estetica (pittura, fotografia) fa questo, basti pensare a quanti crocifissi abbiamo nella storia dell’arte. È una sorta di tentativo di compensazione, di addolcire la pillola attraverso pillole altrettanto velenose, che poi è l’atteggiamento tipico dell’arte cristiana e forse dell’arte in toto. Attraverso l’arte noi riusciamo a sopportare il tragico, il male. In questo periodo sto lavorando su un tema affine: il rapporto tra ansia e letteratura, il fatto che la letteratura possa essere un calmiere dell’ansia nonostante attivi le ansie (si pensi a Kafka).

Ritornando a Paleoestetica, come lettrice ho sentito la mancanza di un capitolo di conclusione, di sintesi. Come mai non l’ha scritto?

Non l’ho scritto perché le cose che ho detto sono dei primi tentativi di spiegazione di che cosa è un ibrido, che cosa è uno schermo, cosa è una miniatura. Mi sarebbe sembrato un atto un po’ presuntuoso arrivare a una conclusione. Nel libro ci sono due movimenti principali. Il primo è relativo alla necessità di affrontare questi temi dal punto di vista cognitivo e non da quello dei significati storico-artistici, dei miti, dei simboli. Il secondo aspetto, che spero sia compreso, è che nonostante tutto il cognitivismo, le neuroscienze e la psicologia, molte interpretazioni tradizionali, cioè quelle tipiche per esempio dell’antropologia culturale di questo secolo e molte interpretazioni “umanistiche”, sono ripensabili. Prendiamo il caso delle miniature: quello che è stato detto dai vari Lévi-Strauss, da Bachelard, da Benjamin, non è da buttare a mare ipso facto, solo perché ormai siamo nell’era delle scienze cognitive. In realtà molti di questi ragionamenti preparavano in qualche modo a riflessioni di tipo cognitivo. Quando Walter Benjamin scrive che i giocattoli danno all’uomo la sensazione di poter dominare il mondo e di poterlo disporre a suo piacimento, sta esprimendo un pensiero di tipo cognitivo, anche se ovviamente non utilizza questo termine. Ci dice che il nostro piacere deriva dal fatto che ci illudiamo di potere controllare ciò che in realtà non controlliamo mai. Non possiamo controllare il traffico di una città ma possiamo gestire le miniature delle macchinine, uno scenario tipico del gioco dei bambini. Questa è una cosa che, scrivendo il libro, tenevo molto a dire: gli studi che sono venuti prima, ad esempio anche la psicologia tradizionale di Winnicott, non sono cani morti della riflessione teorica ma pensieri che possono essere riattivati, ovviamente in direzione delle scienze cognitive.
Una conclusione vera e propria sarebbe stata un atto di hybris. Preferisco lasciare la questione aperta, sarà qualcun altro ad arrivare a una sintesi.

MICHELE COMETA (Palermo,1959) ha studiato germanistica e filosofia nelle Università di Palermo e di Colonia. Ha insegnato nelle Università di Düsseldorf, Catania, Cosenza e Cagliari e attualmente insegna Studi culturali Cultura Visuale nell’Università degli Studi di Palermo. Ha scritto numerosi libri sulla cultura tedesca ed europea dal diciottesimo al ventesimo secolo, e sulla cultura visuale. Nell’ottobre 2024 è uscito Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale (Raffaello Cortina Editore, Milano).

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Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente. Intervista a Enza Elena Spinapolice https://www.carmillaonline.com/2025/01/25/noi-siamo-il-passato-oscuro-del-mondo-noi-realizziamo-il-presente-intervista-a-enza-elena-spinapolice/ Sat, 25 Jan 2025 06:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86502 di Valentina Cabiale

Enza Elena Spinapolice è un’archeologa del Paleolitico che lavora nell’ambito dell’Antropologia Evoluzionistica ed è docente di archeologia preistorica presso l’Università La Sapienza di Roma. Dopo un dottorato Europeo Sapienza/Université de Bordeaux 1 ha fatto parte di gruppi di ricerca nazionali ed internazionali lavorando al Max Planck For Evolutionary Anthropology a Leipzig ed al LCHES a Cambridge. Ha iniziato la sua ricerca con lo studio degli adattamenti di Neanderthal nell’Europa meridionale e la loro estinzione. Dopo diversi anni di lavoro sul comportamento dell’uomo di Neanderthal, ha allargato la sua ricerca al record africano dell’Homo sapiens, più o meno nello [...]]]> di Valentina Cabiale

Enza Elena Spinapolice è un’archeologa del Paleolitico che lavora nell’ambito dell’Antropologia Evoluzionistica ed è docente di archeologia preistorica presso l’Università La Sapienza di Roma. Dopo un dottorato Europeo Sapienza/Université de Bordeaux 1 ha fatto parte di gruppi di ricerca nazionali ed internazionali lavorando al Max Planck For Evolutionary Anthropology a Leipzig ed al LCHES a Cambridge. Ha iniziato la sua ricerca con lo studio degli adattamenti di Neanderthal nell’Europa meridionale e la loro estinzione. Dopo diversi anni di lavoro sul comportamento dell’uomo di Neanderthal, ha allargato la sua ricerca al record africano dell’Homo sapiens, più o meno nello stesso arco temporale (il “Paleolitico medio”).  Attualmente dirige progetti in Europa e in Africa Orientale ed è interessata alla variabilità all’interno della MSA (Middle Stone Age africana) e alla connessione panafricana di persone e tecnologie. Le interessa anche il concetto di “mente estesa” e lavora sugli aspetti cognitivi della costruzione di strumenti, anche a partire dall’Archeologia dei Primati.

Per prima cosa vorrei porti alcune domande sulla questione del femminile negli studi di archeologia e nella preistoria in particolare, dato che è un tema di cui ti sei occupata di recente.

In realtà è successo abbastanza per caso, non è un ambito su cui io faccio ricerca. Ma mi viene chiesto spesso, di solito per le conferenze, e quindi ho iniziato a lavorarci sempre di più.

Partiamo dalla questione della visibilità delle donne. Sulla invisibilità femminile nella storia ha scritto una frase molto bella Carla Lonzi, nel Manifesto di rivolta femminile (1970); quando l’ho letta, da archeologa, mi ha fatto sobbalzare, anche se Lonzi non si riferiva all’archeologia ma a tutti i modi di “fare storia”:

“La donna ha avuto l’esperienza di vedere ogni giorno distrutto quello che faceva. // Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili. // Nulla o male è stato tramandato della donna: sta a noi riscoprirla per sapere la verità.” E più oltre: “Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente.” “Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili” è una frase potenzialmente molto “archeologica”…

Sì, e anche il fatto che siamo costrette a ricostruire il nostro passato e facciamo sicuramente più fatica degli uomini. Dipende da molti fattori. Ad esempio anche dalla questione della patrilocalità, ovvero il fatto che quando c’è un matrimonio sono quasi sempre le donne a spostarsi, in quasi tutte le società che conosciamo.  Quindi da una parte le donne hanno la difficoltà di doversi integrare in un altro gruppo, dall’altra parte sono un veicolo di cultura in quanto portano con sé delle conoscenze proprie del loro gruppo di origine, del loro savoir-faire. Anche per questo doversi spesso spostare, le donne hanno fatto molta più fatica degli uomini nel comparire nelle storie.
Riguardo al “deperibile”, nei talk ai quali mi invitano discuto molto del problema dell’identificazione dell’individuo. Quando si studia il Paleolitico accedere al livello dell’individuo è difficilissimo. Le nostre proiezioni nella preistoria hanno creato un immaginario dominato dalle figure maschili, a partire dal nome stesso della nostra specie, Homo sapiens, a tutte le raffigurazioni, eccetera. Tento di contaminare questo immaginario mostrando qualche donna che sappiamo essere certamente esistita, come la Eva africana (la nostra più antica antenata ricostruibile sulla base del dna mitocondriale) e alcuni fossili importanti tipo Lucy. Ma si tratta più che altro di spot in un mare di predominanza maschile.

Sei ottimista, come archeologa? Pensi che l’archeologia sia forse una delle poche discipline che può illuminare quel passato oscuro del mondo, e completare la storia? E che può, nonostante tutti i suoi limiti, mostrarci la materialità femminile?

Credo che l’archeologia sia figlia del proprio tempo e il modo in cui interpretiamo il passato sia fortemente influenzato dal presente. È una scienza che affonda le radici nell’oggi. Ci sono momenti nella storia della disciplina – è già stato così, ad esempio, negli anni Settanta/Ottanta durante i movimenti femministi – in cui c’è una maggiore attenzione a questi aspetti che in altri momenti invece è come stemperata. Negli anni Novanta e primi anni Duemila abbiamo dimenticato cose che per le archeologhe di due-tre decenni prima erano scontate e ora le stiamo riscoprendo, a volte in modo un po’ naïf. La riscoperta è comunque un dato positivo. Quindi per l’archeologia ho lo stesso sentimento che ho per la società in generale: il processo è un po’ lento ma la direzione è quella giusta, questa è l’impressione che ho guardando i miei studenti. Poi stiamo parlando di qualcosa che accade nella nostra società occidentale, nel mondo ci sono mille altre società e modi diversi di lettura del passato che spesso, in ogni luogo, viene più usato che capito.

