Editoriali – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 28 Apr 2024 20:15:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Da oggi siamo un po’ più soli, Valerio ci ha lasciati https://www.carmillaonline.com/2022/04/19/valerio-ci-ha-lasciato/ Mon, 18 Apr 2022 22:53:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71395 Dobbiamo annunciare che il nostro direttore, Valerio Evangelisti, ci ha lasciato. Già da tempo aveva problemi di salute, ma ha sempre continuato la sua attività di redazione e di scrittura con la sua lucidità di visione delle cose che lo ha sempre contraddistinto.

D’ora in poi Carmilla non sarà più quella che è stata sino ad oggi e che ha potuto essere nel panorama della letteratura di genere e di critica sociale proprio grazie a Valerio. Tutti noi gli dobbiamo molto e proprio per questo proseguiremo quello che è un grande impegno redazionale [...]]]> Dobbiamo annunciare che il nostro direttore, Valerio Evangelisti, ci ha lasciato. Già da tempo aveva problemi di salute, ma ha sempre continuato la sua attività di redazione e di scrittura con la sua lucidità di visione delle cose che lo ha sempre contraddistinto.

D’ora in poi Carmilla non sarà più quella che è stata sino ad oggi e che ha potuto essere nel panorama della letteratura di genere e di critica sociale proprio grazie a Valerio. Tutti noi gli dobbiamo molto e proprio per questo proseguiremo quello che è un grande impegno redazionale con la sua presenza nel nostro cuore.

Ciao Magister!

La redazione di Carmillaonline


Alcune parole di chi lo ha conosciuto, apprezzato e amato

La morte di Valerio Evangelisti mi lascia attonito, ci lascia attonite e attoniti. Se ne va uno dei pesi massimi della letteratura italiana del mio tempo. Senza la sua inesausta opera di radicalità narrativa e poetica, di incisività intellettuale e di presenza storica, la mia generazione letteraria non sarebbe quella che è. Ha spalancato il fantastico, sottraendolo alle fumisterie fasciste e ricollocandolo nel cuore del farsi narrazione, aprendo l’idea di ciclo alla possibilità di percorrere nuovamente una scrittura epica e mitopoietica inesausta, infinita. Perdo, perdiamo un amico e un maestro. Il metallo era urlante tanto quanto la carne, la bandiera nera schiantava lo spettro cromatico, l’inquisitore era colpevole e il colpevole inquisitore, la parola si spalancava a tutte le diversità, la più intollerabile delle quali era il silenzio per impotenza, senza rischio: la morte in vita. Valerio Evangelisti è stato vivo in vita e ora è morto in morte. I suoi cieli plotiniani, ben ancorati nella storia, sono patrimonio del piacere di chi ha letto, legge e leggerà. Vorrei qui, per l’enormità della notizia e della perdita, ricomporre il rito laico con cui fu celebrato al suo exitus Primo Moroni, che Evangelisti amava: la celeberrima poesia di Franco Fortini, a Primo dedicata, è evidentemente dedicata a Valerio.
Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
Giuseppe Genna
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Tanti anni fa, in un mondo prima di questo mondo, incontrarlo è stato aprire una sliding door.
Esistono la mia vita prima e la mia vita dopo quell’incontro.
Esistono i suoi libri straordinari. Esiste il suo impegno politico. Esistono soprattutto per me il suo affetto e le voci e le anime di tante persone incredibili che mi ha fatto conoscere e incontrare in quel mondo prima del mondo, nei meandri di una rete a 56k. Quelle persone, che popolavano il suo universo, sono ancora oggi la mia famiglia allargata, il regalo più bello che mi abbia e ci abbia fatto.
Esistono tante altre cose, ma le parole mi muoiono dentro.
Esiste il bene che gli ho voluto, tanto.
Il bene che ci siamo voluti. Con lui, con tutti quelli che hanno avuto la ventura di percorrere insieme questo pezzo di strada fuori dal tempo, di avventurosa neghentropia.
Valerio caro.
Silvia Samorì
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Valerio, grazie per averci restituito la storia del Risorgimento italiano come storia di popolo, grazie per i pirati, per i nativi messicani, per il primo sindacalismo.
E grazie per la tua solidità, la solidarietà e la capacità di stare dalla parte giusta.
La terra ti sia lieve, compagno.
Fabio Perretta
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«Ma sì che mi riconoscerai, ho l’accento del Dottor Balanzone!», mi scrisse per un appuntamento in via Paolo Fabbri, a Bologna. Avevo Guccini nelle orecchie dalla scuola. Un incontro, anni fa, e quello era il segno convenuto: la parola del disordine. Scriveva di Eymerich ma, pensa un po’, non gli dispiaceva paragonarsi a una maschera della commedia dell’arte. E come è accaduto alle maschere, la forza del suo scrivere l’ha sentita solo chi ha saputo guardare più in alto, oltre le convenzioni pietrificate. Perché siamo a bagno nel piccolo mondo strafico dei prodotti letterari su misura per la vendita, per le pile di libri uguali, programmati all’usa e getta della lettura innocua, buona per l’intramontabile travaso delle idee. I libri vuoti. Ma sono i libri col nome, la faccia per la TV, per sputare opinioni sul sesso e sui vaccini e sulla guerra. La letteratura dell’oca al passo va coi nuovi fascismi della fiction, che tutto fa brodo, che se serve ci fabbrichi anche un capetto politico per metterlo su da qualche parte. Offrire nuovi, infiniti mondi è un’altra cosa, e quando non ti fanno fuori, come minimo ti mettono sullo scaffale di genere, che già t’è andata bene. C’è chi ha pagato più caro, dai. C’è chi ha preso la via di Londra per non giurare fedeltà all’Austria, e quando è morto non c’erano neanche i soldi per il funerale, ma poi hanno messo le ossa in Santa Croce. E in fondo è una vecchia storia. Prima, ma prima prima, c’è chi ha messo papi all’inferno e ha dovuto sognare la sua città e la cerchia antica senza rivederla più, per farsi rubare i versi, sette secoli dopo, da letture in audiolibro con la voce impostata. Se gli scrittori continuano a scrivere, se gli artisti continuano a darsi, i poeti a tessere un filo, devono avere una tenacia che scànsati. Un santo o un diavolo dalla loro, una testa proprio dura. Li pesti come l’uva, e danno vino. Ma se io avessi previsto tutto questo, forse farei lo stesso.

Luca Baiada

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Lo mandi un salutino a Valerio?
Termina così quasi ogni lettera, ed ogni colloquio con Cesare Battisti, detenuto, che Valerio ha affidato alle mie cure, una volta arrivato a Ferrara.
Ho conosciuto Valerio Evangelisti, quasi 30 anni fa, iniziavo con la mia attività a favore dell’Unione Inquilini, ed organizzammo uno sportello in uno dei quartieri di Bologna.
Lavorava ancora presso l’Intendenza di Finanza, ma era appunto un lavoro: per il resto, ho imparato dopo, scriveva di Eymerich e svolgeva l’attività dei militanti di base nei quartieri.
Ho comprato Urania solo per leggere, appunto, di questo suo personaggio, che sin dall’inizio appariva straordinario: non ho mai letto fantasy e mi sembrava di commettere un sacrilegio.
Ma boom! amore a prima lettura… e poi tutti i suoi libri, come l’allieva disciplinata che non sono mai stata.
Le strade si sono incrociate tantissime volte, ma quest’ultima mi è sembrata che fosse un affidamento: un amico caro, un grande problema, la necessità di un miracolo.
Contavo di organizzare un colloquio tra te e Cesare, studiavo mentalmente come farti fare il tragitto dal cancello del carcere al parlatoio, diversi metri difficoltosi, ma non mi pareva impossibile.
Ma l’ultima volta che ci siamo sentiti mi hai detto che sapevi che Cesare non l’avresti mai più rivisto.
Non è facile salutarti, creatura che ha emozionato in modi che è difficile eguagliare: non è facile neanche entrare in quel carcere e pronunciare quelle parole, stracciando ancora una volta un’anima sofferente e prigioniera, a cui è negato tutto, anche il diritto al dolore.
Troveremo un modo in cui ricomprendere tutto, dolore, amicizia, ergastoli e libertà.
Basterà fra quelle sbarre, anche un piccolo raggio nel nostro sole… quello dell’avvenire.
Ciao Valerio So Long è stato un onore esserti amica
Marina Prosperi
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Ha ragione Giuseppe Genna: la scomparsa di Valerio lascia attoniti. A me ha lasciato talmente attonito da causarmi uno stordimento che mi ha reso incapace di mettere insieme due pensieri, figuriamoci delle parole. Perché Valerio è stato talmente tanto per me, la mia vita, la mia formazione, che a malapena riesco a credere a ciò che è successo. La consapevolezza di quanto mi ha dato mi ha scosso e spinto per lo meno a qualche riga di ringraziamento, attraverso qualche ricordo sparso.
Quando ero studente lavoravo in un’osteria dove si tenevano le riunioni della rivista di antagonismo sociale “Progetto Memoria”; Valerio lo avevo conosciuto in occasione di cicli di cineforum al Kamo, organizzati da lui ed altri. Da rifornitore di boccali di birra, passai per suo volere a redattore della rivista in un brevissimo lasso di tempo. La sua capacità di leggere il reale con una lente interpretativa radicalmente critica, sempre in maniera argomentata e con un fondo di rabbia pacata, sempre ironica mi affascinò subito e mi stupì sempre. Aveva una dimestichezza incredibile nell’usare tutte le scienze sociali come strumenti per arrivare a dimostrare le sue ipotesi interpretative, i possibili sviluppi, le potenziali soluzioni. Mi spediva alla Calusca di Milano – io pischello – a riunioni in cui discuteva dei massimi sistemi gente del calibro di Sergio Bologna, Primo Moroni, Franco Fortini, per poi ascoltare i resoconti con crucciata attenzione.
Poi il Centroamerica, il Nicaragua sandinista: devo a lui e a Daniela Bandini i contatti con l’Agencia Nueva Nicaragua, con cui collaborai vari mesi e dove riuscii ad avere i ganci per le fonti primarie della mia tesi di laurea.
E poi, con i suoi primi successi da scrittore, l’esperienza pazzesca di fargli da cavia-lettore, insieme a Wainer Marchesini: racconti meravigliosi come “Hormigas locas” o “Sepultura”, e tanti altri, che poi inserì – sempre in maniera geniale – dentro le saghe eymerichiane, nei diversi universi spazio-temporali che univa nei suoi romanzi dell’inquisitore. E poi la cartacea Carmilla/Mircalla, rivista dell’immaginario, con le riunioni della redazione nazionale, con Sandrone Dazieri, Luca Masali, Nicoletta Vallorani, Giuseppe Genna, Nico Gallo, Vittorio Catani, Franco Clun, Vittorio Curtoni, Franco Ricciardiello, Danilo Arona, Roberto Sturm e tanti altri ancora, fino a Carmillaonline.
Ma Valerio mi ha dato anche molto a livello politico e umano, come amico e compagno, in mille occasioni. Ma soprattutto celebrando, appena uscito dalla malattia, il mio matrimonio con Genni. Poi, dismessa la fascia tricolore (!), entrando nel cordone del servizio d’ordine – stile Aut.Op. – che ci scortò lungo Piazza Maggiore fino all’osteria, per il primo brindisi.
Ciao fratello, ti voglio bene anch’io.
Nei secoli.
Giorgio Camel
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Ieri Valerio ci ha lasciato, e la perdita ci appare incredibile quanto incommensurabile. Che fossero le mura di via Avesella, quelle dell’Università o del Laboratorio Crash non era mai venuto a mancare, nella sua parabola di militante e scrittore, il contributo di un compagno la cui vita è stata dedicata ad un unico pensiero: il comunismo.
Nemmeno quando le sue apparizioni pubbliche si erano diradate, ma mai annullate, e quando alle richieste per un appello, un’iniziativa, un sostegno – che non davamo mai per scontate – lui ci rassicurava ogni volta con la sua voce tranquilla e generosa.
Nei suoi testi – tutti, dai romanzi, alle prefazioni, ai saggi – viveva e si faceva largo il nostro mondo, con tutte le sue passioni, le contraddizioni, le sconfitte e le vittorie nelle epoche e nei continenti. Una totalità unita ed intessuta in un mirabile corpus da un’unico filo rosso: quello dell’appartenenza di classe, del riscatto e della giustizia sociale.
Forse ciò che li rendeva così convincenti, oltre che coinvolgenti, era la frequente adozione del punto di vista di chi quel mondo lo combatteva e lo combatte – guardie, inquisitori, infami, informatori. E che nondimeno ne veniva affascinato, attratto, succube, nella propria incapacità di immaginarne un altro ed emanciparsi da ogni grettezza ed individualismo. Figuri che riecheggiavano i detrattori di Valerio stesso, quando aveva preso le difese di Cesare Battisti e di altrə esuli della lotta armata del decennio rosso.
Alcune delle sue pagine più belle Valerio le ha scritte ritraendo la sua e nostra Bologna: da “Gli Sbirri alla Lanterna”, vera e propria genesi del proletariato felsineo, a “Il Sol dell’Avvenire” – in cui era immediata la continuità tra istituzioni di ieri ed oggi nella condiscendenza al fascismo e nella repressione di ciò che si muoveva oltre la loro sinistra.
Fino a “Scorrete Lacrime, disse lo Sceriffo”: il suo regalo più grande negli anni più bui della sinistra di Cofferati, che abbiamo combattuto fianco a fianco e sconfitto insieme. Senza purtroppo impedire del tutto che i germi securitari e del razzismo istituzionale tracimassero nel paese, andando a consolidare il presente-futuro di miseria e desolazione che viviamo e che già occhieggiava in quei racconti distopici.
Le compagne ed i compagni autonomə di Bologna si aggiungono al saluto dei tanti e delle tante che ti stanno ricordando in queste ore, levando il pugno chiuso alla Puerto Escondido che tanto amavi e che ti consegna all’oceano infinito del movimento comunista! Hasta Siempre Valerio!
Laboratorio Crash
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La notizia della tua morte ci lascia un tremendo vuoto,
quante cose ancora avremmo voluto chiederti,
quante cose ancora avremmo voluto fare insieme.
In questo scritto racconti del periodo in cui eri il “custode” di via Avesella,
quando una parte dell’archivio di Lotta Continua andò perso,
«Purtroppo gli storici non avranno mai più a disposizione quei documenti» scrivi.
Forse non avremo a disposizione quei documenti,
ma anche grazie a te, Valerio, la sede di via Avesella e il materiale conservato lì dentro sono un patrimonio a cui oggi abbiamo accesso.
Anche grazie a te abbiamo gli strumenti come compagnə, storichə, archivistə, studiosə, appassionatə per ricostruire queste storie e farle parlare con la città.
Anche grazie a te sappiamo che la storia si deve raccontare, ma che esistono tanti modi per farlo: tu l’hai sempre fatto mettendoti nei panni degli ultimi, dei reietti, dei marginali, facendo emergere i loro punti di vista, raccontandoci storie ordinarie da prospettive inedite e storie straordinarie da prospettive comuni.
Non hai mai smesso di raccontarci conflitti, di regalarci visioni, di restituire dignità alle storie e a chi le ha vissute.
Ti vogliamo ringraziare per averci insegnato che la storia e la narrativa si possono intrecciare in modi bellissimi; che la fantascienza può parlare delle lotte del presente; che la rivoluzione ha tante forme e l’importante è tentarla.
Dal canto nostro, oggi più che mai ci sentiamo pienə di responsabilità e sentiamo sulle nostre spalle il compito di far continuare a suonare con foga quei campanellini da via Avesella per tutta la città…
Buon viaggio Valerio, ci mancherai molto. 🌹
Archivio via Avesella
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Valerio in questi mesi di pandemia ha fatto incontri clandestini. Ci trovavamo per pranzare insieme ad altri compagni, ma non dirò certo dove. Del resto come la pensava Valerio riguardo la gestione criminale della pandemia lo si desume da questa lettera che abbiamo scritto insieme a Roberto.

Non è stato facile restare in contatto in tutti questi mesi: le restrizioni per qualcuno, anzi per molti sono come una gestapo di regole demenziali.

Non posso nemmeno immaginare come questa solitudine abbia pesato ancora di più per lui.

Ma dicevamo in culo alle regole, davanti a quella che è oggi l’azione più sovversiva: il contatto umano, un abbraccio, guardarsi negli occhi e ridere, parlare, senza distanze prima ancora mentali (di chi ha accettato) che fisiche.

Partigiani della propria vita, come unica regola che fonda la propria visione del mondo. Valerio è sempre stato coerente fino in fondo, vedendo oltre gli eventi contingenti più di chiunque altro.

No, non farò nomi, di chi in questi 40 anni ha collaborato con noi, sin da Carmilla cartacea e poi online, di chi ha lavorato a Progetto Memoria, persone indubbiamente di spessore, alcuni divenuti anche famosi nel panorama letterario. Non sono importanti i nomi, ma i luoghi, dove andavamo come carmilliani: i centri sociali, come il viaggio al Leoncavallo, le librerie di movimento, ovunque ci fosse pensiero critico e lotta.

Solo due nomi, sì, due li devo fare, perché se non ci fossero stati loro, la vita di Valerio sarebbe stata più complicata, ne sono sicuro: Daniela e poi negli ultimi tempi Alessandro con lei. Sono stati straordinari nel sostenerlo, soprattutto nell’ultimo periodo. 

E uno dei ricordi più belli che ho di Valerio è proprio legato a loro, a mia moglie Kayo e ad Antonello, l’ultimo compleanno del Magister prima della pandemia, quando ci trovammo da Mimì, la pizzeria sotto casa sua. È un ricordo ancora vivido di quei momenti trascorsi insieme, come tanti altri flashback che me lo rendono ancora reale. E che in questi giorni mi fanno dire: è impossibile, impossibile che sia accaduto. Non è vero.

Nico Maccentelli

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Ricordo di un cattivo maestro
Un redattore di Zic.it sullo scrittore e militante scomparso ieri: “Ci spronava a continuare a lottare, a non perdere mai di vista l’importanza dei nostri sogni di cambiamento, a resistere e se possibile contrattaccare”.

Valerio Evangelisti era il mio cattivo maestro, ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta, appena diciottenne, durante l’occupazione contro la riforma Moratti del liceo Minghetti nel 2001: venne a trovarci per sostenerci, solidarizzare e tenere una bellissima lezione sull’importanza della scuola pubblica. Lo ricordo ancora lì, seduto in cattedra, che ci parlava di quando era un giovane studente del Minghetti, delle occupazioni del Liceo degli anni ’70, degli scontri coi fasci, dell’Autonomia, della violenza repressiva della polizia di quegli anni e dell’importanza della cultura e della penna come forme di resistenza alle barbarie del quotidiano.

Ci spronava a continuare a lottare, a non perdere mai di vista l’importanza dei nostri sogni di cambiamento, a resistere e se possibile contrattaccare, ed anche lui lo fece: ricordo perfettamente come si erse in nostra difesa contro un deputato bolognese di Forza Italia, anche lui ex minghettiano, che aveva istituito un “telefono-spia” per segnalare i prof considerati di sinistra al ministero, e lo fece con cultura ed ironia, ricordando al deputato, che aveva avuto il coraggio di presentarsi all’occupazione, alcuni trascorsi di quando entrambi erano giovani liceali e di come fosse divenuto famoso come “centometrista”, tra le grasse risate dei presenti.

I suoi romanzi, i suoi articoli e le sue ricerche hanno poi accompagnato la mia formazione universitaria e politica, con quella sua incredibile capacità di scrittura, quella facilità di lettura che solo i grandi romanzieri sono capaci di avere, e la sua meticolosa attenzione alla Storia. Ho avuto la fortuna di assistere ad alcune presentazione tenutesi a Vag61 dei suoi ultimi libri, e quindi di poterlo poi conoscere di persona, ma sempre con quella deferenza e quella timidezza che riservo verso chi ritengo mi abbia formato: anni addietro avremmo dovuto presentare assieme un libro sul fascismo ma le sue condizioni di salute non gli permisero di esser presente, eppure le sue parole di incoraggiamento le porto ancora dentro e mi spronano ancora a resistere e contrattaccare.

Ciao Valerio, sib tibi terra levis.

