Cornici – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 11 May 2024 22:35:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 La notte della svastica di Katharine Burdekin https://www.carmillaonline.com/2023/12/26/la-notte-della-svastica-di-katharine-burdekin/ Tue, 26 Dec 2023 06:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80379 di Domenico Gallo

nota all’edizione Sellerio 2020

“Nel paradosso si rivela la realtà”, così scriveva Friedrich Dürrenmatt ne I fisici, e leggendo La notte della svastica a più ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, oltre a un profondo senso di sgomento e di disagio, non si può che cogliere la profonda verità incernierata dietro la più assoluta e tragica delle fantasie. Possiamo solo immaginare le reazioni imbarazzate dei lettori dell’epoca quando il romanzo, sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine, viene pubblicato dall’editore socialista Victor Gollancz nel 1937 con una severa copertina gialla. Sotto il titolo, poche righe in grassetto descrivono l’ambientazione [...]]]> di Domenico Gallo

nota all’edizione Sellerio 2020

“Nel paradosso si rivela la realtà”, così scriveva Friedrich Dürrenmatt ne I fisici, e leggendo La notte della svastica a più ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, oltre a un profondo senso di sgomento e di disagio, non si può che cogliere la profonda verità incernierata dietro la più assoluta e tragica delle fantasie. Possiamo solo immaginare le reazioni imbarazzate dei lettori dell’epoca quando il romanzo, sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine, viene pubblicato dall’editore socialista Victor Gollancz nel 1937 con una severa copertina gialla. Sotto il titolo, poche righe in grassetto descrivono l’ambientazione futuribile: “Siamo nel settimo secolo dell’era hitleriana. L’impero nazista si estende per tutta l’Europa e l’Africa, mentre l’impero giapponese copre l’Asia e l’America. La civiltà è stata annientata da secoli. La religione si è ridotta al culto del Dio del Tuono”. Le collane di Gollancz erano improntate da una aperta militanza e intendevano documentare la vita e le difficoltà delle classi lavoratrici. La prima edizione de La notte della svastica è in catalogo assieme a romanzi impegnati come La strada di Wigan Pier, il romanzo di George Orwell dedicato alla condizione dei minatori, e un capolavoro popolare come La cittadella di A.J. Cronin. Contemporaneamente nella collana Left Book Club Edition di Gollancz vengono pubblicate opere politiche come Spanish Testament di Arthur Koestler e Stella rossa sulla Cina di Edgar Snow, per i lettori di sinistra. Nell’Inghilterra che sta per essere trascinata nel conflitto mondiale le divisioni sociali sono aspre e le notizie provenienti da Italia, Germania e Spagna mettono irrimediabilmente a fuoco la complessità e la versatilità del fascismo europeo. Angosce che, contemporaneamente, si scontrano con la profonda avversione verso lo stalinismo di autori come Orwell e Koestler. Nel 1940, in pieno conflitto mondiale, La notte della svastica trova una nuova edizione nel Left Book Club Edition, i libri dalla copertina rossa, raggiungendo così un grande numero di abbonati della sinistra britannica; poi questo libro troppo difficile scompare dal mondo editoriale.

Dobbiamo a Daphne Patai, studiosa statunitense dell’utopia e della cultura delle donne, il primo e più importante contributo alla comprensione di questo suo strano e sgradevole romanzo che è La notte della svastica. L’introduzione alla riedizione critica del romanzo del 1985 chiarisce a lettori e studiosi che Murray Constantine è lo pseudonimo di una scrittrice che aveva al suo attivo altri romanzi, e lo pseudonimo maschile lascia finalmente il posto al nome femminile di Katharine.

Katharine Burdekin, in realtà, era Katharine Penelope Cade, una donna nata nel 1896 in un piccolo centro del Derbyshire nel nord dell’Inghilterra, in una famiglia benestante ed la più giovane di quattro tra fratelli e sorelle. La sua infanzia si divide tra lo studio, le molte letture e l’impegno volontario nella Red Cross. Nonostante fosse una studentessa molto capace, la sua famiglia non le concesse di iscriversi a Oxford come i fratelli maschi, ma lo scoppio della guerra irrompe violentemente nella sua vita. Il fratello viene arruolato assieme un amico australiano, il campione di canottaggio e medaglia d’argento olimpica Beaufort Burdekin. Beaufort viene ferito in battaglia e rientrato temporaneamente in Inghilterra si sposa con Katharine. Quando il marito torna al fronte, Katharine lavora all’ospedale militare di Cheltenham come inserviente addetta alle pulizie e ai pasti, e, contemporaneamente, si occupa del fratello Allan, sofferente di shock bellico e successivamente ricoverato come schizofrenico. È attraverso questa esperienza che Katharine sviluppa il suo primo pacifismo che sarà un elemento fondamentale di tutta la sua narrativa. Finita la guerra, dopo la nascita delle due figlie, Katharine Jayne e Helen Eugenie, la famiglia si stabilisce in Australia, ma il matrimonio finisce rapidamente. Katharine torna in Inghilterra con le figlie e si stabilisce in Cornovaglia assieme alla madre e alla sorella. La famiglia vive di rendita e dedica molto tempo alla lettura e alla discussione; in questa atmosfera apparentemente tranquilla Katharina pubblica il suo primo romanzo, Anna Colquhoun. È il 1922.

Nel 1926 Katharine incontra una donna che le sarà amica e compagna per tutta la vita. Isobel Allen Burns viene assunta come istitutrice delle piccole Katharine Jayne e Helen Eugenie, ma rapidamente si sviluppa tra le due donne un affetto profondo. Dal punto di vista storico si è cercato di comprendere se il rapporto tra Katharine e Isobel abbia avuto una componente sessuale, soprattutto per collegare la sua esperienza alle molteplici espressioni narrative che hanno riguardato l’omosessualità e, in generale, la compresenza nei singoli personaggi di tratti e pulsioni sia maschili sia femminili. Tuttavia non c’è prova di un rapporto esplicitamente lesbico tra loro e il racconto dei famigliari più stretti riporta che Katharine ebbe comunque alcune relazioni con uomini dopo la fine del matrimonio. Sempre dalla famiglia provengono diversi ricordi di Katharine che descrivono la mutevolezza del carattere caratterizzato da crisi depressive intervallate da periodi di intensa capacità creativa. Muore nell’agosto del 1963, momentaneamente dimenticata come i dieci romanzi che aveva pubblicato dal 1922 al 1940.

Il suo primo romanzo pubblicato, Anna Colquhoun (1922), è un’opera realista dedicata a una donna forte, autonoma, che intende tenere il destino nelle proprie mani e diventare una famosa musicista. Anna rifiuta il ruolo che la società intende imporgli, si oppone alla pressioni della tradizione, esattamente come l’aspirante scrittrice stava praticando nella sua vita reale dopo la fine del matrimonio. Il primo libro viene pubblicato come Burdekin, il cognome da sposata che manterrà per tutti i primi sei libri pubblicati con variazioni del nome: Kay o Katharine. Dopo A Reasonable Hope (1924), una storia in cui affronta sia i traumi della guerra sia il tema dell’omosessualità, Katharine Burdekin inizia a utilizzare il registro della narrativa fantastica e di fantascienza. The Burning Ring (1927) è una storia di viaggi nel tempo in cui un giovane egocentrico attraversa varie epoche utilizzando superpoteri come l’invisibilità e la capacità di cambiare aspetto. Il romanzo successivo è The Children’s Country (1929), una storia fantastica per giovani lettori che si ambienta in paese senza adulti dove è possibile sperimentare una vita con codici sessuali non tradizionali , ma è con il romanzo successivo che la fantascienza inizia a diventare il linguaggio per esplorare il tema della condizione femminile. In The Rebel Passion (1929), il protagonista viene trasportato dall’Inghilterra del Ventesimo secolo a quella del Ventunesimo, in una società nata dopo una guerra che ha opposto Europa e Asia, in cui le donne hanno ottenuto la completa uguaglianza nei diritti, viene normalmente applicata l’eugenetica e si sta diffondendo un’utopia rurale in parte disegnata sul modello rurale sviluppato da William Morris e in parte seguendo il modello socialista. Quiet Ways (1930) è un’opera autobiografica e antimilitarista, e racconta di un’infermiera del Voluntary Aid Detachment che si innamora di un soldato ferito e traumatizzato dai combattimenti. The Devil, Poor Devil! (1934) è il primo romanzo in cui Katharine Burdekin utilizza lo pseudonimo di Murray Constantine, si tratta di un’opera propriamente fantastica in cui il diavolo deve affrontare il problema che l’umanità ha praticamente smesso di credere in lui. Secondo quanto riportato da Daphne Patai la scelta dello pseudonimo era stata motivata dalla consapevolezza che i suoi romanzi erano apertamente antifascisti e temeva per l’incolumità della sua famiglia. All’epoca, infatti, la British Union of Fascists di Oswald Mosley era al massimo dei consensi ed erano frequenti intimidazioni e azioni violente contro i loro oppositori. Proud Man (1934), ancora pubblicato sotto pseudonimo, rappresenta un ulteriore sforzo di trattare i temi del pacifismo e dell’antimilitarismo creando lei stessi moduli ancora inconsueti per la fantascienza. Un essere giunto dal futuro mette a confronto la società da cui proviene con quella inglese del periodo tra le due guerre mondiali. Nel futuro l’evoluzione ha portato a una specie umana androgina, governata da uno stato pacifico e mondiale, vegetariana e senza differenze di classe. La creatura postumana prima si presenta come femmina e poi come maschio, mostrando nei fatti il superamento della dualità sessuale che conosciamo e prospettando, attraverso i meccanismi estrapolativi della fantascienza, una materializzazione della metafora di una società che è stata capace di annullare le stesse differenze biologiche dei generi. Ma il nodo tra biologia e totalitarismo letteralmente esplode ne La notte della svastica, precursore non riconosciuto di tutte le successive distopie e testo che conferma brillantemente analisi teoriche incentrate sui fortunati termini di “biopolitica” e “biopotere”.

Sotto molti aspetti Katherine Burdekin, come testimonia la sua bibliografia, deve essere considerata un’autrice di letteratura fantastica e fantascienza, oltre essere stata una scrittrice femminista e socialista, anzi è proprio lei a inventare e sperimentare per prima quello spazio estrapolativo, utopico, distopico e radicale che è proprio della fantascienza femminista e che, dopo di lei, ha visto impegnate Judith Merril, Doris Lessing, Ursula Le Guin, Joanna Russ, Alice Sheldon, Margareth Atwood, Angela Carter, Octavia Butler e Maggie Gee.

Ma su quale immaginario aveva lavorato Katherine Burdekin per concepire le proprie opere più visionarie? Sicuramente nei suoi romanzi sono evidenti l’approccio ipotetico di un classico della letteratura britannica come La battaglia di Dorking di George Tomkyns Chesney, un’ucronia pubblicata nel 1871 ambientata in un futuro in cui la Gran Bretagna ha perduto una guerra con la Prussia. La nazione sconfitta è diventata una provincia tedesca, tassata e soggiogata dall’invasore. La storia alternativa di come sia avvenuta la sconfitta e come fosse la vita prima della catastrofe militare è affidata al racconto di un veterano che, prima di morire, affida alle nuove generazioni il racconto di una diversa realtà. La narrazione del veterano della battaglia di Dorking per diversi aspetti ricorda il racconto dialogo tra Von Hess e Arnold che è alla base della parte centrale de La notte della svastica e ricostituisce quel rapporto spezzato tra lo shock del mondo deformato e la realtà storica del lettore. Un altro scrittore che con le sue opere ha consentito a Katharine Burdekin di familiarizzare con l’idea di un mondo futuro che fosse una proiezione deformata ed estrema del presente è Herbert George Wells con classici come La macchina del tempo (1895), Il risveglio del dormiente (1899), ma anche L’uomo invisibile (1896) che viene richiamato in The Burning Ring. La macchina del tempo infatti ci consente uno sguardo su come la divisione di classe e le diseguaglianze esistenti alla fine dell’Ottocento, anziché ricomporsi in un futuro di progresso e giustizia, si possano invece inasprire, invertendo quell’idea lineare di progresso che ottimisticamente abbiano mutuato dal Secolo dei Lumi. Anche Il tallone di ferro (1907) di Jack London risuona con la tensione distopica de La notte della svastica, mentre da Il mondo nuovo (1932) può essere stata tratta l’analogia che vede il romanzo di Aldous Huxley svolgersi nell’Anno di Ford 632 mentre Katharine Burdekin ambienta il suo nell’anno 720 dopo la morte del dio Hitler. Nonostante queste premesse l’accelerazione che Katharine Burdekin imprime alla propria narrazione la distacca per pessimismo e profondità da tutta la letteratura precedente e segna irrevocabilmente quella futura. Anzi, dovranno essere progressivamente smascherati gli orrori dei fascismi e combattuta una guerra mondiale per attribuire al romanzo una base di inquietante realismo. Nel 1937, alla data della sua prima pubblicazione, il nazionalsocialismo di Hitler è considerato da molti un regime autoritario che, nonostante il suo aperto antisemitismo, ha ottenuto risultati sociali ed economici rilevanti; nessuno prima di Katharine Burdekin ne aveva colto l’intima relazione tra violenza e sessualità, l’insito disprezzo verso le donne che risiede alla base del ruolo di “madre fertile”, la dimensione sociale della violenza e il ruolo delle caste quali elementi costituenti dello Stato, la dimensione religiosa e irrazionale del fanatismo politico e l’uso della dimensione collettiva per indebolire le diversità individuali e favorire il controllo e l’omologazione, come poi teorizzato da George Mosse nel saggio La nazionalizzazione delle masse (1974). Pochi anni dopo 1984 di George Orwell è un tributo letterario, politico e antropologico non dichiarato a La notte della svastica.

L’assetto del mondo descritto da Katherine Burdekin che si è instaurato dopo una Guerra dei Vent’anni, diviso tra impero nazista e dittatura nipponica che si fronteggiano in una secolare Guerra fredda, ripropone dal punto di vista geopolitico sia La svastica sul sole (1962) di Philip K. Dick (oggi soggetto della fortunata serie TV The Man in the High Castle) sia il mondo tripartito in perenne guerra di 1984. Ma soprattutto è l’ostilità tra la dittatura e la storia a legare indissolubilmente questi tre romanzi, il grande inganno che nasconde il passato a cui si oppongono, sempre più debolmente, i segni delle contraddizioni: il manoscritto di Von Hess e la fotografia originale di Hitler, il ritaglio del “Times” che capita al “correttore” Winston Smith di 1984 e il libro sovversivo La cavalletta ci opprime del romanzo di Dick che racconta un diverso mondo possibile. Anche nel paludato thriller Fatherland (1992) di Richard Harris è il contenuto di una cassetta di sicurezza a detenere le prove di crimini nazisti abilmente occultati dopo la vittoria sull’Unione Sovietica. Sono quei fotogrammi deteriorati a cui si richiama Marc Bloch in Apologia della storia o mestiere di storico (1949) quando descrive l’attiva dello storico come di una persona che svolge la pellicola del tempo all’indietro e si trova a osservare fotogrammi sempre più deteriorati e ambigui. Sono i segni di un passato che si divincolano dalla propaganda e dall’apparenza dell’ideologia per pretendere il ristabilirsi del primato della realtà. Katharine Burdekin intuisce che la distruzione della storia e della personalità sono elementi chiave per un governo dei pochi sui molti, dell’uomo sulle donne, delle élite sulle masse. L’amnesia mondiale, seguita alla trasformazione del partito nazionalsocialista in mito, arriva fino al punto di scontrarsi con la stessa biologia, riducendo la donna a un animale da riproduzione attraverso la perdita di memoria e di identità, a un elemento della filiera bellica specializzata nella produzione di soldati. In maniera quasi sotterranea la società nazista si stava muovendo nella direzione di funzionalizzare l’intera popolazione a un progetto di dominio mondiale attraverso una perversa logica fordista, come dimostrava anche il programma di sterilizzazione ed eutanasia dei disabili passato alla storia con la sigla Aktion T4. Ma, come spesso la fantascienza mette in campo, la natura può opporsi al con la catastrofe. In questo caso è emblematicamente la sterilità, elemento fondante de Il racconto dell’ancella (1985) di Margaret Atwood o del recente Il pianeta di ghiaccio (1998) di Maggie Gee.

Se la superstizione è la base della religione di Hitler, allora non c’è un posto per la scienza o per la tecnica nel fosco anno 720. Il mondo si è fermato negli anni Trenta, per poi retrocedere e perdere progressivamente conoscenze collettive e individuali fino all’instaurarsi di un nuovo eterno feudalesimo. Il mondo intero deve diventare analfabeta e, a parte un apocrifo libro religioso, solo sterili manuali tecnici hanno resistito come supporto alle parole scritte. Del resto Marshall McLuhan, a partire dagli anni Cinquanta, aveva osservato che molte tecnologie, e una di queste è la scrittura, si sono evolute per la loro capacità di governare il tempo. Ma l’umanità dell’era del dio Hitler vive un’esperienza atemporale del sempre uguale, garantendo all’élite e alla loro progenie la nefasta utopia di un potere infinito. Katharine Burdekin ignorava ancora l’alleanza tra nazionalsocialismo e Confindustria tedesca che aveva portato al cancellierato di Hitler nel 1933 con un programma anticomunista e antisindacale, realizzando un “miracolo industriale” fortemente basato sul lavoro obbligatorio dei prigionieri politici e dei cittadini classificati asocialen.

Dopo le due edizioni de La notte della svastica Katharine Burdekin pubblica Venus in Scorpio. A Romance in Versailles, 1770-1793 (1940), firmato assieme a Margaret Leland Goldsmith, una giornalista statunitense che viveva in Inghilterra, ancora con lo pseudonimo di Murray Constantine. Dopo la guerra scrive ancora sei romanzi che non vengono pubblicati. Nel 1963, Katharine Burdekin muore dopo una lunga malattia senza che nulla associ al suo nome le opere pubblicate come Murray Constantine. Ma con l’edizione curata da Daphne Patai del 1985 de La notte della svastica e la pubblicazione postuma del romanzo utopico The End of This Day’s Business (1989), grazie alla Femminist Press, Katharine Burdekin trova finalmente il posto che le compete all’interno del pensiero politico e femminista del Novecento.

La notte della svastica vantava un’unica edizione italiana per Editori Riuniti, curata nel 1993 da Carlo Pagetti. La sua introduzione offre le prime informazioni critiche su questa distopia/ucronia e su Katherine Burdekin. Oltre a un suo saggio “Nell’anno del Signore Hitler 720. Swastica Night di Katharine Burdekin”, apparso nel volume Cittadini di un assurdo universo (Nord, Milano, 1989), la bibliografia italiana dedicata a questa scrittrice vede il capito “Sogni e Incubi femminili”, nel volume di Oriana Palusci Terra di lei. L’immaginario femminile tra utopia e fantascienza (Tracce, Pescara, 1990) e il capitolo “Il problema della distopia femminile. Ginocentrismo e afasia in Swastica Night di K. Burdekin”, nel volume di Beatrice Battaglia Nostalgia e mito nella distopia inglese (Longo, Ravenna, 1998).