Una delle cose che volevo chiederti, e la anticipo agganciandomi al tuo pensiero, è questa: come mai siamo ancora qui a ribadire cose molto ovvie, ad esempio che l’uomo della preistoria è stato anche una donna (dal titolo di una tua recente conferenza)? Mi chiedo se sia perché il femminismo degli anni Settanta/Ottanta non è arrivato in certi ambiti disciplinari, o non dappertutto. Come sappiamo, lo sguardo maschile della borghesia europea dell’Ottocento, periodo nel quale iniziano gli studi di preistoria, ha costruito un’immagine della donna nella preistoria confacente con la cultura patriarcale dell’epoca; ha teorizzato una divisione dei lavori sulla base del genere, sul presupposto che le donne non fossero in grado di svolgere certe attività; ha ritenuto che i compiti più valorizzanti fossero svolti dagli uomini. Così ad esempio la caccia, ritenuta prettamente maschile, è stata considerata più importante della raccolta di erbe, semi e ghiande, attribuita alle donne.
Gli studi femministi hanno cercato di ridimensionare il modello dell’uomo cacciatore (Man the Hunter), proponendo quello della donna raccoglitrice (Woman the gatherer è il titolo di un famoso libro dell’antropologa Frances Dahlberg, uscito nel 1981): secondo questa teoria, erano le donne a procurare la maggior parte delle calorie nella dieta dei gruppi preistorici, oltre a occuparsi di molte altre attività: la conciatura e la lavorazione delle pelli, il trattamento delle carni, la preparazione del cibo. Come mai si ritorna ancora su questi temi oggi?

Sono abbastanza perplessa quando leggo ad esempio articoli o libri nei quali si tenta di affermare che anche la donna è stata cacciatrice. Primo perché è un argomento che, appunto, è stato ampiamente sviscerato negli anni Settanta e Ottanta e ormai questa crociata contro Man the Hunter mi appare inappropriata tanto più che gli stessi studiosi maschi sanno benissimo quanto la caccia sia una risorsa unpredicatable, che non si può prevedere, e quanto invece le donne molto spesso con la raccolta di erbe e semi provvedano alla sussistenza e svolgano pertanto un ruolo importante, come giustamente ricordavi tu con Woman the Gatherer. La partecipazione costante delle donne alla caccia collettiva è un’altra cosa ben nota, per esempio. Poi non è che la caccia sia proprio un divertimento, mentre le donne stanno a casa a lavorare… Dire che la caccia è più importante è un parametro deciso dagli uomini, ma penso che a noi donne non sia mai importato più di tanto. Magari nelle società in cui anche le donne hanno ritenuta importante la caccia sono forse riuscite a prendervi parte. Diciamo che molto spesso questi discorsi, a opera di qualcuno che non ha approfondito e letto la letteratura a riguardo, sembrano delle bolle propagandistiche. Io Frances Dahlberg l’ho letta e non sono così vecchia, sono nata negli anni Settanta. Forse certe cose sono state date per scontate, e ora tocca tornare a ridirle. Forse anche perché l’accademia rimane in molti ambiti una roccaforte maschile. Infatti più che parlare delle donne nella preistoria preferirei parlare delle donne in preistoria, delle donne nelle discipline STEM. Le due cose vanno di pari passo e quindi se è stato un po’ oscurato quello che nel secolo scorso era considerato ovvio, magari è anche perché non ci sono abbastanza donne a fare questo lavoro. Non lo so, è un’ipotesi.
Io sono una delle poche donne paleoliticiste in Italia, è un ambito a prevalenza maschile. Ma è curioso che solo a me venga chiesto di trattare nelle conferenze il tema della donna della preistoria, e mai a un collega uomo.  È un argomento stimolante e sono contenta di parlarne, ma è un po’ un serpente che si morde la coda, si rischia di settorializzare la conoscenza. Mi chiedono di parlare delle donne perché sono donna? (ride)

Sì, se sono sempre le donne che parlano di storia delle donne diventa un circolo vizioso. Tanto più che di solito agli uomini non viene chiesto di parlare di storia degli uomini…

Appunto, loro parlano di tutto. A me non va di stare in una nicchia. È anche vero che se un uomo avesse sulle donne cacciatrici la posizione critica che ho espresso io poco fa, verrebbe tacciato delle peggio cose. Resta il fatto che nella ricerca una predominanza maschile c’è, e questo condiziona la scelta degli argomenti  verso i quali indirizzare la ricerca. Su questo dobbiamo ancora lavorare.

c.d. Venere di Laugerie-Basse, scoperta nel 1864

Vorrei porti una domanda sulla questione delle c.d. Veneri, ovvero le statuette con sembianze femminili ritrovate in gran numero dall’Inghilterra alla Siberia e presenti per circa 25.000 anni del Paleolitico superiore; la prima, la c.d. “Venere impudica”, fu scoperta nel 1864 in Dordogna. La tipologia è molto varia; tratti ricorrenti sono la nudità, l’evidenza degli attributi sessuali (seno, natiche e parte superiore delle cosce, vulva), l’assenza o la dimensione ridotta della testa. L’interpretazione simbolica e l’uso di queste statuine è molto dibattuto. “Venere” è un termine dato da uomini e chiaramente deriva da stereotipi culturali (è un richiamo al mondo greco-romano) e sessisti; riflette un certo tipo di modello femminile con forti rimandi alle fantasie erotiche maschili. È curioso, inoltre, il fatto che siano state chiamate Veneri anche le statuine che hanno una fisicità e delle forme molto prosperose che non corrispondono affatto a quelle della Venere classica: è come se, invece di vedere in queste rappresentazioni di donne un modello di femminilità diverso, le si sia ricondotte in qualche modo alla norma (dello sguardo maschile), a quell’ideale di bellezza classica. La domanda è: perché continuiamo a chiamarle così?

Un paio di anni fa abbiamo fatto un seminario su questo argomento con la collega Marina Gallinaro all’interno di un corso di Archaeology of Human Diversity, per gli studenti della magistrale: abbiamo contato le statuine per capire quante avessero effettivamente dei caratteri sessuali così evidenti, e queste non sono poi così tante o comunque non la maggioranza. Chiaramente il termine Veneri è entrato nella parlata comune ed è difficile eliminarlo, ma quello che si porta dietro non è bello. L’idea prevalente è che siano state fatte a uso e consumo degli uomini quando è invece possibile che siano oggetti fatti da donne e usati, custoditi dalle donne. A me piace molto l’idea dell’autoritratto, proposta dallo storico dell’arte McDermott (un uomo!), secondo il quale si tratterebbe di autoritratti da parte di persone che non sapevano che faccia avessero e si guardavano “da sopra”: questo sarebbe anche il motivo per cui molte statuine non hanno la faccia, in quel tipo di autoritratto non puoi mostrare il tuo volto.
All’inizio ci sono state molte interpretazioni idealistiche: la Dea Madre, ad esempio, o il legame con la maternità che secondo me è molto forzato perché non ci sono elementi che indichino che si trattasse di donne incinte. Si è cercato di vederci i vari stereotipi collegati alla donna, a volte tutti insieme. In seguito, le statuine sono state studiate in prevalenza dalle donne. Quello che non si riconosce abbastanza è quanto queste figurine rappresentino la diversità, perché in realtà sono molto diverse tra di loro. Se dovessi impostare una ricerca su questi manufatti – ci sto pensando – partirei proprio dalla diversità dei corpi: corpi grassi, corpi magri, corpi anche vecchi, forse. La società attuale è molto più interessata di prima alla diversità: tendiamo ad esaltare le differenze e non l’uniformità.

c.d. Venere di Willendorf

Anche a livello interpretativo, forse, vale la diversità: trovare un significato solo o prevalente per il fenomeno nel suo insieme è molto difficile.

Esatto, bisogna cercare di capire l’oggetto con il contesto, separando quello che va separato. Cosa mettere insieme e cosa dividere è il primo problema degli archeologi e anche dei paleoantropologi. La classificazione è possibile cercando affinità o differenze. E dopo aver classificato e studiato, magari, puoi costruire delle narrazioni diverse che sono tutte valide. In comune le statuine hanno il fatto di essere piccole, le puoi portare sempre con te. Poi però sono tutte diverse, e questo forse è un indice della diversità di quei gruppi che vivevano molto distanti uno dall’altro.

Marja Gimbutas fondò a partire dallo studio delle “Veneri” nel Neolitico la sua teoria sul culto della Grande Madre e sull’esistenza in Europa, prima dell’arrivo degli Indoeuropei, di società matriarcali o matrilineari, cioè che privilegiano la filiazione per via materna. Riguardo a Gimbutas ti chiedo se la sua ipotesi di tipo religioso, ovvero l’intepretare le statuine come rappresentazione di divinità, non abbia in qualche modo accentuato l’invisibilità delle donne, togliendo peso alla loro presenza reale nelle prime fasi della storia e poi quale ritieni che sia oggi l’eredità di Gimbutas (le cui teorie furono in seguito molto criticate, considerate deboli e fantasiose, ecc).

Diciamo che non sono una sua fan. Le sue interpretazioni per me sono troppo mistiche, io sono materialista e adotto un metodo di ricerca tendenzialmente processualista (anche se ormai è off school). Infatti ho iniziato a prendere parte a discorsi sull’arte soltanto di recente, prima me ne tenevo distante perché non mi sentivo in grado di non dire stupidaggini. Quella ipotizzata da Gimbutas è una bella storia; però, appunto, è una storia. Ma ho colleghe e amiche archeologhe che vi hanno trovato ispirazione e un forte sentimento di connessione con il passato. Oggi la Gimbutas non è più molto citata, sembra diventata un po retrò. È anche vero che io mi occupo di periodi più antichi e forse non ho il polso dela situazione. Alcuni suoi pensieri sono stati ripetuti così tante volte e infilati in articoli senza neanche rendersi conto che derivano da lei. Non saprei dire se ha veramente creato una scuola o no.

Invece delle donne non ancora Sapiens, ad esempio delle australopitecine, si può dire qualcosa di diverso rispetto alle donne anatomicamente moderne (e alle loro relazioni con gli uomini)? O sono discorsi non proponibili?