Un redattore di Zic

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Avevo vent’anni e già qualche bel fallimento alle spalle quando incrociai la redazione di Carmilla, una rivista di fantascienza e approfondimento politico di sinistra (cose che mancano un po’ oggi, e infatti si vede come va il mondo). In quel circolo letterario e politico feci i miei primi passi seri nell’editoria e illustrazione. Questa per esempio, per un racconto di Nicoletta Vallorani, la ricordo con piacere. Direttore era Valerio Evangelisti, un grande spirito. Anni dopo conobbi i suoi libri di Eymerich, irresistibili, da cui nacque la collaborazione per il fumetto, i raduni di fan dove ho conosciuto mia moglie e tante amicizie, la serie di librogame… Poche persone hanno la capacità di trascinare le vite in percorsi convergenti, e farne nascere qualcosa di meglio. Valerio sicuramente aveva questo dono. So long…

Francesco Mattioli

 

 

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Caro Valerio,
a Marina, amica e mia avvocata grazie a te, poco tempo fa hai detto: “Mi sa che Cesare non lo riabbraccerò mai più”. Ci sono rimasto male, ma che vuoi, con due ergastoli sulle spalle e un nome come il mio, il presagio non era da scartare. Era a me che pensavo, amico caro, alla mia impossibilità di tornare a noi, non alla tua vita che stava per finire. Avevo gli occhi chiusi sulle tue pene. Volevo a tutti i costo credere che il tuo era un malessere passeggero e che il fratello con cui avevo scalato il cielo venisse di nuovo a trarci in salvo, ad aprirci insieme orizzonti nuovi. Che egoismo il mio. Pensavo anche che avevo bisogno di vederti, di incrociare ancora i nostri sguardi e ritrovare nei tuoi occhi l’allegria che faceva palpitare le parole tra le righe. Avevo una cosa seria da dirti. Se ci fossimo rivisti, ti avrei sorpreso con parole sdolcinate che tanto aborrivamo. Ti avrei detto una cosa che porto nel cuore da troppo tempo e che adesso la devo gridare per farmi sentire ovunque tu sia. Sei stato tu, fratello caro, a farmi credere che ce la potevo fare. C’era la tua ironia sulla mia dannata pagina bianca; c’eri anche tu a sfottermi quando mi rotolavo nell’impotenza. Hai lasciato in giro tanto amore che, mi chiedo, come faranno tutti gli altri a sopportare il vuoto che hai lasciato. Perché io vorrei che qualcuno mi dicesse come abolire almeno le prossime ore.
Ciao Valerio
Cesare Battisti

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Per Valerio Evangelisti

Intervista di Loredana Lipperini

Valerio Evangelisti, grande scrittore, uomo buono, amico, è morto ieri. Non era il re del fantasy, come leggo qua e là. Era l’autore che ha incrociato le vie del fantastico col mito, e soprattutto con la storia. Per ricordarlo, un’intervista del 2009. La feci per Mente e cervello. Leggetelo, ricordatelo.

Partiamo dallo scaffale: che diventa difficile da decidere per quanto riguarda la tua opera. Romanzi storici? Fantascienza?  Horror? Fantastico? Western? Avventura? Penso a Tortuga, anche. E penso a tutto il resto. E penso, e ti chiedo, quanto ha senso costringere la  narrazione in una sola definizione?
Sono orgoglioso del fatto che i librai abbiano difficoltà a collocare la mia narrativa in un settore specifico. Inizialmente finivo regolarmente nell’angolo della fantascienza, anche con romanzi per due terzi storici e per un terzo fantastici come Magus. In realtà, pure i miei primi romanzi “fantascientifici” toccavano generi vari. Adesso ho rotto la gabbia (al prezzo di sacrificare un poco Eymerich, il mio personaggio più famoso) e classificarmi è diventato difficile. Era il risultato che mi prefiggevo fin  dall’inizio. C’è chi mi inserisce nella categoria generale dei “romanzieri d’avventura”. La qualifica mi onora, però spero di sfuggire appena possibile anche a quella definizione. La narrativa che amo è libera e poco etichettabile.
Restringiamo il campo al tema del fantastico. Qui, mi sembra, le acque si confondono ulteriormente, e non è ben chiaro, nel nostro paese, cosa sia per esempio fantasy e cosa horror e cosa fantascienza. Ma la sensazione è che ci sia una parte di autori che insista per mantenere alzate le barriere, anziché abbassarle. Cosa ne pensi?
Abituati al ghetto, esistono scrittori che lo scambiano per il mondo intero. Finiscono per adattarvisi e per ritenere ostile, in nome del loro comfort, tutto l’universo “esterno”, che li ignora. Li comprendo, li stimo, ma ho fatto una scelta diversa dalla loro. A me interessa una narrativa che si scontra-incontra con grandi temi storici e sociali, che si confronta con il presente (anche se mascherato da passato o da futuro). Io non ho una formazione letteraria, ho studiato e per un po’ insegnato scienze politiche – storia, sociologia, economia. La grande fantascienza che lessi da ragazzo era piena di suggestioni di quel tipo. Si parlava del futuro per riferirsi all’oggi. Chi si chiude nei recinti dell’horror, della science fiction, del giallo ecc. rischia di creare da solo il proprio campo di concentramento.
Penso al lavoro fatto sul genere, nei campi del noir e del giallo. Nobilitato, portato al massimo livello di visbilità, e giustamente dissolto dentro il mainstream. Credo che in Italia la nebulosa di testi che ora “risuona” nel New Italian Epic  debba molto a quell’esperienza. Ma due settori sembrano ancora essere  immuni, o poco toccati, da questo discorso. E penso proprio a fantasy e horror. Perché?
Il giallo-noir di Macchiavelli, Lucarelli, Carlotto, De Cataldo, Camilleri, Fois  e altri, è stato il primo a sfondare le barriere. Parlava di società italiana proiettandole contro una luce fredda, mentre i bestseller correnti mettevano in scena drammi individuali magari interessanti, però avulsi dal contesto socio-economico, ed evitavano di prendere posizione. Qualche volta si limitavano a esercizi linguistici. Il noir, dunque, è stato importante, anche se poi ha generato una serie di romanzetti hard-boiled che dei modelli americani o francesi traevano solo le frasi sincopate e ciniche dei dialoghi.
Diverso il discorso per il fantasy e l’horror. Il primo ha preso piede (relativamente) in Italia quale antitesi alla fantascienza e alla sua logica. Prevalgono tra noi i testi poetici e carini, scritti da donne o ragazze per compiacere un pubblico di adolescenti – salvo occasionali scene “hard” di duelli, per tenere alta l’adrenalina. Quanto all’horror, non mancano in Italia autori di genio (Gianfranco Manfredi, Danilo Arona, Chiara Palazzolo, Alda Teodorani, Gianfranco Nerozzi), ma spesso ignari, salvo i nomi che ho citato e alcuni altri che non ho citato, delle profondità psicologiche che dovrebbero sondare. Insomma, il “genere” regge solo se è sorretto a sua volta da un progetto e da una filosofia. Altrimenti si riduce a trame stente e marionette spacciate per personaggi.
Quali sono, a tuo parere, i modelli dell’horror italiano? Ho spesso la sensazione che si fraintenda, per esempio, Stephen King e si tenda ad applicare l’etichetta horror anche a sue opere che non rispondono al canone stretto di horror. Insomma, il mondo del genere va avanti, altrove, e da noi si resta fermi ad una concezione del genere “da nerd per nerd”, dove la cura del linguaggio e del meccanismo è minima. Eppure ci sarebbe un pubblico predisposto ad accogliere il mutamento. Cosa lo impedisce?
Il guaio delle etichette è che poi è difficile staccarle. Anche se scrivesse un manuale di architettura, King finirebbe ugualmente tra i romanzieri horror, nelle librerie, e ciò è per qualche verso naturale. Il libraio che   si informa sui testi che vende è, non solo da noi, una specie in via d’estinzione. Io però non credo troppo all’efficacia dei modelli, si tratti di King, di Manchette o di Tolkien. Generano imitazioni non all’altezza dell’originale. Bisognerebbe essere capaci di violare sistematicamente la fonte ispiratrice, e sovrapporvi necessità di espressione personale. Faccio un esempio in positivo. Una giovane scrittrice palermitana, Alessandra Daniele, è diventata nota nel web per una serie di racconti brevissimi e fulminanti pubblicati nel sito Carmilla. Recentemente Urania le ha chiesto una serie di racconti più lunghi, da pubblicare in appendice. Poteva essere una specie di consacrazione. Lei ha risposto: no, io mi esprimo in altra maniera, la brevità dei miei pezzi è una scelta artistica. Temo che non sarebbero in tanti, in Italia, a reagire allo stesso modo. Specie se gli  eventuali modelli di riferimento sono di origine non letteraria, ma televisiva.
Appunto. Veniamo agli stereotipi. Purtroppo molta narrativa fantastica italiana è blindata dentro i medesimi. Specie quando si parla di personaggi femminili. A cui tu, invece, hai sempre posto grande attenzione. Penso al grande antagonista del femminile stesso, Eymerich. Solo per fare un nome. Quanto occorre lavorare perché il narratore acquisti questa consapevolezza?
Di solito mi ispiro a donne che ho incontrato nella mia vita. Forse questo mi aiuta a comporre personaggi credibili. Normalmente si tratta di persone che per quanto vinte, umiliate, schiavizzate, mantengono una loro irriducibilità. Alla fine trionfano. Lo stesso Eymerich, nemico giurato del femminino in assoluto, finisce per soccombervi. Nella narrativa di genere prevalgono invece ancora oggi la figura della bambolona, della donna passiva, dell’intrigante o, di converso, della super-donna capace di battere un uomo sul suo stesso campo, che sarebbe quello della forza bruta. Non so quali siano state le esperienze personali degli autori (e in qualche caso delle autrici) verso l’altro sesso. Nel mio caso quel rapporto mi ha arricchito, e fatto superare lo stereotipo secondo il quale “tutte le donne sono uguali”, “tutti gli uomini sono uguali” ecc.
Infine, una domanda sulla storia. Esplorarla per restituire la meraviglia che un tempo la fantascienza riservava all’esplorazione del futuro è una, credo, delle tue chiavi narrative. Anche qui: quanto si fraintende il concetto di romanzo storico?
La scena geniale del film 1492 è lo sbarco di Colombo. Approda in America come in un altro pianeta, non sa cosa si nasconda dietro i cespugli e la nebbiolina. Pare scendere su Marte. La storia è ricettacolo di abitudini strane, di forme di dialogo oggi incomprensibili, di costumi totalmente diversi. Chi rilegga oggi il Satyricon di Petronio, primo romanzo della latinità, fatica a ricostruire la logica delle conversazioni tra aristocratici romani adagiati sul loro triclinio. E il fenomeno si ripete anche in prossimità dei nostri tempi. Una donna ritenuta bella in un film del 1910, oggi la definiremmo grassa e basta. Un romanzo storico non può  restituire un passato quasi inconoscibile per intero. Può solo indurre nel lettore il “sense of wonder” di chi si curvi sull’ignoto, allo stesso modo della vecchia fantascienza. Fantascienza e romanzo storico hanno coltivato, e coltivano ancora, l’arte sublime del meravigliare.

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Listate a lutto, le bandiere rosse piangono la morte del compagno Valerio Evangelisti. Lui, che con la sua penna e la sua intelligenza ha trasformato in una spada la storia di moltitudini di donne e uomini protesi nella sempiterna sfida al presente, vive ora nei cuori e nelle menti delle tante e dei tanti che hanno avuto il piacere e l’onore di leggere e ascoltare le sue parole, traendone la forza necessaria a proseguire la lotta.

Intellettuale sensibile e generoso, Valerio non ha mai fatto mancare il suo sostegno ai figli della stessa rabbia che ha animato le straordinarie epopee proletarie raccontate nei suoi tanti libri.

Scrittore visionario, ha puntualmente restituito la parola a una realtà che ora e sempre ci ricorda che il futuro non è scritto ma che la guerra agli oppressori continuerà fino alla vittoria. È stato lo stesso Valerio a dircelo, inviando in redazione un contributo destinato a un volume dedicato alla Comune di Parigi curato da Accademia Rebelde. Nel dolore immenso per la sua morte, la forza che Valerio ci regala è il ferro che continua a pesare sulla testa delle classi dominanti. Perché, scrive Valerio a proposito della disfatta della Comune: «I carnefici hanno però trascurato la nascita di un bambino. Ha appena acquistato coscienza, è ancora fragile. Si chiama proletariato. Divenuto adulto, manifesterà sé stesso in mille occasioni. E, tante volte, la classe dominante avrà poco da sorridere. Quando vuole, quando recupera coscienza, il piccolo è capace di mordere».

La lotta continua, Valerio vive!

Red Star Press

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Valerio Evangelisti, per gli amici Solong
Valerio, un gigante in tutti i sensi: umano, fisico, intellettuale se ne è andato due giorni fa.
Per me è stato un amico e un punto di riferimento importante nella mia formazione sin dagli anni 90. Difficile definire cosa fosse perché era veramente un gigante in molti campi delle scienze sociali e della cultura: scrittore di primo piano, storico, militante politico rivoluzionario. Negli ultimi anni, per problemi di salute, è stato un po’ defilato dalla scena politica bolognese, ma ciò non gli ha impedito di essere l’ unico intellettuale di rilievo di sinistra a schierarsi nettamente contro il green pass. La cosa non mi ha mai sorpreso, sapevo che almeno da Solong non mi sarei sentito tradito. Proprio nei mesi scorsi mi sono letto tutto di un fiato la sua bellissima trilogia ” Il sole dell’ Avvenire”, una storia romanzata del movimento operaio e contadino nella Romagna di fine ottocento fino alla resistenza antifascista.
Leggendolo si capisce un aspetto che oggi è coperto dal volta faccia di molti: le lotte sociali che hanno fatto la storia di tutte le conquiste migliori sono sempre state mosse da un anelito incoercibile di LIBERTÀ. Libertà dai bisogni materiali, dalla repressione dello stato, dagli abusi padronali o polizieschi. Questo sentimento tracciava una  linea di demarcazione netta, definiva chi era in cammino per una società migliore e chi stava con l’ abuso e lo sfruttamento.
In particolare poi, rispetto al tema della guerra, che è uno dei tanti deja’ vu che ricorrono tristemente, la parte più consistente del movimento operaio e contadino si è sempre opposta, con lo slogan ” guerra alla guerra”.
Oggi prevale l’ opportunismo conformista, quindi gran parte di chi avrebbe dovuto giocare un ruolo di opposizione alle mostruosità viste negli ultimi due anni, di cui il green pass è solo un tassello, si è totalmente allineato alle politiche del potere. Infangando chi ha continuato a difendere spazi di libertà, di diritti, di umanità.
Libertà è oscenamente diventata una parola da denigrare, da ascrivere all’ individualismo borghese.
Si è spacciata per responsabilità sociale l’ allinearsi a politiche anti sociali che non solo niente hanno a che spartire con la salute, ma  che rendono patologici molti aspetti della vita bio psico sociale delle persone, soprattutto di quelle più fragili.
Ecco perché per me la perdita di uno come Valerio è grande.
Con lui se ne va un partigiano vero, per il quale essere coerentemente anti fascista aveva delle conseguenze rigorose, limpide, precise
Mi auguro che il ricordo del suo esempio sia da stimolo e da esempio a tutti i veri anti fascisti, che non sono sicuramente quelli delle celebrazioni liturgiche senza contenuto alcuno, ma l’ anti fascismo che oggi afferma con forza che le due battaglie sono insolubili: guerra alla guerra e riconquistare piena libertà e diritti per tutti abolendo l’ apartheid  emergenzialista e il vaccinismo forzato degli ultimi due anni.
Che il cielo dei ribelli ti accudisca caro Valerio, fratello e compagno.
Davide Milazzo
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La fraternità di Valerio Evangelisti

La lunga e vorticosa militanza politica. La straordinaria e prolifica esperienza di scrittore e studioso dei movimenti sociali. La sua gentilezza, la sua incredibile generosità. Difficile raccontare tutto ciò che è stato ‘So Long’, ma ci proviamo. I funerali si terrano domani alle 11 al cimitero di Casigno, frazione di Castel D’Aiano.

Non sappiamo se Bologna gli dedicherà mai una strada, una piazza, un giardino o una sala pubblica, ma Valerio Evangelisti, al di là di ogni retorica, è stato sicuramente uno dei suoi figli migliori.

Haidi Giuliani ha scritto: “Penso che Bologna, particolarmente, debba essere in lutto”.

E’ vero, è proprio così, la grande perdita di Valerio potrà essere alleviata solo se quelli e quelle della “sua parte”, tutte le realtà e tutte le persone per cui lui si è speso, faranno insieme qualcosa per ricordarlo degnamente.

La “città ufficiale” lo commemori (se lo farà) come meglio crede, ma gli spazi autogestiti, i collettivi, le organizzazioni politiche, gli archivi di movimento, i gruppi di base che Evangelisti ha frequentato e sostenuto debbono tenere vivi i suoi scritti e le sue idee, debbono continuare a far circolare i suoi libri, per il valore “universale” che rappresentano nella storia delle “classi oppresse”. E al di fuori di ogni logica da “memoria condivisa”, che Valerio ha sempre contrastato.

Infatti, diverse volte, nel corso degli anni, Evangelisti se l’è presa con l’ondata di “revisionismo” che ha investito la storiografia. I periodi potevano essere diversi, e svariare dall’Inquisizione al Fascismo, ma lui ha sempre trovato assurdi e ridicoli gli scritti storici che tentavano una loro riabilitazione. Li bollava come manifestazioni di barbarie e di oscurantismo che, in nome dell’anticomunismo, attaccavano tutti i momenti della storia in cui si era fatta strada l’idea di eguaglianza: dalla rivoluzione francese alla resistenza al nazifascismo, alle battaglie per la democrazia.

Era nato a Bologna nel 1952, emiliano per parte di padre, romagnolo per parte di madre, ed era sempre andato molto fiero del suo accento che “proteggeva” il suo linguaggio senza fronzoli, molto semplice e diretto anche quando parlava di cose complesse. Il suo amore per la regione in cui era nato e che lui chiamava “la terra degli uomini con la capparella” lo dichiarò anche in un articolo del settembre 2004 su un quotidiano francese. Del resto, Evangelisti a studiare era rimasto a Bologna dove, nel 1976, si laureò in Scienze politiche, con indirizzo storico-politico. Dopo la laurea, trovò lavoro al ministero delle Finanze, alternando a questa professione la ricerca storiografica e la produzione dei suoi primi saggi.

La militanza politica

In città, nel 1969, aveva iniziato a militare nei collettivi studenteschi e nella sinistra extraparlamentare, infatti fu da un suo compagno di Lotta continua che uscì il sopranome di “So Long” che gli fu affibbiato per diversi anni. Valerio di quel suo appellativo ne parlava così: «Il nomignolo derivava dalle sigarette che fumavo e dalla mia statura altissima. In quei tempi ci si chiamava essenzialmente per nome o soprannome. I cognomi riguardavano la polizia. Nessuno stava a chiederli».

Del movimento del ’77 Evangelisti scrisse molti anni dopo e con una grande lucidità: «In quel periodo io fui una delle parti in causa – “protagonista” non lo sono mai stato…».

Con uno suo contributo nell’Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna volume 3° (a cura di Piero Pieri e Chiara Cretella, Ed Clueb, Bologna, 2007) cercò di trovare un comune denominatore sociale alla massa eterogenea dei ribelli del ’77. Sapeva che era una cosa audace, ma decise di rischiare: «I protagonisti del ’77 erano (o parevano) principalmente studenti. Sì, ma quali studenti? Questa era la domanda che nessuno si poneva, e che nessuno si è posto in seguito, dopo che l’intero periodo storico è stato collocato in toto nella storia giudiziaria e lì cristallizzato (sia notato en passant: ben pochi ex “settantasettini” hanno raggiunto posizioni sociali di rilievo, a differenza dei loro presunti progenitori del ’68; salvo completa abiura, non così frequente).