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Sport e dintorni – I migranti del pallone https://www.carmillaonline.com/2023/11/07/sport-e-dintorni-i-migranti-del-pallone/ Tue, 07 Nov 2023 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79810 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, Prefazione di Sergio Giuntini (Le Monnier, 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«Seguire le vicende dei calciatori stranieri approdati in Italia permette di ricostruire una storia della società e del costume nazionali e aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche» Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport

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Sin dalle origini, [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, Prefazione di Sergio Giuntini (Le Monnier, 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«Seguire le vicende dei calciatori stranieri approdati in Italia permette di ricostruire una storia della società e del costume nazionali e aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche» Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport

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Sin dalle origini, la storia del calcio è stata caratterizzata dalla mobilità dei giocatori. I migranti del pallone sono oggi presenti in tutti i campionati professionistici del mondo. […] Nel caso italiano, alla fine dell’Ottocento una pattuglia di svizzeri e inglesi giunti a vario titolo nella penisola – come imprenditori, rappresentanti di compagnie commerciali e di navigazione, ingegneri, tecnici – diede un contributo decisivo alla nascita del football in Italia. Quasi un secolo e mezzo dopo, l’Italia era il secondo paese scelto come meta professionale dai calciatori espatriati.

Tra questi estremi, si dipana una storia nella quale i giocatori stranieri hanno avuto una parte importante nel calcio italiano, non solo dal punto di vista strettamente sportivo. La loro presenza in Italia ha suscitato passioni contrastanti e alimentato polemiche politiche; ha condizionato gli equilibri economici del mondo del pallone e dato vita a contese giuridiche; ha rappresentato talvolta una cartina di tornasole degli atteggiamenti delle istituzioni e dell’opinione pubblica nei confronti degli stranieri in generale.

Le vicende di questi atleti, come singoli o come gruppi legati dalla provenienza geografica, si sono configurate come un racconto polifonico di grande interesse nel quadro della storia dello sport e dei suoi intrecci con la società italiana e la dimensione internazionale.

Gli studi storici sul calcio italiano hanno trattato il tema in modo sporadico, all’interno di ricostruzioni complessive della storia del gioco. In campo internazionale, le prime ricerche dedicate alle migrazioni degli sportivi risalgono agli anni Novanta del secolo scorso e si sono articolate successivamente in varie direzioni attraverso indagini sociologiche e ricostruzioni storiche.

Gli studi sociali hanno messo in luce le relazioni tra fenomeni migratori e globalizzazione, hanno elaborato tipologie dei migranti sportivi e sviluppato modelli esplicativi dei flussi dalla “periferia” ai centri principali del calcio mondiale.

Gli studi di carattere storico, meno numerosi, hanno sottolineato tra l’altro la necessità di collocare le migrazioni dei calciatori, come degli altri sportivi, nell’ambito dei processi migratori generali, suggerendo di applicare al caso dello sport le categorie interpretative utilizzate nell’approccio storico alla mobilità internazionale del lavoro.

Particolarmente interessanti risultano le chiavi interpretative e le indicazioni metodologiche proposte da Pierre Lanfranchi e Matthew Taylor che nei loro contributi hanno studiato il quadro complessivo della mobilità internazionale dei calciatori e analizzato alcuni casi specifici. Altri interventi su segmenti particolari dell’emigrazione calcistica hanno arricchito da vari punti di vista la conoscenza storica del fenomeno.

In una prospettiva storica si colloca anche questa ricerca, articolata in un arco cronologico compreso tra il calcio delle origini e gli effetti della “sentenza Bosman” del 1995 che liberalizzò i trasferimenti dei calciatori nell’Unione europea.

La ricostruzione ripercorre le vicende delle migrazioni calcistiche verso l’Italia sul versante sportivo e nei loro risvolti sociali, politici, economici, culturali, di costume, delineando le traiettorie geografiche dei flussi migratori e i profili delle più significative figure del calcio straniero in Italia, dai grandi protagonisti a personaggi minori, le cui storie esemplificano le vicissitudini professionali dei migranti del pallone.

La ricerca si concentra su diversi aspetti del fenomeno, come i fattori economici di spinta e di attrazione che hanno portato i giocatori alla scelta di emigrare, uniti ad altre cause di natura culturale, sociale, politica, geografica; le variabili sportive ed extrasportive che hanno condizionato le aperture e le chiusure delle frontiere calcistiche e il dibattito politico-sportivo che ha accompagnato questi passaggi; le reazioni nei paesi di partenza e le ricadute delle migrazioni sul calcio italiano; le modalità di integrazione dei nuovi arrivati nella realtà locale; le rappresentazioni del calciatore straniero e gli atteggiamenti nei suoi confronti, tra fascinazione per un modello esotico e pulsioni xenofobe e razziste.

[…]

La ricerca si è basata su numerose fonti a stampa (testate sportive, d’opinione e politiche) e su documenti di archivio; in particolare, per gli anni Cinquanta e Sessanta, sono state utilizzate diverse carte conservate a Roma presso l’Archivio nazionale del CONI.

Nella ricostruzione si è cercato di dare conto nel modo più ampio possibile della presenza dei giocatori stranieri in Italia per restituire la complessità e le articolazioni delle traiettorie seguite dai flussi migratori, senza una pretesa di completezza che esula dalle finalità di questo lavoro.

Dato l’elevato numero di atleti arrivati in Italia, è stato necessario operare una selezione. Sono stati presi in considerazione i calciatori più rappresentativi e di maggiore valore tecnico, quelli che costituiscono casi interessanti per diversi risvolti delle loro vicende (sportivi, sociali, politici, di ambientamento, di costume) e altri che esemplificano efficacemente le dinamiche e le caratteristiche del mercato calcistico italiano nei suoi rapporti con i paesi europei ed extraeuropei.


Serie completa Sport e dintorni

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Noi, al sicuro nel Pentacolo Elettrico (Victoriana 46) https://www.carmillaonline.com/2023/11/04/noi-al-sicuro-nel-pentacolo-elettrico-victoriana-46/ Sat, 04 Nov 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79623 di Franco Pezzini

(È appena uscito per i tipi il Palindromo, a cura di Gabriele Scalessa, il volume Carnacki – L’indagatore dell’occulto di William Hope Hodgson, con le classiche illustrazioni di Florence Briscoe. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

«Cosa intende fare?» mi domandò.

«Sarà un esperimento pericoloso?».

«Lo diventerà se non segue tutte le mie

indicazioni. Entrambi corriamo il rischio

di non uscire vivi da questa stanza. Ho

la sua parola che posso contare sulla sua

obbedienza qualunque cosa accada?».

William Hope [...]]]> di Franco Pezzini

(È appena uscito per i tipi il Palindromo, a cura di Gabriele Scalessa, il volume Carnacki – L’indagatore dell’occulto di William Hope Hodgson, con le classiche illustrazioni di Florence Briscoe. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

«Cosa intende fare?» mi domandò.

«Sarà un esperimento pericoloso?».

«Lo diventerà se non segue tutte le mie

indicazioni. Entrambi corriamo il rischio

di non uscire vivi da questa stanza. Ho

la sua parola che posso contare sulla sua

obbedienza qualunque cosa accada?».

William Hope Hodgson, “Il maiale”

 

Il successo delle riviste e dell’editoria popolare nell’Ottocento e specificamente nell’età vittoriana è a monte di un fenomeno la cui lunga coda interessa ancora noi oggi, cioè la nascita di una nuova epica popolarissima – diremmo di genere, con caratteri paraletterari o qualche volta pienamente letterari – che avrà strabordante fortuna postmoderna in forma transmediale. Dopo il successo infatti di diluviali saghe di eroi popolari a puntate a metà ottocento con i penny dreadful, la serialità di storie a episodi – annunciata fin dai tempi di Dupin e della Rue Morgue, 1841, con il varo del primo poliziesco moderno (ancora grondante gotico, sia pure) e del primo indagatore per “casi” – vede emergere nuovi modelli di eroi attrezzati, rispetto al passato, a un genere radicalmente diverso di quest. La nuova quest non mira all’orizzonte del sovrannaturale/meraviglioso (il santo Graal…), ma a risolvere misteri essenzialmente umani, legati spesso a un altro nuovo fenomeno già notato da Poe nel proto-poliziesco L’uomo della folla (The Man of the Crowd, 1840): il mistero della vita nella metropoli moderna, di lì idealmente a monte di una serie di romanzi che quel grembo di male notomizzavano in modo più o meno fantasioso, da I misteri di Parigi (Les mystères de Paris, 1842-1843) di Eugène Sue, a infiniti altri meno noti a firma di autori diversi (I misteri di Marsiglia, di Londra, di Napoli, di Pietroburgo etc.).

Nasce così, dalla radice-Dupin poi indefinitamente criticata dai discendenti a smarcare una propria autonomia, il detective seriale moderno: connotato da peculiarità, idiosincrasie, stigmi di eccezionalità che lo rendono più o meno un outsider, come l’Arcidetective Holmes e infiniti altri rivali (usiamo per ora questo termine, capiremo poi perché) eccellenti o miseri, pullulanti in età vittoriana, ma destinati per li rami ad arrivare ai giorni nostri e anzi proseguire oltre. La grande dinastia dei detective seriali (a volte donne, non dimentichiamolo) finisce però col gemmare due altre linee di discendenza: come ovvia conseguenza dei misteri alla Sue, quella dei “casi” di grandi ladri come Raffles o Lupin – che finiscono spesso con l’indagare pure loro, risolvendo vicende criminali, trovando tesori etc. – e quella di indagatori su un fronte del tutto diverso, cioè sovrannaturale-fantastico. Il sovrannaturale-meraviglioso afferiva a un contesto dove era ovvio pensare a santi o cavalieri devoti attivi in vere e proprie indagini, a storie edificanti di miracoli e angeli, al confronto col diavolo; il sovrannaturale-fantastico è figlio invece di un’età laica, dove in questione è l’incertezza di un corpus di casi che sovvertono la visione nota del mondo e la necessità di nuovi “specialisti” – non più religiosi nel senso di chiese fin troppo istituzionalizzate (nel poliziesco classico un caso molto particolare è quello del padre Brown di Chesterton, che però opera anche sul fronte psicologico-morale). Vero, il primo detective dell’occulto moderno, il dottor Martin Hesselius di Le Fanu, precede nel 1869 (poi nella raccolta In a Glass Darkly, 1872) il diffondersi modaiolo dei poliziotti e deve parecchio all’Apollonio del Lamia di Keats, 1820, ma il suo successore immediato e più efficiente, il Van Helsing del Dracula di Stoker, 1897, deve almeno qualcosa a Holmes. A differenza che poi nel cinema e nel fumetto, Van Helsing non è un indagatore seriale, bensì una tantum nell’ambito della vicenda che lo vede fronteggiare la battaglia apocalittica contro l’Anticristo transilvano: ma la sua lezione verrà ben appresa dal personaggio di cui parleremo.

Nel frattempo è successo dell’altro: l’alta marea dell’irrazionale che dal boom dello spiritismo (idealmente l’ultima delle rivoluzioni del 1848) capitalizza il convulso orizzonte dell’esoterismo tra Sette e Ottocento, vede impennare l’occulto nei salotti borghesi tra tavolini ciangottanti, illuminazioni, viaggi astrali e paludamenti similegizi dei nuovi teurghi e goeti: la nascita nell’Inghilterra vittoriana (1887-1888) dell’Hermetic Order of the Golden Dawn ne è solo l’evento più clamoroso. In breve gli indagatori dell’incubo spopoleranno, quasi a colmare un’imperiosa necessità dell’immaginario in tensione tra i due poli del positivismo scientifico e delle sirene dell’irrazionale: con l’avvertenza però che lo stesso positivismo di moda – che tanto influisce sullo spiritismo e in fondo sull’approccio pragmatico del “purché funzioni” di tante esperienze esoteriche – entra in gioco anche nell’approccio alle storie di indagatori dell’occulto. Nell’età del ballo Excelsior, che celebra i nuovi eroi di estrazione borghese portatori di luce – ingegneri, inventori, chimici e altri specialisti nelle più varie scienze & tecniche, magari con un pizzico di massoneria – a confrontarsi col sovrannaturale per salvare un “paziente” sarà sempre più frequentemente un medico: un buon vecchio dottore come l’Haberden de La Polvere bianca (Novel of the White Powder) in I tre impostori (The Three Impostors, 1895) di Machen, i perplessi colleghi dei racconti di Lovecraft, o invece un vero dottore psichico come il raffinato John Silence (1908) di quell’Algernon Blackwood confratello di Machen sotto i labari Golden Dawn, ma assai meno critico di lui sulla vocazione occultista dell’Ordine. John Silence è in effetti un iniziato nelle cui elegantissime storie emerge un complesso tessuto di conoscenze gnostiche e teurgiche, un illuminato che fronteggia il male con la sua spiritualità luminosa – sulla base di convinzioni esoteriche, filosofiche ed etiche dello stesso Blackwood.

Ben diverso è il caso dell’esoterismo genuinamente letterario (o paraletterario, se si preferisce) di un altro occult detective collega di Silence e di poco successivo, il Thomas Carnacki del britannico William Hope Hodgson, nato nel 1877 e morto sul campo di Ypres in Belgio nel 1918. Un autore di straniante potenza i cui romanzi fantastici – si pensi a Naufragio nell’ignoto (The Boats of the “Glen Carrig”, 1907), La casa sull’abisso (The House on the Borderland, 1908), I pirati fantasma (The Ghost Pirates, 1909), La terra dell’eterna notte (The Night Land, 1912) – spalancano in forme originalissime vertiginose prospettive allucinatorie tra inconscio e distopia fantascientifica, apocalittica e cosmologia, orrore e spaesamento psichico. Ricordare il suo ruolo di predecessore di Lovecraft è persino scontato, ma a fronte di un culto pop di spiacevole naïveté che sembra far arenare su HPL ogni tipo di discorso a detrimento di altri autori, va detto che la lezione di Hodgson sarà fondamentale per un po’ tutto il fantastico orrifico del Novecento.

Certo, a fronte dei grandi romanzi hodgsoniani, le storie di Carnacki possono venire giudicate una prova minore, dettate dalla necessità di sbarcare il lunario: Lovecraft le stroncava un po’ acidamente come “vastly inferior” agli altri lavori di Hodgson, “his poorest work” e Carnacki sarebbe un mediocre stereotipo di detective dell’occulto (è noto come HPL non cogliesse il fascino dell’occulto “tecnico”). Vero, i casi di John Silence si presentano assai più ricchi letterariamente e più profondi sul piano interiore. Eppure le storie di Carnacki sono testi di grande interesse, di intatto divertimento per i lettori e capaci di rivelare un aspetto diverso della genialità dell’autore, portando una ventata di novità in un filone destinato altrimenti a ripiegarsi nelle imitazioni delle voci di Le Fanu, Blackwood e pochi altri mattatori. Alcuni aspetti di questi racconti richiamano del resto la produzione maggiore dell’autore, e sembra sbagliato ignorare i nessi (per quanto impliciti): Il maiale (The Hog, pubblicato postumo nel 1947) fa pensare alle disturbanti creature simil-suine de La casa sull’abisso (oltre ovviamente alla simbolica biblica del maiale come animale impuro e in particolare all’episodio evangelico del branco di maiali indemoniati: Mt 8,28-34, Mc 5, 1-20, Lc 8,26-39); Il “Jarvee” infestato (The Haunted “Jarvee”, 1929) rimanda alla ricca serie di testi marinari di varia ampiezza varati da Hodgson negli anni; la cosmologia impazzita delle rivelazioni dispensate da Carnacki è coerente con le visioni distopiche dei romanzi, al di là del meccanismo tranquillizzante del rito ripetitivo dei “casi” (la riunione tra amici, etc.). Tratteniamo per ora queste considerazioni.

Intrigante anzitutto la vicenda editoriale. Inizialmente di Carnacki compaiono sei storie, pubblicate tra il 1910 e il 1912 sulle riviste The Idler e The New Magazine, e riunite in volume nel 1913; più tardi, nel 1947, un’edizione Mycroft & Moran legata ad Arkham House ne aggiungerà tre – due apparse postume su riviste (The Premier Magazine, Weird Tales), la terza mai prima pubblicata. Il sospetto che le abbia scritte August Derleth, responsabile della casa editrice e uso a riprendere spunti lovecraftiani, sembra però si debba respingere: c’è una coerenza stilistica tra le prime e le ultime storie pubblicate.

A differenza della luminosa vita interiore che permette a Silence di fronteggiare il Male (e gli offre uno spessore empatico particolarmente gradevole), nel caso del rigido e bizzarro edoardiano Carnacki il pragmatismo e un certo positivismo innestato sulla tecnica prevalgono. Sia perché a lui interessa la soluzione concreta dei problemi sottopostigli – poi oggetto di divertiti resoconti del dopocena agli amici – assai più che le sorti dell’anima sofferente in quanto tale (eccettuato forse il caso dell’impressionante Il maiale, più simile per rapporti tra detective e paziente ai casi di Silence); sia perché in effetti i misteri possono trovare soluzione naturale (frodi, manipolazioni eccetera) o ibrida, insieme naturale & sovrannaturale.

Per risolverli l’ingegnoso Carnacki, memore forse di un nesso onomastico con il conte Michel de Karnice-Karnicki, inventore di una elaborata safety coffin detta Le Karnice per salvare accidentali sepolti vivi, si appoggia a un’intera santabarbara di strumenti tecnici. A partire dalle macchine fotografiche care agli studiosi coevi di spiritismo (“Certe volte la macchina fotografica riesce a vedere cose che sfuggono alla normale vista umana: capite cosa intendo?”) ma in fondo già a Jonathan Harker (il Dracula stokeriano pullula di nuovi ritrovati della tecnica moderna) e dal “fonografo modificato con auricolari al posto dell’altoparlante”; fino ad attrezzi tali da combinare tecnologia e magia, come “un disco di vetro composto di tubi a vuoto disposti in maniera particolare” o il delizioso e originalissimo Pentacolo Elettrico. Suggestioni che sembrano preannunciare quello che oggi chiamiamo steampunk, e aprono al filone occultista nuove prospettive nel segno di un’improbabile tecnologia. Carnacki utilizza poi una serie di tradizionali mezzi magici: e sul punto l’Autore mostra di saper giocare con ammiccanti allusioni alla scuola del maestro Le Fanu, ma già in qualche modo, anche qui, preludendo a Lovecraft.