Certi discorsi forse sono difficilmente proponibili perché oggi sarebbero mal visti. Ad esempio nelle conferenze parlo sempre del dimorfismo sessuale che nelle australopitecine è molto accentuato, come nei moderni gorilla, tanto che all’inizio quel che era dimorfismo era stato interpretato come la presenza di due distinte specie. Alla fine si è arrivati alla conclusione che si tratti solo di dimorfismo sessuale, ovvero che i maschi fossero significativamente più grandi delle donne, circa il 30-40% in più. Questo per forza deve aver determinato una struttura sociale con una prevaricazione maschile. È molto probabile anche sulla base dei confronti con i comportamenti dei primati attuali. È verosimile che questi gruppi non fossero composti da famiglie nucleari (madre, padre, figli) ma fossero gruppi allargati con maschi dominanti e una serie di altri individui. Sono modelli, non lo sappiamo con certezza. Il dimorfismo sessuale diminuisce parecchio nel passaggio da Homo ergaster a Homo erectus, ma c’è ancora nei Neanderthal e nei Sapiens. Stiamo parlando di popolazioni, ovviamente, non di individui. Questa differenza fisica necessariamente ha influenzato la forma della società e secondo me la influenza ancora. Per molto tempo e in molte società il rapporto tra uomini e donne è stato principalmente, e banalmente, una questione di forza. Poi c’è anche il fatto che noi abbiamo la gravidanza. Anche questo è un argomento che può essere malinterpretato o travisato: ma è evidente che l’essere mediamente più piccole e molto impegnate in attività di cura, tra gravidanze e allattamenti, non ci consente di essere alla pari fisicamente con i maschi. Parlare di questo non sminuisce le donne. Oggi ci sono gli antidolorifici per il ciclo, l’epidurale se dobbiamo partorire, il biberon se dobbiamo allattare e la pillola se non vogliamo restare incinte: le nostre nonne e antenate ne erano prive. Pensare che l’uomo abbia approfittato di questa nostra condizione nel passato non sminuisce la gravità della loro prevaricazione, però è un dato di fatto.
Penso che abbiamo resistito a quello che dovevamo resistere e ora siamo in una posizione di forza. Su quanto accaduto nel passato non sono molto ottimista ma sul futuro sì: sono fiduciosa per le ragazze del futuro, sia che vogliano andare a caccia di cervi o qualsiasi altra cosa (ride).

Questa cosa che dicevi sul dimorfismo sessuale, che era più accentuato nelle specie più antiche, è molto interessante. Ci sono ipotesi sul come mai sia diminuito?

L’ipotesi è che le società, e le specie, siano lentamente cambiate proprio al fine dell’accudimento della prole. In realtà noi conosciamo abbastanza bene quello che è arrivato alla fine, cioè noi, e il forte dimorfismo delle australopitecine: quello che sta in mezzo, invece, non è molto noto. Però c’è il fatto che noi Sapiens facciamo dei neonati che hanno bisogno di tanta cura. La neotenia comporta che il neonato non sia ancora del tutto formato e parte della sua formazione avviene dopo la nascita: se il cervello si sviluppasse completamente prima, non passerebbe nel canale del parto. Questo enorme cervello che abbiamo è un vantaggio in termini evolutivi ma è uno svantaggio in quanto rende il parto molto pericoloso per la nostra specie. Anche tuttora lo è, per quanto la cosa sia molto sottovalutata. Oggi si tende a pensare al parto come a una cosa semplice tanto che poi molti decidono di farlo a casa e non in ospedale, non ricordando quanto si morisse un tempo. Mio padre, che è un ginecologo esperto di storia della medicina, mi dice che una donna su 10 rischia di morire di parto, proprio perché stiamo chiedendo alle ossa del nostro bacino di far uscire dei bambini con la testa il più grande possibile. Ma ancora non è abbastanza, questo cranio deve continuare a crescere al di fuori del grembo materno. Per fare questo, c’è bisogno di un accudimento da parte di tutta la società: si ipotizza che a questo scopo si siano create le “coppie” familiari, perché anche l’uomo coopera in questo periodo di fragilità del bambino.
Esattamente quando questo sia avvenuto non si sa, secondo alcuni già con Homo ergaster/erectus, secondo altri solo con la nostra specie, ma in ogni caso la progressione c’è. Avvicinandosi a noi nel tempo l’encefalo diventa sempre più grande e il dimorfismo sessuale sempre più piccolo. Non è detto che le due cose debbano per forza aver avuto una correlazione ma è possibile che la prima abbia avuto un peso, insieme ad altri aspetti evolutivi, di cooperazione, di struttura del gruppo.

Spostiamo la questione femminile dalle donne del passato alle donne che oggi si occupano del passato, cioè le archeologhe. Oggi moltissime donne lavorano in archeologia anche se si rimarca spesso che, qui come altrove, quelle nelle posizioni e nei ruoli importanti nelle istituzioni e nelle università siano in numero minore rispetto agli uomini. Volevo riportarti una osservazione di una tua collega, la professoressa Marcella Frangipane. Stavamo parlando di alcune archeologhe che per lei sono state maestre e lei mi ha detto che uno dei punti di forza delle donne in questa disciplina è la disabitudine al potere. Il fatto di essere state nella storia, nelle professioni, molto più raramente in posizioni di comando, ci renderebbe più adatte, più elastiche, meno autocompiacenti, nella gestione della ricerca e di progetti complessi. Ti riconosci un po’ in questa idea?

Può darsi. Sicuramente il modo di fare delle donne, di gestire i progetti e i collaboratori, è diverso da quello degli uomini. Se paga essere tendenzialmente meno assertivi, avere maggiori qualità di mediazione, non lo so. Sicuramente il modo femminile di costruire un team di lavoro è diverso.

In che cosa è diverso?

Siamo apparentemente meno competitive, o meglio lo siamo ma lo mostriamo in modo meno palese. I maschi hanno un po’ la sindrome del gorilla che si batte il petto, devono sempre fare tutte queste danze rituali, probabilmente la società li spinge a show up, a mostrare più aggressività di quella che magari vorrebbero, mentre la società spinge noi a mostrarne meno, è questo chiaramente può essere un vantaggio, perché rimaniamo più concentrate sul progetto, meno in prima linea nell’aggressività. Secondo me ci sono due modelli di potere delle donne: molte tendono a uniformarsi agli uomini, scegliendo una aggressione esplicita; altre invece no. Non so cosa paghi di più. Nei casi in cui sono stata particolarmente aggressiva mi sono accorta che non avevo guadagnato riprovazione ma rispetto, cosa che mi ha stupita perché per me il rispetto dovrebbe essere dato a chi riesce a moderarsi e a concludere qualcosa senza mettere in campo gli artigli. I team gestiti da donne spesso sono più rilassati, ma non sempre. Molte donne sentono la pressione, anche perché le critiche per noi molte volte sono più feroci. C’è ancora l’idea che possiamo essere isteriche, perdere il controllo facilmente. E di questo possiamo soffrire, anche perché il lavoro sul campo come archeologhe è faticoso e impegnativo. Forse per gli uomini è più facile perchè non partono da una stigmatizzazione.

Sono anche più abituati, è una abitudine storica…

Sì ma soprattutto è l’altro che è più abituato a vedersi arrivare un uomo a capo di una missione. Però quello che io ho visto è che nel momento in cui mostri che sai fare le cose bene, allora ti guadagni un rispetto che è anche più forte di quello degli uomini. Perché ti ammirano. Si chiedono: questa come fa? Pensando che di base vali di meno (ride) quello che poi hai in cambio è di più. Ad esempio, io ho un figlio e mi accorgo che essere accompagnata da un figlio in certi ambienti mi porta più rispetto, perché si pensa “lei riesce a fare tutte queste cose e anche avere un figlio”. Ma se invece sbagli, o ti succede qualcosa che non dovrebbe, probabilmente la critica è più pesante.

Quando si parla di questione femminile si tende a considerare le donne come di un insieme. Susan Sontag in una vecchia intervista (Oltre la letteratura. Conversazioni con Susan Sontag, Edizioni Medusa 2018; l’intervista è del 1994) dice che le donne sono costruite culturalmente come una minoranza, e alle minoranze attribuiamo un punto di vista unitario, quindi ci domandiamo: Cosa vogliono le donne? Cosa pensano? Cosa fanno? Eccetera. Le mie domande forse sono state un po’ di questo genere… Provando ora a correggere l’intervista, e pensando alle individualità, mi vengono in mente soprattutto due donne che si sono occupate di preistoria e che in qualche modo hanno un po’ sovvertito il canone e le categorie delle archeologhe. Nel passato non tanto lontano c’è tutto un filone di archeologhe “mogli di”; e di archeologhe “allieve di”. Nella prima categoria, una donna che è andata molto oltre questa definizione è Mary Leakey: il cognome è quello del marito Louis, ma la sua fama di paleoantropologa lo ha quasi sopravanzato. Mentre nella meno nota, ma altrettanto coriacea, categoria di “allieve di”, penso a una figura meno famosa, Annette Laming-Emperaire, che sotto la supervisione di André Leroi-Gourhan scrisse una tesi sul significato dell’arte parietale paleolitica giungendo per prima alla conclusione che le rappresentazioni di una sezione della grotta di Lascaux fossero strutturate secondo un principio dualistico, maschile e femminile: Leroi-Gourhan poco dopo giunse alle stesse conclusioni, ma dove Laming-Emperaire vedeva un principio maschile, lui vedeva un principio femminile, e viceversa. La stessa ipotesi ma capovolta. Non so se anche tu trovi affascinanti queste figure oppure se ci sono altre studiose di preistoria che stimi particolarmente.