Per chi visse il ’77 dall’interno, la risposta non è tanto difficile. L’Università di Bologna, polo d’attrazione per la sua fama, ha sempre visto una maggioranza di studenti fuorisede, provenienti in larga misura dal meridione. Alla fine degli anni Settanta, si mantenevano agli studi con ogni sorta di lavoro precario, e anche la laurea non garantiva loro un automatico sbocco professionale di prestigio. Ciò del resto valeva per ogni universitario, sebbene l’accesso alle professioni fosse, per chi era nato e viveva a Bologna, meno lento e problematico. Gli studenti finivano per alimentare il meccanismo del lavoro precario che l’assetto produttivo emiliano-romagnolo aveva quale naturale modus vivendi… E poi c’erano i marginali, i freaks, i piccoli malviventi. Una quantità, in un movimento che accoglieva nelle proprie fila il “proletariato extralegale”. Se il ’77 non ha prodotto una nuova classe dominante, lo si deve anche alla sua, negletta, composizione sociale… Che diede oggettivamente vita a un movimento operaio alternativo (l’altro movimento operaio, lo chiamò lo storico tedesco Karl Heinz Roth) che fondava le proprie rivendicazioni non sulla competenza professionale, bensì su bisogni dettati dalla vita in società, senza alcuna connessione tra questi e il lavoro erogato… Si trattava di bisogni non primari del proletariato che esigevano soddisfazione immediata, e su di essi andava modellato l’antagonismo…

Di qui il diffondersi a Bologna, ben prima dell’11 marzo 1977, della pratica della “autoriduzione” oppure dell’esproprio… Essendo la cultura uno di questi bisogni, furono svuotati negozi di dischi, si assalirono librerie, si invasero sedi di concerti, si fece irruzione nei cinema senza pagare il biglietto (ne fece le spese, tra l’altro, il film “King Kong” di John Guillermin). Quanto ai bisogni primari, si moltiplicarono le incursioni nei ristoranti, in cui, in cambio del pasto, si lasciava una cifra simbolica… Oggi tutto ciò può apparire bizzarro (e lo era già allora, agli occhi di chi coltivava una visione meno eterodossa del pensiero antagonista), però credo evidenzi due cose. Il movimento del ’77 non agiva casualmente, ma rifletteva su se stesso e sui propri compiti persino di più di quanto avessero fatto i suoi progenitori del ’68. In secondo luogo, le idee che lo percorrevano avevano poco o nulla in comune con le teorizzazioni delle Brigate Rosse».

Tra il 1978 e il 1979 Valerio / So Long si trovò ad essere, “di malavoglia”, il gestore di via Avesella 5/B, quella che nei primi anni ’70 era stata prima la sede de il manifesto (che allora, oltre che un giornale, era un gruppo politico), poi di Lotta Continua. Dopo lo scioglimento di L.C. nel 1976, per un breve periodo, ci fu la redazione bolognese del quotidiano Lotta Continua, poi, a partire dal 1978, ci fu una fase confusa in cui si insediarono diversi collettivi sopravvissuti all’estinzione del gruppo extraparlamentare, vicini all’area dell’autonomia, ma ancora non disposti a rinunciare del tutto alle vecchie simbologie. Secondo Evangelisti: «L’attività del 5/B, a tre anni dal decesso di Lotta Continua, era ricchissima, le riunioni quotidiane. A parte i collettivi strettamente politici, vi si ritrovavano il comitato di base dei tranvieri (quattro in tutto, però promotori di uno sciopero selvaggio che aveva paralizzato la città); vi operava la mattina un ambulatorio autogestito per eroinomani, curati con somministrazioni di morfina (nacque un problema quando ci si accorse che i medici lasciavano le fiale di morfina in un cassetto di via Avesella: abbastanza per farci finire tutti dentro, alla prima perquisizione); si incontravano gruppi musicali di quartiere; si radunava talora l’Unione Studenti Africani; confluiva occasionalmente la redazione de Il fondo del barile, un giornaletto scritto in larga misura da operai della Ducati».

Sempre come So Long, agli inizi degli anni Ottanta, Evangelisti prese parte a due occupazioni di spazi sociali: il Crack 1, ma soprattutto il Crack 2.

Così le descrisse sul libro Gli Autonomi (Volume 1 – Derive Approdi, 2007): «Da quando avevo lasciato la sinistra extraparlamentare – prima Lotta Continua poi Avanguardia Operaia, e infine la complicata diaspora di L.C. – avevo simpatizzato per gli autonomi romani di via dei Volsci, più “bolscevichi” nel modo di fare. Questi erano alleati all’Autonomia padovana nel Comitato Anti-Anti (Antinucleare Antimperialista). Però gli unici autonomi attivi a Bologna erano quelli dei Cpt (Comitati Politici Territoriali), legati ai padovani dissidenti e a un giornaletto chiamato “Passpartù”. Vi aderii, per quanto ancora idealmente vincolato ai Volsci. Il primo Crack durò un mese appena. Sorgeva in via San Carlo, in uno di quei piccoli prefabbricati che i muratori costruiscono quando hanno in corso lavori, e a volte lasciano a lavori finiti. Bastò un concerto degli Irah perché il Comune mandasse le ruspe. Furono distrutti anche tutti gli strumenti musicali e gli effetti personali… Ma dopo pochi mesi il Crack rinacque, questa volta in via Riva Reno. Si trattava anche in questo caso del capanno di un cantiere abbandonato, però molto più grande… Il Cpt si installò nel Crack 2 alla testa delle sue legioni di “operai sociali”. Che cosa si faceva? Be’, anzitutto si viveva assieme. Eravamo tutte le sere a decine. Si beveva, si discuteva, si conversava, si metteva su musica… I punk erano sempre presenti, e grazie a loro si organizzavano dei concerti con band venute da tutto il mondo….».

Nel 1983, con l’operazione Urgent Fury, il presidente Ronald Reagan diede l’ordine alle forze armate americane di invadere l’isola di Grenada che, in seguito ai suoi rivolgimenti politici, avrebbe potuto portare lo staterello delle Antille nell’ambito dell’influenza sovietico/cubana. Valerio promosse la costituzione di un comitato di sostegno ai grenadini. Negli stessi giorni Evangelisti stava leggendo un libro di Jean Ziegler, “Les Rebelles”, sulla rivoluzione sandinista in Nicaragua, sintesi tra socialismo e democrazia dal basso. Quella lettura lo “trascinò” in un altro continente: «Mi convinsi che non ci sarebbe stata una rivoluzione in Italia, e che bisognava sostenere quelle in corso altrove. Assieme ad altri diedi così vita a un gruppo internazionalista, il Circolo Carlos Fonseca. L’interesse per situazioni straniere, e in particolare per l’America Latina, forse ci salvò dalla repressione durissima che si abbatté sul movimento».

In un’altra intervista Valerio raccontò: «In quegli anni io mi proiettai molto di più fuori dall’Italia; quella che poi sarebbe stata mia moglie si trasferì addirittura là, e io la raggiungevo ogni volta che potevo. Dalle cose italiane cominciai a tenermi un po’ alla larga… Il circolo Carlos Fonseca è esistito fino alla fine dell’86, inizi dell’87, e si era allargato molto, ma poi iniziò a restringersi, anche perché nel Nicaragua la situazione cominciava a non essere più così “sexy” e attraente come era prima; ci furono inoltre dei dissidi interni, anche abbastanza forti e finimmo per scioglierci… Allora quale fu il mio destino in tutto questo viaggio? Esisteva in quel periodo a Bologna un circolo (di cui mai avevo fatto parte né mai mi ero avvicinato) che si chiamava Kamo, il quale raccoglieva gente proveniente dal Cpt e compagni arrestati all’inizio degli anni Ottanta che cominciavano ad uscire dalla prigione…. Il Kamo era separato dall’autonomia tradizionale, che si riuniva in via Avesella: alcune componenti dialogavano, altre avevano scarsi rapporti. Comunque il circolo Kamo diventò un punto di riferimento per varie cose. Io cominciai a frequentarlo… Tutto questo nell’87. Poi un’altra cosa che facemmo fu di rimettere in piedi la vecchia radio Under Dog, la quale non aveva mai chiuso ma trasmetteva solo musica: tentammo di farci dei programmi e una serie di attività culturali…».

Alle soglie degli anni Novanta, Evangelisti diede vita a una rivista di storia dell’antagonismo sociale, intitolata Progetto Memoria. Da quella esperienza, in seguito, nacque Carmilla, una pubblicazione prima cartacea e poi on line. Era stata una sua felice intuizione ed era dedicata alla narrativa fantastica e alla critica politica. Lo scopo della rivista, secondo il suo direttore editoriale, era di fare emergere le potenzialità critiche e antagoniste della letteratura “popolare”, cioè di genere.

Valerio trovò il tempo pure per collaborare all’edizione francese di “Le Monde Diplomatique” e di far parte del nucleo dei fondatori dell’Archivio storico della nuova sinistra “Marco Pezzi” di cui divenne “formalmente” il presidente.

Delle sue turbinose esperienze politiche ha più volte dichiarato: «Delle idee del passato, non ho mai rinnegato nulla, a parte aspetti molto marginali. Al contrario, quelle idee mi sembrano più attuali che mai… E’ alla sinistra “scomoda”, e non a quella imbolsita e oggi transitata a destra, che si devono la vittoria contro il nucleare, le più decise azioni antirazziste, il permanere di un antifascismo militante, il sopravvivere di un internazionalismo autentico, l’ancora larga diffusione di culture non ufficiali che passano di generazione in generazione, l’antimilitarismo, la critica dei sindacati accondiscendenti, la scoperta e l’uso di mezzi di comunicazione alternativi, la genesi di nuovi generi musicali, letterari e pittorici (i graffiti tanto odiati dal potere), la prima affermazione di massa del femminismo, l’antiproibizionismo…».

In anni più recenti, nella prefazione al libro “Berretta Rossa – storia di Bologna attraverso i centri sociali” (ed. Pendragon 2011) Evangelisti ha parlato del valore del concetto di fraternità: «La Rivoluzione francese, che tanta influenza esercitò sulle insurrezioni dei due secoli successivi, aveva un motto notorio: “Libertà, uguaglianza e fraternità”. La terza parola, la più trascurata, è quella che meglio definisce l’esperienza dei centri sociali. Laboratori di politica e cultura, certo, fucine di lotte e di forme alternative di svago, ma anche, in primo luogo, aggregazioni di individui che hanno deciso di aderire a un comune assieme di valori.

Ciò appartiene in fondo alla storia del movimento antagonista, sia antica che recente. Funzionavano grosso modo così le Case del Popolo, risalenti ai primi del ‘900 e, in qualche caso, all’ultimo decennio dell’ ‘800. Pensato alla stessa maniera era il circuito Arci. Più vicini a noi, nel tempo e nello spirito, i Circoli del Proletariato Giovanile degli anni ’70, o le Mense proletarie di Napoli e di altre località… A ben vedere, la sinistra antagonista si è sempre differenziata da quella istituzionale non tanto per questioni ideologiche (riforme o rivoluzione, elezioni o astensionismo, sindacato o organizzazione autonoma dal basso, e così via), quanto per la valorizzazione del momento esistenziale quale supporto a tutto il resto. E continua a farlo, più debole che in passato e tuttavia tenace. Non sedimentò nulla, si dirà. Non è affatto vero… Malgrado fratture a getto continuo, una compattezza rimane. Siamo il partito della fraternité. E’ giusto, urgente e necessario rintracciarne le origini. Una ricostruzione delle storie individuali può aiutare moltissimo a ricomporre la storia complessiva. Vale per Bologna, vale per tutta Italia».

Nel 2013, nella sua introduzione al libro di Fulvio Massarelli “La forza di piazza Syntagma” (ed. Agenzia X), ha scritto: «Abbiamo visto, dopo decenni, movimenti anticapitalistici di massa: “indignados”, “occupy”, presenti in vari continenti. Abbiamo visto riemergere dal nulla una sinistra che si credeva perduta, articolata in mille esperienze di base. Basta tutto ciò? No, per niente. I rapporti di forza permangono intatti. Poco importa che ad assediare i palazzi del potere siano decine di migliaia di persone. Non cambia nulla, le decisioni utili all’atto pratico sono prese nelle sedi deputate. Nazionali e sovranazionali. E’ bello e liberatore fare casino in piazza. Seguiranno l’inevitabile stanchezza, le divisioni, la rassegnazione. L’insorgenza tardo-giacobina ai tempi del Direttorio. Ne nacque il socialismo, ma con una gestazione lentissima».

Lo straordinario scrittore

Dopo i testi di natura storiografica, nel 1990, Evangelisti cominciò a dedicarsi alla narrativa.

Nel 1994 esordì con il suo primo romanzo, “Nicolas Eymerich, inquisitore”, vincendo il Premio Urania. Da quel momento, ridusse progressivamente il lavoro di funzionario statale, per diventare scrittore a tempo pieno.

Alla fine del 1997, dato il successo dei suoi romanzi, soprattutto quelli del ciclo di Eymerich (un inquisitore che indagava sui fenomeni misteriosi nell’Europa medievale), e i discreti guadagni che iniziava a trarne, si licenziò dall’impiego al ministero delle Finanze, durato quasi vent’anni. Era una scommessa non facile, ma Valerio la superò. Da allora riuscì a vivere solo di ciò che scriveva, senza introiti a margine.

Nel 1998, in concomitanza con il romanzo “Picatrix: la scala per l’inferno”, uscì con un altro lavoro: “Metallo Urlante”, un crocevia di storie, personaggi, linguaggi e scenari di genere fantasy dedicato alla musica heavy metal.

I suoi romanzi gli valsero il “Grand Prix de l’Imaginaire” nel 1998 e il “Prix Tour Eiffel” nel 1999, mentre nel 2000 vinse il “Prix Italia” per la fiction radiofonica. Nel 2001 fece parte della delegazione ufficiale degli scrittori italiani al Salon du Livre di Parigi.

Nel 1999 concepì in tre differenti volumi “Magus, il romanzo di Nostradamus”.

Nel 2000, con la casa editrice l’Ancora del Mediterraneo, pubblicò la raccolta di saggi “Alla periferia di Alphaville. Interventi sulla paraletteratura”, a cui seguì nel 2004 “Sotto gli occhi di tutti. Ritorno ad Alphaville”.

“Metallo urlante” aveva fatto da apripista alla serie “Pantera”, il secondo capitolo si aprì con il libro “Blak Flag”, un fantawestern del 2002, a cui seguì nell’anno successivo “Antracite” che, con lo stesso genere letterario, raccontò la storia delle lotte della seconda metà dell’Ottocento tra i minatori irlandesi e i proprietari delle miniere del bacino della Pensylvania.

Da “Antracite”, incentrato sul misterioso pistolero/stregone messicano Pantera, prese il via un intreccio nella cosiddetta “Trilogia Americana” con “One Big Union” (2011) dove un giovane meccanico di origini irlandesi, religioso e affezionato alla famiglia, si ritrovò a coltivare pregiudizi razziali e forme di patriottismo che sconfinavano nel nazionalismo. Questa sua indole lo indusse a diventare, per conto di agenzie specializzate, un infiltrato nei sindacati e nel movimento operaio americano, con il fine di spezzare gli scioperi e di ricondurre i lavoratori alla disciplina. Attraverso i suoi occhi Evangelisti ha descritto il percorso spesso tragico del sindacalismo americano lungo l’arco di un cinquantennio, con i suoi episodi grandiosi e terribili. Dai grandi scioperi dei ferrovieri di fine Ottocento fino all’epopea degli Wobblies, gli Industrial Workers of the World, nei primi vent’anni del Novecento.

Per raccontare le origini degli Stati Uniti, tra la fine della Guerra civile e il Novecento, Evangelisti scelse tre personaggi protagonisti dei suoi tre romanzi. Dei primi due abbiamo già parlato, il terzo, il gangster italo-americano Eddie Florio (realmente esistito) fu il soggetto più sinistro mai creato dalla sua penna, per raccontare in “Noi saremo tutto” (2004) il controllo dei porti statunitensi da parte della malavita e dall’Anonima Assassini, un’organizzazione di killer al servizio di Cosa Nostra. Sullo sfondo, trent’anni di movimento sindacale negli Usa e la lotta tra comunisti e malavitosi per l’egemonia sui lavoratori portuali.

Questi libri del “ciclo americano” furono intrinsecamente connessi ai suoi due romanzi storici sulla rivoluzione messicana: “Il collare di fuoco” (2005) e “Il collare spezzato” (2006).

Un fatto curioso fu la ristampa nel 2005 (per Derive Approdi) de “Gli sbirri alla lanterna” un saggio sulla “plebe giacobina bolognese negli anni dal 1792 al 1797” che fece parte, agli inizi delle sue produzioni editoriali, di una ricerca su “Bologna dell’Ottocento”. In città vigeva un sistema economico chiuso, che costringeva la popolazione a condizioni di vita intollerabili. In quel contesto, attraverso congiure, complotti e rivolte, si fece spazio una sorta di “giacobinismo plebeo”, rudimentale e violento, che ebbe il merito di strappare la politica al Palazzo e di radicarla nella quotidianità popolare. Il fatto curioso è che Evangelisti decise di rimettere in circolazione questo suo lavoro perché la situazione che si stava vivendo a Bologna nel 2005, col governo del “sindaco sceriffo” Cofferati, con le sue campagne moraliste contro i comportamenti disdicevoli della gioventù petroniana, contro i rom e i lavavetri, facevano venire in mente i tempi del Cardinal Legato e delle Assunterie. Naturalmente, dietro a tutto questo, c’era l’auspicio che i “malintenzionati del terzo millennio” seguissero le gesta delle antiche “plebi giacobine”.

La produzione letteraria di Evangelisti, pur avendo tutte le caratteristiche della “genialità artigiana” nell’uso e nell’assemblaggio delle parole, ha sempre avuto dei ritmi che avrebbero fatto invidia alla catena di montaggio fordista: infatti, dal 2008 al 2012, uscì la “Trilogia dei Pirati” con “Tortuga”, “Veracruz” e “Cartagena”, in cui Valerio raccontava, in una ambientazione negli ultimi decenni del Seicento, l’avidità predatoria dei fratelli della costa e l’epopea degli arrembaggi e dei rapimenti dei filibustieri di stanza nel mare dei Caraibi.

Dal 2013 al 2016 fu la volta della “Trilogia del sol dell’avvenire” che, in tre corposi volumi, narrava la storia di due famiglie di braccianti romagnole, le vicende del movimento operaio e bracciantile dal 1875 al 1945, l’avvento del fascismo foraggiato dagli agrari e la divisione dei nuclei famigliari: tra chi divenne squadrista, tra chi suo malgrado fu assorbito dal mondo della clandestinità e degli esuli antifascisti, e invece chi decise di partecipare alla guerra di liberazione nella più anticonformista e “romagnola” formazione partigiana.

Di questa grande saga proletaria in cui ciò che era saggistica diventa narrazione, un lavoro unico nel panorama letterario italiano, Evangelisti ne ha parlato così: «Ho scritto di contadini e di braccianti, di povera gente che ha dato alla Romagna e all’Emilia la propria impronta. Senza curarsi troppo di chi, a livello politico, pretendeva di averne la guida. L’unico linguaggio per me adeguato era quello brusco, essenziale, a volte sarcastico o umoristico delle campagne».

In effetti, in quelle straordinarie migliaia di pagine la scrittura è pulita, senza ruffianerie, non ci sono trucchi per abbellire la storia e renderla più stuzzicante. E’ il racconto sincero e brutale che coinvolge, tracciando le scene di una condizione di vita da cui furono travolti tanti oppressi e sfruttati, tante piccole oscure persone che il sole dell’avvenire che avevano auspicato non videro mai sorgere.

La controstoria popolare di Valerio è proseguita fino a pochi mesi fa con due romanzi storici sull’esperienza della Repubblica romana. Con “1849. I guerrieri della libertà” del 2019 il nostro inarrestabile scrittore ha raccontato di quando, in ogni parte d’Italia, nell’autunno del 1848, tantissimi giovani lasciarono lavoro e famiglie e si misero in marcia, per difendere l’insurrezione popolare che da lì a pochi mesi avrebbe visto nascere la Repubblica Romana. In una cornice di attenta ricostruzione del contesto, tra fiumi di vino, fumi di sigaro e litri di sangue, Evangelisti, ancora una volta ha fatto recuperare al popolo la centralità che avrebbe dovuto avere.

Con “Gli anni del coltello” (2021) il racconto inizia a Roma, il 2 luglio 1849, subito dopo la caduta della Repubblica Romana, quando le truppe del Papa, aiutate dai soldati francesi, cominciarono a cannoneggiare i quartieri degli insorti, per poi dare il via a una spietata caccia all’uomo.

Tra quanti avevano combattuto fino all’ultimo minuto a difesa della Repubblica c’è un personaggio un po’ borderline, Giovanni Marioni, detto “Gabariol”, proveniente da Faenza, un grande idealista sempre fedele a se stesso che non accetta compromessi, seguendo i dettami dell’unico maestro che riconosce, Giuseppe Mazzini. Dal libro emerge una figura dell’ “eroe risorgimentale” ben diversa dalla storiografia che va per la maggiore: un visionario incapace di organizzare il suo movimento e che manda i suoi seguaci allo sbaraglio.