Troviamo dunque richiami sornioni a una serie di pseudobiblia, nel segno dell’ormai consolidato filone dei libri arcani, autentici (Poe, Le Fanu) o fittizi (Bierce): un fantomatico testo di formule protettive del XIV secolo, il Manoscritto Sigsand; la monografia di un certo Harzam, Astral and Astral Co-ordination and Interference con Addenda a cura di Carnacki; alcuni saggi di tal professor Garder (Experiments with a Medium e Astral Vibrations Compared with Matero-involuted Vibrations Below the Six-Billion Limit); False Re-Materialisation of the Animate-Force through the Inanimate-Inert sembra invece non un testo ma il nome di una teoria. Una menzione merita poi il misterioso Rituale Saaamaaa legato a un certo incantesimo di Raaaee (nome di entità?), di pericoloso utilizzo ma in grado di bloccare temporaneamente le forze malefiche… dove l’uso di lettere raddoppiate o triplicate (le edizioni circolanti dei presentano una certa varietà di grafie) già parla il linguaggio degli onómata barbariká, i nomi barbari usati in magia, che – raccomandano gli Oracoli caldaici, fr. 150 – “non [devi] cambiarli mai”.

Poco importa che i chiarimenti tecnici appaiano spesso fumosi, come in un certo linguaggio esoterico da bollettini spiritisti o teosofici, visto che l’insieme resta godibile e divertente al lettore. Lo spiritualismo di queste storie è alla grossa quello di età edoardiana, con l’enfasi sul tema del piano astrale: che però Carnacki collega con un cerchio rotante di gas esterno al pianeta. Lì ristagnerebbero ab-umani e mostruosità esterne come nel mare – si è osservato in relazione alla sua passione per storie di navigazione – allignano mostri marini; ma a reggerlo sarebbero comunque fantomatiche Forze Protettive – “In other words, it is being proved, time after time, that there is some inscrutable Protective Force constantly intervening between the human-soul (not the body, mind you) and the Outer Monstrosities”. Forze dai connotati non chiari, visto che le spiegazioni fantareligiose o demonologiche sono di solito evitate, al di là di alcune somiglianze tra ab-umani e mostruosità esterne coi demoni: si può parlare di una fanta-fisica con forze che conservano e altre che distruggono, ma è probabile che l’autore abbia costruito tutto questo sistema – in qualche rapporto, come detto, con gli scenari febbricitanti dei romanzi – attraverso progressivi colpi di teatro, senza la preventiva organizzazione di una teoria. A complicare le cose è anche l’uso di varianti lessicali rare o inventate (talune presenti solo in certe edizioni), come astarral che sembra intendersi per astral (uno, astarrale/asteriale, aggettivo e l’altro, l’astrale, sostantivo?), Monstrocities (mostruocità? cfr. ferocities, atrocities) per Monstrosities, etc.

Tutto il “sovrannaturale” o piuttosto Ab-naturale dei suoi racconti muove nel segno di energie sfuggenti e impatti sull’etere, ricadute di oscure leggi cosmologiche, forze psichiche e induzioni inconsce di pensiero, sull’onda in fondo delle arzigogolate speculazioni mistico/fisiche tra Sette e Ottocento che nutrono la formazione esoterica dei predecessori di Carnacki, cioè Hesselius e colleghi (“scientifiche” o letterarie: si pensi solo alla fantomatica “forza odica” di Karl von Reichenbach, al “Vril” di Bulwer-Lytton, etc.), ma appunto anche di fantasie spiritualiste o teosofiche coeve. I fantasmi veri e propri sarebbero forze di traumi umani inizialmente inanimate ma che acquisiscono un’inopinata animazione: tra questi fenomeni rilevano in particolare le manifestazioni Aeiirii – in apparenza le più comuni, incapaci di recare una completa materializzazione (cfr. aer come aria?) ma in grado di attaccare oggetti solidi – e Saiitii (anche Saaaiti, Saaitii: cfr. Sais in Egitto?), queste ultime particolarmente allarmanti perché coinvolgono la materia, ma ancora legate a dinamiche umane. A differenza dell’aggressione “demoniaca” di ab-umani e mostruosità esterne, spiriti astrali memori forse delle antiche tiritere di demoni gnostici o di cognizioni magico-astrologiche rinascimentali ma da Carnacki senz’altro riconducibili a nebulose (magari “lunghe migliaia di chilometri”) ed “emanazioni” cosmiche.

Come i grandi detective del poliziesco, Carnacki – ispirato a Sherlock Holmes ma anche a Hesselius – ha le sue fisime: vive in un alloggio da single e racconta i propri casi a quattro amici che poi, puntualmente, butta fuori “in modo amichevole” alla fine della serata. Uno di questi è Dodgson (cfr. Hodgson), una specie di Watson che funge da narratore: un ruolo funzionale a distanziare l’Eroe (un tipetto molto particolare e vagamente bizzoso, come del resto spesso gli indagatori popolari), garantendogli una sorta di camera stagna col mondo misterioso cui si confronta. Si noti l’assonanza onomastica tra il personaggio e lo scrittore; viene del resto il dubbio che a questo richiamo nobile se ne abbini uno più infastidito, quell’hog de Il maiale come possibile storpiatura del nome di Hodgson, pesantemente bullizzato durante la sua esperienza giovanile sul mare. Non si fatica a immaginare le dinamiche derisorie e la trasfigurazione fantastica di questo male in senso cosmico-metafisico.

Come detto, nei racconti il sovrannaturale non entra sempre e il detective deve talora fronteggiare impostori; qualche volta la storia sovrappone i due elementi. E tutto ciò, unito a una scrittura di buon ritmo, permette di mantenere tutt’oggi agli episodi una notevole suspense.

Carnacki influenzerà con potenza la storia del filone. Le sue trovate verranno riprese da altri, sia a livello di ispirazione generale che di singoli dati. Come nel caso di Dennis Wheatley, “il principe degli scrittori thriller” esperto di stregoneria e magia nera, nell’ambito dei casi del duca De Richleau: per esempio in The Devil Rides Out (1934) troviamo non solo gli Ab-humans (cap. 12), ma “the last two lines of the dread Sussamma Ritual” (cap. 27) – come in La stanza che fischiava la quasi omofona “Unknown Last Line of the Saaamaaa Ritual” –, e i Signori della Luce intervengono a tutela dell’anima dei buoni in modo molto simile alle Forze Protettive di Hodgson… Con la differenza però che Wheatley riconduce il tutto a una tradizionale dialettica religiosa luce/tenebra, mentre nei casi di Carnacki l’ottica resta più ambiguamente fantafisica.

Inevitabile che un personaggio tanto promettente conosca nel tempo una ricca serie di sviluppi anche apocrifi, come in chiave di pastiche – nel meraviglioso fumetto di Alan Moore e Kevin O’Neill The League of Extraordinary Gentlemen, nelle puntate: Black Dossier (2007) e Century (2009), nelle storie del Diogenes Club di Kim Newman e in Sherlock Holmes: The Breath of God di Guy Adams (2012) – e persino in esplicite parodie, quali The Dragonhiker’s Guide to Battlefield Covenant at Dune’s Edge: Odyssey Two di David Langford (1988) e The Sniffling Room di Rick Kennet (2000). In precedenza si è citata la categoria dei rivali di Sherlock Holmes: e Carnacki approda sugli schermi una volta sola, nel 1970, appunto nella serie televisiva inglese The Rivals of Sherlock Holmes, interpretato da Donald Pleasence in un adattamento del racconto Il cavallo dall’invisibile (The Horse of the Invisible, 1910). Ma il cinema ha celebrato un gruppo di personaggi che in termini parodistici sembrano dovere molto alla lezione di Carnacki: e si parla della squadra di Ghostbusters, i dottori Peter Venkman (Bill Murray), Raymond Stantz (Dan Aykroyd) e Egon Spengler (Harold Ramis) dei due esilaranti film di Ivan Reitman (1984 e 1989), a monte di una serie di altri prodotti (un pallido reboot 2016, serie di cartoni animati, fumetti, videogame, giochi di ruolo…). Certo, non c’è il Pentacolo Elettrico, ma a fronteggiare spettri e divinità ancestrali soccorrono trovate tecnologico-occultistiche che ne costituiscono una sorta di ideale derivazione.

Tutto facile, insomma? Be’, non proprio. Anzitutto perché l’armamentario di Carnacki non ci garantisce – è lui ad ammetterlo – una protezione completa contro le forze dell’ab-umano, a differenza di quanto accade in molte tranquillizzanti avventure dei suoi colleghi: e del resto non si vedrebbe come, in un orizzonte – evocato dai romanzi, ma in fondo alluso dalla confusa cosmogonia dei racconti – su cui si levano nubi nerissime. Carnacki e i suoi amici possono garantirsi il rituale tranquillizzante di quattro chiacchiere attorno a un tavolo e un buon dopocena a base di storie di spettri, veri o farlocchi. Ma quel che attende il pianeta, tra bufere eteriche, apocalissi astrali e infestazioni di Monstrocities incomprensibili, resta sullo sfondo, come un panorama assurdamente altro fuori dalla finestra con le tendine: ed è persino più tremendo dell’allucinata escatologia lovecraftiana – perché persino meno comprensibile, oltre che meno telefonato da un fandom di devoti. Dunque non siamo troppo frettolosi nel giudicare questi racconti, lasciamo che ci sorprendano. Nel nostro rifugio in mezzo al Pentacolo Elettrico ci resta qualche buon motivo per tremare.

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The Innocence of Simon Iff (Victoriana 44) https://www.carmillaonline.com/2023/10/18/the-innocence-of-simon-iff-victoriana-44/ Wed, 18 Oct 2023 07:12:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79485 di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da poco terminato un pamphlet per dimostrare che gli antichi avevano una certa conoscenza della matematica della quarta dimensione e che la loro affermazione di problemi, come la duplicazione del cubo, implicava la conoscenza di un mezzo in cui i valori incommensurabili diventavano misurabili. Considerava particolarmente forte il postulato delle parallele di Euclide, che non solo non è stato dimostrato, ma si è rivelato indimostrabile. Era anche un profondo studente della Massoneria, i cui arcani gli fornivano ulteriori argomenti sulla stessa tesi.

 

Per consuetudine critica, spesso si ascrive tout court Simon Iff, il protagonista dei racconti che andrete a leggere, alla categoria dei detective dell’occulto: ciò che, corretto per alcuni versi, richiede però almeno robuste puntualizzazioni – con particolare riguardo a questa prima raccolta, sostanzialmente poliziesca. In effetti, Iff – creato da Crowley per sbarcare il lunario alla fine del 1916 durante uno squattrinato soggiorno a New Orleans, dunque con l’obiettivo pragmatico di un’agevole collocazione editoriale – è un mistico e un occultista: vocazioni che al suo riapparire con un ruolo importante nel romanzo Moonchild, avviato dall’autore proprio a New Orleans all’inizio del 1917 (ma pubblicato solo nel 1929), troveranno ampio spazio. Di più, Iff è nei fatti un alter ego dell’autore mago e profeta delle leggi del Thelema, sgomitante del suo egocentrismo e della sua voglia di colpire gli interlocutori. Se una compenetrazione tra autore e personaggio è in qualche misura normale, nel caso di un vanitoso come Crowley il meccanismo appare scoperto: del resto non ha mai smesso – e non smetterà – di proporsi come protagonista di narrazioni.

Grady L. McMurtry, discepolo di Crowley e riorganizzatore dell’O.T.O., ha ipotizzato che almeno in Moonchild Iff si ispiri all’occultista Theodor Reuss fondatore dell’Ordo stesso (nonché, pare, spia della polizia), e altri hanno visto un modello nell’amico Allan Bennett (che però in Moonchild ha anche un altro ruolo-calco più diretto, il mistico Mahatera Phang): ma occorre ricordare che proprio Crowley in un nota olografa in margine a un altro suo romanzo, Diary of a Drug Fiend edito nel 1922, descrive Iff come “una mia raffigurazione quale uomo anziano”. In Moonchild il gioco di proiezioni permette all’autore di “duplicarsi” con dialettica spudorata tra un Sé giovane e avventuroso, Cyril – mago e amante, nonché vero protagonista – e un Sé molto più maturo, appunto Iff, mistico e maestro. Ma se Moonchild è insieme un romanzo iniziatico, una sorta di ideale risposta a The Magician di W. Somerset Maugham (1908), e una feroce satira degli ex-sodali Golden Dawn, le quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) che Crowley dedicherà al mistico, mago, psicologo e detective Simon Iff mirano a cavalcare mode narrative d’epoca – il proliferare di storie di indagatori del crimine e dell’occulto, i dialoghi brillanti di un ambiente sociale elitario che intriga il grosso pubblico, un certo tipo di poliziesco un po’ cerebrale alla Philo Vance (più tardo, dal 1926), sia pure con note di genuina originalità. D’altra parte Iff nei racconti è molto anziano, pur sembrando assurdamente giovanile; ma anche in questa prima tranche di avventure non manca un Crowley giovane, incarnato in Jack Flynn, editor del giornale The Emerald Tablet dietro cui intravediamo la testata crowleyana The Equinox; e c’è persino, tanto per continuare l’autofiction, una sontuosissima “Coppa Crowley n. 3” con fragole, Grand Marnier Cordon Rouge, champagne e ghiaccio.

L’occulto va perciò inteso semmai in un’accezione un po’ particolare. Nel primo racconto della raccolta, “The Big Game” (“Caccia grossa”), troviamo un cenno fuggevole a “una specie di club di adorazione del diavolo, […] una delle loro passioni era la cocaina” ma il caso permette di smascherare assassini rimasti impuniti; il secondo, “The Artistic Temperament” (“Il temperamento artistico”), ripropone echi del Ramo d’oro di Frazer in rapporto a un incredibile caso criminale, ed è impossibile non pensare ai racconti dell’altra serie più o meno coeva Golden Twigs (cfr., in questa stessa collana, Aleister Crowley, I ramoscelli d’oro, 2021); il terzo, “Outside the Bank’s Routine” (“Fuori dagli schemi”), riguarda un delitto enigmaticissimo e dai dettagli paradossali che può far pensare a una storia di fantasmi. Nel quarto, “The Conduct of John Briggs” (“La condotta di John Briggs”), occorre difendere un accusato d’omicidio, attraverso “la voce del suo particolare demone”; nel quinto, “Not Good Enough” (“Non abbastanza bravo”), ritornano echi di Frazer; nel sesto, “Ineligible” (“Inammissibile”), la ricostruzione di un passato nerissimo fa pensare a certe pagine di romantici torbidi francesi dell’Ottocento. Il concetto di occulto richiama dunque più spesso in questi mystery a un’accezione di segreto e umbratile, tenebroso, ancestrale o torbidamente velato, con il magico sullo sfondo e i misteri di una psicologia liberissimamente invocata dal Semplice Simon: colui che a colpi di domande e sintesi provocatorie decostruisce le verità giudiziarie o sociali per cogliere verità più sconcertanti e segrete.

Dal tardo 1914 al tardo 1919, la Grande Bestia 666 è in America, dove tra mille avventure cerca di importare il culto del Thelema: un periodo importante per la sua vita, anche se è ben lungi dall’immaginare il successo postumo lì, mezzo secolo dopo, che contribuirà all’esplosivo revival magico (tardi Sessanta-inizio Settanta) in tutto l’occidente e all’impennata dell’immaginario crowleyano nella musica. I soldi scarseggiano, quindi Aleister usa la propria fantasia e rapidità di scrittura per varare la saga di un nuovo personaggio. A metà gennaio 1917 termina di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff (quelle in sostanza del volume che avete in mano), in prima battuta edite su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio di cui si ritiene reincarnazione, l’equivoco medium e compagno d’avventure del “Merlino moderno”, il ben più presentabile mago elisabettiano John Dee. Vi si trova sotteso un qualche scherzo birichino all’ex-amico pittore Gerald Kelly, in seguito meglio noto come Sir Gerald Festus Kelly (1879-1972), ritrattista tra i preferiti della famiglia reale inglese, ma soprattutto cognato renitente di Aleister attraverso le sue nozze con la sorella Rose?

La prima serie è ambientata nel Vecchio Mondo. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). È senz’altro eccessivo proclamare – come fa Crowley annunciando con clamore la seconda serie – che si tratti dei polizieschi più sensazionali dopo quelli di Doyle su Holmes, ma è vero che il taglio appare innovativo: un dosaggio originale tra mystery e occult detective fiction, con ampio spazio alla psicologia e un po’ di Thelema. I testi sono fitti di citazioni letterarie (moltissime da Shakespeare) e di riferimenti più o meno cifrati, maliziosi o meno, alla vita e ai contatti dell’autore. Per dire, il cenno del racconto “Inammissibile” al Loch Ness richiama al luogo di Boleskine House, dove l’autore era vissuto a periodi e aveva celebrato rituali; e gli Exclusive Plymouth Brethren lì citati sono quelli del culto fondamentalista cui appartenevano i suoi genitori, e da cui la Bestia 666 era stata ovviamente cacciata. Anche più emblematico per il periodo che l’autore sta attraversando è un cenno a tre femme fatale – o piuttosto divoranti dark lady – contenuto nel terzo dei racconti:

 

Il ragazzo ebbe un sussulto, quasi svenne. “Esistono donne di questo tipo?” chiese Macpherson. “Pensavo fosse una favola.”

“Ne ho conosciute tre, intimamente”, rispose Simon Iff. “Edith Harcourt, Jeanne Hayes, Jane Forster. Quello che dice il ragazzo è vero. Posso dire che l’indulgenza nel bere o nelle droghe tende a creare questi mostri dalle donne più nobili. Delle tre che ho menzionato, le ultime due erano cattive per natura. Edith Harcourt era una delle donne più belle che siano mai vissute, ma sua madre le aveva insegnato a bere quando era ancora una bambina, e in un momento di stress il nemico nascosto è uscito da dove era in agguato: le ha distrutto l’anima. La sua personalità fu completamente trasformata; sì, signore, nel complesso, credo nella possessione da parte del diavolo. Tutte e tre le donne hanno rovinato gli uomini che hanno frequentato, o alcuni di loro. Jeanne Hayes ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi, Jane Forster ha portato un valido avvocato alla follia malinconica. Delle loro vittime minori, semplici cuori infranti e così via, si perde il conto. Edith Harcourt ha reso la vita di suo marito un inferno per tre anni, e dopo il divorzio si è scatenata del tutto e ha distrutto molti altri con le sue carezze infami.”

“L’ha conosciuta intimamente?”

“Era mia moglie.”