Mary Leakey (1913-1996), palaeoanthropologist

Mary Leakey è chiaramente un mito, anche per questo contrasto che c’era con il marito: lui andava e veniva, parlava sempre, e nel frattempo lei lavorava, produceva montagne di articoli, pubblicava la monografia del sito di Olduvai con tutto schedato e disegnato. Lui era quello delle intuizioni veloci e poi subito passava ad altro e si metteva a fare mille cose. Erano molto bene assortiti. Ho avuto la fortuna di andare qualche anno fa a Olduvai dove hanno fatto il museo del suo campo di lavoro e l’hanno chiamato Mary Leakey Camp, con il suo nome e non con quello del marito: ci sono la sua casa, la baracca dove lavorava, la cucina, i magazzini. Mary Leakey è senz’altro è una figura chiave (per quanto sia passata alla storia con il cognome del marito).
Poi ho avuto la fortuna di conoscere Alison S. Brooks, la moglie di John Yellen. Quando era giovane lei faceva il dottorato in Borgogna negli anni Sessanta mentre lui era nel Kalahari a studiare i !Kung san, mi ha raccontato che in quel periodo le arrivava una lettera ogni sei mesi da questo fidanzato, e dopo lo ha raggiunto e hanno messo su famiglia insieme nel deserto del Kalahari. È una donna veramente tosta, l’ammiro e ha fatto moltissimo, ha lavorato sempre con il marito ma la sua personalità emerge chiaramente, non è mai in secondo piano.
Mentre sempre nel clan dei Leakey c’è Meave, anche lei una “moglie di”. L’ho conosciuta in Turkana, nel Kenia, prima che morisse il marito Richard Leakey: la puoi incontrare con dei denti di parantropo o di qualcos’altro di strano in mano mentre si chiede se possa trattarsi di una nuova specie, e quando la vedi a una conferenza indossa la stessa camicia che usa per andare sullo scavo tutti i giorni. È una donna di una semplicità assoluta che ha fatto delle scoperte pazzesche e lavora dall’alba al tramonto in un luogo dove il caldo è terribile e le condizioni sono quelle che sono. Come Mary ha una personalità spiccata, una linea precisa di ricerca.

Da molti anni porti avanti un progetto di ricerca in Etiopia focalizzato sulle origini di Homo sapiens e del comportamento umano moderno. Di cosa vi occupate in particolare?

Questo sito, si chiama Gotera, è stato scoperto alla fine degli anni Settanta da Jean Chavaillon e poi è rimasto lì, non è più stato ripreso. A me interessa perché è situato al centro-sud dell’Etiopia, un po’ distante dal Rift dove lavorano quasi tutti. È in una depressione, un paleolago, un ambiente fluvio-lacustre, quindi si va dal lago al fiume agli aquitrini. È un sito paleolitico molto stimolante, nell’ultima campagna abbiamo trovato focolari datati a 45/50.000 anni fa e adesso stiamo trovando degli spazi di lavoro strutturati con altri focolari e possibili strutture. Ogni estate andiamo lì qualche settimana per lo scavo, ho un team internazionale di ricercatori, studenti e lavoratori molto bravi e la cooperazione con l’Autorità Etiope funziona molto bene. È il progetto a cui sto lavorando di più.
Poi stiamo riprendendo anche degli scavi nel basso Lazio, con la Soprintendenza vorremmo riaprire Grotta Sant’Agostino che è un sito musteriano storico, e anche rivedere le evidenze musteriane a Grotta di Tiberio, in collaborazione con la direttrice Cristiana Ruggini: quest’ultimo è un lavoro molto curioso perché il sito è noto per la villa dell’imperatore Tiberio ma incredibilmente conserva ancora della stratigrafia musteriana; sarei felice di riprendere questo scavo perché così tornerei a lavorare sui Neandertaliani, che sono stati il mio primo amore.

Il fatto di essere italiana in Etiopia è oggi un vantaggio o uno svantaggio, o è indifferente?

È indifferente. Il primo anno in cui sono andata ero quasi imbarazzata, temevo di incontrare qualcuno che mi insultasse o, peggio ancora, qualche nostalgico. E invece gli etiopi sono molto diversi da altre popolazioni africane, perché loro hanno combattuto il colonialismo e alla fine hanno vinto. L’aver cacciato gli italiani colonizzatori li rende molto orgogliosi. Un paio di anni fa hanno costruito in un luogo centralissimo di Addis Abbeba un enorme memoriale della battaglia di Adua. Due mie dottorande erano state invitate all’inaugurazione e mi hanno raccontato del loro imbarazzo quando, mentre erano in coda per visitare il museo, è arrivato qualcuno gridando “sono italiane, fatele passare”, e quindi sono state fatte passare per prime, per visitare il museo della vittoria sugli italiani…
Dall’altra parte è sorprendente quanto sia rimasto di italiano. L’occupazione è stata breve, ma molti italiani sono rimasti in Etiopia anche dopo la guerra. Nella cucina, ad esempio, c’è una forte eredità italiana, molte donne etiopi cucinano la lasagna, al bar prendi il bombolino col macchiato per colazione (lo chiamano bombolino e non bombolone). Diciamo che hanno fatto quello che è giusto: hanno preso quello che gli piaceva e hanno scartato il resto. Mi sembra un buon approccio. Chiaramente il passato coloniale non va ridimensionato. C’è molto lavoro da fare sulla nostra relazione con questi paesi, ma credo che il lavoro da fare sia soprattutto da parte nostra.

Quando lavori in Etiopia, quindi, a livello di metodo, non senti scrupoli maggiori di quelli che ti porresti se lo stesso progetto di ricerca lo stessi portando avanti nelle campagne laziali? Mi riferisco alla questione della decolonizzazione della disciplina.

Mi pongo il problema della decolonizzazione come se scavassi in qualunque paese straniero. Me lo pongo molto perché comunque l’approccio agli scavi, parlo dell’Africa in generale, è stato per molti anni veramente pesante, se non predatorio. Essendo gli Etiopi molto fieri della loro non-colonizzazione, e molto attenti a queste tematiche, quando quest’estate c’è stato il convegno per i 50 anni del rinvenimento di Lucy, c’è stata una sessione dedicata alla decolonizzazione dell’archeologia; c’erano ad esempio alcune colleghe sudafricane che stanno facendo dei lavori interessantissimi su come ricostruire i musei in modo che siano più fruibili dalle popolazioni locali (che non hanno la nostra idea di museo).
Gli etiopi cercano di imparare da noi quello che gli serve per costruire la propria identità di ricerca, un atteggiamento molto sano; quindi seguono i nostri lavori ed entrano nei nostri team. Io ad esempio ho collaboratori, studenti e un dottorando che sta per discutere la tesi: è un rapporto vero di collaborazione. Sono grata del fatto che mi accolgano. Insegnare è il mio lavoro, se c’è qualcosa che posso insegnare lo faccio volentieri. Vedo pratiche un po’ forzate che non condivido ma purtroppo le buone pratiche richiedono tempo e alcuni fanno fatica ad affrontare tanti dei cambiamenti sociali degli ultimi decenni. In me l’approccio decolonizing è strutturale, non faccio fatica. Poi il mio ex marito è senegalese, ho avuto quindi anche una lunga frequentazione, famiglia, amici del West Africa, so benissimo quali possano essere le problematiche dall’interno e questo mi fa sentire molto a mio agio, cosa che non sempre succede.

Curiosando sul tuo profilo Facebook, vedo che ti interessi di moda e fashion styling. Quand’è che abbiamo iniziato a vestirci? Secondo alcuni, ho letto, lo si può stabilire sulla base della differenziazione tra i pidocchi della testa e quelli corpo; risalirebbe a circa 120.000 anni fa, quando i pidocchi hanno iniziato a frequentare i capelli perché il resto del corpo umano era già coperto dai vestiti. È una ipotesi seria o ce ne sono altre più credibili?

Potrebbe essere una teoria credibile. Penso però che abbiamo iniziato a vestirci perché faceva freddo… Tra l’altro delle cosiddette Veneri di cui parlavamo prima, a me intriga anche il fatto che siano nude. Si tratta di intenzionali rappresentazioni di persone nude, perché non credo che 20 o 30.000 anni fa le persone andassero in giro nude, non per una questione di pudore ma perché è più comodo essere vestiti se fa freddo. Sicuramente nei periodi più recenti, quando in Europa c’era la glaciazione, si vestivano. A latitudini più temperate questa necessità di vestirsi non c’è, tuttora gli aborigeni portano il perizoma, altri solo una cordicella intorno alla vita. Secondo me il vestirsi fa parte principalmente di una questione di confort, che è arrivata abbastanza tardi. I Neanderthal sicuramente si vestivano perché altrimenti non sarebbero sopravvissuti. Nel Paleolitico superiore iniziano a esserci degli ornamenti, quelli che i colleghi francesi chiamano parure, qualcosa che non è strettamente funzionale e che ha anche un significato sociale, ma questo accade in un’epoca relativamente recente. Però ecco, tornando alle Veneri: non lo sappiamo ma magari a queste statuine mettevano dei vestitini, come le Barbie. Ci sarà un motivo per cui hanno rappresentate nude. E poi invece nelle statuine ritrovate in Russia di solito non si vedono i caratteri sessuali; sono di forma rettangolare, a volte si intravede un po’ di seno, il viso, talvolta non se ne capisce con certezza neanche il sesso. Sono dei parallepipedi con un “cappuccio”. Mi chiedo se non siano in realtà donne rappresentate vestite.

 Telmo Pievani, in un recente articolo in cui contesta l’idea, ancora radicata, che la violenza di genere, la sopraffazione dell’uomo sulla donna, abbia una radice biologica, ha scritto:

“La natura non è un’autorità morale. Ciò che deriva dall’evoluzione, dalla biologia, non necessariamente è “buono”, “giusto” e “normale”. Per un semplice motivo: negli ecosistemi esistono comportamenti meravigliosi e terribili; la natura è colma di violenza, discriminazioni, morte, ma anche solidarietà, cooperazione, altruismo. Se la usassimo come criterio etico, allora dovremmo rassegnarci alla “naturalità” anche dello stupro e dell’infanticidio. La biodiversità sperimenta le soluzioni adattative più disparate: non è il posto dove andare a cercare norme e devianze. Come aveva già spiegato con grande lucidità David Hume nel Settecento, è assai pericoloso far discendere il dover-essere dall’essere”.

Quando si va alla ricerca di una pretesa origine nella “natura” di fenomeni moderni spesso ci si volge ai tempi più antichi dell’umanità, ai presunti comportamenti dell’uomo nella preistoria, che definirebbero in qualche modo anche la nostra attuale essenza. Come studiosa della preistoria, non senti un po’ la responsabilità di andare alla ricerca delle origini? La responsabilità del tipo di narrazione che presenterai, o contribuirai a costruire. E che verrà usata da altri.