La narrazione di Valerio Evangelisti è sempre stata sostenuta da un poderoso impianto di fonti documentarie. Lui, anche nell’ambito delle storie fantastiche, ha inteso fornire al lettore dettagli solidi e circostanziati, ha voluto rendere i suoi racconti molto realistici. Ma incessantemente ha rifuggito dai predicozzi e rifiutato gli stereotipi dell’epica a sfondo sociale. Una cosa l’ha sempre sostenuta con chiarezza: «Un autore che abbia intenti pedagogici non può che produrre pessima narrativa».

Non si fa nessuna forzatura e non si rischia la piaggeria nel dire che Valerio ha messo al servizio della ricerca storica il suo talento narrativo e letterario. Il suo è stato sicuramente un tentativo riuscito di riportare la plebe sul palcoscenico della storia. Lui, del resto, è sempre stato convinto che le aspirazioni di chi lotta non siano irrealizzabili se si possiedono gli strumenti materiali e intellettuali adeguati. Quante volte gli abbiamo sentito dire ironicamente: «Nei miei romanzi posso dare l’impressione di vedere tutto nero… forse è per via di quella frase che Gramsci rese celebre: “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”».

Valerio Evangelisti ha costantemente parlato degli altri, soprattutto dei più deboli, il suo è stato un continuo peregrinare tra povertà e disgrazie, angherie e sfruttamenti, scintille sociali e repressioni, solo una volta in vita sua, in suo testo, ha parlato di se stesso. Lo ha fatto nel 2013, con il libro “Day Hospital”.

Lo presentò in questo modo: «Non credo che l’esperienza del cancro vada nascosta. Non penso nemmeno che si presti a diventare un sottogenere letterario. (…) Non si troveranno, dunque, riflessioni particolarmente profonde, né consigli per chi dovesse affrontare la stessa esperienza. Dipende dal carattere di ciascuno».

In quel testo, tanto diverso da tutti gli altri suoi lavori, raccontò quando, nel maggio 2009, iniziò un calvario di esami e, dopo i risultati, di sedute di chemioterapia. Poi, con la dovizia di particolari di chi alla narrazione era abituato, descrisse le giornate e le persone del reparto di oncologia dell’ospedale, gli effetti dei farmaci, le ricerche su internet, la “birroterapia”, gli amici veri e quelli troppo invadenti o troppo assenti e soprattutto la funzione terapeutica della scrittura notturna. Era il racconto di un’esperienza di vita, il semplice racconto di una storia non semplice.

La sobrietà, la gentilezza e la generosità

Pur se ha avuto un meritato successo, non si è mai montato la testa e non se l’è tirata mai. Il suo stile di vita è rimasto all’insegna della sobrietà: «E’ bene precisare che conduco una vita molto semplice e ritirata, senza spese eccessive. La macchina l’ho venduta anni fa, sono proprietario del mio appartamento. Spendo in birra, fumo di tabacco, libri e dvd».

Poi c’era la sua gentilezza, quasi timorosa, nel rapportarsi con gli altri. Straordinaria è sempre stata anche la sua disponibilità all’ascolto delle persone.

Ma di Valerio Evangelisti bisogna dire ancora qualcosa di più: è stato sempre un compagno di grande generosità, che non si è mai sottratto ad aiutare gli altri, dai singoli alle realtà collettive più deboli. Ha firmato appelli a favore di militanti e attivisti colpiti dalla repressione, si è battuto “con le sue armi” contro i tanti sgomberi che hanno caratterizzato le amministrazioni comunali che si sono succedute al governo della città. Ha sostenuto organizzazioni politiche e sociali considerate marginali dalla “narrazione ufficiale”. Ha aiutato progetti culturali ed editoriali poveri di risorse economiche ma ricchi di contenuti. Ha promosso festival e rassegne di case editrici e riviste indipendenti, prima fra tutte “Una montagna di libri contro il Tav”.

Presentò l’edizione che si tenne a Bologna nel 2015 a Vag 61 con queste parole: «La resistenza della Valle di Susa va piegata costi quel che costi, perché potrebbe rappresentare un pessimo esempio e incrinare la tenuta del sistema. Ed ecco una repressione feroce, con pene smisurate per punire reati di portata modesta, ammesso che siano tali. Ciò in un paese in cui i crimini commessi da chi appartiene alle cerchie del potere restano il più delle volte impuniti, o sanzionati in maniera ridicola, o lasciati prescrivere con mille pretesti. Con gli autori dei delitti spesso onorati con cariche elargite da governi che nessuno ha eletto. Il delitto più grave – cementificare, distruggere, trasformare il bello in brutto – non va nemmeno nominato. I colpevoli hanno ragione per definizione, gli oppositori vanno trattati da criminali incalliti…

Sarebbe ora il caso di parlare dei complici di questo stato di cose. Mi limiterò a raccontare un aneddoto, riferito al 1884. A Ravenna nascevano le cooperative che sono alle origini di quella Coop impegnata a violentare le terre altrui. Il municipio ravennate indisse un appalto per l’abbattimento di una pineta che circondava la città. Era un’occasione ghiotta per l’Associazione Operai Braccianti, che radunava i lavoratori più poveri di tutti, miserabili, disoccupati. Fu indetta un’assemblea con migliaia di partecipanti. Ebbene, i braccianti decisero compatti di rifiutare quell’appalto. Meglio la fame che rendersi complici dello sconcio del territorio.

Quella era dignità, quella era nobiltà. Dove stanno ora? Non nelle stesse mani, purtroppo. Stanno in quelle dei valsusini che contrastano la più ignobile delle prepotenze. Ed è una lotta che ci riguarda tutti. Se vincono loro, perde l’oligarchia. Se fossero sconfitti, sarebbe il crollo di un bastione contro l’autoritarismo. Difendiamolo, quel bastione. Sono in gioco la libertà, l’onore, la civiltà».

Valerio è stato un compagno dal grande cuore e uno scrittore che ci ha regalato sogni e riflessioni, con la sua produzione sempre pronta a vagare tra le storie dei movimenti sociali del passato e i legami con i movimenti del presente, con la voglia di mantenere vive relazioni con intellettuali e studiosi contemporanei, e soprattutto militanti e attiviste che non hanno ripiegato le bandiere della rivoluzione e della necessità del cambiamento.

Sosteneva che molti dei personaggi dei suoi romanzi appartenevano a una tipologia “schizoide” caratterizzata dall’asocialità più radicale: «Non è un caso: vi appartenevo anch’io, e scrivere è stata una specie di autoterapia per uscirne».

Ma da quella che poteva sembrare una scelta di autoisolamento, così come lo era stata per gran parte della sua vita quella del grande poeta e intellettuale Roberto Roversi, Valerio Evangelisti, con la sua immaginifica produzione editoriale, ha dimostrato di essere dentro e “parte in causa” nei conflitti sociali contemporanei. La sua figura di “scrittore compagno” è stata un incomparabile punto di incontro tra generazioni diverse di lettori e lettrici, di attiviste e militanti. La sua sensibilità, la sua ricerca, la sua creatività, la sua immaginazione non sottomessa, il suo uso del linguaggio sono stati aria pura per chi, come si scriveva un tempo sui muri, “cospirare vuol dire respirare assieme”.

Diceva un vecchio volantino del ’77: “Chi in questo paese non ha desiderato l’insurrezione, è un’anima morta che nulla ha vissuto delle passioni della storia”. Non sappiamo se il compagno So Long in quel volantino ci mise le mani, ma siamo certi che Valerio Evangelisti di quel volantino si sentiva complice.

Zic, Zero in condotta

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ADDIO CARO VALERIO, TUOI PER LA RIVOLUZIONE
Oggi saluteremo Valerio Evangelisti.
Lo faremo a Castel D’Aiano, sui monti dell’Appennino Bolognese, là dove sono sepolti i suoi genitori. Valerio rivendicava le sue radici in questi luoghi piccoli, lontani dal ritmo e dalla vita della grande città, e dai quali pure potevano nascere storie e lotte di valore universale. Così una volta mi raccontò che una parte della sua famiglia proveniva da quel ravennate di braccianti dove nascono e si sviluppano nel tempo le storie di quello che per me è il suo capolavoro letterario e politico, la trilogia de “Il Sole dell’Avvenire”. Libri che consiglio di leggere come elemento fondamentale di formazione ad ogni persona, giovane in particolare, che voglia sapere della, o meglio ancora impegnarsi nella, lotta per il socialismo.
La sua opera era contemporaneamente grande letteratura e grande formazione politica. Come Germinale di Zola, come Il Tallone di Ferro di Jack London, che divoravamo da ragazzi noi settantenni di oggi. Su Jack London e sulla rivoluzione avevamo proprio discusso con Valerio durante la pandemia. E lui aveva voluto ricordare in una diretta on line l’impegno rivoluzionario dello scrittore socialista americano, anche con le parole di una sua opera, in cui una lettera si concludeva con “ tuo per la Rivoluzione”.
Valerio possedeva la genialità di costruire e animare storie e vite di persone di fantasia e nello stesso tempo di farci riflettere sulla realtà. Questo era il suo dono, che esercitava con metodo e fatica. Già anche fatica perché scrivere era per lui anche un lavoro operaio meticoloso, fatto di ricerche e documentazioni vastissime, di cui poi solo una parte finiva nel racconto. Come la punta dell’iceberg rispetto alla enorme massa che la sostiene.
Una volta dissi a Valerio che la sua capacità di scrivere e viaggiare tra tempi, paesi, persone, mondi così diversi mi ricordava Emilio Salgari, che considero uno dei più grandi ed universali scrittori italiani. Valerio mi rispose che preferiva essere come Salgari piuttosto che come Manzoni. Gli chiesi allora perché i protagonisti di tante sue storie fossero quelli che normalmente chiamiamo “ i cattivi” a volte persino gli infami. Ed egli mi rispose che dal punto di vista dei cattivi il mondo diventava più interessante e si capiva meglio. Come Marx, che non ha scritto “Il Lavoro” ma “Il Capitale”, aggiunsi e lui scoppiò a ridere.
Ho conosciuto Valerio Evangelisti molto prima come divoratore dei suoi romanzi, quelli di Eymerich e tanti altri, e solo poi come compagno e amico. Certo ci eravamo incrociati tante volte in manifestazioni ed iniziative, ma mai davvero conosciuti.
Questo avvenne in una sera d’autunno del 2010, quando Valerio presentò a Bologna un mio libretto sulla Fiat, o meglio sull’attacco di Marchionne ai contratti e ai diritti dei lavoratori che si scatenava proprio allora, con il consenso della maggioranza dei sindacati e di tutto il sistema politico parlamentare.
Valerio subito colse il senso di passaggio epocale di quel momento, il trionfo del liberismo sfruttatore estremo sul compromesso sociale, il nuovo feroce dominio del capitale sul lavoro. E condivise e sostenne la necessità di una alteritá assoluta, sul piano morale e culturale prima ancora che su quello sindacale e politico, rispetto al sistema di cui Marchionne era esaltato e riverito propugnatore. Ecco, quella sera nacque la nostra amicizia e la nostra fraternità di compagni, che è durata fermissima fino ai suoi ultimi giorni. Nei quali, dopo la guerra di classe costante del capitale contro il lavoro, dopo le ingiustizie ed i disastri sanitari, sociali e civili della pandemia, abbiamo dovuto misurarci con la guerra vera e propria, con la sua ferocia sul campo e le sue infamie nella politica e nella società.
Ai primi di marzo Valerio ha partecipato con me ad una diretta on line di Contropiano e ancora una volta ha espresso tutta la sua capacità di indignazione morale, assieme alla sua lucidità intellettuale di rivoluzionario.
Questa sporca guerra non ha nulla a che vedere con la seconda guerra mondiale e la lotta contro il nazifascismo, ma ci rimanda alle trincee e agli orrori della prima, alla barbarie del nazionalismo e della politica di potenza, dove tutti i governanti hanno torto e nessuno, a parte i popoli che soffrono, ha davvero ragione. Valerio si è scagliato contro il misero neodannunzianesimo dei piccoli uomini che oggi rispolverano l’arditismo, il militarismo, la retorica patriottarda. Valerio ha avuto parole durissime per i governanti della NATO come per Putin.
Oggi il delitto è il pacifismo, ha detto, ma questo delitto va rivendicato, riproponendo un’antica e attualissima parola d’ordine rivoluzionaria: guerra alla guerra. E non bisogna mollare di un millimetro, ha concluso.
Valerio non era uno scrittore rivoluzionario, ma un rivoluzionario scrittore, un militante per la rivoluzione e così ha motivato la sua decisione di partecipare con passione a Potere al Popolo, mentre la malattia gli rendeva faticosissimo ogni impegno, ogni passo.
Solo questo noi oggi possiamo fare per onorarlo, non mollare di un millimetro e salutarlo come il suo Jack London: tuoi per la rivoluzione. Addio caro Valerio.
Giorgio Cremaschi
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Un altro mondo è possibile. Anzi, infiniti universi sono possibili!

Valerio, nel corso della sua vita terrena, ha avuto molte vite, quasi quanti sono i personaggi dei suoi romanzi. Storico accademico e precario, scrittore di successo, appassionato di film horror nonché regista egli stesso, militante di organizzazioni politiche, hacker, intellettuale animatore di riviste come “Progetto memoria, rivista di storia dell’antagonismo sociale” e di siti come www.carmillaonline.com, partecipante al movimento del 77, animatore di solidarietà internazionalista col Nicaragua. Tutto questo, e tanto altro, è stato Valerio. Per ciò che ci riguarda più da vicino, è stato tra i fondatori dell’Archivio “Marco Pezzi”, nonché suo presidente. Quando, all’inizio degli anni novanta, costituimmo l’archivio “Marco Pezzi”, Valerio fu tra il gruppetto di persone che ne fece parte fin dall’inizio. Anzi, nell’atto costitutivo fu indicato come presidente. Era sembrata una scelta ovvia e naturale. Era quello che più aveva a che fare con la storia, per i suoi trascorsi accademici ed in quanto direttore di “Progetto memoria”, che non a caso aveva come sottotitolo “rivista di storia dell’antagonismo sociale”. Anzi, da quel momento “Progetto memoria” divenne l’organo dell’Archivio. L’Archivio “Marco Pezzi” ha sempre avuto un’esistenza poco incline alle formalità burocratiche. Non abbiamo mai avuto tesseramento e quote associative. Ha sempre fatto parte dell’Archivio chi in qualche modo ha partecipato alle nostre attività. Le cariche sociali le abbiamo avute per quel poco che era necessario per la gestione amministrativa. E così, Valerio è stato il nostro primo e unico presidente. Prima di conoscerlo personalmente, ero diventato un lettore di “Progetto memoria”, che compravo alla libreria Feltrinelli, quando vendeva anche riviste. Molti articoli mi avevano colpito. Per un semplice motivo: mi disvelavano cosa succedeva nel mondo. Nell’economia internazionale, nei rapporti tra stati, tra classi sociali, perché ci sono i serial killer negli Stati uniti o mi permettevano di capire meglio eventi a cui pure avevo partecipato, come il movimento della “Pantera”. Molti di quegli articoli li aveva scritti Valerio. Dopo averli letti d’un fiato, e poi riletti, pensavo “Ah però, questo Valerio Evangelisti, com’è lucido, com’è chiaro, apre la mente!”. E poi, l’ho conosciuto e frequentato con una certa assiduità per alcuni anni, più di rado negli ultimi anni. Le frequentazioni erano originate dalla comune partecipazione all’Archivio. Ma spesso si risolvevano in incontri di un gruppetto di persone, o a volte anche solo noi due, per delle chiacchiere in libertà davanti a una birra. Anzi, davanti a molte birre, per quel che riguarda Valerio. Erano belle le riunioni che facevamo con Valerio in qualche osteria. Erano belle perché, sia quando si parlava di questioni seriose o facete, Valerio riusciva sempre ad avere la capacità di andare al fondo delle cose, che già avevo conosciuto leggendo i suoi articoli. Questa capacità di analisi, di una logica acuta come una lama, l’ho sempre ammirata. L’ha avuta non solo sulle questioni sociali e politiche, ma anche capacità di autoanalisi sulle questioni personali: con Day Hospital è riuscito a mettere a nudo sé stesso davanti alla malattia. Credo che Valerio abbia avuto la grande capacità di raccontare storie. Non mi riferisco solo ai suoi romanzi. Un romanzo era per lui un saggio scritto in altra forma. Non c’era, credo, differenza sostanziale tra narrativa e saggistica, tra letteratura di evasione e impegnata. Con entrambe, riusciva a colpire il lettore. La capacità di raccontare storie è una delle grandi qualità degli esseri umani. Nel bene e nel male. Dipende da chi le racconta e per quali motivi, e quali sono le conseguenze sulle persone che leggono e ascoltano quelle storie. L’obiettivo di Valerio era chiaro. Un mondo diverso. Per questo aveva creato i suoi mondi immaginari. Ciao Valerio.

Fabrizio Billi

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La notte della Repubblica https://www.carmillaonline.com/2021/12/13/la-notte-della-repubblica/ Mon, 13 Dec 2021 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69633 di Giovanni Iozzoli

A che punto della notte siamo? Nell’oscurità più nera e fredda, che precede l’alba livida? O solo nel mezzo di un buio fitto, denso, che pare eterno: il buio come nuovo presente, nuova forma delle cose.

Sono quasi due anni che questo paese vive dentro uno stato d’emergenza formalmente dichiarato e le forze di governo stanno dibattendo sull’eventualità di una ulteriore proroga – dibattito che si intreccia con quello sulla elezione del nuovo presidente della repubblica. Lo stato d’emergenza è il liquido amniotico dentro cui qualsiasi governo ama sguazzare; in [...]]]> di Giovanni Iozzoli

A che punto della notte siamo? Nell’oscurità più nera e fredda, che precede l’alba livida? O solo nel mezzo di un buio fitto, denso, che pare eterno: il buio come nuovo presente, nuova forma delle cose.

Sono quasi due anni che questo paese vive dentro uno stato d’emergenza formalmente dichiarato e le forze di governo stanno dibattendo sull’eventualità di una ulteriore proroga – dibattito che si intreccia con quello sulla elezione del nuovo presidente della repubblica. Lo stato d’emergenza è il liquido amniotico dentro cui qualsiasi governo ama sguazzare; in quella beatifica condizione il consenso parlamentare si addensa compatto intorno agli esecutivi; si possono finalmente bypassare leggi, procedure e persino principi costituzionali, mediante semplici strumenti amministrativi. Tutto può essere deciso, tutto può essere ratificato senza lungaggini, seccature e inutili finzioni di dibattito. Chi aveva mai sentito parlare dei DPCM, prima di Conte? Eppure mediante questo tipo di atti si sono proclamati mesi di coprifuoco, come in tempo di guerra. Per non parlare di appalti e affidamenti di servizi – che in epoca di PNRR rappresentano l’unica e ultima ragion d’essere degli ectoplasmi affaristici che i tg ancora definiscono “partiti”. Lo stato d’emergenza poi – ça va sans dire – è l’ideale modello di gestione di ogni conflitto sociale o opposizione reale: manganelli mediatici e manganelli reali diventano dispositivi legittimi, coerenti e funzionali, contro cui pochissimi osano protestare.

Sabato 11 dicembre – alla vigilia dell’anniversario di piazza Fontana – Milano ha celebrato il suo primo week end senza manifestazioni in centro; bottegai e cultori accaniti dello shopping, il giorno dopo hanno esultato a mezzo stampa: per 20 settimane di fila avevano dovuto subire l’invasione di torme indocili, spesso giovanili e periferiche, poco coordinate ma creative e parecchio tenaci. I sabati milanesi hanno sorpreso tutti, osservatori e questurini, per tre mesi buoni. I no Green Pass arrivavano a frotte, all’improvviso, invadendo gli spazi sacri del commercio, le agorà dell’apericena e della boutique, come a mettere in discussione la finta normalizzazione inscenata dai media. I giornali, il giorno dopo, hanno attribuito lo sgonfiamento della protesta “all’azione tempestiva delle forze di polizia che la settimana prima avevano spento sul nascere ogni focolaio di manifestazione, identificando decine di persone e comminando denunce e sanzioni”. Se qualche smemorato non ha capito cosa significhi vivere nello stato d’emergenza, ritagli queste due righe e se le attacchi alla tastiera del suo pc: stavolta non sono gli sbirri robocop dei cattivoni Putin o Erdogan a “spegnere sul nascere i focolai”; stavolta avviene tutto sotto i nostri occhi, su circolare del Ministro Lamorgese e pubblico plauso mediatico.