 

Dove sotto il velame della narrazione, Edith Harcourt è identificata da una nota olografa dell’autore per Rose Edith Kelly (1874-1932), da lui avventurosamente sposata, e assurta a prima delle Donne Scarlatte: è attraverso lei, nel ruolo di Ouarda la Veggente, che gli è giunta la famosa Rivelazione del Cairo, 1904, a monte del culto filosofico/religioso del Thelema. Si sono lasciati rovinosamente nel 1910, con divorzio ufficiale e strascico di rovelli. Rose ha avuto da Aleister due figlie, una morta prestissimo, l’altra crescerà lontana dal padre. Scivolata tristemente nell’alcool, l’ex-Donna Scarlatta sarà ancora modello per la povera Margaret del Magician di Maugham.

Jeanne Hayes, cioè Jeanne Eugenie Heyse, poi Heyes (1890-1912), in arte Ione de Forest, inglese di famiglia belga-irlandese, ha avuto la parte di Luna nei crowleyani Riti di Eleusi (1910) ma si è dedicata poi alla pittura, sposando il paleografo Wilfred Merton: ha poi avuto un rapporto con il poeta e scrittore Victor Neuburg (discepolo e per un periodo partner magico e di vita del bisessuale Crowley), e si è suicidata mentre attendeva il divorzio (“ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi”, sintetizza Iff). A trovare il corpo è stata la pittrice Nina Hamnett, che ricorderà questo sottomondo di arte, passioni ed eccessi nel suo Laughing Torso (1932), ed Ezra Pound celebrerà la giovane in una lirica e nel Canto VII.

Jane Forster, cioè la bellissima Jeanne Robert Foster (1879-1970) nata Olivier o Ollivier, modella, giornalista e poeta, citata come “il Gatto” nelle Confessioni di Crowley, da lui ribattezzata Soror Hilarion (è la terza Donna Scarlatta) e modello per la Mollie Madison di altri racconti, sarebbe stata d’accordo per lasciare il marito e sposare Aleister, che però ha lasciato improvvisamente: per una volta, la Bestia 666 è stata colpita al cuore, e il testo risulta scritto sull’onda di questa amarezza profonda.

Insomma Iff è un vero e proprio concentrato del Crowleyverse: ma sarebbe sbagliato, anche per i pragmatici motivi del varo di questi racconti, estrapolarlo dalla grande famiglia degli indagatori tanto florida tra i due secoli. Ed è inevitabile cercarvi parentele. Il paradosso è che, pur nell’ovvia distanza di profilo, il detective in fondo più simile all’occultista Iff nel lasciare spazio alle pieghe e piaghe della vita interiore sia ben diverso dei dottori psichici fioriti nei primi decenni del Novecento (e tanto meno dei loro predecessori vittoriani): si tratta in fondo di un indagatore del foro interno nientemeno che in talare, il sacerdote-detective Padre Brown creato nel 1910 dallo scrittore, poeta, polemista e critico d’arte Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), con qualche anticipo sulla sua ufficiale conversione al cattolicesimo (1922).

Come osservato in altra sede, pochi personaggi paiono più distanti di Crowley e Chesterton: eppure sono entrambi geniali, combattivi, ingombranti, ironici fino al sarcasmo, cultori entusiasti del paradosso (“prince of paradox” è stato definito Chesterton, ma anche il magistero di Crowley – come esplicitato in Moonchild – vede nel paradosso un vero e proprio sistema di pensiero), autori prolifici di saggistica, narrativa e poesia. Entrambi eversivi, da lati diversi, rispetto al conformismo etico di un’epoca, al “modo di pensare meccanico dei protestanti” (come lo definisce Gramsci nelle Lettere dal carcere), al grigiore spesso vuoto di una morale pubblica vittoriana – sopravvissuta alla grande regina, gli strascichi correranno ancora per mezzo secolo – sull’onda in fondo della lezione del grande provocatore Wilde. I due hanno anzi modo di battibeccare a distanza fin dal 1901 (quando Chesterton mostra qualche interesse per la poesia di Crowley, con riserve solo sui suoi paganesimi d’importazione dai toni simbolistici modaioli): e si scambiano ironie via via crescenti, anche se nel complesso relativamente morbide. Certo, la prosa davvero letteraria, ricca e scintillante di Chesterton lascia parecchio indietro quella di Crowley. Come quest’ultimo del resto esplicita nella propria “autoagiografia” proprio a proposito delle avventure di Iff, in generale il sistema sottostante le medesime si basa

 

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

 

Nel senso proprio di una verità radicalmente umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Certo, c’è un abisso tra il piccolo prete di parrocchia, sorridente e un po’ trasandato, “che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità” (ancora Gramsci) e il vecchio viveur che può affettare esperienze ascetiche ma alternandole alle abboffate di foie gras e alle degustazioni di vini pregiati in club esclusivi. Ma entrambi rappresentano la critica a un certo modello di eroe raziocinante, e in fondo di mondo ideale, a partire da un approccio antropologico e psicologico e da un’ironia costante.

Si può faticare a star dietro ai fuochi d’artificio – talvolta un po’ forzati – dei paradossi di Iff. E tuttavia il brio e l’intelligenza, le divertite sorprese e gli arzigogoli di questi racconti mantengono una vivacità intatta e rappresentano godibilissimi documenti non solo per una storia dell’esoterismo ma per quella di un genere poliziesco che col fantastico flirta in fondo fin dalle prime origini, riuscendo al contempo a evocare effervescenti siparietti d’epoca.

Come Padre Brown, Iff notomizza i rovelli interiori, difende innocenti accusati e smaschera criminali e ipocriti, sia pure con interesse ben diverso dalla salus animarum cui mira l’eroe di Chesterton. Così alla Innocence of Father Brown (1911, come espresso nel titolo della prima raccolta sul prete-investigatore, seguita da altre 1914, 1926, 1927, 1935) ecco affiancarsi/contrapporsi la “semplicità” di Iff; al riferimento del primo alla fede cattolica, fa riscontro nel secondo quello al Thelema. Per esempio “L’universo è un fenomeno di amore sotto la volontà”; o anche, emblematicamente, “Come mi ha sentito dire circa un milione di volte, Jack, ‘Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge’”.

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Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

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Contro il totalitarismo: perché leggere il pensiero di Luce Fabbri https://www.carmillaonline.com/2023/05/20/contro-il-totalitarismo-perche-leggere-il-pensiero-di-luce-fabbri/ Sat, 20 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77014 di Lorenzo Pezzica

[Con il consenso della casa editrice si riporta di seguito la prefazione scritta da Lorenzo Pezzica al volume Luce Fabbri, Critica dei totalitarismi (elèuthera, 2023). Attivista, docente, saggista e poetessa, Luce Fabbri (1908-2000) si è confrontata con il proprio tempo fedele alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi, non mancando di attingere dalle diverse correnti del pensiero critico a lei contemporanee. Nel volume sono raccolti scritti in cui Luce Fabbri si occupa di libertà e rivoluzione, della natura dello Stato contemporaneo e dell’ascesa della tecnoburocrazia. [...]]]> di Lorenzo Pezzica

[Con il consenso della casa editrice si riporta di seguito la prefazione scritta da Lorenzo Pezzica al volume Luce Fabbri, Critica dei totalitarismi (elèuthera, 2023). Attivista, docente, saggista e poetessa, Luce Fabbri (1908-2000) si è confrontata con il proprio tempo fedele alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi, non mancando di attingere dalle diverse correnti del pensiero critico a lei contemporanee. Nel volume sono raccolti scritti in cui Luce Fabbri si occupa di libertà e rivoluzione, della natura dello Stato contemporaneo e dell’ascesa della tecnoburocrazia. – ght]

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Ci sono almeno tre motivi per leggere questa breve antologia dedicata all’analisi e riflessione di Luce Fabbri sul potere totalitario. Il primo motivo è che «nasce» anarchica, favorita dallo speciale ambiente familiare in cui cresce, e dunque diventa una testimone particolarmente sensibile e consapevole degli eventi e delle tragedie che attraversano tutto il XX secolo. L’intero suo percorso esistenziale, intellettuale e politico si iscrive all’interno dell’ideale anarchico, cosa che non le impedisce comunque di saldare il suo pensiero a un forte principio di realtà e al contesto sociale e politico di appartenenza. Il secondo motivo è che questo suo essere anarchica «da sempre» è ciò che la rende un personaggio estremamente significativo per la pregnanza con cui ha vissuto e concretizzato la sua weltanschauung libertaria. L’anarchismo le ha fornito uno schema di lettura della realtà. Con un simile orientamento critico ha affrontato le questioni politico-sociali più scottanti a lei contemporanee senza cedere alle seduzioni della semplificazione. Il terzo motivo è che l’anarchismo le appare la migliore garanzia contro l’affermazione del totalitarismo, anzi le appare come l’unico movimento capace di rivendicare pienamente l’importanza dell’autonomia dell’individuo nei confronti dei grandi apparati e quindi di porre in primo piano il valore morale della libertà.

Luce Fabbri, nata nel 1908 a Bologna e scomparsa nel 2000 a Montevideo, è oggi considerata una tra le figure intellettuali più significative dell’anarchismo italiano e internazionale del Novecento1. Nonostante ciò, il suo pensiero, benché accolto su numerose riviste del movimento, per lungo tempo non è stato compreso e dibattuto quanto avrebbe meritato, anche se, per esempio, Pier Carlo Masini, seppur critico nei confronti di alcuni aspetti del suo pensiero2, ne aveva già riconosciuto l’originalità e la profondità tanto da ricordare, molti anni più tardi, la «boccata d’ossigeno» che avevano provocato le sue idee «per il modo problematico con cui erano proposte»3. Masini però resta uno dei pochi, e le idee della Fabbri passano sostanzialmente inosservate nel movimento anarchico italiano, tanto che chi riprende e sviluppa il tema della «tecnoburocrazia» negli anni Sessanta, riscoprendo pensatori anarchici come Louis Mercier Vega o autori come Bruno Rizzi, non si accorge delle lungimiranti pagine scritte dalla Fabbri sullo stesso tema. E poco dibattuta resterà anche la sua riflessione sul totalitarismo4, svolta tra gli anni Trenta e Sessanta, che comunque le permetterà di ripensare al contempo l’essenza stessa dell’anarchismo5.

Nei suoi scritti, infatti, Fabbri elabora una nozione dell’agire libertario visto come espressione diretta della volontà umana. Per descrivere la sua riflessione si può utilizzare il giudizio che il sociologo Alessandro Dal Lago ha espresso a proposito del pensiero di Hannah Arendt: «Una teoria libertaria dell’azione nell’epoca del conformismo sociale»6.

Ancorata alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi7, ma al contempo spinta a svilupparlo, arricchirlo e per alcuni aspetti superarlo, Fabbri affronta nel corso della sua esistenza alcuni dei nodi centrali delle vicende storiche che segnano la sua epoca. Ma parallelamente a questa cultura politica sviluppa anche una solida cultura storica e letteraria che le darà una grande apertura mentale verso i problemi del presente e del futuro, permettendole tra l’altro di accedere, nel 1949, all’insegnamento universitario a Montevideo.

Negli anni della Guerra Fredda e del mondo diviso in due blocchi, Luce Fabbri vuole trovare «il luogo attuale dell’anarchismo», ripensandone l’essenza, e ritiene di trovarlo nella naturale confluenza di due linee evolutive: il liberalismo e il socialismo.

Pur saldamente legata alla tradizione socialista dell’anarchismo, Fabbri intende infatti recuperare al pensiero anarchico ciò che chiama «una parentela più remota»: il liberalismo, inteso nel suo valore profondamente etico di difesa dell’uomo e di lotta per la libertà. Il liberalismo così inteso potrà dirsi compiuto, secondo lei, quando avrà eliminato i presupposti del dominio economico: la libera impresa e la proprietà privata. A quel punto, la tradizione liberale, toccando così il suo momento più alto, non potrà che confluire nel socialismo.

Nel proporre queste sue idee, Luce Fabbri non manca di richiamarsi tanto al liberalismo radicale di Piero Gobetti quanto al socialismo liberale di Carlo Rosselli. Ma è soprattutto al pensiero di Camillo Berneri che si richiama più direttamente8.

Un elemento centrale che caratterizza la sua esistenza e il suo pensiero è inoltre rappresentato dalla condizione dell’esilio, da lei vissuto con grande sofferenza, anche se non nella stessa misura di suo padre, come lei stessa ricorderà, molti anni più tardi, nella biografia a lui dedicata9. Nel 1932 pubblica infatti a Montevideo I canti dell’attesa, una raccolta di poesie da cui traspare non solo la nostalgia per il paese natale, ma anche lo sdegno per il fascismo e le sue imprese10.

La sua esistenza si svolge di fatto tra l’Italia, che lascia insieme alla famiglia a vent’anni a causa del fascismo, e l’Uruguay, il suo secondo paese. Dal 1929, anno di arrivo a Montevideo, questa condizione «binaria» diventa centrale nel suo modo di vivere e pensare. Nondimeno, il movimento anarchico italiano resta un punto di riferimento fondamentale per la sua azione di militante e intellettuale anarchica. Già a partire dagli anni Trenta, pur se tra moltissime difficoltà, cercherà di mantenere i contatti con il movimento anarchico italiano, per poi, con la fine del conflitto mondiale, riprenderli in modo più continuativo. E tuttavia nel dopoguerra Luce decide di non tornare nel suo paese natale, a differenza di altri esuli anti-fascisti. In Italia tornerà solo tre volte: nel 1954, nel 1981 e nel 1993.

Fin dal 1944 segue però con entusiasmo i tentativi di riorganizzazione del movimento nella parte liberata dell’Italia attuati da vari militanti, e in particolare da Pio Turroni, Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria; tentativi che si concretizzano nel settembre del 1945 con il primo Congresso nazionale di Carrara che dà vita alla Federazione Anarchica Italiana11 e alla fondazione della rivista «Volontà»12.

Luce Fabbri è in particolare entusiasta del nuovo progetto editoriale, al quale subito aderisce. Quanto reputi importante la nascita di «Volontà» emerge chiaramente dalle lettere che scrive a Giovanna Berneri nel 1945. In una lettera del dicembre di quello stesso anno, Luce afferma: «Se ‘Volontà’ si trasforma in una rivista con sufficiente diffusione all’estero, penserei seriamente a sopprimere ‘Studi Sociali’»13.

In effetti, la sua collaborazione con la nuova rivista italiana rappresenta uno dei momenti più importanti del suo percorso esistenziale e della sua riflessione teorica. Gli articoli che pubblica sulla rivista tra il 1946 e il 1960, oltre ad affrontare argomenti legati all’attualità politico-sociale italiana e uruguayana, nonché ai temi della pedagogia libertaria, sono infatti incentrati sul fenomeno del totalitarismo14. Una riflessione che, iniziata fin dagli anni Trenta, giunge nel periodo della sua collaborazione alla rivista a una sua completa formulazione15, che le permetterà di affrontare nei decenni successivi della sua vita l’analisi della realtà storica, sociale e politica dello Stato contemporaneo, sempre attenta a ogni evento o processo che possa costituire un segnale della tendenza totalitaria in atto. E di fatto il suo originale contributo al tema del totalitarismo la inserisce a pieno titolo all’interno di quel dibattito che ha profondamente segnato la cultura del XX secolo16.

Nella sua ricerca intellettuale, Luce Fabbri attinge alle più diverse e stimolanti correnti del pensiero «critico», dimostrando così la sua particolare apertura mentale e culturale. Al fianco del padre, Luce aveva acquisito una buona conoscenza delle problematiche scaturite dal dibattito sulla rivoluzione russa e l’avvento del regime fascista in Italia. Fa dunque proprio e rielabora il pensiero dei classici dell’anarchismo, ma si dimostra sensibile anche alle suggestioni emerse dal «laboratorio parigino» degli anni Trenta17, indipendentemente dall’estrazione politico-culturale di quei pensatori. Tra le sue letture di quegli anni vi è per esempio Emmanuel Mounier, filosofo cattolico del personalismo, ma attinge anche ad altre fonti come le opere di George Orwell, Ernst Cassirer18, James Burnham19 e Milovan Đilas20. Molte delle sue intuizioni sul fenomeno del totalitarismo sono vicine a quelle espresse da Simone Weil21 o anticipano per alcuni aspetti quelle di Hannah Arendt22, mentre le sue osservazioni sulla tecnoburocrazia si possono ritrovare in quelle formulate da Bruno Rizzi23.

Parlare di totalitarismo nell’Italia di quegli anni, comparando fascismo, nazismo e comunismo, significa «esporsi al bando della società intellettuale e, nella sinistra, all’isolamento sanitario»24. Ma Luce Fabbri, come ricorda Masini, «queste cose le disse fin da allora» e «questa discussione dell’immediato dopoguerra fu uno dei primi dialoghi di massimo livello fra l’anarchismo e il pensiero contemporaneo»25.

La sua riflessione appartiene infatti a quella che lo storico Enzo Traverso chiama la «caratteristica paradossale»26 all’interno del dibattito sul totalitarismo, cioè il ruolo del tutto marginale svolto nell’articolazione del dibattito dall’Italia, paese in cui la parola totalitarismo aveva trovato la propria origine27. Nell’Italia postbellica, ormai caduto il fascismo, il tema del totalitarismo resta infatti fuori dalla porta, anche se il termine «totalitarismo» circola comunemente, ma in un’accezione «autarchica»28.

Per avere un’idea del ritardo con il quale questo dibattito è giunto in Italia, basti pensare che il celebre libro di Arendt, Le origini del totalitarismo, viene tradotto in Italia solo nel 1967, sedici anni dopo l’edizione originale29, e lo stesso avviene per il saggio di Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, tradotto anch’esso nel 196730, mentre l’opera di Carl Joachim Friedrich e Zbigniew Brzezinski Totalitarian Dictatorship and Autocracy, del 1956, non è mai stata tradotta in italiano31. Non solo, ma occorre aspettare il 1997 per l’organizzazione, a livello universitario, del primo convegno italiano dedicato al tema del totalitarismo.

Ai dogmatismi e alle certezze manichee di quegli anni Luce Fabbri risponde con un’indagine critica e analitica, insoddisfatta della vulgata corrente e animata da una costante problematicità e da una prospettiva culturale aperta. A suo avviso, il fenomeno totalitario ha le proprie origini storiche nel contesto creato dalla Grande Guerra. Le esigenze connesse alla guerra del 1914 avevano infatti portato a una profonda trasformazione della struttura sociale dei paesi capitalisti. La necessità di rendere omogenei gli sforzi volti a pianificare l’economia in funzione della guerra aveva comportato una notevole espansione delle prerogative dello Stato e una conseguente espansione degli apparati burocratici. Un processo che sostanzialmente ricalcava le dinamiche di accentramento del potere che caratterizzavano i paesi totalitari.