Questo è un problema molto difficile e non eliminabile, infatti ultimamente frequento molto gli epistemologi che aiutano a dirimere certe questioni. D’altra parte non possiamo avere paura. A volte ragiono di questa cosa delle donne cacciatrici e guerriere, e alle studentesse chiedo: ma voi volete fare le guerriere? Magari una di noi vuole fare la guerriera, le altre no però. Quindi non dobbiamo farci dettare l’agenda da quello che dicono gli altri, e ritenere, ad esempio, che la forza bruta sia più importante, che so, del ricamo. Nello stesso tempo non possiamo prendere alla lettera il passato o qualsiasi elemento abbiamo per farne una norma. L’accessibilità a molti dati del passato più remoto è una cosa recente, ma le società nel frattempo sono andate avanti. Sì, c’è la tradizione, ma se tutto fosse così tradizionale saremmo ancora all’Olduvaiano. È vero che esiste la tradizione ma esiste anche l’innovazione, per la quale noi siamo una specie molto portata, come si vede da quello che è successo negli ultimi 200.000 anni: abbiamo cambiato tutto e ci piace cambiare, è una delle nostre caratteristiche principali. E quindi credo che il futuro sia inarrestabile. È chiaro che il nostro compito sia di vegliare e di porre i dati che conosciamo, che acquisiamo, in cornici appropriate. E di non fermarci.

 I tempi della preistoria sono lunghissimi, incredibilmente più lunghi dei tempi storici. Come sei venuta a patto con la questione del tempo? Quando dici o leggi o scrive “intorno a 200.000 anni fa”, “tra 30.000 e 20.000 anni fa”, riesci davvero a immaginare questo tempo? Ti sei abituata a considerare trascurabile il dettaglio di un tempo così incommensurabile?

L’ho fatto abbassando i miei standard. Con la consapevolezza che il tempo della preistoria non è il tempo dell’individuo. Cogliere l’individuo è un po’ la chimera, il Sacro Graal, l’arca perduta del paleoliticista, e infatti quando troviamo la traccia di un focolare, ovvero di qualcosa che è stato chiaramente usato e vissuto per un momento breve, viviamo delle emozioni forti perché lì per un attimo vediamo, o ci illudiamo di vedere, la persona. Di solito è tutto più diluito. Nello studio della preistoria non esiste il nostro tempo, nel Paleolitico non esiste il presente. Ci sono dei range di date, ad esempio le date ottenute con il sistema del radiocarbonio oggi hanno dei range fino a  300 anni, che è un risultato ottimo. Quelle ottenute con altre tecniche di datazione possono avere dei range di 1000-2000 anni.
A volte con gli studenti faccio un esempio. Dico, immaginate che noi ora siamo qui, a Roma in Largo Argentina, e contemporaneamente stanno pugnalando Giulio Cesare: questo significa un range di 2000 anni. Ed è tutto insieme, noi lo vediamo come un momento solo. Quindi bisogna ammettere che le nostre ricostruzioni del passato sono un tentativo maldestro. Però a me il tempo profondo della preistoria fa lo stesso effetto dello spazio profondo: non è che perché so che non si potrà mai entrare in un buco nero o non potrò mai veramente capire cos’è la materia oscura che smetto di cercare; anzi, cerco di più.

Chiudo l’intervista con una domanda che non c’entra niente, la prendo da un libro di Max Frisch, Diario di coscienza, dove ogni capitolo inizia con una sequenza di domande su vari temi della vita. Sono domande talvolta un po’ spiazzanti. Per te ho scelto una domanda dal capitolo che parla di speranza. È una domanda che richiede una risposta precisa sul tempo: “Per quante ore al giorno e per quanti giorni all’anno ti basta la speranza ridotta: che torni la primavera, che il mal di testa passi, che qualcosa non venga mai alla luce, che gli ospiti se ne vadano ecc.”?

Sempre, tutti i giorni. Mi basta quasi sempre. Il resto non è una speranza, è una cosa su cui lavoro, un obiettivo. Quindi, non so, se voglio trovare un fossile di Sapiens con una bella faccia, cosa che mi piacerebbe tantissimo, allora organizzo lo scavo, faccio questo e quello. Ma non è una speranza. Invece come speranze mi bastano quelle piccole: spero che domani non avrò mal di testa e che non ci sia traffico sul raccordo. Mi va bene così com’è, la vita.

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D’istruzione pubblica. Il film sul neoliberismo scolastico https://www.carmillaonline.com/2025/01/07/distruzione-pubblica-il-film-sul-neoliberismo-scolastico/ Mon, 06 Jan 2025 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86293 di Luca Cangianti

La scuola neoliberista sta creando un nuovo tipo di essere umano, e non è una buona notizia. Questa potrebbe essere la sintesi di D’istruzione pubblica, il film documentario di Federico Greco e Mirko Melchiorre che, terminate le riprese, è adesso in fase di produzione.

Quando sarà possibile vedere il film in sala?

Melchiorre. Se tutto andrà bene nella primavera di quest’anno. Adesso, come per i nostri film precedenti, stiamo raccogliendo fondi, anche mediante crowdfunding. È una scelta politica che ci permette di essere completamente indipendenti.

Perché avete scelto la scuola come tema di questo nuovo lavoro?

Melchiorre. Per [...]]]> di Luca Cangianti

La scuola neoliberista sta creando un nuovo tipo di essere umano, e non è una buona notizia. Questa potrebbe essere la sintesi di D’istruzione pubblica, il film documentario di Federico Greco e Mirko Melchiorre che, terminate le riprese, è adesso in fase di produzione.

Quando sarà possibile vedere il film in sala?

Melchiorre. Se tutto andrà bene nella primavera di quest’anno. Adesso, come per i nostri film precedenti, stiamo raccogliendo fondi, anche mediante crowdfunding. È una scelta politica che ci permette di essere completamente indipendenti.

Perché avete scelto la scuola come tema di questo nuovo lavoro?

Melchiorre. Per completare la nostra trilogia sugli effetti devastanti del neoliberismo. Abbiamo iniziato nel 2017 con Piigs sull’austerità, nel 2022 con C’era una volta in Italia abbiamo poi affrontato la catastrofica situazione della sanità, e ora ci focalizziamo su un altro pezzo di stato sociale sottoposto a bombardamento.

Cinema ed economia non è un binomio intuitivo. Voi però vi siete caratterizzati proprio in questo modo.

Melchiorre. Ma certo! Senza economia non si capisce nulla.
Greco. Se non ti occupi di economia, essa si occuperà comunque di te. Per noi l’austerità è un problema, per il capitale una soluzione. La presunta scarsità economica permette allo stato di allocare risorse secondo i suoi interessi di classe superando facilmente le rivendicazioni popolari. L’austerità è un’arma affilata per contrastare il conflitto sociale, uno strumento formidabile per il ricatto salariale.

Anche in questo film usate una struttura narrativa a doppio binario: da una parte la storia fatta di persone comuni, e dall’altro un’inchiesta ad ampio respiro nella quale intervistate gli esperti del settore. Qual è l’obiettivo di questa scelta?

Greco. Rendere caldi, cinematografici, argomenti complessi, ma decisivi per la vita quotidiana della larga maggioranza della popolazione. Nel caso di D’istruzione pubblica al livello micro seguiamo la vita di Lorenzo Varaldo. Questo dirigente scolastico torinese si scontra con gli effetti delle varie riforme scolastiche seguite a quella Berlinguer del 1999 che inaugura l’autonomia scolastica. In sintesi, il compito dei dirigenti scolastici – che Varaldo rigetta – ormai non è più quello di aiutare gli insegnanti a svolgere il loro lavoro nel miglior modo, ma gestire montagne di burocrazia e trovare i soldi per mandare avanti la scuola, che invece dovrebbe essere un servizio pubblico garantito dall’articolo 3 della Costituzione.

Ma che c’è di strano che in una società capitalistica la scuola sia gestita capitalisticamente?

Greco. Niente! La scuola italiana è stata sempre una scuola borghese, nonostante alcune aperture democratiche fatte negli anni sessanta e settanta. Tuttavia con la Riforma Berlinguer assistiamo a un cambio di passo metodologico. La conoscenza viene ridotta a competenza: oggi la scuola deve insegnare «cose utili» piegando gli studenti alle dinamiche del mercato. Ma attenzione: questo non significa utilizzare solo un nuovo metodo di insegnamento, bensì fabbricare un essere umano nuovo, deprivato di capacità critica, di possibilità di ascensione sociale, e quindi di cittadinanza.

Lorenzo Varaldo, il protagonista di D’istruzione pubblica

Una riforma che funzionalizza la scuola al capitalismo contemporaneo è stata fatta dalla sinistra. Perché?

Greco. Come ci ha spiegato bene Massimo Bontempelli, la sinistra storica portava con sé due istanze: una modernizzatrice e l’altra emancipatrice. Con la nascita del neoliberismo (la periodizzazione può essere fissata nel 1979, nel 1989 o nel 1992 a seconda dei vari contesti tematici o geografici) la sinistra abbandona la seconda istanza. Tutto ciò che è nuovo è buono, ma il nuovo è proprio il neoliberismo, cioè il capitalismo non regolamentato. L’autonomia scolastica infatti altro non è che una sorta di autonomia differenziata applicata alla scuola. È l’aziendalizzazione dell’istruzione che trasforma i presidi in dirigenti scolastici, così come nella sanità ha trasformato le Usl (Unità sanitarie locali) in Asl (Aziende sanitarie locali). In questo modo quel po’ di otium che c’era nella scuola italiana si è trasformato in mero negotium. Ricordo infatti che la parola latina schŏla deriva dalla greca scholé, che in origine significava (come otium per i latini) tempo libero, piacevole uso delle proprie disposizioni intellettuali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico o profittevole. Negotium, cioè attività, occupazione, affare, era invece la negazione della scuola (nec otium).
Melchiorre. Insomma, per usare una metafora sportiva, la dialettica tra sinistra e destra politica con l’emergere del neoliberismo è che la sinistra alza la palla e la destra schiaccia.