Giovedi 16 dicembre la CGIL ha proclamato uno sciopero generale, che avviene nella modalità più tardiva, contorta e implausibile, della storia sindacale italiana. Uno sciopero senza piattaforma, alla vigilia delle festività natalizie, in cui il segretario della Cgil, più che un leader sindacale in lotta, somiglia a un pugile suonato, che per le troppe botte prese dimentica l’angolo di ring dove andare a sedersi. Attraverso le interviste, il povero Landini prova a surrogare la mancanza di uno straccio di dibattito interno alla sua Confederazione. E più parla più si incarta, il segretario – ora aprendo ora chiudendo a Draghi, che come un basilisco sembra ipnotizzarlo – demoralizzando e confondendo quelli che gli scioperi li devono concretamente organizzare nelle fabbriche.

Giovedi si sciopererà provando ad esibire un certificato di esistenza in vita. Si sciopererà alla disperata, senza progetto, senza la benché minima velleità di impiantare una campagna di lungo periodo sui due o tre temi sui quali sarebbe urgente e necessario. Si sciopererà dopo essersi autocastrati, con tutte le complicate trafile e proibizioni che impediranno a milioni di lavoratori giudicati essenziali (che smettono di essere essenziali il giorno 10 di ogni mese, a guardare la loro busta paga), di esercitare il loro diritto costituzionale all’astensione dal lavoro. Si sciopererà mentre i dati, impietosi, confermano il disastro in termini distribuzione della ricchezza e di forza salariale e contrattuale delle classi lavoratrici italiane, epilogo di un ciclo lunghissimo di concertazione, sfociato nella stagione della disintermediazione finale.

Nessuno ai piani alti ha più bisogno di “grandi sindacati nazionali” – neanche nella versione più moderata e responsabile: non c’è nessun patto sociale dietro l’angolo, nessuna contrattazione sociale o politica dei redditi da inventare; il salario, la giornata lavorativa, il rapporto produzione/riproduzione, tutto è ormai irrimediabilmente destrutturato. Anche la reazione all’annuncio dello sciopero, è stata tutt’altro che veemente: volete scioperare? Fate pure, chi se ne frega, ormai i buoi sono usciti dalla stalla e la rappresentatività sociale vi è scappata tra le dita.

In Cgil sanno che la realtà è questa, non stanno a raccontarsi frottole o rievocare mitologie. Lo scopo di tutto è la sopravvivenza, giorno per giorno, senza respiro o lettura di lungo periodo della società italiana. L’unico obiettivo praticabile è tirare su la saracinesca ogni mattina e giustificare l’esistenza di questo complicato baraccone, agli occhi dei sempre più disillusi finanziatori. Se lo sciopero serve a guadagnare un po’ di tempo e un brandello di credibilità, allora si sciopera e si sposta la notte un pò più in là. Rientrare ai tavoli di sottogoverno è sempre possibile, specie se non li hai mai davvero rotti. Tanto è già tutto deciso e un qualche strapuntino consultivo, si trova sempre, per i vecchi amici.

Alla fine però gli scioperi è meglio farli: tutti, sempre. Perché lo sciopero appartiene ai lavoratori, non a chi lo proclama. E sempre, nella storia, la classe operaia ha utilizzato quello che ha trovato – gli strumenti e gli spazi disponibili, anche quelli improbabili o scalcagnati o sconfitti. I lavoratori non hanno problemi di tessere o affiliazioni, usano quello che c’è. E se esiste una sola speranza che i malesseri incistati nel corpo sociale si incontrino e si parlino, ebbene questo può avvenire solo dentro la cornice di uno sciopero generale. Gli scioperi si fanno: di base e non di base, e ci si sta dentro e si prova a scorgere le scintille potenziali che, anche sotto le polveri bagnate, possono diventare incendio e luce.

Alla CGIL saranno preclusi i tradizionali cortei in centro, nelle diverse città in cui concentrerà le sue iniziative – esattamente com’è stato per i movimenti del sabato pomeriggio. Perché è chiaro che le direttive del Viminale non guardano in faccia a nessuno, sono pacificatrici ed emergenziali a prescindere. La domanda che invece potremmo porci è: sociologicamente, le due piazze – quelle anti GP e quelle sindacali – avranno punti di sovrapposizione o di intersezione? O fingiamo che siano due mondi incomunicanti, come se la società fosse un dispositivo a compartimenti stagni? E’ una domanda complicata, che richiederebbe più piani di ragionamento; per rispondere ci vorrebbe la famosa “ricerca sul campo”, quella che in pochissimi, in questi mesi, hanno cercato di fare (vedi Andrea Olivieri con i suoi preziosi reportages da Trieste), perché costa fatica, produce dubbi e impone un continuo rimettersi in gioco.

Altra domanda che bisognerebbe porsi è: stante la sconfitta del movimento no-green pass, nonostante una durata e una estensione sociale non irrisoria, di quel magma popolare cosa resterà nei prossimi mesi? Rifluirà nei mille rivoli dell’individualismo liquido, della disperazione metropolitana, nelle insignificanti sette millenaristiche? La difficoltà delle analisi politiche, non riguardano solo la fotografia del presente. Nelle settimane successive all’8 dicembre del 2014, in pochi si presero la briga di capire che fine avessero fatto i “forconi” sedicenti antisistema: eppure non erano scomparsi, avevano assunto un dinamismo carsico, comparendo e scomparendo, nelle viscere della crisi italiana, fino a contribuire al trionfo “populista” del 2018, inaspettato nelle dimensioni e negli esiti.

Quello che è certo è che in moltissimi territori si sono addensate isole chiuse di livore, paranoia e motivata indignazione; sono vere comunità in nuce, aggregatesi più che su una visione di qualche genere, sulla base di un rifiuto – anche qua sistemico, non più riconducibile alle sole scelte individuali, con numeri amplificati dall’uso delle reti, in cui piazze reali e virtuali si inseguono e si legittimano a vicenda. In piccole città come Modena o Reggio, questi segmenti sociali hanno coinvolto migliaia di persone, spesso interi nuclei familiari. La totale incapacità di darsi e dare un senso, un progetto, una direzione di marcia ed un’autorevolezza non complottista o disperante a questa movimentazione, non deve portare a sottostimarla. Va indagata, per non trovarci nella condizione di assistere all’emersione di nuovi attori politico-sociali che si agglutinano e si propongono come novità accattivante e “anti-politica”, magari offrendo prospettiva e rappresentanza anche dentro i bacini storici dei movimenti (vedi il rapporto maturato negli anni scorsi tra 5 Stelle e la Val di Susa).

I movimenti no green pass sono una cosa troppo incasinata, inafferrabile e contraddittoria, al momento, per tradursi in un qualche progetto politico futuro. Ma, forse, con questa modalità compulsiva, isterica e iperspontanea delle dinamiche sociali, dovremo imparare a misurarci, più che tapparci in casa sperando che passi presto. Forse questa sarà la forma schizoide dei nuovi conflitti (per chi ha buona memoria e qualche copia di Metropoli in soffitta, se ne dibatteva già quarant’anni fa, quando eravamo meno choosy, più vivi, arditi e curiosi). Del resto anche i gilet gialli – espressione politicamente ben più matura e corposa – non sembra abbiano partorito grandi prospettive politiche; e il loro esordio, per chi lo ricorda, fu anche bollato da una sinistra eternamente diffidente, come ambiguo e pericoloso: è stato solo grazie ad una battaglia politica interna combattuta da avanguardie coraggiose – compreso l’incontro di piazza con la CGT, mediato dai delegati di fabbrica –, a permettere una evoluzione compiutamente antiliberista dei GJ, depurando il movimento dalle scorie destrorse e dandogli il profilo che oggi viene riconosciuto a quell’esperienza.

Quindi, queste isole livorose nate dal contrasto al GP come finiranno? Si sfrangeranno e si spacchetteranno ulteriormente al seguito di improbabili profeti da tastiera, per i quali l’eterno reset capitalistico è più o meno un complotto? Gonfieranno i gruppuscoli di micro destra che hanno trovato campo libero, in quelle piazze? Proviamo a interrogarci. Alla fine quel magma sociale sta esprimendo una criticità forte verso l’ordine presente delle cose, seppur nella modalità confusissima dei tempi presenti; è in massima parte formato e agitato da ceti piccolo borghesi urbani spaventati, impoveriti dalla crisi e atterriti dalle ombre fosche e potenti del comando, con il quale hanno impattato per la prima volta nella loro vita. In questi mesi, a partire dal trattamento sanitario obbligatorio surrettiziamente imposto e dallo sfregio alla Costituzione, hanno maturato una confusa attitudine alla messa in discussione di equilibri generali che sentono ingiusti e pericolosi. Si pongono domande sull’economia mondo, sulle spirali di crisi in cui sentono di essere avvolti; dal vaccino passano a interrogarsi sui costi del caro energia, sulle delocalizzazioni, sui posti di lavoro che per molti quaranta/cinquantenni scompariranno nei prossimi due o tre anni; e cercano risposte in luoghi improbabili, sbattendo come pesci da una chat all’altra, da una piazza all’altra, in mancanza di interlocutori autorevoli e credibili.

E le migliaia di persone che invece scenderanno in piazza con la CGIL il 16 dicembre, che figura sociale incarnano? Saranno meno confusi, con riferimenti più saldi, parole d’ordine più chiare e interessi più delineati, rispetto a quelli delle “altre piazze”? O si tratta del medesimo esercito di naufraghi che, affondate le navi della modernità – partiti, sindacati, patti sociali – annaspano nelle acque limacciose, cercando un relitto, un approdo, uno scoglio a cui attaccarsi? Quelle piazze le consideriamo irriducibili le une alle altre, solo perché così è più facile per noi orientarci?

Intanto ricordiamoci che siamo tutti dentro un maledetto stato di emergenza – la vera notte della Repubblica – e che tra un po’ di anni forse dovremo rendere conto alle generazioni future, del silenzio complice e della cristiana rassegnazione, con cui stiamo accettando tutto questo come condizione naturale e necessaria.

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La classe operaia va all’inferno https://www.carmillaonline.com/2021/10/03/la-classe-operaia-va-allinferno/ Sat, 02 Oct 2021 23:21:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68529 di Francisco Soriano

“La classe operaia non esiste più”: è questa la retorica e la menzogna che sembra aver ottenuto il risultato tanto agognato, cioè quello di pietrificare una falsità con la sua ossessiva ripetizione traducendola finalmente in una verità inconfutabile.

Intanto basterebbe farsi qualche domanda o interpellare qualche statistica, in merito al fenomeno delle “uccisioni sul lavoro” e non sempre e solo per sbandierare i numeri dei prodotti interni lordi o le indicizzazioni delle operazioni borsistiche per ostentare risultati o terrorizzare con paure indiscriminate le persone. Negli ultimi sei mesi sono [...]]]> di Francisco Soriano

“La classe operaia non esiste più”: è questa la retorica e la menzogna che sembra aver ottenuto il risultato tanto agognato, cioè quello di pietrificare una falsità con la sua ossessiva ripetizione traducendola finalmente in una verità inconfutabile.

Intanto basterebbe farsi qualche domanda o interpellare qualche statistica, in merito al fenomeno delle “uccisioni sul lavoro” e non sempre e solo per sbandierare i numeri dei prodotti interni lordi o le indicizzazioni delle operazioni borsistiche per ostentare risultati o terrorizzare con paure indiscriminate le persone. Negli ultimi sei mesi sono morte 561 operaie e operai sul lavoro. Basta confermare questo dato tragico e disumano per sostenere che la classe operaia esiste ancora?

Molto spesso ci tocca assistere, con la ferma denuncia di questa mattanza, al fastidio e all’alzata di spalle dei sacerdoti del neoliberismo, di coloro i quali appartengono a questa florida categoria di mistificatori, per vocazione e per interesse: gli sfruttatori.

Gli sfruttatori, tanto per rimanere nell’ambito semantico del termine, fanno semplicemente parte della categoria di coloro che, per costruirsi condizioni di dominio, prestigio e beneficio, utilizzano altre persone al fine di vedere realizzati i propri sogni di benessere. Altre questioni e domande potrebbero porsi, con un minimo di emozione e di risentimento, laddove ci sentissimo in dovere di chiedere se la schiavitù sia stata abolita o, almeno, se qualcosa sia stato pensato affinché questa orribile pratica possa essere definitivamente debellata. Non abbiamo una risposta definitiva ma possiamo ritenere che la democrazia è un bell’evento, una tavola imbandita con il bianco candore di bei tessuti, magari con ricami in bella mostra, pietanze strepitose e posate messe al punto giusto, ma altro non è se non vuoto, ipocrisia, tradimento. È proprio tutto questo e anche molto peggio se, in queste condizioni, persone muoiono schiacciate o stritolate o asfissiate dalle macchine: anche queste ultime non esisterebbero più, così magistralmente sostituite da mezzi di automazione indolori e in armonia con il creato.

Così tanto per elencarne “qualcuno”, gli ultimi di una lunga lista delle ultime settimane di persone morte (il termine “morte” non è quello giusto e ha un significato fuorviante), di operaie e operai mentre svolgevano la loro attività lavorativa: Salvatore Rabbito, schiacciato da una ruspa in retromarcia mentre stava contribuendo alla realizzazione della “Tibre”, la bretella che collega Parma e La Spezia con l’autostrada del Brennero; Layla El Harim, tagliuzzata da una fustellatrice nell’azienda Bombonette di Camposanto, a Modena; Luana D’Orazio, uccisa all’orditoio schiacciata mentre era intenta a lavorare a Oste di Montemurlo, in provincia di Prato; Bujar Hysa, schiacciato da un coil d’acciaio, lavoratore per conto di una ditta esterna nello stabilimento Marcegaglia, a Ravenna; Alessandro Brigo e Andrea Lusini, morti per asfissia in una vasca di un’azienda che produce mangimi, la DI.GI.MA di Villanterio, in provincia di Pavia. Un uomo d 36 anni di cui non si conoscono ancora le generalità è deceduto dopo essere precipitato da un’altezza di 8 metri in un’azienda di San paolo d’Argon, in provincia di Bergamo, metri all’interno della Toora Casting di via Mazzini, che produce componenti d’alluminio per auto. A San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia, un operaio di 47 anni è morto dopo essere stato schiacciato da una lastra di calcestruzzo all’interno del cantiere in cui stava lavorando. Il diciottenne Simone Valli è precipitato ed è morto in un canalone, guardiacaccia neoassunto che risiedeva a Teglio con il padre Giacomo, operaio della Secam e sua madre Cecilia. I dati 2021 dell’Inail ci dicono che sono rimasti uccisi 185 persone sul lavoro in soli 3 mesi, una media di 2 morti al giorno. I numeri dei decessi di questi mesi raggiungono un altro primato: + 9,4% rispetto allo stesso periodo del 2020. Anche questi numeri sono drammaticamente reali.

La realtà ci consegna queste tristi cifre e impone di riflettere su una verità inconfutabile: le operaie e gli operai esistono. Inoltre se si guarda con onestà alla “proletarizzazione” di intere categorie di lavoratori, si percepisce quanto nel mondo del lavoro gli “operai” siano aumentati di numero: è così per gli insegnanti che percepiscono poco più di 1.300 euro al mese, o le centraliniste dei call-center, le badanti e gli operatori ecologici e sanitari, le ragazze e ragazzi in maggior numero pakistani, iraniani e bengalesi che, con i volti stravolti e digrignanti, si trascinano su biciclette al limite della sopportazione umana prodigandosi nella consegna di pasti a domicilio.

In Italia e in Occidente, fieri portatori dell’idea illuministica dell’uguaglianza e della solidarietà, tradita prestissimo sull’altare del suo vero messaggio che era quello di costruire un capitalismo e liberismo basato sullo sfruttamento, esistono forme di schiavitù raccapriccianti, ripugnanti e disumane.  La schiavitù esiste, non bisognerà arrossire. Gli schiavi sono esseri umani, donne e uomini che in una orribile scala di valori di tipo economico e sociale risiedono nella parte più bassa e dimenticata della società: un esempio emblematico è rappresentato dai raccoglitori di pomodori. Il nome dell’ultimo ucciso da un lavoro disumano prodotto da un sistema schiavistico, sotto il sole pugliese, per più di dieci ore al giorno e per pochi euro all’ora, era Camara Fantamadi: è successo a Tuturano, in provincia di Brindisi. Camara è morto di stenti, stroncato da un infarto sulla sua bicicletta di ritorno a casa. Quest’uomo ha pagato profumatamente i suoi aguzzini in Libia che, dopo torture e prigionie, lo hanno condotto in una terra promessa dove di vero c’erano solo le sue braccia e il lavoro che lo hanno ucciso per pochi euro. Ci sono ancora i baroni, i latifondisti, i caporali e la schiavitù.  Questa non è retorica perché i responsabili del suo decesso sono altri uomini che della sua morte non provano alcuna commiserazione. Questa è schiavitù, senza forme lessicali edulcorate e senza interpretazioni determinate dal misterioso disegno del destino.

Per la cronaca bisognerà ricordare l’evento lacrimale della ministra delle politiche agricole dello scorso governo “Renzi”, Teresa Bellanova, impegnata (così sostenne pubblicamente), in una estenuante trattativa con l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, al fine di raggiungere un’intesa per una “sanatoria” dei migranti giunti in Italia soprattutto dal continente africano. Peccato che lo stesso ministro leghista ebbe a dire che: «Mi sono accorto che i passaggi fondamentali della nuova sanatoria (o come recita il decreto della “emersione dei rapporti di lavoro”) sono stati presi paro paro da un altro decreto, fatto nel 2009 dal governo Berlusconi: il DL 78/09 convertito nella legge 3 agosto 2009 n.102, meglio conosciuto come la “Bossi-Fini”». Bisogna pertanto ricordare che, in realtà, il decreto approvato fra accese polemiche nel 2009, durante il Governo Berlusconi, consentì a settecentomila irregolari di diventare successivamente cittadini italiani. È proprio su questo piano che Roberto Maroni ha enucleato i punti salienti dell’attuale decreto e li ha sovrapposti a quelli del suo governo di centro-destra. Sul punto riguardante la regolamentazione degli esclusi dalla sanatoria, Maroni ha sottolineato che la ministra Teresa Bellanova ha redatto una norma molto più restrittiva dei provvedimenti intrapresi negli anni del berlusconismo. Infatti, il dispositivo dell’esecutivo Berlusconi così recitava: «Non possono essere ammessi alla procedura di emersione i lavoratori extracomunitari nei cui confronti sia stato emesso un provvedimento di espulsione, che risultino segnalati o che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva per certi reati.» Nel Decreto Rilancio invece, ci faceva notare Maroni, si afferma che non possono essere ammessi alla sanatoria «i cittadini stranieri nei cui confronti sia stato emesso un provvedimento di espulsione, che risultino segnalati o che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva per gli stessi reati». Il Decreto Rilancio aggiunge altri reati che il governo Berlusconi non aveva previsto: quelli inerenti gli stupefacenti. E, in più, inserisce anche un’altra clausola molto emblematica, che non è sfuggita allo stesso Maroni: «Sono esclusi i cittadini stranieri che comunque siano considerati una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. […] Noi non ci avevamo pensato, la Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese sì. Brava Ministra, meriti un applauso! Come è possibile contestarlo, quindi? Semmai dovremmo chiedere le royalties sul testo». La sanatoria non ha funzionato perché Teresa Bellanova prevedeva nella sua legge di farsi pagare profumatamente la sanatoria in 500 euro agli sfruttati e non ai datori di lavoro. L’esclusione dalla sanatoria di quei cittadini stranieri che rappresenterebbero una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato denota anche il grado di cinismo nella ricerca di consensi e nella consapevolezza di alimentare paure xenofobe.