Comparando nazismo e stalinismo, Luce Fabbri riassume in questi termini il «sistema totalitario»:

Esso è l’unificazione dell’oppressione politica e dello sfruttamento economico delle grandi masse umane asservite nelle mani di uno Stato assoluto e fortemente centralizzato, operante attraverso una casta di funzionari economicamente privilegiati e politicamente partecipi – secondo la loro scala gerarchica – delle funzioni cosiddette di direzione, cioè in verità del potere. Tale casta comprende tutta la burocrazia governativa nei suoi diversi settori, compresi i tecnici e gli organizzatori della produzione e della distribuzione, la polizia, l’esercito e con il tempo, senza dubbio, il clero»32.

È il fenomeno tecnoburocratico. Luce Fabbri e Louis Mercier Vega33 sono stati i primi a introdurre nel movimento anarchico di lingua italiana il concetto di tecnoburocrazia e fin dal 1933, quando, a partire dallo studio comparato dello Stato fascista e di quello sovietico, Fabbri individua già l’ascesa della classe tecnoburocratica come uno dei tratti unificanti delle società contemporanee34. Come scrive in quell’anno, il totalitarismo del XX secolo gestisce il passaggio in campo economico dal capitalismo al collettivismo burocratico, come avrebbe detto e scritto nel 1939 Bruno Rizzi35 e poi nel 1941, in altri termini, James Burnham36.

Dopo aver inquadrato il processo tecnoburocratico all’interno del fenomeno totalitario, Luce Fabbri pone però in secondo piano gli aspetti economici del processo totalitario, considerati una delle manifestazioni del rapporto fondamentale tra gli individui e i gruppi sociali, che è essenzialmente un rapporto politico, un rapporto di potere.

È quindi sull’aspetto più genuinamente «politico» e «ideologico» del totalitarismo che Luce decide di concentrare la sua analisi. Per lei, fascismo, nazismo e stalinismo puntano, oltre che a un’espansione ipertrofica della sfera pubblica in economia, al potenziamento esponenziale della violenza dello Stato attraverso la guerra, interna ed esterna, all’irreggimentazione sistematica delle coscienze e all’imbarbarimento dei rapporti sociali, che porta all’annichilimento dell’individuo in nome di ingannevoli e falsi ideali collettivi. In particolare sono tre gli elementi che definiscono il regime totalitario: la neolingua, la visione ufficiale della storia, la militarizzazione delle intelligenze.

Il primo elemento mantiene il potere attraverso la trasformazione profonda e unilaterale del vocabolario, sfigurando e a volte invertendo, senza dichiararlo, i termini dei vecchi e dei nuovi problemi. E a tal proposito Fabbri parla della «semantica artificiale del nazionalsocialismo tedesco» diretta a creare quella neolingua che minaccia «il nostro futuro» e che impedisce ogni pensiero eretico37. Lo Stato totalitario, in altri termini, una volta conquistato il potere lo consolida a «colpi di linguaggio»38 trasformandosi in una vera e propria «logocrazia di massa»39.

Per quanto concerne il secondo elemento, Fabbri evidenzia come i regimi totalitari impongano al loro interno una visione ufficiale della storia contemporanea «e, in casi estremi, anche della passata»40. Il totalitarismo utilizza il suo potere per manipolare le informazioni e distruggere la memoria storica. La realtà viene dunque vagliata, selezionata, costruita, prodotta: un tratto questo che a suo avviso accomuna il nazismo e lo stalinismo.

Infine, il terzo elemento, ovvero la militarizzazione delle intelligenze individuali (e la loro successiva fusione in una massa omogenea), appare a Fabbri come una modalità negativa che costringe le persone a un lavoro di investigazione solitario, privo del beneficio dell’interscambio spirituale e della discussione. Da una parte, quindi, il potere onnipervasivo dell’ideologia totalitaria rende «omogenea» la massa degli individui e, dall’altra, «isola» il pensiero dal rapporto fecondo tra idea e realtà. Nel formulare queste sue idee Luce Fabbri fa esplicito riferimento a Orwell, ponendo direttamente al centro delle sue argomentazioni le tesi di 1984.41 Dalla lettura di questa opera ricava infatti importanti suggestioni a conferma del suo pensiero, quali per esempio la relazione tra linguaggio e capacità critica, la relazione tra potere e strumenti di comunicazione e la relazione tra potere e storia. E tuttavia non si limita, nella sua riflessione, ad analizzare il fenomeno totalitario nel solo significato di nuovo regime, bensì si apre verso una prospettiva ermeneutica che cerca di leggere in ciò che accomuna fascismo, nazismo e stalinismo qualcosa che non riguarda solo l’intensità e la struttura dell’oppressione politica ma anche la sua essenza.

Interrogando le responsabilità del passato, Fabbri fa inoltre emergere la continuità tra totalitarismo e tradizione occidentale, tra logica del potere tout court e logica totalitaria. Rispetto ad Arendt è interessante sottolineare il diverso accento posto sulla continuità o discontinuità del totalitarismo, che non a caso avvicina il giudizio di Luce Fabbri a quello di Simone Weil. Se è possibile individuare elementi comuni nella riflessione sul totalitarismo di Fabbri e Arendt, le due pensatrici si differenziano però nel giudizio sull’originalità e l’unicità del fenomeno. Per Arendt il totalitarismo è sì implicato nella mentalità politica e filosofica moderna, ma non è assolutamente necessitato né iscritto come destino nei suoi geni. Per Fabbri invece il fenomeno totalitario è un esito estremo di quella logica del potere che ha segnato la nostra storia. Insomma, dove per Arendt si tratta di novità, per Fabbri si deve parlare dell’ennesima ripetizione, portata alla sua estrema efferatezza, di una violenza che da sempre abita il potere.

Riconoscere l’onnipotenza del potere totalitario non significa dichiarare impossibile l’azione, soprattutto quando si è anarchici. Scrive Luce Fabbri: «Bisogna sottrarsi all’ossessione dell’inevitabilità della riduzione dell’uomo a robot scientificamente determinato e della società a immensa macchina in cui ognuno di noi sarebbe un ingranaggio minimo, sempre più sprovvisto di volontà»42. Contro le strutture di comando e le pratiche violente del potere è possibile gettare in aria le carte, con il coraggio e la forza di una volontà ritrovata, «una ‘tensione’ adeguata»43. Per lei, quindi, l’anarchismo è l’unica vera antitesi al totalitarismo.

In questo senso la rivoluzione spagnola del 1936 è per Luce Fabbri una preziosa lezione di lotta contro il totalitarismo che dimostra, nella concreta realtà storica, la possibilità dell’alternativa anarchica, la possibilità di una società libera, sperimentale, federativa, capace di rivalorizzare – in seno a un’economia socializzata – la più ampia autonomia degli individui e degli organismi locali.

La macchina del potere sempre più sofisticata e oppressiva che rafforza le gerarchie e i poteri burocratici, anche se vissuta come una ferita dolorosa che «stringe il cuore di angoscia»44, non deve quindi mai tradursi in senso di impotenza. Da un lato lo impedisce la prospettiva anarchica (per lei quella del socialismo anarchico malatestiano), dall’altro l’impegno ad agire in favore della liberazione e dell’emancipazione di donne e uomini. Come scriverà più tardi, «questa è la strada, o non c’è nessuna strada»45.

 

 


  1. Sulla figura di Luce Fabbri vedi almeno Margareth Rago, Tra la storia e la libertà. Luce Fabbri e l’anarchismo contemporaneo, Zero in condotta, Milano, 2008; Gianpiero Landi (a cura di), Luce Fabbri: l’anarchismo oltre la democrazia, Centro Studi Francesco Saverio Merlino, Castel Bolognese, 2020; Margareth Rago, «Luce Fabbri», in Dizionario biografico degli anarchici italiani, Tomo I, BFS, Pisa, 2003, pp. 555-556; Margareth Rago, La libertà secondo Luce Fabbri, «A rivista anarchica», a. 30, n. 267, pp. 34-37; Pietro Adamo, Luce Fabbri, storia di una donna libera, «Libertaria», a. 3, n. 1, pp. 68-72; AA.VV., Una grande lezione di pensiero e volontà, «A rivista anarchica», a. 30, n. 266, p. 28; Emanuela Minuto, «La famiglia Fabbri e gli anni dell’esilio (1927-1935)», in Eloisa Betti, Carlo De Maria (a cura di), Biografie, percorsi e networks nell’Età contemporanea, BraDypUS, Roma, 2018, pp. 95-103; Lorenzo Pezzica, «Luce Fabbri», in Anarchiche. Donne ribelli del Novecento, ShaKe, Milano, 2013, pp. 159-171. 

  2. Luce Fabbri, Obiezioni a una recensione, «Volontà», a. VI, n. 9, 1952, pp. 524-527. 

  3. Pier Carlo Masini, «Introduzione» a Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, BFS, Pisa, 1996, p. 9. 

  4. Sulla riflessione di Luce Fabbri sul tema del totalitarismo vedi Lorenzo Pezzica, «La collaborazione di Luce Fabbri alla rivista ‘Volontà’ (1946-1960)», in Maurizio Antonioli, Roberto Giulianelli (a cura di), Da Fabriano a Montevideo. Luigi Fabbri: vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, BFS, Pisa, 2006, pp. 223-234. 

  5. Ripensare l’essenza dell’anarchismo, che è la difesa della libertà, non significa comunque per Fabbri rinunciare ai principi propri del socialismo: «Io sento il mio socialismo come una derivazione della mia avversione al potere e non solo come un’esigenza di giustizia e uguaglianza ‘conciliabili’ con tale avversione» ((Luce Fabbri, Socializzazione e libertà, «A rivista anarchica», a. 29, n. 255, 1999, pp. 34-35). 

  6. Alessandro Dal Lago, La città perduta, «Introduzione» a Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 2004, p. X. 

  7. Luigi Fabbri (1877-1935) è considerato uno dei pensatori più originali dell’anarchismo italiano. Nel 1903 fonda con Pietro Gori la rivista «Il Pensiero» alla quale collaborano i nomi di maggior rilievo dell’anarchismo internazionale. Nel 1921 pubblica Dittatura e rivoluzione, prima opera critica sul bolscevismo, e nel 1922 La controrivoluzione preventiva, una delle analisi più complete sulla nascita del fascismo. Duramente perseguitato dal regime fascista, espatria clandestinamente in Francia nel 1926 e si sposta poi, nel 1929, in Uruguay, dove muore esule a Montevideo nel 1935. Luigi Fabbri, Dittatura e rivoluzione, L’Antistato, Cesena, 1971; Id., La controrivoluzione preventiva: riflessioni sul fascismo, Vallera, Pistoia, 1975. Sulla figura di Luigi Fabbri vedi almeno: Ugo Fedeli, Luigi Fabbri, Gruppo Editoriale Anarchico, Torino, 1948; Nora Lipparoni, Le origini del fascismo nel pensiero di Luigi Fabbri, EPC, Fabriano, 1979; Gaetano Manfredonia, La lutte humaine. Luigi Fabbri, le mouvement anarchiste italien et la lutte contre le fascisme, Editions du Monde libertaire, Paris, 1994; Maurizio Antonioli, Gli anarchici italiani e la Prima Guerra mondiale. Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Nella Giacomelli (1914-1915), «Rivista storica dell’anarchismo», a. 1, n. 1, 1994; Lorenzo Pezzica, Luigi Fabbri e l’analisi del fascismo, «Rivista storica dell’anarchismo», a. 2, n. 2, 1995; Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, BFS, Pisa, 1996; Maurizio Antonioli, Gli anarchici italiani e la Prima guerra mondiale. Il Diario di Luigi Fabbri (maggio-settembre 1915), «Rivista storica dell’anarchismo», a. 4, n. 1, 1999; Antonioli, Giulianelli (a cura di), Da Fabriano a Montevideo, cit.; Santi Fedele, Luigi Fabbri. Un libertario tra bolscevismo e fascismo, BFS, Pisa, 2006. 

  8. Cfr. Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, democrazia, liberalismo, socialismo, anarchismo, RL, Napoli, 1955, vedi infra pp. 151-206. 

  9. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit. 

  10. Luce Fabbri, I canti dell’attesa, Bertani, Montevideo, 1932. 

  11. Cfr. Ugo Fedeli, Congressi e convegni, Edizioni Libreria della FAI, Genova, 1963, pp. 43-68. In verità è proprio dal secondo dopoguerra che l’anarchismo, e in particolare quello italiano, attraversa una crisi profonda che lo porterà per molti anni all’isolamento e a un sostanziale immobilismo politico. Immobilismo certamente dovuto, oltre che al riproporsi dei tradizionali dissidi interni tra organizzatori e anti-organizzatori, alla nuova realtà politico-sociale dominata dalla Guerra Fredda, in cui si assiste a un generale irrigidimento politico nei due schieramenti contrapposti, cioè quello della Democrazia cristiana e quello del Partito comunista, che porta i movimenti non disposti ad accettare la logica dei blocchi, come quello anarchico, a una progressiva riduzione dello spazio vitale, fino alla totale perdita di influenza. Cfr. Giampietro Berti, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Lacaita, Manfredonia-Bari, 1998, pp. 47-48; Adriana Dadà, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito, Teti, Milano, 1984; Armando Borghi, Conferma anarchica, L’Aurora, Forlì, 1949. 

  12. Cfr. Giovanna Berneri, Cesare Zaccaria, Programma di lavoro, supplemento a «Volontà», II, n. 3, 1946. «Volontà» è titolo malatestiano: era infatti il titolo dato da Errico Malatesta al suo giornale pubblicato ad Ancona tra il 1911 e il 1914, ma anche il titolo del giornale pubblicato da Luigi Fabbri tra il 1919 e il 1920; nel 1924 infine Malatesta, con Fabbri, dava vita alla testata «Pensiero e Volontà», che uscirà fino al 1926. In effetti, la rivista nata nel 1946 era stata preceduta da tre brevi esperienze giornalistiche: «La Rivoluzione libertaria», «Risveglio libertario» e «Volontà» (in formato giornale). Oltre a Malatesta, la rivista si richiamava fortemente anche al pensiero di Luigi Fabbri e a quello di Camillo Berneri. Molti erano i collaboratori italiani e stranieri, tra cui Armando Borghi, Ugo Fedeli, Lamberto Borghi, Pier Carlo Masini, Louis Mercier Vega, Gaston Leval, Carlo Doglio, Albert Camus, George Woodcock. A partire dal 1946 «Volontà» uscirà quasi ininterrottamente fino al 1996. Sulla storia della rivista, Indice generale compreso, cfr. Cinquant’anni di Volontà. Mezzo secolo di pensiero libertario, contributi di Nico Berti, Francesco Codello, Pier Carlo Masini, Lorenzo Pezzica, Massimo A. Rossi, Milano, 1996 (https://centrostudilibertari.it/it/cinquantanni-di-volontà). 

  13. La lettera è pubblicata in «Volontà», n. 9, luglio 1955. L’ultimo numero di «Studi Sociali» esce infatti nel maggio del 1946, due mesi prima dell’uscita del primo numero di «Volontà». 

  14. Un’esauriente bibliografia degli scritti di Luce Fabbri è stata pubblicata in Margareth Rago, Per una bibliografia di Luce Fabbri, «Rivista storica dell’anarchismo», a. 7, n. 2, pp. 221-232. La bibliografia è preceduta dal saggio della stessa Rago, Luce Fabbri: una lezione di vita, pp. 5-20. 

  15. Luce Fabbri pubblicherà, a partire dal 1947 e fino al 1957, una serie di opuscoli a compendio della riflessione che aveva sviluppato già negli anni Trenta. Per la distribuzione degli opuscoli in Italia si appoggiava alla redazione di «Volontà» e la stretta collaborazione con la rivista sarà suggellata con la pubblicazione nel 1955, per le edizioni RL, nate al fine di integrare e approfondire le tematiche affrontate da «Volontà», del suo opuscolo più significativo: Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra pp. 151-206. Vedi anche Luce Fabbri, La libertà nelle crisi rivoluzionarie, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1947; Id., L’anti-comunismo, l’anti-imperialismo e la pace, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1949, vedi infra pp. 81-150; Id., La strada, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1952; Id., L’anarchismo. Principi di sempre, problemi d’oggi, RL, Genova-Nervi, 1959. 

  16. Sull’argomento vedi Enzo Traverso, Il totalitarismo: storia di un dibattito, Bruno Mondadori, Milano, 2002; Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari, 2003. Una storia che malauguratamente non include Luce Fabbri. 

  17. Forti, Il totalitarismo, cit., pp. 15-27. 

  18. Ernst Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano, 1950. 

  19. James Burnham, La rivoluzione dei tecnici, Mondadori, Milano, 1946; nuova edizione italiana: La rivoluzione manageriale, Introduzione di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 1992; Id., I difensori della libertà, Mondadori, Milano, 1947. 

  20. Milovan Đilas, La nuova classe, il Mulino, Bologna, 1957. 

  21. Simone Weil, Incontri libertari, elèuthera, Milano, 2021. 

  22. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996. Sulla vita e il pensiero di Arendt, cfr. Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1990; Julia Kristeva, Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, Roma, 2005. 

  23. Bruno Rizzi, La Bureaucratisation du Monde, Les Presses Modernes, Paris, 1939 [trad. it. La burocratizzazione del mondo, Colibrì, Paderno Dugnano, 2002]; Bruno Rizzi, Il collettivismo burocratico, Galeati, Imola, 1967. 

  24. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit., p. 9. 

  25. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit., p. 9. 

  26. Traverso, Il totalitarismo, cit., p. XII. 

  27. Dopo avere forgiato il concetto negli anni Venti, la cultura italiana si astenne dal discuterlo nel dopoguerra, fino a un’epoca recente. Percepito prima come un vocabolo irrimediabilmente contaminato dal fascismo, poi come una parola d’ordine anti-comunista durante la Guerra Fredda, il termine sarà a lungo messo al bando e coltivato da pochi spiriti anti-conformisti. 

  28. In quegli anni per esempio Lelio Basso dava alle stampe Due totalitarismi, che erano però – come chiariva il sottotitolo – il fascismo e la Democrazia cristiana. Cfr. Lelio Basso, Due totalitarismi: fascismo e Democrazia cristiana, Garzanti, Milano, 1951. 

  29. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. L’opera venne scritta negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Il manoscritto originale venne terminato nell’autunno del 1949 e la prima edizione apparve nel 1951. 

  30. Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna, 1967. 

  31. Carl Joachim Friedrich, Zbigniew Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Praeger, New York, 1956. 

  32. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra pp. 191-192. 

  33. Il primo articolo pubblicato da Louis Mercier Vega sull’argomento risale al 1941: Charles Ridel [pseud.], Al di là del capitalismo, «L’Adunata dei refrattari», a. XX, nn. 23-26 [New York]. 