Il vostro cinema mi sembra una piattaforma al servizio delle lotte sociali. Oltre a uscire nelle sale e a rimanerci a lungo, i vostri film vengono proiettati in centri sociali, associazioni culturali, sedi sindacali, e servono a introdurre dibattiti, a far riflettere insieme centinaia di persone.

Greco. Il nostro obiettivo è mettere insieme giornalismo e cinema per offrire ai movimenti strumenti di lotta. Le narrazioni hanno un sostrato mitico e aiutano a smuovere le coscienze. Il cinema inoltre è una riunione fisica di persone che rimanda a un’idea di comunità imprescindibile per chi voglia lottare contro l’ingiustizia e la disuguaglianza.
Melchiorre. Oltre a ciò noi ci auguriamo che i nostri film ispirino anche altri film-maker per generare un grande e inarrestabile onda d’immaginario d’opposizione.

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Una voce dal Nord Est siriano. La Internationalist Commune of Rojava https://www.carmillaonline.com/2024/12/22/una-voce-dal-nord-est-siriano-la-internationalist-commune-of-rojava/ Sat, 21 Dec 2024 23:10:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86075 di Gelo Manni

Avvertenza: Quella che segue è un’intervista ai membri della Comune Internazionalista del Rojava sulla situazione in atto nel Nordest siriano dopo la caduta di Assad e i nuovi tentativi egemonici turchi. L’intervista si è svolta qualche giorno prima della sua data di pubblicazione, per quanto sia stata aggiornata, eventuali imprecisioni sono da attribuirsi ai veloci mutamenti di questi giorni.

Di cosa si occupa normalmente la Comune e come sta operando nelle ultime settimane?

La Comune Internazionalista del Rojava è un centro ideologico del Nord Est della Siria per tutta la gioventù internazionalista che vuole unirsi alla rivoluzione del [...]]]> di Gelo Manni

Avvertenza:
Quella che segue è un’intervista ai membri della Comune Internazionalista del Rojava sulla situazione in atto nel Nordest siriano dopo la caduta di Assad e i nuovi tentativi egemonici turchi. L’intervista si è svolta qualche giorno prima della sua data di pubblicazione, per quanto sia stata aggiornata, eventuali imprecisioni sono da attribuirsi ai veloci mutamenti di questi giorni.

Di cosa si occupa normalmente la Comune e come sta operando nelle ultime settimane?

La Comune Internazionalista del Rojava è un centro ideologico del Nord Est della Siria per tutta la gioventù internazionalista che vuole unirsi alla rivoluzione del Rojava, organizzarsi e formarsi nel paradigma del Confederalismo Democratico e della filosofia di Abdullah Ocalan che qui ha trovato sbocco con il sistema dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord Est della Siria (DAANES), basata sui tre assi portanti di Democrazia diretta, Ecologia e Libertà femminile.
La Comunità Internazionalista del Rojava ha anche portato avanti la campagna Make Rojava Green Again, un tentativo per difendere la rivoluzione da tutti gli attacchi all’ecologia, portando avanti il più possibile opere strutturali e diffondendo una coscienza ecologica e la consapevolezza degli impatti ambientali causati dalla guerra sistematica dello Stato turco.
è anche parte integrante di Rise Up 4 Rojava: una rete di collettivi rivoluzionari che si organizza in solidarietà con la rivoluzione confederale e mira a colpire il fascismo turco e i suoi collaboratori.
Da quando sono iniziati gli attacchi delle ultime settimane, la Comune Internazionalista si è concentrata sul lavoro di stampa e informazione per diffondere ovunque nel mondo il volto che la terza guerra mondiale in atto ha assunto in questa regione.
In particolare l’obiettivo di difendere la rivoluzione mostrando gli attacchi dello Stato turco che mirano a eliminare i DAANES e annientare la regione.
Parallelamente, si stanno portando avanti tutte le opere legate all’aiuto alla società e alla documentazione e condivisione della situazione delle centinaia di persone rifugiate nelle aree del DAANES, provenienti da Til Rifat e dalla regione di Shehba (dove avevano trovato rifugio i profughi di Afrin dopo il 2018), si partecipa alla distribuzione di cibo, vestiti e coperte, nonché alle attività all’interno della società e ai lavori organizzativi, culturali e artistici.
Da quando sono iniziati gli attacchi, il 27 novembre, tutti gli internazionalisti della Comune hanno lavorato, scritto e raccontato senza sosta la situazione qui in Siria e nelle regioni sotto attacco da parte dello Stato turco e dei suoi jihadisti.
Soprattutto, qui nella Comune come per tutti gli altri internazionalisti, la situazione è chiara e lo spirito è quello di proteggere la rivoluzione con la consapevolezza della fase storica in cui ci troviamo, con uno spirito di resistenza carico di motivazione e speranza quale è stato quello del tempo della resistenza di Kobanê.

Tutti i media occidentali sono concentrati su Damasco e sul nuovo governo, ma guardano meno agli attacchi dei jihadisti filo-turchi all’AANES, come sta procedendo dopo le voci di un accordo di cessate il fuoco? È davvero possibile che questi attacchi si fermino o rallentino?

Per la popolazione siriana la caduta del regime Baath è stata davvero importante, un grande sollievo, dal momento che era stato oppresso, ucciso e torturato per decenni da Assad.
La caduta del regime Baath, dopo 61 anni, è stata festeggiata da tutto il popolo siriano indipendentemente dall’etnia e dalla religione. Perché il crollo del regime non è stato semplicemente il risultato degli attacchi dei jihadisti come l’HTS o l’SNA.
Abbiamo visto che il popolo siriano, durante la Primavera dei Popoli (nota come Primavera Araba) e la Rivoluzione del Rojava, si è sollevato contro il regime, sviluppando così una propria volontà. L’Amministrazione Autonoma (DAANES) è un buon esempio di questo.
La ragione di fondo della caduta del regime di Assad è la lenta ascesa del popolo siriano e la sua volontà di libertà e democrazia. Anche se questa era una volontà silenziosa coperta da anni di guerra e repressione, con il cosiddetto “congelamento” del conflitto ha covato sotto le ceneri nella forma di rassegnazione e disaffezione allo Stato.
L’esercito del regime, per esempio, si è ritirato dal suo territorio quasi senza combattere contro le bande HTS. Li ha lasciati passare ben oltre l’iniziale conquista di Aleppo e ciò dimostra quanto fosse profonda la sfiducia dei siriani in Assad, quanto fosse già debole prima dell’offensiva.
Questo è anche il motivo per cui una soluzione politica è alla base dell’approccio del DAANES, che cerca di raggiungere una soluzione pacifica al conflitto.
È chiaro che qualunque soluzione basata sulle armi provoca sempre danni alla società e alla popolazione, causando ferite, sfollamenti, stupri e massacri – come quelli che si stanno verificando in questo momento nella zona del Rojava, di cui sono vittime le famiglie che perdono madri e padri, fratelli e sorelle.
Qualunque sia il futuro della Siria esso non può che darsi come risultato delle volontà di tutto il popolo siriano, altrimenti rimarrà in balia di conflitti. L’unica forma di violenza accettabile è quella della legittima autodifesa; motivo per cui le SDF operano nelle aree in cui la popolazione è sotto attacco da parte dei jihadisti e dell’SNA sostenuto dalla Turchia.
Accordi come il cessate il fuoco hanno l’obiettivo di fermare gli attacchi e sono accordi che vengono portati avanti con la prospettiva del Kurdish Freedom Movements di una soluzione democratica per il Kurdistan, la Siria e della pace in tutta la regione del Medio Oriente.
Naturalmente è importante considerare che l’obiettivo degli attacchi jihadisti sono i piani dello Stato turco di ristabilire un neo-impero ottomano che lo spinge a voler allargare i suoi confini occupando le aree del Nord Est siriano.
Gli accordi di cessate il fuoco degli scorsi giorni non hanno fermato gli attacchi ed è evidente per noi che anche una tregua più ampia non fermerebbe davvero le volontà offensive della Turchia.
Il problema è più profondo e passa anche per una Turchia democratica come soluzione che includa diritti e uno riconoscimento per tutte le minoranze etniche e culturali.

Al Jawlani e l’HTS, dopo aver preso il potere, fanno annunci di moderazione e inclusione, ma i video e le testimonianze li smentiscono. Quale pensa possa essere l’evoluzione politica siriana ora? Un governo effettivamente più ampio o il controllo totale dei jihadisti?

L’HTS e altre organizzazioni jihadiste come l’SNA coinvolte nel nuovo governo previsto per la Siria sono forze sostenute dallo Stato turco e quindi agiscono anche in base agli obiettivi fissati da questo.
Il governo che si sta formando è transitorio e per un certo periodo di tempo continueranno le discussioni a livello di potenze egemoniche e regionali. Ed certo che nel nuovo governo previsto per la Siria peseranno anche volontà sostenute da forze come Israele, Regno Unito e Stati Uniti.
Ciò che ai nostri occhi rappresenta una soluzione duratura per la crisi, la pace e l’unità per il Medio Oriente – ma anche una possibile uscita dalla terza guerra mondiale – è la soluzione del Confederalismo democratico e del paradigma disegnato da Ocalan; ovvero un modo di autoamministrazione politica ed etica e di democrazia dei popoli dove non c’è posto per il nazionalismo, lo Stato nazionale, il fondamentalismo, tutte le forme di fascismo e di razzismo.
Per tanto, in entrambi i casi, né il governo dei jihadisti né un governo scelto dalle forze egemoniche che intervengono nella regione possono essere una soluzione per il territorio siriano.
Questo è anche un altro motivo per cui l’Amministrazione autonoma è sotto attacco: il confederalismo democratico è una soluzione che porrebbe fine anche agli interessi e al potere delle forze esterne che occupano la regione e la determinano secondo i loro interessi.
Il governo che l’HTS sta cercando di sviluppare fa parte di questi interessi, ed i colloqui con i dieci punti programmatici che l’AANES ha presentato a Damasco sono un tentativo di avviare un processo politico e pacifico. La risposta giusta che propone il Rojava è una lotta per la democrazia e per i diritti culturali ed etnici basati sulla libertà delle donne.
A tal proposito è importante ricordare che Ocalan ha chiarito di avere il potere politico e la forza per invertire la fase e creare una soluzione per la crisi che il mondo sta attraversando e per la tempesta mediorientale, di “portare questo processo dal terreno del conflitto e della violenza al terreno del diritto e della politica”.
Ne consegue che qualunque sia il tipo di governo previsto dalle potenze egemoniche o dai jihadisti sostenuti dalla Turchia, la politica per i diritti, la libertà e la pace deve essere rafforzata. La rivoluzione del Rojava deve essere difesa e rafforzata in ogni modo possibile, affinché i DAANES e tutti i diritti delle etnie e delle minoranze, i diritti delle donne, la libertà e la democrazia possano essere consolidati e approfonditi in questa regione.