La schiavitù e i campi dove vengono ospitati gli schiavi esistono. Le città invisibili degli schiavi del nuovo secolo, almeno in Italia, sono zone che appaiono sospese dal resto del mondo in cui le abitazioni vengono costruite con pareti di lamiera, cartoni e materiali di risulta come lo è stato per anni in quell’inferno che viene chiamato senza mezzi termini il “Grande Ghetto dei campi di San Severo, Rignano Garganico e Foggia” (il comune di quest’ultima città è stato commissariato per mafia): immagine di uno schiavismo eufemisticamente definito come nuovo, ma in realtà per nulla mutato nel tempo. Fra smantellamenti e rinascite, i ghetti si rimodulano secondo le necessità dei padroni, più che città fantasma (anche questo ci pare un eufemismo), sono realtà e spazi al limite dell’umana sopportabilità in termini di vivibilità. In questi luoghi della sofferenza, si guadagnano 3,50 euro a cassonetto, si pagano 40 euro per dormire in una baracca per l’intera stagione, l’elettricità è solo quella prodotta dai generatori alimentati a benzina e la ricarica della batteria del cellulare costa 50 centesimi al bar della favela. Lo spaccio e la prostituzione sono chiaramente abbastanza distribuiti nei campi dove la sofferenza umana viene ben occultata anche dai media. L’acqua potabile è un lusso, perché quella non potabile giunge direttamente dall’acquedotto per lavare i piatti e farsi la doccia, mentre l’acqua che viene portata in grosse cisterne dalla Regione sembra essere più sicura: tuttavia nel periodo estivo è sempre insufficiente al fabbisogno di tutti, tanto che bisogna riscaldarla in grossi bidoni per evitare il propagarsi di malattie. Cinquanta centesimi vengono pagati per un secchio d’acqua non potabile.

Alla luce di quanto scritto è chiaro che le lacrime amare, da quei giorni a oggi, le hanno versate i migranti, come era previsto e come era stato smascherato: l’articolo 110 bis del Decreto Rilancio, che vorrebbe consentire l’emersione dei rapporti di lavoro di sfruttati e clandestini, è l’ennesimo tentativo di far passare una sanatoria, strumentale al mero profitto, come un atto di grande valore etico e politico. Lo stesso governo Renzi fu, in seguito, protagonista di un altro spettacolare atto di mistificazione: per cancellare ancora le “fastidiose tutele” dello Statuto dei Lavoratori si inventò le “tutele crescenti”, che in un’ottica di liberismo come quello attuale è semplicemente una tragica presa in giro. Su quanto fatto dai governi per lo smantellamento dei diritti dei lavoratori sarebbero necessarie molte pagine dolorosissime e drammatiche.

In Italia la classe operaia esiste. Esistono lavoratrici e lavoratori che muoiono sul lavoro. Esiste una forma di schiavismo molto funzionale al sistema economico che si adotta: è composta da donne e uomini, in maggior numero migranti stranieri che non sono sedentari e si spostano sulle rotte del fabbisogno degli sfruttatori, dalla Sicilia, alla Lombardia, passando per la Campania fino alle strepitose spiagge delle nostre vacanze nel Nord opulento e rispettoso delle regole. Una vergogna e una disumanità.

Allora diamo il significato reale alle parole, alle persone, alle cose, ai fatti e agli atti. Sfruttare un uomo è eticamente ripugnante, lasciarlo morire da sfruttato è un crimine senza appello. Si chiama omicidio

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Intervista a un sorcio / codardo / bamboccione / fascista etc (*) https://www.carmillaonline.com/2021/07/31/intervista-a-un-sorcio-codardo-bamboccione-fascista-etc/ Sat, 31 Jul 2021 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67443 di Giovanni Iozzoli

– Allora, tu sei uno dei milioni di italiani “renitenti al vaccino”. Cosa hai da dire a tua discolpa?

Innanzitutto, quegli italiani non mi sembra rappresentino una “categoria”. Si tratta di un aggregato informe, di massa, trasversale, interclassista, composto dalle persone più diverse e dalle motivazioni più varie. Io di no vax militanti non ne conosco neanche uno. Il più delle volte stiamo parlando di persone normali che stanno cercando solo di prendere tempo, capire il da farsi – un atteggiamento prudente, umano, quasi mai sbandierato. Io non sono mai [...]]]> di Giovanni Iozzoli

– Allora, tu sei uno dei milioni di italiani “renitenti al vaccino”. Cosa hai da dire a tua discolpa?

Innanzitutto, quegli italiani non mi sembra rappresentino una “categoria”. Si tratta di un aggregato informe, di massa, trasversale, interclassista, composto dalle persone più diverse e dalle motivazioni più varie. Io di no vax militanti non ne conosco neanche uno. Il più delle volte stiamo parlando di persone normali che stanno cercando solo di prendere tempo, capire il da farsi – un atteggiamento prudente, umano, quasi mai sbandierato. Io non sono mai andato nelle piazze no vax, non è il mio contesto o il mio lessico, ammetto che sarei a disagio.

– Pensi di meritare gli insulti quotidiani che da settimane arrivano addosso a quelli come te?

Milito da sempre in campi minoritari, sono quindi abituato a sentirmi minoranza. Certo, in questo caso il coro dello stigma, del dileggio, è a reti unificate; una voce compatta che parte dai vertici istituzionali, dal CTS, dagli editorialoni, dai programmi Tv, fino ad arrivare alle mezze calzette delle redazioni, ai nani, alle ballerine, ai cantanti, che pur di esserci metterebbero la faccia su qualsiasi campagna di Stato, anche la meno commendevole. Stupisce e addolora l’epiteto di “fascisti” che arriva dal “mio” campo. Chiaro che accetto ogni critica e ogni dialogo, ma se qualcuno mi dà del fascista gli allungo un cazzotto e amen. Comunque si, vedere compagni, riviste, siti e testate varie, tutte allineate al flusso di opinione mainstream, fa un po’ tristezza. Da l’idea di una sinistra smarrita, totalmente incapace di costruire un punto di vista alternativo sulle cose, sui processi, ancorata ad una internità alle logiche sistemiche, da criticare perchè “non fanno abbastanza” o non lo fanno come vorremmo noi, ma  senza mai arrivare al nucleo della faccenda, al “cosa stanno facendo”, ad una visione e un punto di vista alternativo, radicalmente autonomo dalla governance. E’ questo  proprio un segno dei tempi – l’epoca delle passioni tristi ma anche delle “elaborazioni tristi”…

– Ma non ti senti un irresponsabile?

Guarda che questa è una strategia ben collaudata, in un anno e mezzo di epidemia. Spostare le responsabilità sul piano dei comportamenti individuali – cioè su di noi -, aggirando i grandi nodi sistemici. Ci ricordiamo quelli che insultavano i runners? Ecco, sono gli stessi che insultano oggi i renitenti al vaccino. Figli di un clima irrazionale alimentato ad arte. E’ comodo per il potere rovesciarci addosso le questioni che non riesce ad affrontare, scavallare dalle responsabilità delle classi dirigenti a quelle dell'”individuo irresponsabile che non si vaccina”. Del resto il tema vaccini ha ridisegnato l’agenda delle priorità, cancellando del tutto la questione essenziale della riforma della sanità pubblica: vi ricordate – ripubblicizzare, territorializzare, assumere – chi ne parla più? Il tema sanità si è ridotto ad un generale in divisa che somministra vaccini. E anche la questione scuola-aule-trasporti: tutto rimosso, basta vaccinare personale e ragazzini e ogni cosa può proseguire come prima. L’elisir magico di Figliuolo oscura e si mangia tutti gli altri problemi. Una bella fortuna per quelli che comandano

– Ma nella cultura della sinistra, la responsabilità collettiva non deve prevalere su quella dell’individuo?

E’ un tema che si porrebbe se si trattasse di un vaccino che “arresta” la circolazione del contagio; in quel caso si potrebbe impostare una questione etica generale: ma ormai nessuno sostiene più questa ipotesi. Il guru Fauci è stato chiarissimo in materia: vaccinati e non vaccinati possono diffondere il virus allo stesso modo. I vaccinati si infettano e, in una certa percentuale, si ammalano anche. Quindi vaccinandoti fai una scelta di protezione individuale per te stesso. Lo dimostrano i tassi di circolazione in Inghilterra o Israele, i paesi più vaccinati del mondo.

– Ma quei paesi dimostrano che il vaccino funziona, i decessi sono pochissimi

Me lo auguro di cuore, magari mi convincerò a farlo anch’io. Però noto che lo story-telling è cambiato: il vaccino non ci “preserva dal virus” ma semplicemente “ci evita di finire in terapia intensiva”. Un legittimo ridimensionamento delle aspettative, che però conferma quanto dicevo: vaccinandoti al massimo preservi te stesso.

– E voi? Non vi volete preservare?

Certo ma questo movente appartiene proprio alla sfera delle scelte individuali, la famosa analisi rischi/ benefici che non è una prassi esoterica, ma quello che normalmente facciamo nelle scelte della nostra vita – prendere la patente o aprire un mutuo. Se il vaccino difende me, devo scegliere io se vaccinarmi o meno, in piena autonomia, come per tutti i trattamenti medici.  Ad esempio l’analisi rischi/benefici sul vaccino che farà un 80enne, sarà diversa da quella di un 20enne; dei bambini, poi, è meglio non parlarne, perché là entriamo nel campo dell’irrazionale – e speriamo nella sempre invocata responsabilità genitoriale…

-Però se ti ammali, perché hai rifiutato il vaccino, sulla società ricadono dei costi, a causa delle tue scelte.

Ma questo vale per tutti gli “stili di vita”. Le cause principali di morte sono di natura cardiovascolare: che facciamo, puniamo chi si alimenta male o chi non fa sport? Tutto scivolerebbe sul piano di uno Stato etico, retto di scienziati/sacerdoti, che prescrivono il giusto modo di vivere e declassano socialmente chi non si adegua. Le sigarette fanno più morti del covid, ma si vendono nel tabacchino sotto casa; obblighiamo la gente a seguire le terapie antifumo?

– Quindi tu non sei ostile al vaccino.

No, non ne ho neanche le competenze (tra l’altro molti sostengono che in questo caso sia anche improprio parlare di vaccini, per le caratteristiche proprie del trattamento). Io voglio solo applicare principi di prudenza e precauzione (primo: non nuocere) alla mia vita. Non mi aggrego a nessun esercito. E mi sento libero di cambiare opinione, quando lo riterrò necessario. In autunno si capiranno molte più cose (anche l’estate scorsa le terapie intensive erano vuote). E’ così folle, irresponsabile e antiscientifico, voler prendere un pò di tempo e valutare? Vorrei decidere senza avere una pistola puntata alla testa e senza essere esposto al pubblico ludibrio da un esercito di comunicatori-marchettari che hanno più o meno le mie stesse competenze. Se c’è da vaccinarsi, si farà e amen. Ma sarà una scelta mia, non certo perché me lo dice Draghi (uno dei killer che uccisero la Grecia solo 6 anni fa, un tizio pericoloso e oscuro a cui non affiderei neanche la cura di un mio capello). Se lo farò, sarà per mia decisione, non perché mi impediscono di sedermi al bar. Questi mezzucci ritorsivi sono squallidi, specie se usati contro i ragazzi giovani, sul terreno che li tocca di più, quello della socialità. Gli happening-vaccinali dei giovanissimi nel Lazio, mi sembravano una deliberata pazzia, essa si sintomo di totale irresponsabilità.

– Ma cosa doveva fare il governo, imporre il vaccino per legge?

Sarebbe stato più onesto e trasparente, avere il coraggio di imporre l’obbligo vaccinale. Perché non l’hanno fatto? Perché c’è sempre questa benedetta Costituzione che ostacola i piani dei nostri lungimiranti esecutivi? Perché non avevano il coraggio di aprire una battaglia culturale nel paese – meglio la lavagna dei buoni e dei cattivi? O perché in caso di futuri danni collaterali (Dio non voglia) le responsabilità pubbliche sarebbero enormi e incalcolabili, in presenza di una vaccinazione obbligatoria?

– Ma perchè essere così diffidenti sui vaccini? Nelle nostre scelte di vita ci affidiamo sempre agli “specialisti”. Perchè discutere di faccende che il 99% della popolazione non conosce?

Questo ragionamento ha un potenziale diseducativo enorme. Se il nostro dovere è “affidarci” ai saggi governanti, viene meno qualsiasi retorica democratica. Se non ho il diritto di parlare della mia salute, del mio corpo, che diritto di parola posso accampare quando si parla di scelte di finanza pubblica, di welfare, di pensioni? Anche lì “gli specialisti” rivendicheranno il monopolio della decisione. Al limite anche il mio padrone se vuole licenziarmi o delocalizzare, può rivendicare la sua scelta “competente” sulla mia ignoranza “egoista”. Spero non siamo ridotti a questo, specie a sinistra.

– Quindi è una questione più politica che sanitaria?

Ma certo, come si fa a non vederla? una gigantesca questione politica che sta imbarazzando molti. Ci sono compagni che dicono: ma basta parlare di vaccini, pensiamo alla GKN! Certo, ci pensiamo alla GKN. Ma spostare lo sguardo su altro, non rimuove “la mucca in salotto” che fingiamo di non vedere. Lo Stato che ti sanziona non perchè hai “fatto qualcosa” (ti sei drogato etc), ma perchè hai rifiutato di sottoporti ad un trattamento sanitario: è un precedente straordinario, inedito, inquietante. Come fanno tanti compagni a digerirlo? Deve dircelo Cacciari, una voce da salottino televisivo, che c’è qualcosa che non va? Penso a quei “nostri” intellettuali che hanno passato anni a strologare di biopolitica in tutte le salse e adesso, davanti alla governance autoritaria dei sistemi immunitari, tacciono perplessi. Il Green Pass non è già una versione della “patente digitale di cittadinanza a punti” in funzione in Cina – a meno che qualche matto non voglia spacciarla per un prodromo di socialismo…

– Quindi non ti senti un disertore o un imboscato o un opportunista?

Ecco, l’uso di questi termini rivela dove è nato tutto l’approccio sbagliato e pericoloso che adesso si sta sviluppando in forme  estreme. Fin dall’inizio è venuta fuori questa retorica della lotta alla pandemia come metafora della guerra. Lì è partito tutto un circo che ha formattato la testa della gente in direzione di una parodia militarista-patriottarda:  il coprifuoco decretato a mezzo DPCM, i generali, gli strateghi, i giornalisti embedded, la celebrazione dei caduti, i politici in pose marziali; e poi ci sono i “codardi”, i panciafichisti, i sabotatori, che non sono corsi ubbidienti e fiduciosi a vaccinarsi; una umanità negletta, di serie B, una zavorra per il paese, da sorvegliare e punire.

– Ma non si rischia di delegittimare la scienza?

Io quando ho avuto il Covid sono andato dal dottore, mica dallo sciamano. Non voglio delegittimare niente. Ma qui mi sembra che, più che al trionfo della scienza, stiamo assistendo al riemergere di un pensiero magico-religioso che pretende il monopolio della parola e dichiara eretici o apostati tutti quelli che mettono in discussione anche qualche elemento del suo discorso egemone. Medici radiati, infermieri cacciati – una insensata caccia alle streghe che potrebbe arrivare alle porte delle fabbriche, dei magazzini, degli uffici e coinvolgere tutti. E poi cos’è “la scienza”? Condividiamo tutti la medesima definizione? Ricordo quando occupavamo l’università, i compagni delle facoltà scientifiche ci propinavano sempre qualche seminario sull’epistemologia. Noi storcevamo il muso – che palle, che è sta roba, Kuhn, Feyerabend? Invece quei compagni ci stavano insegnando che la scienza non è un dogma antistorico ma un insieme mutevole di paradigmi, attraversati e prodotti da contraddizioni, fratture e interessi, destinati fatalmente ad essere superati, epoca dopo epoca. Bisogna accettare questa idea di finitezza e provvisorietà del discorso scientifico, altrimenti tende a trasformarsi in una nuova distopia religiosa. E i miserabili politici moderni sono ben lieti di passare dall’alibi del “vincolo esterno”(ce lo chiede l’Europa) a quello del “vincolo sanitario” (ce lo impone la scienza)

– In conclusione: ti vaccinerai?

Boh, non lo so. Prendo tempo, senza pregiudizi e senza ansie. Intanto in Israele stanno cominciando a somministrare la terza dose – notizia passata molto sottotono ma a che a me sembra enorme e apre pesanti interrogativi sul futuro.  Comunque resto fuori da questa dialettica asfittica no vax/si vax: sono per le scelte consapevoli e informate, non per l’arruolamento.


(*) Visto che quando si parla di “italiani non vaccinati”, in tv danno la parola solo a sciroccati e complottisti, allora mi sono intervistato da solo.

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Greenpass, nuovi confini e le frontiere della paura. Contributo per un ragionamento collettivo. https://www.carmillaonline.com/2021/07/29/greenpass-nuovi-confini-e-le-frontiere-della-paura-contributo-per-un-ragionamento-che-auspico-collettivo/ Thu, 29 Jul 2021 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67436 di Deriva

Dall’inizio della pandemia non ho mai scritto su blog, né uso i social, né ero dell’idea che fosse utile l’allarmismo dell’emergenza securitaria iniziale quando non si sapeva cosa stava realmente accadendo. Sono una scienziata sociale, non un medico, quindi mi sono attenuta a ciò che so fare: osservare, non esprimere parole avventate, ma continuare a osservare e scrivere. E però ora, dopo 16 mesi dall’inizio di questa pandemia (non sono due anni, mi dispiace, ma solo 16 mesi. e la deformazione della percezione del tempo che noto attorno a me [...]]]> di Deriva

Dall’inizio della pandemia non ho mai scritto su blog, né uso i social, né ero dell’idea che fosse utile l’allarmismo dell’emergenza securitaria iniziale quando non si sapeva cosa stava realmente accadendo. Sono una scienziata sociale, non un medico, quindi mi sono attenuta a ciò che so fare: osservare, non esprimere parole avventate, ma continuare a osservare e scrivere. E però ora, dopo 16 mesi dall’inizio di questa pandemia (non sono due anni, mi dispiace, ma solo 16 mesi. e la deformazione della percezione del tempo che noto attorno a me è un primo elemento che trovo allarmante), dopo 16 mesi dall’inizio della pandemia, ecco che ora sono preoccupata.

Sono preoccupata del silenzio, della totale assenza di dibattito, della mancanza totale di spazi di discussione cui ci siamo abituati e di cui non sembra vediamo più gli effetti deleteri. Sono preoccupata dell’amnesia totale che vedo attorno a me: non ci ricordiamo più cosa dicevamo solo 12 mesi fa, quando da tante e tante parti leggevo non vogliamo tornare a quello che c’era prima, perché quello che c’era prima era il problema. Sembra che non riusciamo a imparare dalla storia, e che non siamo in grado di vedere la differenza che c’è, oggi come nel 1969, nel 1980 o nel 2001, fra incidente e strage, tra incidente accidentale, e concorso in strage.
Certo, c’è un virus e questo non fa bene a nessuno e non va sottovalutato. Ma come dimenticare che il grosso numero di morti non lo ha provocato il virus da solo, bensì la gestione folle che già 16 mesi fa metteva l’economia davanti alla salute pubblica? Come dimenticare la Val Seriana e la Val Brembana nel bergamasco, sacrificate per il PIL della Lombardia che non doveva fermarsi? Come non vedere la differenza di responsabilità tra l’incidente (accidentale o meno che sia) del virus, e la strage provocata dei morti sul lavoro, o nelle RSA (Confindustria e Oms e governi vari tutti responsabili)?

I punti sono tanti, che non avendo più voluto/potuto discutere, andiamo perdendo. Proverò a nominarne alcuni (senza pretese di esaustività):

– La paura è al centro di tutte le reazioni e discorsi sul Covid, e l’incapacità di parlare e fare i conti con la paura (e con la morte, che è parte della vita e non sua eccezione) è certamente il punto Uno.

– Porre la questione in termini di vaccino si/no è porre malissimo la questione. La hubris umana ha un limite. Benissimo che i vaccini proteggano e tutelino al massimo le persone più fragili ed esposte agli effetti nefasti del Covid. Altra cosa è credere che il vaccino possa sconfiggere una pandemia che è globale, in cui i vaccini stanno toccando una porzione infinitesimale della popolazione globale, mentre corpi e soprattutto merci continuano a circolare e con essi i batteri, i virus e le varianti incrociate.

– Credo che un punto importante sia accettare che non siamo in una POST-pandemia, ahimè, ma che ci siamo ancora dentro fino al collo. La pandemia c’è e ci sarà ancora, fino a che la sua curva non raggiungerà il livello alto per poi scemare. Una pandemia globale ha dei tempi che sono al di sopra della hubris umana e della umana volontà di dominio su tutto il mondo che ci circonda.