  34. Luce Fabbri, Camisas negras, estudio crítico histórico del origen y evolucion del fascismo, sus hechos y sus ideas, Nervio, Buenos Aires, 1934. Articoli sul tema della tecnoburocrazia sarebbero apparsi nel 1937 su «Studi Sociali», alcuni dei quali ripubblicati nel 1957 su «Volontà». Lucia Ferrari [pseud.], Bisogna dirlo, «Studi Sociali», II serie, n. 6, 20 settembre 1937; Luce Fabbri, Bisogna dirlo, «Volontà», n. IX, 1957, vedi infra pp. 29-42. 

  35. Rizzi, Il collettivismo burocratico, cit.; Id., La burocratizzazione del mondo, cit. Rizzi scriverà due soli articoli per «Volontà» nel 1948. La sua collaborazione più importante con la pubblicistica anarchica, tra il 1946 e il 1950, sarà con «Il Libertario», testata della Federazione Anarchica Lombarda. Nonostante ciò, l’ambiente anarchico italiano sarebbe rimasto all’epoca piuttosto impermeabile alle sollecitazioni avanzate da Rizzi: l’atteggiamento predominante rimaneva quello di un freddo distacco per tutto ciò che anche vagamente si definiva marxista. Diverso sarà invece il rapporto con i giovani anarchici milanesi che dall’inizio degli anni Sessanta cominciano a interessarsi del fenomeno tecnoburocratico, dapprima sulla testata «Materialismo e Libertà» (di cui escono solo tre numeri nel 1963) e poi, più ampiamente, sulla testata «A rivista anarchica», fondata dal medesimo gruppo nel 1971, e sulla rivista internazionale «Interrogations», nata nel 1974 a Parigi su iniziativa di Louis Mercier Vega. Il culmine della ricerca sarà raggiunto nel 1978 con l’organizzazione a Venezia del Convegno internazionale di studi su I Nuovi Padroni, cui seguirà la pubblicazione dei relativi Atti (https://centrostudilibertari.it/it/i-nuovi-padroni). 

  36. Burnham, La rivoluzione dei tecnici, cit. «Volontà» dedicherà molto spazio alla critica delle tesi esposte da Burnham, nell’intento non solo di precisare la propria posizione rispetto all’ineluttabilità del processo di burocratizzazione in atto, ma anche per marcare la distanza da alcuni punti delle tesi sostenute dallo studioso americano. 

  37. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 194. 

  38. Czesław Miłosz, La mente prigioniera, Adelphi, Milano, 1981. 

  39. Nel 1954 «Volontà» pubblicherà la recensione del libro di Dwight Macdonald La mente prigioniera, sicuramente letto da Luce Fabbri. Vedi Dwight Macdonald, La mente prigioniera, «Volontà», a. VIII, n. 1, maggio 1954, pp. 22-28. 

  40. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 194. 

  41. George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 1952, nuova edizione Milano, 2004. 

  42. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 201. 

  43. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 201. 

  44. Fabbri, Bisogna dirlo, vedi infra p. 33. 

  45. Luce Fabbri, Socializzazione e libertà, «A rivista anarchica», a. 29, n. 255, 1999, pp. 34-35. 

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L’altro che è (anche) in me https://www.carmillaonline.com/2023/04/25/laltro-che-e-anche-in-me/ Tue, 25 Apr 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76766 di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, [...]]]> di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, entrambi sospinti in un improvviso vuoto di riferimenti oggettivi, appare come una caratteristica dell’immaginario moderno, eccitato da un ambiente sociale e tecnologico divenuto sempre più estraneo al proprio essere presente di ogni singolo individuo.
E’ evidente che l’altro da sé stimola gran parte delle paure moderne basate sulle differenze di razza, classe, genere, ma ciò avviene perché spesso tale alterità può anche presentarsi come la presa di coscienza dell’esistenza dell’altro nel sé,

Fu certamente Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 -1822) il primo autore a far precipitare nella letteratura della sua epoca la figura dell’altro da noi che in realtà è in noi, del doppelganger (in tedesco il “doppio camminatore”) che con la sua presenza faccia parte di un altro essere umano e ne condivida la vita, la osservi soltanto oppure cerchi di sostituirsi ad esso. Una sorta di gemello malvagio che si presenta rivelandone il lato oscuro e patologico della personalità.

Ma se la figura del doppio o dell’altro consimile era già presente nelle culture dei secoli precedenti, come effetto di magie e stregonerie, è proprio con la Rivoluzione Industriale che l’altro da sé di cui si ha paura, ma che in realtà è anche parte del proprio sé, esplode nell’immaginario e nella psiche individuale e sociale. Come ha affermato Luca Crescenzi, in una sua introduzione ai Notturni di E.T.A. Hoffmann:

[…] il vero movente della narrazione notturna era la rappresentazione tanto evidente quanto spietata della modernità e, soprattutto, della tecnica quale sua componente essenziale. In modo clamoroso questa dimensione del notturno emergeva nelle pagine dell’Uomo della sabbia, il racconto che, non a caso, poté sedurre più di ogni altro l’immaginazione artistica ottocentesca e novecentesca. Il primo dei Notturni rappresentava infatti in modo più esplicito di ogni altra narrazione hoffmaniana l’aggressione che l’impotente individuo moderno subiva ad opera della tecnica.
[…] L’aspirazione demiurgica della tecnica, la sua volontà di assimilarsi alla potenza divina, venivano qui mostrate nella loro valenza nichilista e distruttiva. Il mondo costruito dalla scienza racchiudeva in se stesso il germe della notte.
[…] Il tratto veramente spaventoso e «perturbante» dei Notturni hoffmaniani era dato dalla visione di un’umanità disumanizzata dalla tecnica e di individui resi incapaci di esercitare un autonomo controllo sulle loro facoltà fisiche e psichiche. Il mondo moderno appariva a Hoffmann percorso in profondità dall’orrore della spersonalizzazione e dell’alienazione del singolo da se stesso. La realtà che esso produceva era una realtà oscura, dominata d una titanica volontà distruttiva1.

Redatto di getto, in una prima versione, nella notte tra il 15 e il 16 novembre 1815 L’uomo della sabbia sarà eguagliato all’epoca, nella critica alla notte dell’umano creato da una tecnica dalle aspirazioni caratterizzate da una demoniaca volontà di potenza, soltanto da un altro romanzo della stessa epoca: Frankenstein o il moderno Prometeo (Frankenstein, or The Modern Prometheus).

Scritto, tra il 1816 e il 1817, da una Mary Shelley ancora diciannovenne, il romanzo sarebbe stato ideato nella piovosa e fredda estate del 1816 mentre l’autrice, Mary Wollstonecraft Godwin insieme al futuro marito Percy Bysshe Shelley e John William Polidori, era ospite di Lord Byron che, per l’occasione aveva affittato Villa Diodati, già Villa Belle Rive, a Cologny, nel cantone di Ginevra.

Se nel racconto di Hoffmann a dominare sarebbe stata l’immagine dell’automa dalle sembianze femminili e dotato di occhi umani strappati a un vivente, nel romanzo della Shelley il lettore sarebbe stato terrorizzato dell’essere creato dal dottor Victor Frankenstein per mezzo dell’assemblaggio di parti di cadaveri e dell’utilizzo della corrente elettrica originata dai fulmini per dare vita al cadavere così ricomposto attraverso un esperimento ispirato a quelli di Luigi Galvani (1737 – 1798).

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a qualcosa di inumano cui viene donata la vita per mezzo di una scienza e di una tecnica profondamente marcate dall’inumanità degli strumenti della ricerca.
In tutte e due le narrazioni ci troviamo di fronte all’anticipazione letteraria di quell’alienazione dell’individuo creata dal sistema delle macchine assurto in auge a partire dalla Rivoluzione industriale e perfettamente messa a fuoco, sul piano politico e sociale, da Karl Marx fin dai suoi giovanili Manoscritti economico filosofici del 1844.

L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. […] Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
[…] La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia capitalistica come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.2.

Svelando poi definitivamente l’arcano nelle pagine successive.

E ora in che consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. […] Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […] Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma a un altro3.

Il passaggio dell’alienazione nella contemporaneità, dal lavoro operaio a quello di strati sociali che da questo pretendevano di essere separati, si manifesta letterariamente nella più famosa opera di Franz Kafka, pubblicata per la prima volta a un secolo di distanza dalle due precedenti nel 1915, La metamorfosi. L’opera forse più sintomatica dell’immaginario moderno vede il tranquillo rappresentante di commercio Gregor Samsa, membro di una famiglia piccolo borghese di Praga, scoprire la propria alienazione, lavorativa e famigliare, e la separazione dal proprio sé attraverso una drammatica e sconvolgente trasformazione fisica.

Gregor Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un po’ la testa vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi. “Che mi è successo?” pensò. Non era un sogno.

Possiamo fissare qui l’inizio dell’incubo della modernità rappresentato dalla paura della perdita del sé o della scoperta di esserne individualmente portatori di un altro che caratterizza le opere cinematografiche analizzate da Gioacchino Toni e Paolo Lago.

Rispettivamente del 1979 (Alien), 1982 (Blade Runner e La cosa) e 1983 (Videodrome), nel giro di pochissimi anni portano sulla scena l’anticipazione, se non la conferma, delle paure più recondite degli individui, più o meno consci della radicale trasformazione antropologica, sociale e psicologica in atto in prossimità della fine del secondo millennio.

Più di centosessanta anni dopo le prime e sessanta dopo l’opera di Kafka, quegli autori ci dicono che la situazione non è migliorata ma, anzi, che è peggiorata. Che, insomma, non è bastato andare sulla Luna o cantare le lodi del welfare state per convincere la società che tutto sarebbe andato bene da lì in avanti. La festa post-sessantottina e successiva alla fine della guerra in Vietnam era già finita.

Il piccolo margine di autonomia conquistato dai lavoratori dell’Occidente e dagli esclusi del Primo e del Terzo Mondo si stava già rinchiudendo. Margaret Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990) e Ronald Reagan (quarantesimo presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989) preannunciavano, non solo simbolicamente, il trionfo di un ultra-liberismo che avrebbe portato alla globalizzazione economica su scala planetaria e alla fine di ogni diritto collettivo o su scala comunitaria, per tornare a rinchiudere gli individui nella ristretta e meschina dimensione del sé.

Motivo per cui sarebbe cresciuta in maniera esponenziale la paura di essere come l’altro, il povero, l’emarginato, il migrante proveniente dalle aree più povere, o devastate da crisi economica o ambientale oppure dalla guerra, del mondo al di fuori di quello che un tempo si riteneva sicuro, benestante e garantito, identificabile con quello bianco e occidentale.

Il cittadino occidentale nello specchio dell’immaginario ha iniziato a non riconoscersi più come tale, ma piuttosto come il futuro povero, figura ben più terrificante della figura del vampiro (che nello specchio, secondo la tradizione, non si rifletteva).

Un altro da sé iniziava a strisciare sul fondo delle coscienze individuali, mentre la crisi del lavoro, delle certezze (anche tecnico-scientifiche) e la paura di un futuro che iniziava a mostrarsi nuovamente come ignoto riportavano alla ribalta la figura dell’automa dotato soltanto di vita apparente, del mostro pronto a esplodere dal proprio interno e dell’individuo sfigurato, fisicamente e psichicamente, da una magia esterna, di cui il medium non sarebbe stato più il negromante, colui che ha la facoltà de di comunicare con gli spiriti e con i morti, ma la rete mediatica rappresentata dalla televisione e dagli altri strumenti di comunicazione di massa elettronici.
Nelle quattro opere cinematografiche analizzate dagli autori sono presenti, in forme e modalità diverse, tutti questi aspetti di una nuova paura che si alimenta ancora di quelle più vecchie, sorte fin dagli albori dell’attuale modo di produzione.

Nell’ultimo dei quattro film analizzati, Videodrome di David Cronenberg, tutti i temi si riuniscono: dal controllo esterno esercitato dai media alla possessione del corpo, orrendamente trasformato in qualcosa di alieno e altro dall’umano, tutto concorre a dare voce alla paura e all’orrore per il non essere più ciò che si pensava di essere oppure del dover rassegnarsi ad agire in maniera non più umana o, perlomeno, che come tale si pensava.

Nel film di Cronenberg, ha scritto in suo saggio Gianni Canova: «Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno delle televisione.»4.

Tecnologia, controllo della mente e del corpo, alienazione sociale e individuale si fondono nel corpo umano che diventa altro da sé e allo stesso tempo non più umano ma nemmeno soltanto artificio robotico. In tal modo

Cronenberg inaugura dunque un nuovo tipo di cyborg, che nasce dalla fusione del corpo biologico dell’uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta: non più un cyborg elettromeccanico, con impianti spinotti e prese craniali, ma un ibrido tra corpo e flusso comunicativo, quello che potremmo definire “cyborg del codice”5.

E’ di una anno successivo l’uscita del romanzo di SF che avrebbe poi aperto le porte al cyberpunk nella fantascienza, Neuromante di William Gibson (1984), in cui il collegamento tra mente e rete diventa elemento, forse meno tormentato che nel film sopra citato, di quasi normalità nell’esistenza quotidiana e nella società dell’economia dell’informazione.

Quest’ultimo tema, però, rischia di portare lontano da quello iniziale, sul quale occorre tornare in queste ultime righe. Sottolineando come le paure manifestatesi nell’immaginario letterari all’inizio del capitalismo industriale e nel periodo della sua conferma come modo di produzione dominante su scala planetaria siano state confermate e amplificate dal cinema della fine del secondo millennio.

Aprendo una finestra da incubo su quella che sarebbe poi diventata la nostra attuale realtà: in cui l’individuo si è perso, dentro e fuori i luoghi di lavoro e in cui i social hanno finito col divenire luoghi “reali” dell’agire umano e della diffusione di un pensiero unico, di cui gli utenti non sembrano più manifestare alcune coscienza.

Da oggetti originari delle paure della modernità gli automi, i corpi modificati e la perdita della coscienza individuale sono quindi diventati il pane quotidiano dell’agire umano, rovesciando e trasformando in disumano e nemico ciò che è altro da sé: l’umana fatica e sofferenza, nella loro concreta realtà, e il conflitto sociale che ne deriva inevitabilmente.

Il capitale è entrato così nei corpi, nelle coscienze e nell’immaginario della specie minandone la comunità possibile per perpetrare, come lo xenomorfo di Alien, unicamente la propria.


  1. L. Crescenzi, Introduzione a E.T.A. Hoffmann, Notturni, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 12-13.  

  2. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi editore, Torino 1968, p. 71.  

  3. K. Marx, op. cit., pp.74-75.  

  4. G. Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano 1993 cit. in A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing, Brescia 2022, p. 111.  

  5. A. Caronia, op. cit., p.112.  

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L’occhio fantastico (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2023/01/06/locchio-fantastico-seconda-parte/ Fri, 06 Jan 2023 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75341 di Franco Pezzini

Qui di seguito la seconda parte – la prima qui – dell’introduzione al volume Oltre il velo del reale. L’avventura dei racconti continua, Meridiano Zero, 2022, coi testi di autori selezionati e finalisti al call di narrativa breve 2022 “Oltre il velo del reale 2” organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista L’Indice e al Book Pride di Milano e dedicato al fantastico.

Attenzione, seguiranno spoiler. (F.P.)

 

3. Sguardi oltre il velo

Al sopraggiungere della sera due sconosciuti si incontrarono negli oscuri corridoi di una [...]]]> di Franco Pezzini

Qui di seguito la seconda parte – la prima qui – dell’introduzione al volume Oltre il velo del reale. L’avventura dei racconti continua, Meridiano Zero, 2022, coi testi di autori selezionati e finalisti al call di narrativa breve 2022 “Oltre il velo del reale 2” organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista L’Indice e al Book Pride di Milano e dedicato al fantastico.

Attenzione, seguiranno spoiler. (F.P.)

 

3. Sguardi oltre il velo

Al sopraggiungere della sera due sconosciuti si incontrarono negli oscuri corridoi di una galleria di quadri. Con un leggero brivido uno di essi disse:

– Questo posto è sinistro. Lei crede ai fantasmi?

– No, – rispose l’altro. – E lei?

– Io, sì – disse il primo e scomparve.

George Loring Frost, da Memorabilia, 1923 (trad. di Luciano Allamprese)

 

Come accennato, sul totale dei racconti qui raccolti, cioè i finalisti (quasi tutti) e i selezionati (quasi tutti), riferimenti ai linguaggi classici dei generi non mancano – e anzi non sono poche le attestazioni. Ma è interessante che in larga parte il ricorso presenti un uso molto libero degli elementi canonici e spesso un’attenzione vivida alla qualità letteraria di scrittura: non mera forma al servizio di trame pop, ma espressione sostanziale del fantastico narrato. Un punto che mi sembra importante sottolineare, anche in risposta a un certo atteggiamento riscontrabile in un certo ventre del fandom fantastico: una sorta di ostilità verso la letteratura “alta” – ma potremmo dire verso la ricerca letteraria tout court – e il suo mondo, in difesa di una narrativa più “sincera”, ruspante, coltivata da “noi che ce ne siamo sempre occupati”. Al netto insomma della lentezza con cui la critica accademica si è degnata di considerare anche autori del fantastico (e questo ritardo, condito da grette diffidenze a tutt’oggi non dissolte, rappresenta un dato oggettivo), la diffidenza opposta rappresenta solo una delle tante maschere di un atteggiamento da strapaese che rischia di premiare stereotipi, povertà formale e modelli a volte anche ideologicamente discutibili (il vero uomo, la vera donna, eccetera) dimenticando che tanti maestri del fantastico sono invece compiutamente letteratura.

Un esempio tra i racconti del call che non mi parrebbe improprio richiamare a un genere (sia pure liberamente) ma con un approccio letterariamente alto è proprio il testo premiato dalla giuria, lo straordinario La disincarnata di Michela Lazzaroni, che rilegge in chiave – non spiace usare un termine forte – geniale e originalissimo il topos della casa infestata. Quasi chiunque di noi ha avuto l’esperienza del rapporto straniante con beni personali (la dentiera…), abiti, mobilio di una persona più o meno cara che declina verso la fine e poi muore: uno spazio fisico ma soprattutto affettivo, mentale, immaginale impastato di prassi quotidiane, ricordi, fantasie e a volte ossessioni. Che finiscono col contagiare chi – generalmente un congiunto più giovane, figlio o nipote – cerchi di riportare il tutto a un ordine della vita che scorre: contagio che è una sorta di infestazione, e il racconto illumina sulla progressiva, perturbante metamorfosi – almeno agli occhi e nelle percezioni della figlia – di una madre ormai demente negli oggetti di casa sua. Con la morte la madre finisce con l’occupare tutto quello spazio, diventa quello spazio, fino a determinare per la figlia un ideale e in fondo affettuoso regressus ad uterum. La scrittura di Lazzaroni è efficace, vivida, elegante e capace di esprimere non solo un modo di vedere fantastico (e si torna a quanto detto), ma un’esperienza umanissima e – in un’Italia dove l’età media è alta – una chiave che fa riflettere sulla natura fantastica delle nostre relazioni.