Molte persone sono fuggite dagli scontri o per paura della repressione entrando nelle aree AANES, come pensate di gestire il problema dei rifugiati? Il problema delle risorse essenziali per le persone è gestibile? È possibile il loro ritorno a casa?

Lo Stato turco sta conducendo una guerra contro la regione del DAANES da più di tre anni; una guerra che si concentra in particolare sulla distruzione delle infrastrutture strategiche e nel danneggiare le capacità di creare una propria economia indipendente, nonché sull’embargo nella regione.
In queste condizioni è difficile per la DAANES sostenere la popolazione con tutte le risorse necessarie.
D’altra parte ci sono anche molti beni, come le tende e le attrezzature dei campi, che gli jihadisti hanno assediato e non hanno lasciato portar via dalle persone in fuga, facendo sì che molti rifugiati rimanessero per strada per giorni, come ad esempio molte famiglie che hanno raggiunto la città di Tebqa dopo essere fuggite da Sheba.
Un altro fattore da considerare è che ci sono molte ONG e organizzazioni delle Nazioni Unite attive nella regione, ma non mostrano alcun impegno e non forniscono risorse o aiuto ai rifugiati.
In questo momento è solo la DAANES a fornire rifugio e risorse agli sfollati.
L’amministrazione ha mobilitato l’intera società per questa situazione e tutte le istituzioni locali hanno interrotto il loro lavoro per raccogliere risorse, provvedere ai bisogni e accogliere le persone che si sono rifugiate nelle regioni sicure.
Ci sono state anche campagne dall’esterno, come nell’Amministrazione autonoma di Shengal, dove il consiglio ha iniziato a raccogliere coperte, vestiti e altri beni di necessità che la gente ha raccolto da sola. Anche la Mezzaluna Rossa curda ha avviato una campagna di donazioni per la popolazione del NES.
Un membro della stessa Mezzaluna Rossa, il 15 dicembre, è stato rapito dai jihadisti a Manbij, dove gli jihadisti dell’SNA hanno iniziato ad attaccare la popolazione e le SDF. In questa situazione è chiaro che molte persone che vogliono aiutare e difendere la loro terra stanno mettendo a rischio la propria vita; tant’è che negli ultimi giorni abbiamo visto anche molti membri delle forze sicurezza civili come le HPC (Forze di Autodifesa Civili) cadere martiri. Poiché gli attacchi continuano, al momento non ci è possibile fornire un numero certo di martiri, ma è chiaro che, col passare dei giorni, il numero aumenta.
Dal 2018 lo Stato turco ha occupato Afrin; questo è anche il luogo in cui l’SNA è stato istruito e preparato dallo Stato turco per il suo attacco. Dal 2019 anche Serêkanî e Girê Spî sono sotto occupazione e hanno spinto molte persone a rifugiarsi all’interno dei DAANES o nelle altre regioni; ora quello che vuole l’offensiva turca è allargare la sua occupazione lungo tutto il confine.
In questo frangente il Movimento curdo per la libertà e il DAANES hanno lanciato appelli alla mobilitazione e si è espresso più volte che la resistenza avrà luogo con lo stesso spirito della battaglia di Kobanê. Tempi critici come questo sono possono però essere anche tempi di opportunità. Per questo, con la lotta politica e militare, le stesse aree precedentemente occupate possono essere riconquistate e le forze jihadiste come l’SNA possono essere eliminate definitivamente.

La Siria è da anni utilizzata da Stati esterni come campo di battaglia (Stati Uniti, Turchia, Iran, Israele, Russia, ecc). Dopo gli ultimi eventi e nel processo politico che viene c’è qualche spazio per una vera sovranità siriana o le mosse geopolitiche e la frammentazione interna la impediscono?

Come abbiamo detto in precedenza, fasi come queste offrono l’opportunità di creare la possibilità di portare pace e democrazia in Siria.
È necessario che tutte le componenti della nuova Siria riescano a stabilire un processo politico comune per potersi autodeterminare.
In questo processo il paradigma di Ocalan e il sistema del confederalismo democratico stanno mostrando una possibile soluzione per la situazione in Medio Oriente, hanno mostrato negli anni profonde capacità di analisi per i problemi della regione e hanno indicato soluzioni efficaci.
Ocalan è stato sequestrato e posto in isolamento nell’isola-prigione di Imrali, nel Mar di Marmara, dal 1999; in isolamento totale da ormai quattro anni.
La libertà fisica di Ocalan è quindi non solo importante, ma essenziale per trovare una soluzione alla crisi in Medio Oriente. Per creare democrazia, libertà e pace nella regione.
Questa è anche responsabilità della comunità internazionale e di tutte le organizzazioni e persone socialiste, democratiche e amanti della libertà del mondo agire, rafforzare la posizione del DAANES in questa fase e prendere provvedimenti per la sua liberazione e partecipare alla campagna “Libertà per Abdullah Ocalan, soluzione politica per la questione curda”.

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Sport e dintorni – Storia dell’allenatore di calcio in Italia. Intervista a Massimo Cervelli https://www.carmillaonline.com/2024/07/02/sport-e-dintorni-storia-dellallenatore-di-calcio-in-italia-intervista-a-massimo-cervelli/ Tue, 02 Jul 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83278 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[Il volume di Massimo Cervelli, L’allenatore di calcio in Italia. Storia socioculturale di una professione (Biblion, 2024), propone una meticolosa ricostruzione della storia dell’allenatore di calcio in questo paese, prima figura professionista dell’universo calcistico nazionale. Di seguito si propone un’intervista all’autore su alcuni snodi da lui trattati nel libro].

D. Per tratteggiare la storia dell’allenatore di calcio in Italia conviene partire dagli inizi, dalla cosiddetta epoca pionieristica, quando questa figura non esisteva…

R. Il 15 maggio 1910 la Nazionale giocava la sua prima partita, ma il football italiano non conosceva ancora la figura dell’allenatore. La [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[Il volume di Massimo Cervelli, L’allenatore di calcio in Italia. Storia socioculturale di una professione (Biblion, 2024), propone una meticolosa ricostruzione della storia dell’allenatore di calcio in questo paese, prima figura professionista dell’universo calcistico nazionale. Di seguito si propone un’intervista all’autore su alcuni snodi da lui trattati nel libro].

D. Per tratteggiare la storia dell’allenatore di calcio in Italia conviene partire dagli inizi, dalla cosiddetta epoca pionieristica, quando questa figura non esisteva…

R. Il 15 maggio 1910 la Nazionale giocava la sua prima partita, ma il football italiano non conosceva ancora la figura dell’allenatore. La gestione della Nazionale era consegnata a commissioni tecniche composte principalmente da arbitri, gli unici che conoscevano i giocatori, avendoli osservati durante le partite. Nelle squadre era emersa la figura del capitano, una sorta di responsabile del comportamento tenuto in campo, nei confronti degli avversari e dell’arbitro. Era lui, il giocatore più esperto e carismatico che, assieme a qualche componente del Consiglio direttivo, decideva la formazione da schierare in campo. Il capitano rispondeva a codici di comunicazione bidirezionali, condivisi con i compagni più esperti: sapere come stare in campo (posizione, controllo degli avversari, calcio del pallone) e iniziazione dei giovani. Era un calcio semplice, basato sul kick and run e col primitivo schieramento sulle tre linee dell’originaria piramide: i terzini, terza linea, i mediani, linea di mezzo, e gli attaccanti, la prima linea.

D. Come nasce la figura dell’allenatore e che cambiamenti comporta nel panorama calcistico italiano?

R. Parafrasando una vecchia canzone socialista del primo dopoguerra, si può dire che, al posto di uno strano soldato, nel calcio avanzasse uno strano mestiere. Nel 1912, il Genoa, il club più organizzato, ingaggiò, grazie alle proprie ascendenze britanniche, William Garbutt un ex calciatore a cui assegnò il compito di guidare la squadra. C’era già Vittorio Pozzo al Torino, ma rappresentava una storia molto particolare. Garbutt ebbe un effetto dirompente, tant’è che ancora oggi l’allenatore viene chiamato mister. Con lui arrivarono altri britannici, una prima, ristretta, avanguardia di tecnici stranieri, fermata dalla grande guerra che confinò il pallone nelle trincee di tutta Europa – dove divenne il miglior passatempo, ma si giocava in mezzo ad una carneficina: 571 mila morti e oltre due milioni tra feriti e mutilati il bilancio italiano.

D: Con gli allenatori, regolarmente stipendiati, arrivò il professionismo. La sua generalizzazione fu immediata?