– Il greenpass è uno strumento di controllo sociale, ieri il Ministro Speranza ha dichiarato che “Il green pass è la più grande opera di digitalizzazione mai fatta” (qui): dunque il punto è la digitalizzazione e il controllo a tappeto di tutte le azioni quotidiane, non la salute pubblica. Equiparare controllo e salute è davvero un binomio difficile da digerire. Il greenpass è un nuovo confine che stiamo vedendo erigere attorno a noi: non più alle frontiere degli Stati nazionali, ma alle frontiere dei nostri corpi. Si tratta sempre di mura, di confini che determineranno chi ha o meno dei privilegi. Ma in tante e tanti non urlavamo: La carta è solo carta la carta brucerà? Dov’è finita quella solidarietà verso i sans-papier e le persone che non possono e non potranno comunque accedere a questo pass? (e qui non è solo questione di procedure, si chiama paura anche quella).

– Il greenpass viene rilasciato dopo 1 sola dose di vaccino, che è ormai risaputo NON coprire né tutelare la persona dagli effetti nefasti del virus. Dunque nuovamente mi pare che lo Stato si voglia deresponsabilizzare per fare andare avanti l’economia senza dovere più provvedere a “ristori”. Ma dov’è la tutela della salute? Infine: il greenpass non è richiesto per entrare in Chiesa. Andare a Messa ancora una volta si rivela un assembramento consentito e tollerato beffando ulteriormente scuole, teatri e gli altri luoghi di socialità e cultura.

E alcune domande:

– Quanti soldi sono stati stanziati per implementare il sistema pubblico sanitario in Italia e in Europa in questi mesi? Perché pensiamo che la soluzione alla pandemia sia un vaccino e un nuovo passaporto digitale, invece che risorse a strutture, cultura della salute, del cibo, importanza dello sport e un attenuazione degli stress e della paura che sono invece fortissimi inibitori del sistema immunitario?

– Quale è l’intervento di salute pubblica che giustifica l’ipotesi di obbligo vaccinale per i giovani? Questo punto mi fa talmente male che non riesco neanche a commentarlo, ma è di una gravità immonda, e che non ci siano discorsi seri che prendano in conto i rischi che non conosciamo degli effetti negli anni di questo vaccino nei giovani (perché non c’è stato il tempo tecnico necessario) è l’ennesima testimonianza che viviamo in una violenta gerontocrazia patriarcale.

– Cosa ha provocato l’emergere del Covid? E cosa ha trasformato un virus in una pandemia globale? Come mai non si parla degli allevamenti industriali, dei combustibili fossili, delle centrali nucleari, e di tutte quelle miriadi di cose che producono e quotidianamente fabbricano le condizioni perché si sviluppino questo o altri virus?

– Infine: come possiamo illuderci che un vaccino risolva la pandemia (o tanto più un documento di controllo digitale), se non affrontiamo in nessun modo le cause strutturali che l’hanno provocata?

Sono cresciuta in un contesto in cui la cultura non erano nozioni da ingerire attraverso uno schermo, ma un quotidiano allenamento al pensiero critico, alla riflessione, all’osservazione e all’utilizzo del cervello che sento di avere sotto la corteccia cerebrale.

Sono caduta nello sconforto quando vedevo persone accorrere in fila allo spriz appena riapriva il bar, tanto quanto ora pensare che il vaccino “è l’unica soluzione che abbiamo”. Tanto più trovo razionalmente infondata ogni equiparazione tra vaccino e greenpass. Difenderò sempre l’importanza dei vaccini per difendere le persone a rischio e limitare la circolazione del virus. Ma nessuno può farmi credere che il vaccino a meno dell’1% della popolazione mondiale possa arginare un virus che la mal-gestione delle istituzioni che ci governano ha trasformato in pandemia. Mi rifiuto di dimenticare le responsabilità politiche che hanno portato alla strage del bergamasco e su cui- tra l’altro, per inciso- non si vuole indagare, nonostante le richieste dei familiari delle vittime.

Mi rifiuto di smettere di utilizzare il mio cervello, perché il fatto che funzioni me ne lascia una responsabilità enorme. Mi rifiuto di pensare che fare una passeggiata con o senza cane possa fare male a qualcuno, che stare chiusa in casa faccia bene alla salute (mentre le fabbriche erano sempre piene), che oggi mangiare al ristorante o bere il caffè senza essersi potuti vaccinare equivalga ad attentare alla salute pubblica. C’è una bella differenza tra egoismo neoliberale che vuole solo fare crescere il PIL o tornare a una brutta copia di quel che era prima, e un singolo corpo che cammina e respira. Le stragi le fanno i padroni, e come tanti anni fa, ancora adesso spesso si fanno aiutare dai fascisti per ottenere il risultato che vogliono.

Non smettiamo di usare la testa, non smettiamo di essere solidali, non smettiamo di cercare e condannare le responsabilità strutturali che hanno condotto al punto in cui ci troviamo.

Infine: impariamo ad ammettere che abbiamo paura, anzi che siamo terrorizzati pure. Che la morte ci spaventa, che la malattia ci fa paura. Non è un male avere paura, è parte della vita la morte, come è parte dell’amore la paura della sua fine. Eppure, impariamo a conviverci, perché l’amore è più forte.

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ATTENZIONE: materiali perduti https://www.carmillaonline.com/2021/07/23/attenzione-materiali-perduti/ Fri, 23 Jul 2021 02:19:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67367 A seguito del crash del computer, accaduto un mese fa, tutti gli articoli inviati a Valerio Evangelisti sono andati perduti. Così buona parte della posta. Gli autori sono pregati di rimandare i loro scritti. L’indirizzo eymerich@tin.it non è più attivo.

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A seguito del crash del computer, accaduto un mese fa, tutti gli articoli inviati a Valerio Evangelisti sono andati perduti. Così buona parte della posta. Gli autori sono pregati di rimandare i loro scritti. L’indirizzo eymerich@tin.it non è più attivo.

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La scoria armata https://www.carmillaonline.com/2021/06/15/la-scoria-armata/ Tue, 15 Jun 2021 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66766 di Giovanni Iozzoli

Con indignazione – ma anche con sincera meraviglia, per la inesauribile follia repressiva che manifestano gli apparati italiani – apprendiamo che Paolo Persichetti è oggetto di indagine per reati pesanti quali favoreggiamento e il famigerato 270 bis, l’associazione a delinquere con finalità di terrorismo. La sua colpa sarebbe il possesso e la divulgazione di materiale “riservato” elaborato dall’ultima Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, la più sgangherata di quella produzione seriale che dura dal novembre 79. Paolo Persichetti, oltre ad essere un ex militante delle BR, è uno dei più [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Con indignazione – ma anche con sincera meraviglia, per la inesauribile follia repressiva che manifestano gli apparati italiani – apprendiamo che Paolo Persichetti è oggetto di indagine per reati pesanti quali favoreggiamento e il famigerato 270 bis, l’associazione a delinquere con finalità di terrorismo. La sua colpa sarebbe il possesso e la divulgazione di materiale “riservato” elaborato dall’ultima Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, la più sgangherata di quella produzione seriale che dura dal novembre 79. Paolo Persichetti, oltre ad essere un ex militante delle BR, è uno dei più attivi studiosi del fenomeno armato; in particolare, insieme ad una nuova generazione di giovani ricercatori di ambito accademico, si è specializzato nella meritoria opera di debunking circa l’affaire Moro: smentendo e decostruendo le teorie complottiste che da quarant’anni cercano di inquinare la verità storica del conflitto negli anni 70 – operazione di revisionismo di cui le varie commissioni parlamentari sul rapimento Moro sono state uno strumento di punta.

Probabilmente è questo suo rigoroso lavoro di ricerca che ha dato fastidio a qualcuno: un ex brigatista dovrebbe starsene zitto, in un angolo, a scontare i suoi residui di pena e a meditare sui propri peccati; che pretenda di mettersi a fare ricerca storica deve essere sembrato un affronto; che poi contribuisca a smontare minuziosamente le nuove traballanti verità di regime, può risultare un atteggiamento addirittura criminale. Gli sconfitti dovrebbero tacere e lasciarsi cucire addosso gli abiti di scena che in questa o quella stagione, altri provano a imbastire. E poi è meglio non far sapere troppo in giro qual è stato l’esito di questa nuova Commissione di cui Persichetti ha diffuso il prezioso “materiale riservato” e cioè che: “Moro è stato rapito, interrogato e giustiziato dalle BR” – testuale suggello finale del presidente on. Giuseppe Fioroni al termine dei lavori della Commissione medesima. Bella scoperta no? – formulata da chi ha diretto l’illustre team investigativo, che decisamente non lascia dietro di sé rivelazioni epocali, tali da riscrivere la storia d’Italia. Grandi vecchi, agenti infiltrati di ogni nazionalità, motociclisti e ‘ndranghetisti fantasma, covi ballerini e fantascenari globali, hanno riempito solo gli scaffali delle librerie e le carriere tristi di personaggi – di solito ex PCI – che hanno provato a esorcizzare il conflitto col complotto. Mai si è usciti dalla fantanarrativa, anche se probabilmente, tra un paio d’anni, qualcun altro riproporrà l’urgenza di una nuova commissione d’inchiesta sui “misteri del caso Moro”: producendo il solito mix di solennità parlamentari, teoremi paranoici e fuffa, che pare essere ormai l’ultima eccellenza produttiva italiana.

Se promuovere una riflessione storico-politica sugli anni 70 e la lotta di classe in questo paese, può costare l’iscrizione nel registro degli indagati per “associazione sovversiva”, la redazione di Carmilla dovrebbe essere ascritta in blocco a tale sodalizio delinquenziale – basterebbe dare un’occhiata ai nostri archivi. E così per molte altre riviste, siti e centri studi. Siamo tra coloro che hanno continuato a tenere aperta una memoria critica e viva, sulla storia del conflitto – anche armato – senza rimozioni o autocensure. E ci siamo sempre schierati contro il clima fetido di vendetta di Stato che periodicamente riemerge ad ammorbare l’aria. E’ evidente che la storia di quel decennio non è roba vecchia, da soffitta, ma una potente scoria radioattiva mal interrata. Periodicamente qualcuno tenta di ritirarla fuori a proprio uso e consumo, ma i veleni che si liberano da queste operazioni sono imprevedibili. Anche perché disotterandola, quella memoria potrebbe uscire dalle letture mainstream e diventare in qualche modo “contendibile”. E il lavoro di Paolo Persichetti, in tutti questi anni, è andato proprio in questa direzione: un lavoro per il quale merita la solidarietà e la vicinanza di tutti quelli che si schierano sul fronte della verità e della giustizia.

Vendetta di Stato, dicevamo. Cesare Battisti è una specie di incarnazione di questo concetto. Mostrificato per anni quale simbolo di impunità e arroganza radical chic; sequestrato e illegalmente spedito in Italia, a seguito di un decennale accanimento diplomatico ed una meschinissima operazione politico-mediatica; oggi recluso in condizioni di tale durezza, nel carcere di Rossano, da indurlo ad uno sciopero della fame dal quale annuncia di non voler recedere, a costo della vita. Non sta chiedendo condizioni di favore, ma almeno che il Ministero di Grazia e Giustizia rispetti la “propria” legalità. Cesare è un anziano scrittore 66enne, pieno di patologie, che non fa politica da 40 anni: quale accidenti di logica c’è nell’infilarlo in una sezione di Alta Sicurezza – dentro il reparto dei reclusi Isis! –, se non la perversa vocazione alla vendetta verso ogni sia pur lontanissima memoria ribelle? Possibile che a nessun “sincero democratico” ripugni questa condizione pre-moderna di annichilimento del nemico?

E la reclusione al 41 bis di Nadia Desdemona Lioce, 18 anni dopo lo scioglimento della sua organizzazione – a che criteri giuridici o di sicurezza, risponde? E che logica c’è, nella sbandieratissima operazione Ombre Rosse, fortunatamente sgonfiatasi prima di poter distruggere concretamente delle vite? Nei giorni in cui l’operazione furoreggiava sulle prime pagine, Mentana constatò che la ministra Cartabia aveva cominciato a decollare nei sondaggi di gradimento; il vecchio marpione di redazione, non trovando motivazione razionale a tale ascesa, attribuì candidamente “alla cattura dei terroristi latitanti” la ragione di questo consenso. Un ministro anonimo e impotente davanti al disastro delle carceri italiane – fresche di strage –, prova a guadagnare qualche punto, inseguendo fantasmi parigini e vendendoli all’opinione pubblica come “risarcimento morale per le famiglie delle vittime”. Ecco, questo è il nostro paese in estrema sintesi: cinismo di governo, sondaggi, trombonismo giustizialista contro i deboli e disprezzo per le “vite degli altri” – ridotte a copione funzionale a questo o quell’allestimento scenico.

Ma abbiamo anche gli “esuli in patria” – quelli che pur non essendo usciti dal paese, vivono una condizione di minorità, precarietà, ridotta dotazione di diritti – più o meno come i fuoriusciti, ospiti provvisori di uno stato estero. Sono ad esempio i lavoratori della Fedex, rimbalzati negli ultimi giorni tra le pagine della cronaca sindacale e non. In occasione della chiusura del magazzino Fedex di Piacenza – circa 300 famiglie, una grossa azienda, per le dimensioni attuali – non si è vista alcuna mobilitazione civile o istituzionale, come pur avviene (se non altro per motivi di opportunità politico-elettorale) in diverse vertenze aperte sui territori. La chiusura della Fedex piacentina non ha indignato nessuno – a parte i soliti comunicati di rito. Solo i lavoratori, organizzati nel loro comitato di base, stanno tenendo alta la bandiera delle proprie ragioni: da soli, affidandosi alla solidarietà di classe proveniente dagli altri magazzini del gruppo e della filiera. Sono i “brutti, sporchi e cattivi” dell’agire sindacale, quelli che hanno conquistato negli anni qualche elemento concreto di potere operaio: quindi se uno stabilimento infestato da gente così chiude, non è poi una grave perdita per la comunità. Del resto, parecchi di quei lavoratori, in quanto stranieri, non votano neppure – perché preoccuparsi per loro? Frantumare le concentrazioni industriali eccessivamente sindacalizzate è sempre una strategia all’ordine del giorno. All’alba del 10 giugno, ai cancelli di un magazzino Fedex di Lodi, davanti al quale era atteso un presidio di solidarietà ai colleghi piacentini, i padroni hanno allestito una squadraccia antisciopero, spalleggiata dall’eloquente appoggio della polizia in assetto di guerra, pronta a intervenire nel caso i crumiri avessero avuto la peggio. Immagini vergognose che hanno avuto ampia circolazione in rete, che si sommano a mille altri episodi che non hanno goduto di pari visibilità. Nel settore, le teste rotte, le macchine bruciate, le coltellate, le minacce mafiose degli sgherri dei padroncini, sono da anni all’ordine del giorno. Tra un po’ la lotta armata la faranno dall’altra parte, contro gli scioperi e la sindacalizzazione – parallelismi paradossali della vicenda italiana: la vendetta padronale si organizza attivamente contro chi non si dissocia, non si rassegna, non rientra nei ranghi. Quei lavoratori rappresentano un pezzo di Italia “minore” che vuole uscire all’invisibilità: per raccontare la loro condizione di esiliati dalle fasce protette (sempre meno) del mercato del lavoro tradizionale, spediti a produrre ricchezza nei territori ancora non pienamente colonizzati della circolazione frenetica delle merci.

Occorre esprimere contemporaneamente solidarietà a Paolo, a Cesare, agli esuli parigini e a questi nuovi esuli “interni” della Fedex – e di tutte le altre mille realtà produttive che vivono lo stesso minaccioso degrado. Che c’entrano, dirà qualcuno, gli anni 70 con i facchini in lotta? C’entrano. C’entrano eccome – per chi cerca di uscire dalle secche del pensiero corto e debole, e prova dare una lettura complessiva, storica e generale della lotta delle classi subalterne e del loro orizzonte di emancipazione. Dalle galere, alle aule di tribunale, ai cancelli degli stabilimenti: nessuno resti solo, davanti al suo carico di repressione.

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La fossa dei rivoltosi https://www.carmillaonline.com/2021/06/07/la-fossa-dei-rivoltosi/ Mon, 07 Jun 2021 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66634 di Giovanni Iozzoli

Una pia antica tradizione islamica narra di due becchini che, completato il duro lavoro quotidiano e sepolto l’ultimo defunto del giorno, si accingevano a lasciare il cimitero e tornare alle loro povere case. Improvvisamente si trovarono davanti Munkar e Nakir, in tutto il loro spaventoso splendore. Erano i due angeli destinati all’ interrogatorio dei morti nella tomba, la lunga serie di domande che decidono il primo destino del defunto. I due inservienti, atterriti, protestarono timidamente: ma noi siamo vivi, non è ancora il nostro momento, cosa volete da noi? I due angeli però decisero di interrogarli ugualmente. Allora [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Una pia antica tradizione islamica narra di due becchini che, completato il duro lavoro quotidiano e sepolto l’ultimo defunto del giorno, si accingevano a lasciare il cimitero e tornare alle loro povere case. Improvvisamente si trovarono davanti Munkar e Nakir, in tutto il loro spaventoso splendore. Erano i due angeli destinati all’ interrogatorio dei morti nella tomba, la lunga serie di domande che decidono il primo destino del defunto. I due inservienti, atterriti, protestarono timidamente: ma noi siamo vivi, non è ancora il nostro momento, cosa volete da noi? I due angeli però decisero di interrogarli ugualmente. Allora i becchini allargarono le braccia e si dissero l’un l’altro: non dobbiamo avere paura dell’interrogatorio, siamo due persone semplici e siamo così poveri da non possedere niente; non dovremo rendere conto di nulla. Gli angeli, però, avevano visto in un angolo la vecchia corda che serviva ai due per calare i defunti nella fossa, unico loro strumento di lavoro. – E quella corda? Da dove viene quella corda? – chiesero gli angeli. Al che i due inservienti, sorpresi e impauriti, provarono a spiegare come si fossero procurati la corda; e poi furono costretti a ricordare a ritroso tutti gli scambi a monte che avevano portato a quel possesso. Tutta la notte durò l’interrogatorio dei due becchini su quel pezzo di corda insignificante.

Come sarà l’interrogatorio di Mohammad Bin Salman, quando lascerà con i piedi davanti il suo palazzo principesco di Riad? Lungo. Lunghissimo, immaginiamo. Vaglielo a spiegare, agli angeli, il favoloso reticolo di società, concentrazioni immobiliari, interessi demaniali, fondazioni pseudocaritatevoli, banche shariaticamente corrette, giacimenti e raffinerie, squadre di calcio e fondi di investimento, che stanno nella cassaforte di una fortunata famiglia reale. Arduo sarà anche giustificare l’accaparramento familiare delle risorse naturali, anzi di un’intera nazione ribattezzata, umilmente, con il proprio nome dinastico. Altro che una notte di interrogatorio. Per i Saud – e l’esercito di Emiri e nobili che presidiano le ricchezze della penisola arabica – non sarà facile rendere conto di tutto quel ben di Dio. E se ci aggiungiamo il finanziamento delle guerre, lo sfruttamento in patria dei confratelli immigrati, il tradimento dei palestinesi e la strage degli yemeniti, è facile pensare che si stancheranno persino gli angeli, quando si decideranno a indagare in fondo ai peccati di questa pia cricca waabhita

Come sarà stato, invece, l’interrogatorio post-mortem di Ghazi o di Hafed, morti a Modena in una notte di primavera di un anno fa? Anche loro non avranno avuto molto, da giustificare. Reclusi, magari senza famiglia, tossicodipendenti. Forse possedevano qualcuna delle povere suppellettili necessarie nelle celle, un pentolino, un fornelletto, una confezione di Oki, un pò di mutande e calzini. Forse 100 euro caricati sul conto carcerario, per la spesa alimentare, inviati lì da qualche lontana affannata madre che vive dall’altro lato del mediterraneo. Si muore poveri, dentro un carcere – se non sei un mafioso, un imprenditore o un politico previdente. Si muore miserabilmente come si è vissuto. La malavita può averti dato l’illusione di avere svoltato, in un certo momento della tua storia; hai visto passare tra le tue mani dei soldi che non avresti mai immaginato. Ma è sabbia del deserto che scorre in mezzo alle dita, miraggio, beffa. Nella tua cella torni povero come quando sei venuto al mondo, quel poco che avevi è andato via tra sequestri e avvocati; in carcere, come nella morte, non puoi portare nulla con te, neanche quel paio di scarpe da 300 euro che ti aveva tanto inorgoglito su Instagram, o l’orologio d’oro che amavi esibire al bar. Sei nudo, mentre fai le flessioni di rito nel settore ingressi e le guardie cercano di appurare se qualche cavità del tuo corpo nasconde oggetti proibiti o preziosi. Il carcere è un rituale di morte anticipato: il giudizio, la pena, la cella come una bara. Una sensazione di perdita irrimediabile, i giorni che passano “come falci”. Quella notte feroce di un anno fa, dentro al carcere di Sant’Anna a Modena, tra fumi, urla e sangue, in molti scoprirono l’ebbrezza della rivolta. Per un momento, inconsapevolmente, si riappropriarono di qualcosa – qualcosa di indefinibile, prezioso, che ha a che fare con la nuda esistenza, con una pulsione innata e primordiale di dignità, di libertà. E non è faccenda razionale – di solito finisce male. Finisce in baccanale, finisce a metadone, finisce a sprangate e morte, e autopsie sommarie di corpi gettati dentro fosse precarie. Strati di terra su verbali, sospetti e segreti.