Ma la visione può interpellare altri sensi. Una Fata Morgana esistenziale barbaglia per esempio nel deserto di Jake di Marco Barberis: una brillantissima divagazione sul tema dell’autostoppista fantasma, aperta ad abbracciare provocazioni diverse (la perturbazione identitaria, lo sfarinarsi delle relazioni, il rapporto di loop con lo spazio e col tempo nel deserto della realtà). La visione si fa tatto, in modo perturbante, in L’immortalità di Alice Capitanio: una visionaria, folgorante e potente rilettura sul tema delle perdite accumulate in una vita (pezzi di carne che si staccano), e sulla capacità di imparare ad accudire le nostre e quelle dei nostri cari in un mondo che invece tutto nasconde come in un crepitare di nastro adesivo da pacchi. Il tema delle perdite di parti del corpo – o alla relativa visione, inevitabile pensare a Quello che perde i pezzi di Gaber – torna anche felicemente in Pezzi di Monica Zanelli, come qualcosa legato alle insicurezze di un’età, e dunque non all’invecchiamento ma alla crescita. Un percorso di rapporto con la nostra fisicità e la sua gestione che, ancora, flirta con l’ossessione nel brillantissimo racconto di Leonardo Carletti, La mascherina: forse il testo più influenzato dalle angosce pandemiche, ma soprattutto da ciò che la pandemia ha reso più greve o epifanizzato in noi, come collettività e come singoli. Difficilmente un testo saggistico può raggiungere la presa di questa narrazione tanto acuta e allarmante su ciò che siamo e ciò che possiamo arrivare a essere, pur nelle strategie di salvezza offerte dalla vita.

Altrove la visione fantastica si ancora anzitutto a una voce, in un gioco sinestetico dove vediamo nella misura in cui ascoltiamo una voce impossibile – quella dei morti. Come nel macabro e gustoso Era morta così bene di Andrea Secci, che gioca in modo sinistro – ma narrativamente brillante – sul tema della reincarnazione; o in un paio di storie potenzialmente ascrivibili a un linguaggio thriller, Non è giusto che una donna muoia così, di Marco Ferri, spaventoso e crudo racconto di un femminicidio dove le percezioni della morta si spingono ben oltre il decesso, o in Il libro sulla mensola di Cosimo Gentile, messa in scena di un dramma che diventa più strano e complicato a ogni paragrafo. Portando lontano dalla prima banalizzante interpretazione che il lettore frettoloso avrebbe potuto tranciare: e in entrambi i casi si rivela una sorta di medianità dello scrittore nel cogliere voci e relativo sguardo.

Talvolta la visione è semplicemente epifania di qualcosa sedimentato in noi. In riferimento per esempio a un potere pericoloso di cui ci si scopre portatori entrando in crisi, come nel bel racconto di Paola Usala, La forma, tra suggestioni Wiccan evocanti un vago sincretismo (festività celtogermaniche, il nome slavo del gatto…) o nell’asciutto, efficacissimo La bestia, di Chiara Delfino (pseudonimo di Chiara Battini). In entrambi la portatrice di conoscenza è una nonna, che aiuta l’accettazione del protagonista illuminando anche i rischi.

Per contro, il rapporto tra l’interiorità e un misterioso nemico esterno che sfida la visione torna in più racconti. Così nell’ottimamente gestito Lui, di Fabiana Castellino: la penetrazione di uno sfuggente aggressore che lasceremmo entrare – in casa, in noi – disobbedendo come sentinelle neghittose all’ammonimento della mamma, all’insegna di un archetipico senso di colpa finisce col rivelarsi figura (mitica? psicopatologica? politica? relazionale, in rapporto a un partner separato?) di tutte le paure impiantate in noi dagli altri. La solitudine/separazione che si fa ossessione – e nuovamente evocante echi del lockdown, anche se siamo ormai un passo oltre – torna poi nell’inquietante Un lavoro ben fatto di Roberta Di Palma.

Il fatto è che il mondo esterno presenta minacce in strana osmosi con la nostra interiorità. Così, in Cappuccetto Rosso di Elena Cabiati un’originale, malinconica e ben scritta fiaba nera sul set del Museo del cinema di Torino, il luogo della salvezza da ciò che ci insegue (ma chi ci insegue?) è quello della finzione e il nostro alleato un fantasma. Mentre una declinazione nel segno del divertito è nel fittizio articolo da quotidiano offerto da Simone Carbonera, Dieci cose da (non) fare se incontrate un Ococlo, delizioso, intelligente e fantasiosamente allusivo, con il suo esito davvero imprevisto. A suggerire che il fantastico sia anche affabulazione, idealmente sulla scia del sarchiapone di Walter Chiari.

Esterno e interno giocano poi in modo indecidibile, fin dal titolo (ma cosa è interno e cosa esterno?), in Riflesso di Cesare Diligenti, che sposa felicemente il tema dell’identità doppia, rifratta, altra – quale in fondo ne sia la chiave interpretativa – con il motivo della violenza sessista. Laddove invece il racconto di Edoardo Pastore, La morte del signor Anselmo Pastrangeli, richiama tramite visione/allucinazione un altro topos dell’orrido, l’ossessione che, facendo deflagrare un’esistenza fin troppo stabile e prevedibile, trascina al suicidio. Ma la visione traumatica può essere pilotata, come ne La fattoria, di Giulia Marta Petronelli, sull’iniziazione tribale di una comunità di eletti in un futuro remoto: al fine di inibire progressivamente la sessualità, perché non ammannire sul tema una visione scioccante agli adolescenti, quasi sull’onda del “trattamento Ludovico” di Arancia meccanica? (Anche se l’esito non sarà esattamente quello previsto dai castissimi iniziatori…) Ancora giustamente disturbante, I cannibali di Giulia Maria Falzea indaga il rapporto tra madri e figli piccoli perduti, tramite la visione di un relativo simulacro e un gioco di sostituzione d’occhi.

Altrove la visione, da esperienza di noi e dell’altro, trascolora invece nello sguardo con cui la narrazione è offerta. Che sia una fiaba – nera, magari – come quella che Miriam De Marco (pseud. di Maria De Marco) propone sul tema dell’avidità e dell’illusione che uccide, La piovra e la luna. Che sia un racconto gotico o similgotico, come Un altro piccolo segreto, di Sara Catacci, godibile variazione italica sul tema vampirico come epifania della voracità nei rapporti di coppia, o L’uomo dei lupi di Filippo Cerri che riprende la mitologia lupesca e il tema del rito di passaggio – e anzi il subentro in un ruolo sociale – con elegante ricercatezza formale. Che si parli invece dello sguardo di un certo linguaggio tradizionale devoto, nel meraviglioso Ex voto, di Andrea Pozzetta, narrato con abilità ed eleganza espressiva rara nella lingua di un passato antico e contadino, e dove la scorpacciata di certe piante può far considerare tanto a rischio la piccola imprudente da dover scomodare per lei i santi, magari sant’Antonio col suo porcellino. Il senso di peccato stagnante e la felice resa di un’ingenuità antica verso la morte offrono al testo – incredibile prova d’abilità con termini di vera archeologia del linguaggio – un interesse particolare.

O che si parli ancora del linguaggio della fantascienza, come in Exorealismo, di Antonio Potenza, dove la differenza tra umano e sintetico sfuma, regole ferree normano i rapporti e strane patologie possono creare angoscia nei più ansiosi; o nel potentemente allusivo La stella di Diego Ria, su un futuro reso neutro a suon di istanze di controllo, dove i sapori sono simulati, i sogni dei singoli inquietano le autorità e qualcos’altro può essere eversivamente acceso nel profondo degli umani. O ancora nell’elegante e a suo modo tremendo Complementi d’arredo di Diego Rossi, che ammicca fulminante e sornione non solo a scene di sconvolgente disgusto, ma forse a raccapriccianti mutazioni fisiche.

Altri testi lavorano sulla situazione, più che su una trama o sulla relativa svolta. È realismo magico che flirta con l’horror quello che nello splendido La buzzonaglia di Michele Frisia – il racconto più votato dal pubblico – traghetta dal trattamento dei pesci per l’industria alimentare alla suggestione disturbante di una sirena mutilata? Qui la svolta del finale starebbe nella spiacevole agnizione, ma la forza del testo che sceglie di non spiegare troppo sta anche proprio nella dimensione allusiva, nell’evocazione persino più disturbante col suo non mostrare. Posto che, come i gatti, anche noi non alziamo la testa per vedere quel che ci turberebbe…

Per contro, difficile etichettare vere e proprie feste della visione/visionarietà come il magnifico L’uovo sodo di Elisabetta Carbone, vibrante di echi di Apocalisse (“Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente”), dove il fantastico evoca e vede deflagrare intere cosmogonie, come nel delirio di uno gnostico; o lo spiazzante Né bene, né male, di Chiara Ghiglione, grondante suggestioni da fine dei tempi – fenomeni naturali strani, presenze angeliche nel cielo sopra Genova – a preludere però al dilagare di una feroce follia. Riecco insomma il tema del modo visionario di narrare la realtà.

D’altra parte la narrazione non assume neppure sempre i connotati classici del racconto. Arieggia la fantascienza Lucia Moschella con Il mare, scritto però in forma di voce enciclopedica con tanto di note e riferimenti bibliografici dall’ottica di un futuro lontano: le provocazioni sono acute, l’approccio originalissimo, l’efficacia narrativa indubbia.

Un caso che resta a parte è poi quello di Simonpietro Spina, Della volta in cui nuovamente e poi di nuovo, che gioca con ironia sul tema stesso del call e del relativo bando: ma la vorticosa ricorsività accede proprio, in termini beffardi, a qualcosa come una percezione sensoriale.

È davvero necessario ringraziare, come nel comunicato sul sito, “tutte e tutti i concorrenti per il loro contributo e per l’impegno profuso nell’esprimere sentimenti, emozioni, fantasie, speranze e angosce dell’epoca”: e le prove qui raccolte svelano una qualità superba, oltre a cifrare genuini turbamenti.

 

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L’occhio fantastico (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2022/12/27/locchio-fantastico-prima-parte/ Tue, 27 Dec 2022 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75335 di Franco Pezzini

È appena apparso per i tipi Meridiano Zero il volume Oltre il velo del reale. L’avventura dei racconti continua, a raccogliere (quasi tutti) i testi di autori selezionati e finalisti al call di narrativa breve 2022 “Oltre il velo del reale 2”  organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista L’Indice e al Book Pride di Milano e dedicato al fantastico. Si presenta qui in due puntate il saggetto introduttivo di chi scrive: le citazioni d’incipit ai singoli paragrafi sono tratte da J.L. Borges, S. Ocampo, A. Bioy Casares (a [...]]]> di Franco Pezzini

È appena apparso per i tipi Meridiano Zero il volume Oltre il velo del reale. L’avventura dei racconti continua, a raccogliere (quasi tutti) i testi di autori selezionati e finalisti al call di narrativa breve 2022 “Oltre il velo del reale 2”  organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista L’Indice e al Book Pride di Milano e dedicato al fantastico. Si presenta qui in due puntate il saggetto introduttivo di chi scrive: le citazioni d’incipit ai singoli paragrafi sono tratte da J.L. Borges, S. Ocampo, A. Bioy Casares (a cura di), Antologia della letteratura fantastica, Editori Riuniti, Roma 1981.

Il 24 gennaio il volume verrà presentato alla Libreria Trebisonda di Torino. (F.P.)

 

  1. Un modo di vedere e di narrare

Potrebbe, inoltre, esserci qualcosa di più miracoloso di un vero, autentico fantasma? L’inglese Johnson desiderò ardentemente per tutta la vita di vederne uno; ma non ci riuscì, benché andasse a Cock Lane [dove si sarebbe consumato un celebre episodio di persecuzione sovrannaturale] e qui scendesse nella cripta della chiesa e bussasse alle bare. Povero dottore! Non si guardò mai intorno con gli occhi della mente, oltre che con quelli del corpo, nel mare magno della vita che tanto amava? Non guardò mai in sé stesso? Il buon dottore era un fantasma, un fantasma così vero ed autentico come il cuore può desiderare; quasi un milione di fantasmi gli camminavano accanto nelle strade. Ripeto ancora: liberiamoci dell’illusione del Tempo, riduciamo tre ventine d’anni in tre minuti; che cosa era di diverso il dottore? Che cosa siamo di diverso noi stessi? Non siamo forse Spiriti sotto forma di un corpo, di un’apparenza, pronti a svanire nell’aria e nell’invisibile?

Thomas Carlyle, da Sartor Resartus, 1833-34 (trad. di Maria Lucioni)

 

Come già l’anno passato, il Premio Calvino ha bandito nel febbraio 2022 un Call per autori esordienti di narrativa breve, sotto il titolo Oltre il velo del reale (in questo caso, 2): e tra i requisiti del bando si esplicitava:

 

Ogni genere di fantastico come macchina per vedere è ben accetto: dal perturbante allo strano nella quotidianità, dal fantasy all’horror, dal gotico al distopico all’ucronico, dal fantascientifico all’onirico…

 

Dunque “fantastico come macchina per vedere”. Da etimologia (ci soccorre la Treccani), fantastico viene dal latino tardo phantastĭcus, greco ϕανταστικός, legato alla fantasia e all’immaginazione: ma a monte, in quanto derivato da fantasia (lat. phantasĭa, gr. Φαντασία), rimanda al verbo ϕαίνω, “mostrare”. Insomma qualcosa che viene mostrato o appare – cfr. la parentela con fantasma (lat. phantasma, gr. ϕάντασμα, derivato di ϕαντάζω “mostrare”, ϕαντάζομαι “apparire”, sempre dal tema ϕαν- di ϕαίνω di medesimo significato all’attivo come al medio ϕαίνομαι) – implicando una tensione visiva, più scopica che contemplativa. Stimolante dunque l’idea di “macchina per vedere”: a rimandare a una visione in senso attivo, organizzato – una visione mostrata, un po’ come da parte degli autori teatrali, degli imprenditori di lanterne magiche o di grandi e piccoli schermi – o invece passivo, subìto, come gli spettacoli cui assistiamo lasciando magari il cervello alla deriva e assorbendo paradigmi immaginali, pregiudizi, messaggi neppure troppo subliminali.

Inevitabile pensare al titolo di un’incompiuta epopea ciarlatanesca d’illusione, Il visionario di Schiller: dove già il titolo richiama alla visione febbrile, vittima di uno spettacolo/intrigo, ma in fondo anche a una capacità percettiva discutibile e particolare (come la ripresa della provocazione nel kantiano, ironico Sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica, in margine alle febbricitanti veggenze di Emanuel Swedenborg); eppure il termine visionario può essere applicato anche alla capacità immaginativa degli uomini di genio, che sanno vedere più avanti. Nel senso passivo, la visione può essere ricevuta da Istanze Superiori (o anche inferiori, e persino in termini di grande ambiguità: si pensi alla visione farlocca e insidiosa di certe presunte apparizioni di Madonne o santi con sospetti cornini e ali pipistrellesche – naturalmente si tratta del diavolo – traghettate dalle storie devote all’arte dei secoli passati). O – in termini più laici e moderni – alla visione subìta di infiniti prodotti televisivi che ci incatenano al reale, o al panorama della realtà che pare di vedere (visione sinestetica e indiretta, da plagio) al suono di messaggi-chiave dai sottotesti equivoci, in quella confusione che apprendisti stregoni di marketing e di politica sanno gestire così bene. L’avvicinarsi delle elezioni offre di tutto ciò un desolante e istruttivo spettacolo.

D’altra parte, come si rifletteva nell’introduzione alla raccolta dei racconti dell’anno passato (Oltre il velo del reale. Raccolta di racconti distopici, a cura di chi scrive, WriteUp, Roma 2021),

 

va ricordato che, in prima battuta, il “fantastico” non è tanto un contenuto quanto un modo di narrare e di guardare [corsivo inserito ora]. Non solo perché – suggerisce Borges – tutta la letteratura è fantastica, non solo perché la vita può essere davvero weird, ma perché anche una narrazione apparentemente priva di contenuti “altri” può svelare sottofondi, echi, paradigmi del fantastico.

 

L’occhio fantastico con cui esploriamo la realtà non deve cioè necessariamente fermarsi su visioni straordinarie, apparizioni da registrare con una sana categoria di dubbio (l’incertezza/imbarazzo implicita nel fantastico secondo Todorov, ma anche in certi racconti che ci vengono offerti da testimonianze di prima mano o – più di rado – in episodi esperiti da noi stessi). Può semplicemente percepire la fantasmaticità del nostro quotidiano, come Thomas Carlyle ricordava nella citazione d’incipit a proposito della frustrata ricerca di spettri da parte del dottor Johnson: gratta gratta, non è difficile trovarne dove meno ce li aspettiamo. D’altra parte il discorso può riguardare la paradossalità dello scarto legato alle scelte quotidiane e alle Sliding Doors che parallelamente si aprono, o quella bizzarria feriale della realtà che mandava in solluchero il repertoriatore di fatti strani Charles Hoy Fort (piogge di rane o di pesci, autocombustioni, strambe “cose” nei cieli…); o magari la stessa parentela – non così assurda o incomprensibile, in fondo – tra le nostre vite e quelle di personaggi letterari o del mito. Non solo perché, come ha detto qualcuno, “Siamo simboli e viviamo in essi”, ma perché narrazioni e miti traggono alla fin fine la loro trascrizione, almeno in qualche misura, da carne e sangue nostra: normale che ci offrano eco, o piuttosto l’inverso. Fino ad arrivare (chiunque scriva ne avrà fatto esperimento) a raccontare storie inserendovi amici, modellarle su di loro: non solo una comoda tecnica di costruzione dei personaggi, non solo un divertissement o un piacere affettuoso, ma appunto un modo di proiettarli e proiettarci fantasticamente su scenari altri, verso avventure più o meno possibili ma apprezzabili come belle storie. Quel che in fondo fa da sempre la letteratura: che il multiverso esista a livello cosmico è per ora impossibile dire, ma certo l’abbiamo dentro.

 

  1. Quell’occhio sbarrato

Terrificante idea di Juana a proposito del testo Per Speculum in Aenigmate; i piaceri di questo mondo sarebbero i tormenti dell’inferno, visti al rovescio in uno specchio.