R. Il calcio non poteva più essere un’attività occasionale, doveva essere un lavoro full time adeguatamente retribuito. Arrivarono le prime denunce: sul Genoa piovvero accuse di professionismo per il pagamento di alcuni calciatori. Era già avvenuto un mutamento delle condizioni in cui si giocava. All’inizio i calciatori dovevano provvedere al loro vestiario, alle spese per gli spostamenti, all’organizzazione dei banchetti da offrire agli avversari dopo la partita e ai costi di gestione del loro sodalizio. I costi determinarono il carattere borghese e aristocratico dei primi club. Con lo sviluppo del movimento l’estrazione sociale cambiò rapidamente, ma l’Italia (“si fa ma non si dice”) non voleva riconoscere il professionismo, lo fece solo nel secondo dopo guerra.

D. Cosa deve il calcio italiano, oltre al professionismo, ai tecnici stranieri?

R. Negli anni Venti, come conseguenza della dissoluzione degli Imperi centrali, arrivarono oltre quaranta calciatori professionisti provenienti da Ungheria, Austria e Cecoslovacchia. Portarono un ricco bagaglio tecnico: finte, abilità nel controllare la palla con tutte le parti del piede, educazione al tiro con le diverse posizioni del corpo… Molti di loro diventarono allenatori, dando al nostro calcio l’impronta del gioco danubiano che, “non lasciava nulla al caso, muovendo i giocatori in campo con la precisione di un giocatore di scacchi che muove le sue pedine”. Una vera e propria colonizzazione sportiva che dette una precisa impronta tattica e stilistica al nostro calcio. Dal 1923 al 1930, i campionati furono vinti soltanto da allenatori stranieri e il primo manuale sulla conduzione di una squadra fu scritto da Arpad Weisz, espulso dall’Italia dalle leggi razziali e poi deportato dai nazisti e ucciso ad Auschwitz.

D. Questo massiccio ricorso ad allenatori stranieri avveniva durante il fascismo…

R. La riorganizzazione dello sport italiano fu parte della fascistizzazione delle istituzioni dello stato che sfociò nella costruzione del regime fascista. Agli inizi degli anni Trenta si posero l’obiettivo politico di creare una scuola per allenatori italiani, con il fine di costruire un futuro autarchico. C’era la volontà di passare dalla bottega artigiana, con l’apprendista che imparava accanto al maestro, ad una scuola di livello superiore, arrivando a regolamentare e disciplinare la figura dell’allenatore. Nel 1933 partì la Scuola Allenatori, ma pochi mesi dopo fu defenestrato, in uno dei tanti scontri tra gerarchi fascisti, Arpinati, presidente della FIGC e la Scuola non venne riproposta.

D. E di corsi per allenatori non se ne parlò più?

R. Nel 1940, per difendere il primato del calcio italiano che aveva vinto due Mondiali e un’Olimpiade, fu creato il Centro di Preparazione Tecnica che aveva anche il compito di definire il ruolo degli allenatori e la sua formazione, ma i primi corsi, per massaggiatori e aiutanti allenatori, vennero organizzati a Firenze nell’estate del 1943, pochi giorni prima della caduta del fascismo.

D. Nel dopoguerra da dove ripartì la FIGC e con quale sintonia con la nuova fase di sviluppo?

R. La FIGC mantenne quasi interamente il corpo dirigente che l’aveva diretta durante il fascismo e ripropose, sia dal punto di vista dell’inquadramento che da quello della formazione, l’approccio maturato. Dal 1949 furono riproposti i corsi, con materie e modalità organizzative che richiamavano le precedenti esperienze, ma con un passo indietro sul piano delle ambizioni: non si pensava più ad una Scuola, ci si accontentava di spiegare il mestiere prima di concedere il patentino per allenare. Nel dopoguerra, nell’Italia repubblicana, prendevano il via i programmi di formazione professionale per rispondere alle esigenze della popolazione adulta, scarsamente scolarizzata, e a quelle della ricostruzione e, successivamente, all’inizio di una fase economica espansiva, a una massa giovanile, anch’essa con scarsi livelli di scolarità. I corsi sviluppavano, con esercitazioni pratiche, capacità di lavoro, dando un mestiere. In questi anni si sovrappongono due fasi della storia economica italiana: l’urgenza della ricostruzione, in cui la forza lavoro va avviata ai mestieri, e quella successiva, dove il lavoro necessitava di una maggiore qualificazione professionale. Il 1950, l’anno in cui il reddito reale pro-capite torna ai livelli d’anteguerra, può essere considerato lo spartiacque tra le due fasi.

D. E poi arrivano gli anni del “miracolo economico” o, per meglio dire, della concentrazione del potere economico in grandi società nazionali o multinazionali e il crescente intervento dello stato nell’economia, il neo capitalismo italiano…

R. Il 1958 è l’anno di inizio del “boom economico” quando, per la prima volta gli operai sono più numerosi dei contadini ed entra in funzione la Comunità Economica Europea (CEE). È anche l’anno zero del calcio italiano che non ottiene la qualificazione ai Mondiali e viene commissariato dal CONI. Il commissariamento termina, l’anno successivo, con l’elezione del ventiquattrenne Umberto Agnelli, presidente della Juventus, alla presidenza federale. La ricostruzione tecnica del calcio italiano viene affidata a Walter Mandelli, dirigente industriale e vicepresidente della Juventus. Nel frattempo (1958) è stato aperto il Centro Tecnico Federale di Coverciano e cominciano, nel 1961, i primi corsi UEFA per allenatori e dirigenti europei. L’obiettivo di Mandelli è formare allenatori convenientemente istruiti e non solo sommariamente abilitati. I corsi per allenatori professionisti diventano biennali, con le fasi residenziali nell’estate per non ostacolare il lavoro, con lezioni di tecnica calcistica, medicina sportiva, storia degli sport, regolamento di gioco, carte federali e preparazione ginnico atletica. La filosofia è ben espressa da Mandelli: “Noi abbiamo l’obbligo di insegnare a tutti le leggi fondamentali del calcio. Fermi non ha scoperto l’atomo, né Fleming la penicillina all’università. Ma è stata l’educazione della scuola che ha dato a Fermi ed a Fleming, perdonatemi l’irriverenza, le basi dei loro studi”. La Scuola di Coverciano respingeva la definizione di fabbrica degli allenatori. L’allenatore lo seleziona il campo, la pratica effettiva. La scuola lo avvia alla professione, aiuta a trasformare la pratica in teoria e la teoria in pratica.

D. Qualche anno dopo si passa dai corsi al Supercorso…

R. Sono sempre le vicende della Nazionale a dettare le politiche federali. Dopo il fallimento ai Mondiali 1974, Artemio Franchi assume la presidenza del Settore Tecnico e punta su Italo Allodi, il dirigente sportivo più quotato, ed anche più discusso, del momento, che presenta un piano per istruire, abilitare e inquadrare gli allenatori nelle nuove condizioni del calcio contemporaneo, con la sistematica istruzione di tutte le figure tecniche attraverso la valorizzazione dei titoli abilitanti. Un corso parauniversitario, con materie inusuali come sociologia, psicopedagogia, sessuologia, alimentazione, psicologia, i compiti del sindacato, le questioni fiscali, la medicina sportiva applicata al calcio. Viene definito Supercorso ed introduce un modello duale nel processo di formazione: lezioni in aula e missioni di studio a contatto con l’esperienza pratica nei maggiori club. Dura nove mesi e sono tutti residenziali, a Coverciano, tranne i periodi di aggiornamento all’estero. Gli allievi possono ricorrere ad un prestito d’onore federale ed utilizzare successivamente borse di studio. È una rivoluzione che pone Coverciano al centro dell’attenzione internazionale e produce anche il primo corso per Direzione di Società di Calcio (1980-81). Le società calcistiche erano diventate aziende di medio-grande dimensione e, come nelle imprese di altri settori e comparti, la loro gestione comportava problematiche sempre più complesse, passando dal modello imprenditoriale-padronale al management organizzato. La rivoluzione finisce nel 1982 con la vittoria ai Mondiali, Bearzot e Allodi erano inconciliabili…

D. Gli anni Ottanta sono gli anni del riflusso, anche in questo settore?

R. Esatto, con la restaurazione dei vecchi corsi, preoccupandosi solo di salvare la dimensione internazionale di Coverciano. Alla fine del decennio, con la gestione Abete, la Scuola Allenatori viene totalmente rivista, con un mutamento di orizzonte nella didattica: maggiore spazio alla cultura, calcistica e scientifica, intensificando scambi e contatti con le maggiori realtà europee ed extra europee. Il corso Master di alta specializzazione per gli allenatori di 1a categoria, diviso in due sessioni estive, e con l’introduzione della comunicazione come materia fondamentale è il suo esito.

D. Ed oggi cosa succede in Italia nel campo della formazione degli allenatori?

R. La dinamicità del football ha portato negli ultimi vent’anni ad una maggiore specializzazione (calcio a 5, calcio femminile, preparatori atletici, preparatori dei portieri, di formazioni giovanili, osservatori, match analyst…) con conseguenti corsi dedicati.
L’allenatore europeo contemporaneo è un gestore di conoscenze in un gioco cognitivo che dipende dalla capacità, singola e collettiva, di dare risposte in tempo reale alle situazioni che si creano in campo. Il paradigma formativo della Scuola di Coverciano è la flessibilità: il calcio si rinnova ogni giorno e bisogna essere pronti a catturare e interpretare le novità, agli aspiranti allenatori vengono spiegate le varie impostazioni e interpretazioni tattiche, le filosofie di gioco applicate dai tecnici. Vengono indicate le novità e i mutamenti del calcio. Alla Scuola sono stati eliminati i libri di testo, poiché, in una disciplina in continuo movimento, esprimono concetti già superati. L’allievo entra senza libri e con delle convinzioni, ma esce senza certezze e con un testo scritto da lui, una prima idea del calcio che proporrà. Come dice il direttore della Scuola, Renzo Ulivieri bisogna “essere meticci, imparare a mescolare le nostre culture”. Flessibilità e ibridazione sono il vero punto di arrivo dopo decenni in cui, seppure in forma diversa, si ripresentava l’utopia di dare una comune identità tecnico-tattica e un medesimo stile di gioco a tutti.


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