Speriamo che Munkar e Nakir, nel vedere le povere tumulazioni delle vittime della rivolta, abbiano provato almeno un pò di pena, mentre aleggiavano sul settore islamico del cimitero di Ganaceto. Pare che l’interrogatorio abbia luogo proprio là sotto – in fondo alla fossa, in una dimensione astrale, ineffabile, in cui tempo e spazio si dilatano come nei sogni; avranno avuto pietà gli angeli, di quei montarozzi di terra pieni di erbacce, della tabella metallica con le date di morte riportate approssimativamente? Tombe da terzo mondo, com’è giusto e naturale nella rigerarchizzazione feroce che la nostra società sta vivendo, dietro i miti democratici e massificanti. Delinquenti, rivoltosi, stranieri e musulmani: cosa c’è di più sbagliato? I burocrati responsabili di quelle frettolose sepolture, avranno pensato che quella era la  tomba adatta a perpetuare la damnatio memoriae, il seppellimento di quelle biografie anonime e colpevoli.

Secondo alcune opinioni teologiche, di oriente e di occidente, gli angeli sono come automi; non provano emozioni, non hanno il libero arbitrio; sono programmati per eseguire ordini e volgere a Giustizia e Verità; quindi non si saranno commossi più di tanto, nel cimiterino di Ganaceto, in mezzo ai campi della prima periferia modenese. Avranno svolto il loro lavoro di indagatori inflessibili.  Più o meno come assessori e funzionari del Comune che, con gli angeli, condividono una evidente mancanza di “umanità” – pur non godendo della pienezza degli attributi angelici. Infatti, le fosse  dei rivoltosi dell’8 marzo, non tradiscono alcuna idea di pietas; si mostrano esattamente per ciò che sono e per il messaggio che vogliono veicolare: guai ai vinti; guai ai ribelli; guai ai perturbatori dell’ordine sociale. C’è stato un tempo in cui la cura delle tombe era imperativo morale, soprattutto per le autorità. La sepoltura ritualizzata è stato il primo segnale della civilizzazione, in epoca pre-neolitica – offrire ad un corpo senza vita la dignità di una storia e il riconoscimento di una comunità. Chissà, forse il cammino a ritroso della civiltà verso le nuove barbarie prossime venture, ripartirà proprio da lì, dalle tombe, dal disprezzo e dal disconoscimento dei corpi.

Un bel sabato mattina, una pattuglia di volontari della Comunità Islamica e del comitato di controinchiesta modenese – che sta cercando, piuttosto in solitaria, di tenere viva la memoria della strage dell’8 marzo -, è andata a dare l’ultimo saluto ai morti del carcere di Sant’Anna, sepolti nel piccolo cimitero di Ganaceto. Un evento apparentemente poco “politico”, che sta nella dimensione dell’umanità, della testimonianza silenziosa. Le comunità islamiche, si sono fatte carico della risistemazione di quelle tombe abbandonate e, già che c’erano, hanno rimesso a posto tutto quel settore in cui, in massima parte, finiscono i senza famiglia, o chi non ha nessuno che può permettersi di pagare il costoso rimpatrio della salma al paese d’origine. E’ il cimiterino dei poveri. Nel dubbio sugli eventi delle ore convulse (ad oggi ancora avvolte da molti misteri) che seguirono quei decessi – anche in tema di conforti religiosi forniti ai corpi delle vittime -, un Imam ha celebrato un piccolo rituale religioso. Nel cimitero è risuonata sommessa la Fatiah – l’Aprente -, la sura che consola e lenisce le ferite. E poi c’è stato un breve discorso rivolto alla piccola platea di solidali.

Questo evento fa bene a queste persone, loro lo stanno sentendo e sono felici – ha detto l’Imam. E anche qualche bestemmiatore incallito, presente al cimitero, si è commosso e ha sperato ardentemente in cuor suo che fosse così: che ci stessero davvero sentendo, quei ragazzi, a parziale compensazione delle loro vite stroncate, della solitudine, del dolore di chi muore dalla parte sbagliata; eravamo lì per loro. Quando vai in modo consapevole su una tomba sconosciuta, stabilisci una connessione con quella vita. Lo raccontano spesso quelli che tornano da Auschwitz, e sono convinti, con la loro presenza, di aver reso un pò di giustizia a delle anime in pena, morte tanto tempo prima eppure, in quache modo, ancora viventi, misteriosamente presenti. Perchè la storia, soprattutto quella delle tragedie e delle infinite stragi impunite, ha una sua terribile densità, non si lascia vaporizzare tanto facilmente; e la vita è l’energia più potente e indistruttibile dell’universo, e se Lavoisier aveva ragione, nessuna storia nasce dal nulla e nessuna muore definitivamente. Ma queste sono affabulazioni consolatorie. La realtà visibile con cui fare i conti è il tumulo di terra. Poi ognuno vede quel che può.

A proposito di tombe. Il 7 giugno c’è stata la prima udienza davanti al Gip di Modena sulla richiesta di archiviazione proposta dalla Procura per otto dei nove decessi. Il nono morto, Salvatore Piscitelli, è di competenza territoriale ascolana – ma nessuno si aspetta dall’inchiesta marchigiana grandi sorprese. In tal caso, la versione ufficiale, quella avallata persino dalla Procura, risulterà più o meno identica a quella fornita fin dalle primissime ore dalle autorità carcerarie. Un anno di indagini non è servito a nulla – si poteva anche chiudere l’inchiesta una settimana dopo la strage. E questo soprattutto perchè le contraddizioni e i buchi neri della ricostruzione di Stato – quelle rimarcate dagli avvocati delle vittime e dal giornalismo indipendente – vengono semplicemente ignorati, come dettagli o intralci fastidiosi. Lo status delle vittime non merita troppi approfondimenti investigativi. In questo caso, continuando nelle metafore cimiteriali, potrebbe essere l’ufficio del Gip ad assumere un ruolo tombale: l’archiviazione diventa la definitiva rimozione dal dibattito pubblico di un evento scomodo ed eclatante e alla morte fisica segue la morte civile delle vittime e del senso del loro morire. Un rituale laico di purificazione, dal carattere quasi esorcistico: le lotte nelle carceri, come quelle nelle fabbriche e in qualsiasi altro luogo di questa società attonita e instupidita, vanno sepolte sotto terra e dimenticate in fretta.

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I ratti dell’immaginario https://www.carmillaonline.com/2021/04/21/i-ratti-dellimmaginario/ Wed, 21 Apr 2021 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66087 di Redazione

Dedicato a Giovanna e a tutti coloro che subiscono ma, ancora, resistono

Prima li sentivamo muoversi nei muri, come i topi del celebre racconto di H. P. Lovecraft, poi hanno iniziato a muoversi per le stanze di casa e per le vie delle città e oggi sono venuti allo scoperto rivelandoci tutto l’orrore di questa società che si sarebbe voluto tener nascosto dietro a pareti di discorsi democratici, progressisti e green moltiplicati e riproposti all’infinito dai media.

Si sono presentati così, a volto scoperto con la scusa della pandemia e dei provvedimenti di urgenza, con i Dpcm, con [...]]]> di Redazione

Dedicato a Giovanna e a tutti coloro che subiscono ma, ancora, resistono

Prima li sentivamo muoversi nei muri, come i topi del celebre racconto di H. P. Lovecraft, poi hanno iniziato a muoversi per le stanze di casa e per le vie delle città e oggi sono venuti allo scoperto rivelandoci tutto l’orrore di questa società che si sarebbe voluto tener nascosto dietro a pareti di discorsi democratici, progressisti e green moltiplicati e riproposti all’infinito dai media.

Si sono presentati così, a volto scoperto con la scusa della pandemia e dei provvedimenti di urgenza, con i Dpcm, con i lacrimogeni sparati in faccia a chi si oppone ai loro devastanti e inutili progetti, con la criminalizzazione dei lavoratori in lotta, con la distribuzione di anni di reclusione o di sorveglianza speciale per chi si ostina a battersi contro le miserie dell’esistente e, per finire in “gloria”, con generali in pompa magna che vorrebbero farci credere di essere al servizio della società e della “nostra” salute.

Negano l’evidenza della gestione fallimentare della pandemia e dell’esistente, negano o ignorano l’assoluta dipendenza di ogni loro decisione dalle necessità immediate o future del capitale, rovinano le mezze classi fingendo di rappresentarle e si accaniscono sui lavoratori salariati e i giovani in una epocale trasformazione del lavoro e della distribuzione che lascerà sul campo milioni di disoccupati oppure di lavoratori destinati a compiti sempre più umili, non garantiti e sottopagati.

Per fare ciò, però, non possono accontentarsi di disciplinare la società e il lavoro ma, come si è già detto su queste pagine (qui) devono anche riuscire a reprimere e disciplinare ogni aspetto dell’immaginario, individuale o collettivo.
Per raggiungere questo obiettivo hanno dovuto andare oltre i limiti della normale produzione di narrazioni tossiche cui ci hanno abituato da tempo le fake news sistemiche e di Stato; hanno superato i limiti di una produzione culturale mainstream, contro cui questa rivista si batte ormai da molti anni poiché ritiene l’immaginario un campo di battaglia fondamentale per la definizione del nostro futuro, e hanno iniziato a porre severi limiti alla libertà di immaginare, in ogni sua forma ed espressione.

In tale ipotesi la libertà d’opinione sarà definitivamente seppellita e si potrà essere liberi di immaginare soltanto se si immaginerà ciò che il Capitale e lo Stato riterranno utile e proficuo immaginare. La capacità di immaginazione sarà trasformata in reato della mente, in associazione a delinquere del desiderio e dovrà essere rigidamente controllata da una sorta di polizia politica dei sogni.

Nemmeno George Orwell con 1984 era giunto a tanto e anche Ray Bradbury, con il suo Fahrenheit 451, era tutto sommato rimasto ancorato ai roghi di libri già visti tante volte nella storia. Tentativi messi in atto, anche in tempi recenti, per cancellare la memoria del passato e la sua cultura.
Oggi invece si vuole cancellare il futuro e la capacità di immaginarlo insieme al presente.
Presente e futuro che devono certamente preoccupare molto, se non addirittura spaventare, gli attuali signori della guerra economica, sanitaria e psichica per farli giungere ad una pratica che forse solo Philip K. Dick aveva saputo adeguatamente descrivere in alcune sue opere.

Disciplinare la mente significa disciplinare l’immaginario, mentre immaginare significa, il più delle volte, anticipare. Ecco allora che ciò che viene messo in atto oggi, anche attraverso l’operato della magistratura, è proprio questo: il tentativo di negare il futuro o un’immagine altra del presente.
Sia ben chiaro: si tratta di una partita per la vita e per la morte di un presente oscurantista che per rendersi eterno deve uccidere sul nascere qualsiasi ipotesi altra. Anche se presente soltanto in un romanzo.

Come è accaduto nel caso di Marco Boba, al quale va la piena solidarietà di tutta la redazione di Carmilla, che sembra esser precipitato in una dimensione degna dell’Inquisizione tardo medievale, poiché dopo una condanna in primo grado a quattro anni di detenzione per “incendio volontario” a seguito dei frammenti da fuoco d’artificio caduti su un capannone interno al carcere torinese delle Vallette, durante una manifestazione di protesta al suo esterno nel febbraio del 2019, è anche diventato oggetto di un provvedimento di sorveglianza speciale proposto nei suoi confronti, a causa del suo romanzo Io non sono come voi edito nel 2015 dalla cooperativa editoriale Eris di Torino. Infatti, come si afferma nel comunicato della casa editrice:

Giovedì 1 aprile è successa una cosa molto grave, e prima di parlarvene abbiamo voluto prenderci qualche giorno per riflettere. Scusate la lunghezza, ma in certi casi ogni parola è importante.
A un nostro autore, Marco Boba, è stata notificata da parte della Questura e della Procura di Torino una richiesta di sorveglianza speciale. Sino a qua, purtroppo, niente di straordinario. Negli ultimi anni questa misura preventiva molto pesante è stata richiesta e applicata più volte a militant* e attivist* di tutti i movimenti. Per chi non fosse avvezzo, la sorveglianza speciale consiste in un insieme di regole e divieti che vanno a colpire la persona nella propria quotidianità a causa di quella che viene definita “pericolosità sociale”, quindi è un provvedimento che colpisce le persone al di là di uno specifico fatto ma per un “comportamento generale”1.
Quello che noi troviamo davvero pericoloso e allarmante è che all’interno di questa richiesta di sorveglianza speciale sia stato inserito il romanzo –Io non sono come voi– che Marco ha pubblicato con noi nel 2015 come aggravante e/o prova. Anzi, il fulcro di questa prova nello specifico è la frase che noi come editori abbiamo scelto di mettere nel retro di copertina: «Io odio. Dentro di me c’è solo voglia di distruggere, le mie sono pulsioni nichiliste. Per la società, per il sistema, sono un violento, ma ti assicuro che per indole sono una persona tendenzialmente tranquilla, la mia violenza è un centesimo rispetto alla violenza quotidiana che subisco, che subisci tu o gli altri miliardi di persone su questo pianeta.» Una frase che dice il protagonista del libro in un dialogo. Una frase che come sempre estrapoliamo dal romanzo per far capire a chi si ritroverà il libro in mano qual è il cuore della storia, il mood, l’atmosfera, lo stile narrativo.
Parliamo di un romanzo di finzione, con un protagonista di finzione. Il romanzo è scritto in prima persona, al presente, scelta tra l’altro fatta non in origine dall’autore, ma dopo un lungo confronto tra autore ed editore. Editing, normale editing.
Che il romanzo sia di fantasia tra l’altro è dichiarato sin da subito, nella sinossi presente nell’aletta che si discosta totalmente dalla biografia dell’autore e in due pagine esplicative finali.
Non basta lo sfondo, il contesto, l’ambientazione, per decidere che un romanzo è autobiografico. I fatti principali che costituiscono la trama e il motore principale della narrazione sono chiaramente inventati, di finzione.
Ecco, a noi sembra davvero pericoloso che una finzione possa diventare una prova, che il dialogo di un personaggio di un romanzo possa diventare una prova, che le opinioni o le azioni di un personaggio di finzione possano diventare una prova, che una frase scelta dall’editore, per promuovere al meglio un libro, possa diventare un’aggravante e che una questura o una procura si possano occupare di una materia che dovrebbe restare appannaggio di chi fa critica letteraria.
In questi anni più volte si è invocato il reato d’opinione. Dalla vicenda di Erri De Luca, assolto dall’accusa di istigazione a delinquere per essersi espresso a favore dei sabotaggi contro la Tav, alla studentessa accusata di aver partecipato attivamente a delle azioni No Tav solo per aver utilizzato il “noi partecipativo” nella sua tesi di laurea in Antropologia culturale sul movimento stesso.
Ma ci sembra che a questo punto non stia diventando illecito solo avere un’opinione, ma anche il puro e semplice immaginare. Una società in cui non solo si paga per le proprie opinioni, ma addirittura per le opinioni o le azioni dei propri personaggi d’invenzione sarebbe la trama perfetta per un romanzo distopico. Ma per qualcuno, invece, è la realtà, perché sta accadendo.

Per Marco Boba, militante anarchico di lunga data, scrittore, occupante di case ed ex-redattore di Radio Black Out, il pm erede dell’operato anti-movimentista del duo Rinaudo e Padalino ha richiesto un provvedimento di sorveglianza speciale della durata di due anni basato, incredibilmente, su prove costituite non soltanto da una frase tratta dalla quarta di copertina del romanzo edito da Eris, come è stato detto già prima, ma anche da una recensione on line del libro stesso, oltre che dalla cattiva condotta suggerita dalla più che discutibile condanna precedentemente inflittagli nel primo grado di giudizio.

Sembra così, nell’operato della giustizia torinese, che la fantasia sia davvero andata al potere, visto che fantasiosi rappresentanti della magistratura perseguono reati di immaginazione, utilizzando qualsiasi forma o applicazione dell’immaginario per tarpare le ali non solo a quella che in tempi ormai lontani si sarebbe definita creatività, ma ad ogni forma di movimento dalle caratteristiche anti-sistemiche o antagoniste.

Dilungarsi ulteriormente su un episodio che più che appartenere ad una dialettica viva e reale tra le forze e le classi sociali potrebbe essere stato tratto da una farsa di Totò e Peppino, non sarebbe necessario se l’utilizzo a buon mercato e a largo raggio della sorveglianza speciale, accompagnato da accuse fantasiose, non fosse diventato pratica corrente nei confronti dei militanti NoTav, di coloro che come Eddi hanno combattuto per la libertà del Rojava oppure per gli anarchici cagliaritani e le giovani donne giunte da poco alla militanza antagonista, com’è successo recentemente a Firenze.

Vorremmo poter dire di questa giustizia fai da te, di questi apparati repressivi, dello Stato e dei governi imbelli, non ragionar di lor ma guarda e passa, ma l’unica cosa che possiamo invece affermare in questo momento e in solidarietà con tutti coloro che da questi provvedimenti e dalle violenze sono ormai quasi quotidianamente colpiti è che anche noi non siamo come voi e che molti ancora si aggiungeranno alle nostre fila, poiché il vostro operato sta proprio lavorando in quella direzione.

Grazie dunque a tutti coloro che, nel tentativo di ingabbiare e portarci via il nostro immaginario, faranno sì che questo diventi sempre più forte, chiaro, potente e condiviso.


  1. Per un approfondimento su pericolosità sociale e sorveglianza speciale si veda qui  

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Vax Show https://www.carmillaonline.com/2021/04/04/vax-show/ Sun, 04 Apr 2021 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65627 di Alessandra Daniele

Benvenuti a Moriremo Tutti, il nuovo talk de La7 dedicato alla pandemia, perché Omnibus, Coffee Break, L’Aria che Tira, Tagadà, Otto e Mezzo, Non è l’Arena, Di Martedì e Piazzapulita non bastavano ancora. Stasera parleremo di vaccini coi nostri esperti virologi, infettivologi ed epidemiologi, dei veri sommelier di sieri, ma ne parleremo anche con chi non ne capisce un cazzo, ma fa comunque numero in tutte le nostre trasmissioni, sottosegretari, opinionisti, editorialisti e tuttologi. E direttori di giornali. Giornali che nessuno legge più. Giornali che nessuno ha mai letto. Che esistono solo per la rassegna stampa dei Tg. [...]]]> di Alessandra Daniele

Benvenuti a Moriremo Tutti, il nuovo talk de La7 dedicato alla pandemia, perché Omnibus, Coffee Break, L’Aria che Tira, Tagadà, Otto e Mezzo, Non è l’Arena, Di Martedì e Piazzapulita non bastavano ancora.
Stasera parleremo di vaccini coi nostri esperti virologi, infettivologi ed epidemiologi, dei veri sommelier di sieri, ma ne parleremo anche con chi non ne capisce un cazzo, ma fa comunque numero in tutte le nostre trasmissioni, sottosegretari, opinionisti, editorialisti e tuttologi.
E direttori di giornali.
Giornali che nessuno legge più.
Giornali che nessuno ha mai letto.
Che esistono solo per la rassegna stampa dei Tg.
Che sono come i libri finti delle scenografie: scatole vuote.
Parleremo di contagi. Parleremo di movida. Non parleremo di fabbriche.
Discuteremo di vaccini per ore ed ore fino a notte, ripetendo cose che sono già state dette un milione di volte, e lo faremo nel modo più ansiogeno possibile.
Vi metteremo paura di vaccinarvi.
Vi metteremo paura di non vaccinarvi.
E se il Covid non vi spaventa abbastanza, approfittando dell’argomento vaccini parleremo anche di tetano, ebola, peste e vaiolo.
Perché per noi la paura è l’anima del commercio.
E adesso, pubblicità.

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