Léon Bloy, da Le vieux de la montagne, 1909 (da Storie sgradevoli, F.M. Ricci, 1975, trad. di Piero Nicola)

Se il fantastico, dunque, non è necessariamente imbrigliato a taluni filoni di racconti, a talune maschere o generi narrativi, ma è un modo visionario di narrare la realtà, la nostra realtà, con spazi di libertà più o meno ampi – dove il riferimento alla visionarietà implica la vista come mero capofila di una serie di altri sensi: udito, tatto, gusto… – allora a maggior ragione il panorama è illimitato. Certo, libertà non significa un’originalità assoluta che non esiste da nessuna parte (qualunque storia ripropone topoi o miti che rimbalzano da sempre nel panorama immaginale dell’umanità, si tratterà solo di trovare un’originalità relativa nella confezione): ed è normale che il fantastico colga echi, forme di narrazione o fremiti da una realtà che del resto, per fortuna o purtroppo, è quella che conosciamo. Lo fa con una messa a fuoco particolare, come una lente, un microscopio o un telescopio, che permette di evidenziare ciò che altrimenti sfuggirebbe: e torniamo alla macchina per vedere.

Se così l’anno passato si potevano ravvisare nel referente distopico echi della pandemia (che pur costituiva rispetto al bando una cornice accidentale, non l’ha “originato”), quest’anno il contesto è ancora più convulso: la pandemia non è ancora esaurita ma il bando è dell’11 febbraio, la guerra russo-ucraina è stata aperta dall’offensiva russa del 24 febbraio e dunque idealmente un cavaliere dell’Apocalisse si affianca all’altro. Possiamo stupirci di trovare in varie prove riferimenti all’apocalittica? Nulla di immediatamente ovvio, nulla di scolasticamente derivato, si tratta della risacca di un momento storico che, com’è naturale, riverbera in scritture fantastiche pur incentrate su altro.

Dove l’occhio fantastico è sbarrato, nella duplice accezione del termine: da un lato spalancato e vitreo nella percezione visionaria, scioccata, di un reale che ci spiazza in mille modi (da un punto di vista collettivo o di pieghe personalissime); dall’altro è l’occhio chiuso nel sonno visitato da sogni con tutta la potenza dell’inconscio. In alcuni racconti ciò è particolarmente evidente.

Certo un aspetto che può colpire, in questa seconda edizione di Oltre il velo del reale – nuovamente molto partecipata, 767 incipit pervenuti da cui la rosa di 35 selezionati e in ultima fase la scelta dei 10 finalisti – è la differenza profonda di linguaggio ed esiti dei racconti in finale rispetto a quelli dell’anno scorso. Posto che i lettori che effettuano la selezione sono più o meno gli stessi, e si basano su criteri ormai testati in quattro edizioni di call racconti brevi (qualità letteraria, originalità, efficacia dell’incipit nel rapporto con il resto dello sviluppo testuale, equilibrio generale e buona sintesi di una prova breve), la differenza dall’anno passato sembra notevole. L’edizione 2021, che già aveva rappresentato una felice sorpresa per la qualità altissima delle prove, vedeva offerte – pur nella sintesi, come nei due racconti vincitori di Monica Acito e Beatrice Salvioni – trame di virtuale ampiezza; apriva a linguaggi tradizionali di genere, dalla fantascienza all’horror al fantasy e alla distopia, strizzando l’occhio a serie televisive e cinema; guardava in prospettiva, almeno potenzialmente, a eventuali sviluppi delle medesime storie in chiave di romanzo o magari di sceneggiatura. E un esame più ampio, come emerge dal citato volume che raccoglie non solo i finalisti (quasi tutti) ma i selezionati (quasi tutti) mostra che la panoramica era estremamente varia anche tra gli altri testi segnalati.

La sorpresa di questa nuova edizione è che, per i finalisti, il quadro è un po’ diverso. Come sintetizza il comunicato sul sito, nella decina in finale troviamo “Sicuramente poca fantascienza e poca fantasy, un pizzico invece di realismo magico, molto perturbante nel quotidiano e trasposizione in chiave surreale di nodi psichici. Buona, spesso, la qualità della scrittura”. Siamo insomma più dalle parti del maglione fatale di Cortázar che del (pur classicissimo) lenzuolo fantasma di M.R. James. Forse gli autori più attaccati al genere vero e proprio hanno preferito altri concorsi, tenendo presente che in questi anni ne sono stati banditi non pochi: ma è un’ipotesi che vale quel che vale. Va però detto che ciò riguarda i finalisti, mentre il giudizio si stempera già considerando i selezionati e a maggior ragione l’ondata degli incipit.

Si può comunque partire dalla constatazione che la qualità narrativa è il punto di forza. Una padronanza nella scrittura, un’apparente consuetudine – almeno nei finalisti e in parte dei segnalati – con la declinazione di riflessioni e inquietudini in forma di narrazione paradossale lasciano presagi di ottimismo sulla narrativa italiana, fantastica o meno. Le prove scintillano d’intelligenza e di beffarda ironia, qualche volta affilata da una vaga crudeltà, altrove oniricamente straniata. Emerge qui e là il disagio neppure tanto per le situazioni estreme che la vita ci precipita addosso (per esempio la pandemia), quanto per l’assurdo che il circo umano riesce a confezionare in risposta. A volte inevitabile, nel senso che non sapremmo fare diversamente, altrove per effetto di pressioni di un’intera società o della spregiudicatezza dei suoi poteri. Si coglie poi una consuetudine smaliziata alla scrittura anche nella pragmatica presa d’atto che un testo breve si giochi più agevolmente sull’episodio fulminante, magari surreale, che non su una narrazione distesa, con una trama più ampia costretta in una gabbia di poche battute.

Attenzione, seguiranno (necessariamente) spoiler.

(continua…)

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A morte il Grande Fratello. Pensare al futuro e ai suoi pericoli https://www.carmillaonline.com/2022/12/14/a-morte-il-grande-fratello-pensare-al-futuro-e-ai-suoi-pericoli/ Wed, 14 Dec 2022 06:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75036 di Domenico Gallo

Ombre del futuro è un’enciclopedia della distopia che va al di là della fantascienza e delle mode più recenti, dimostrando quanto fosse radicata nella letteratura la capacità di descrivere le forme del pensiero autoritario e poi totalitario. Mondi di regole, paure, obbedienze, poteri capaci di insinuarsi nella testa, dove si formano i pensieri. 82 romanzi, di cui molti poco conosciuti, che sono in attesa di essere letti e riletti per insinuare dubbi e indebolire le distopie che viviamo qui e ora.

Marco Sommariva, Ombre del [...]]]> di Domenico Gallo

Ombre del futuro è un’enciclopedia della distopia che va al di là della fantascienza e delle mode più recenti, dimostrando quanto fosse radicata nella letteratura la capacità di descrivere le forme del pensiero autoritario e poi totalitario. Mondi di regole, paure, obbedienze, poteri capaci di insinuarsi nella testa, dove si formano i pensieri. 82 romanzi, di cui molti poco conosciuti, che sono in attesa di essere letti e riletti per insinuare dubbi e indebolire le distopie che viviamo qui e ora.

Marco Sommariva, Ombre del futuro. Viaggio nella letteratura distopica. Edizioni Malamente, pp. 702, euro 24,00

 

Lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, interrogato su cosa fosse l’utopia, pronunciò queste parole destinate a diventare famose. “Lei è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare”[1]. Un concetto simile, questo di intendere l’utopia come qualcosa che si allontana da noi man mano che raggiungiamo l’obiettivo che ci siamo dati, lo ritroviamo anche ne Le città invisibili di Italo Calvino. “Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.”[2]        Di questa mobilità, di questo sfuggire che ricorda la nota che conclude il romanzo di Antonio Tabucchi Il filo dell’orizzonte, che, “di fatto, è un luogo geometrico, perché si sposta mentre noi ci spostiamo”[3], Darko Suvin, il più importante studioso mondiale della fantascienza, ha dato una lettura dell’utopia come genere letterario che non si può evitare di affrontare quando si pensa a questo tipo di immaginazione politica e si discute su di lei. Il punto di partenza è la reinterpretazione proposta da Ernst Bloch del termine utopia, negandone l’impossibilità e individuandola come un percorso verso un obiettivo certo non immediato ma teoricamente raggiungibile, ovvero un “qualsiasi superamento dei confini presentatisi all’uomo” [4], e, nell’accezione di Karl Manheim, ancora nel testo di Suvin, “ogni orientamento che trascenda la realtà e spezzi i limiti dell’ordine esistente”. Pur tenendo conto della limitatezza delle citazioni, l’elemento dinamico e l’incessante lavoro di ridefinizione dei contenuti sono al centro della tensione verso l’utopia, sia come superamento delle condizioni socio-politiche esistenti, sia come metodologia del sapere ed essere politico. Lo studio di Suvin è rivolto all’utopia come genere letterario, tuttavia la fitta dialettica tra la lotta politica e la letteratura, e la potente battaglia che oggi si combatte contro il capitalismo proprio sul terreno dell’immaginario, giustifica anche l’appropriazione di strumenti e metodi sviluppati all’interno della critica letteraria per calarli tra gli strumenti di lotta di chi vuole una vita migliore. In Italia dobbiamo ad Antonio Caronia e Valerio Evangelisti, un filosofo e un narratore di fantascienza, la lezione che l’immaginario è diventato il più importante “luogo produttivo” del capitalismo contemporaneo, dove si crea profitto e, nello stesso momento, controllo e consenso al sistema economico mondiale e al suo modello di sfruttamento delle persone e del pianeta. In questo modello, alla tradizionale produzione e consumo dei mezzi materiali, così magistralmente descritti in maniera epica da Émile Zola in Germinal (1885), si è affiancato un enorme meccanismo di assoggettamento che, attraverso le tecnologie della comunicazione, ha connesso ogni individuo della Terra a un complesso sistema narrativo a cui ognuno collabora condividendo il proprio immaginario con gli altri utenti delle piattaforme. Se oggi al profitto ingiustamente accumulato da chi domina le filiere mondiali dei beni materiali, si affianca chi accumula i profitti generati dallo sfruttamento dei beni immateriali, costituendo in realtà un unico sistema di sfruttamento interdipendente, allora le nuove forme di liberazione, oltre allo scontro sui salari, sulla sicurezza e sulla nocività del lavoro, si devono alleare in una guerra civile di lunga durata per la conquista dell’immaginario e delle sue forme espressive. Questo perché, e le classi dirigenti lo hanno compreso molto bene, se si vuole distruggere questa società bisogna pensarne un’altra, e il pensiero è progressivamente diventato l’oggetto più importante da conquistare per difendere i privilegi dei pochi.

Le critiche rivolte alle utopie si distinguono in due filoni, quelle che ritengono le impossibili da realizzarsi (e quindi è inutile qualsiasi sforzo dedicato al cambiamento delle società in cui abbiamo vissuto), che è una narrazione costante e divenuta dominante durante il riflusso degli anni Ottanta, oppure che mascherano in sé o si evolvono inevitabilmente in una negazione della libertà (e quindi sono utopie negative, distopie), che è il tema classico della critica liberale e individualistica. Le prime utopie a carattere religioso erano isole o città lontane, comunque costruzioni terrestri e quindi realizzabili, che ritengono di raggiungere il massimo livello di giustizia attraverso un sistema di regole molto rigido e condiviso. Adeguarsi a questo sistema, fino al punto di modificare le proprie pulsioni e aspettative individuali, è stato visto dal pensiero liberale come una forma di tirannia talmente grave da ribaltare l’utopia nel suo contrario, almeno nella tradizione europea. Ma è la macchina (prima a vapore, poi elettrica) a creare una profonda separazione tra la tradizione hobbesiana e la visione positivista che si sviluppa negli Stati Uniti. L’Inghilterra è la nazione in cui per prima esplode l’odio popolare contro le macchine. A partire dal 1811 la furia luddista esplode a Nottingham, quando vengono distrutti decine di telai da parte di lavoratori tessili. Il capo della rivolta è considerato Ned Ludd, forse un personaggio inesistente che veniva affiancato a Robin Hood, e la rabbia dei lavoratori si diffonde violenta per sparire e riapparire con azioni armate, sabotaggi e incendi per almeno vent’anni. La visione di quella classe operaia individuava nella meccanizzazione un modello antagonista a quello umano e destinato a ridurre assunzioni e sottrarre salario, e non la prospettiva di alleviare i lavoratori dai lavori faticosi, e aumentare la produzione con il conseguente aumento i salari. La contrapposizione lavoratore-macchina rimane centrale nell’elaborazione politica europea. La critica espressa da Marx ed Engels verso le rivolte luddiste è limitata allo spontaneismo del movimento e alla mancanza di una critica radicale verso il sistema di classe, all’accettazione del ruolo subalterno dei lavoratori, intrinsecamente dipendenti dai padroni, ma condividono la visione estremamente negativa della macchina come strumento di sfruttamento unilaterale del padrone. In “Macchine. Impiego delle forze naturali e della scienza”, il testo tratto dal Quaderno V della collezione di manoscritti agosto 1861 – giugno 1863, riscoperto in Italia alla fine degli anni Settanta, e che costituisce la base del capitolo sulle macchine del primo libro de Il Capitale, afferma che “l’introduzione delle macchine nel quadro della produzione capitalista non ha affatto lo scopo di alleviare e ridurre la fatica quotidiana dell’operaio”, né di ridurre il suo orario di lavoro, ma di innescare un processo di indebolimento della classe operaia attraverso la despecializzazione dei lavoratori, il lavoro minorile e quello delle donne consentito dall’introduzione delle macchine e dalla conseguente semplificazione delle fasi del lavoro. Ancora nel “Frammento sulle macchine” proveniente dai Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Marx descrive come “il mezzo di lavoro percorre diverse metamorfosi, di cui l’ultima è la macchina, o, piuttosto, un sistema automatico di macchine”[5]. In questo processo, che si è evoluto fino all’odierna invasività del cyborg, dove lavoratore e macchina sono fusi in un unico oggetto produttivo, la macchina non è lo strumento di lavoro dell’operaio, ma progressivamente diventa potere estraneo e ambiguo che sottomette la volontà operaia, limitandone lo spazio di azione e autonomia e frustrandone la creatività. La macchina del tempo di Herbert George Welles, romanzo che introduce il viaggio nel tempo, ma che, contemporaneamente, apre uno squarcio sull’evoluzione del capitalismo e della classe operaia, rappresenta l’entrata diretta della fantascienza all’interno del dibattito politico più radicale. La profonda ambiguità dell’estrapolazione wellsiana si colloca proprio nella dialettica utopia-distopia. Prima la descrizione del mondo degli Eloi, gli eredi della classe dirigente, con la riproposizione della città-giardino, l’apparente mancanza di proprietà privata e il prevalere della vita sociale, l’abbondanza e la bellezza degli abitanti (per quanto instupiditi), poi la scoperta dei Morlock, le ripugnanti creature notturne che si cibano degli Eloi, evoluzione darwiniana estrema della classe operaia, ridotti a mostri costretti a vivere nelle fabbriche sotterranee. Sebbene nel romanzo gli Eloi si rivelano anche essere una sorta di bestiame a disposizione dei Morlock, in una sorta di ribaltamento rivoluzionario, è evidente che il monito di Wells è centrato sulla critica a quella società che ha indotto nei Morlock la mutazione fino a sfigurarli a causa delle condizioni di lavoro e dell’imbarbarimento della vita di fabbrica e nella povertà endemica dei quartieri operai. Sebbene collocato dall’altra parte della Manica, è ancora quella di Germinal l’immagine consapevole dei lavoratori dell’epoca, quella che costituisce un immenso immaginario capace di rinforzare le lotte di un intero continente.

La società statunitense, invece, mostra un approccio molto differente riguardo alle conseguenze sociali e politiche dell’introduzione nel mondo del lavoro di macchine molto complesse. Come nella cultura europea, è chiaro che il progressivo perfezionamento delle tecnologie richiede l’adattamento della classe operaia al sistema di regole e orari necessario ai nuovi mondi macchinici, ma questo sistema di dominio è destinato a estendersi sistematicamente fuori dalle fabbriche e a riconfigurare il mondo intero e il tempo di vita offrendo al potere la possibilità di estendere il disciplinamento scientifico del lavoro all’intera esistenza umana. Le distopie che leggiamo, spesso concentrate sulla sofferenza dell’uomo liberale privato della propria libertà, in prima misura personale e solo secondariamente collettiva, sono la rappresentazione letteraria di una società configurata con le regole della fabbrica che nuove tecnologie rendono possibili e sempre più efficaci. Anzi le nuove tecnologie sembrano offrire un ulteriore livello di disciplinamento. Marshall McLuhan nel saggio Gli strumenti del comunicare aveva scritto: “Dopo oltre un secolo di impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo avvicinando rapidamente alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella in cui attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana, proprio come tramite i vari media abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi.”[6] La visione rigorosamente antropologica e funzionale di McLuhan neppure sfiora la dimensione politica e le logiche di potere che la diffusione novecentesca delle tecnologie è in grado di attuare, semplicemente ne osserva l’evoluzione evitando di riflettere sulla riconfigurazione che dei corpi e delle loro menti che un tale “ambiente” richiede. Un esempio per tutti ce lo offre il capolavoro di Alan Parker, il film distopico The Wall (1982), che riprende il filo narrativo dell’omonimo album dei Pink Floyd. Una misteriosa macchina didattica collegata a una catena di montaggio trasforma i giovani inglesi prima in studenti senza volto e poi in carne tritata. Sono, insomma, i nuovi Morlock.

Autori statunitensi come David F. Noble, Howard P. Segal e Jeremy Rifkin leggono con attenzione il rapporto tra sogno americano, tecnologia e utopia. Senza negare l’esistenza di visioni antitecnologiche di natura religiosa e conservatrice, legate alla tradizione quacchera e caratterizzante gli immensi territori extraurbani, la migrazione del pensiero utopista europeo negli Stati Uniti incontra spazi quasi infiniti e una forte realtà di autogoverno del mondo contadino. Rifkin scrive nel suo classico La fine del lavoro: “In questi spazi fantasmagorici l’America, e soprattutto gli Stati Uniti, occupano un posto d’onore: dal vangelo del profitto alla conquista di nuove frontiere, dalle corse all’oro (…) alla scalata degli spazi (il continente, la terra, il cosmo), il sogno è il sacro nutrimento del popolo americano, la transustanziazione della sua pratica storica, mentre per gli europei è l’allegoria”[7]. Inoltre, con il concludersi della colonizzazione della Terra e il restringersi, fino a sparire, delle zone inesplorate, comporta che le città utopiche sorte in luoghi ancora sconosciuti si debbano trasformare in città future. È questo il passaggio chiave che porta queste teorizzazioni dal trattato etico e morale della tradizione utopistica alla fantascienza, genere che è nato proprio con il progetto di raccontare l’impatto tra nuove tecnologie e umanità. Non dimentichiamo che il socialismo, a partire dalla laicizzazione dell’escatologia cristiana, pone la possibilità di determinare la forma sociale del futuro come una forma di organizzazione più equa trasferendo le proprietà dai capitalisti alla classe operaia, mentre l’utopismo statunitense sostiene che il lavoro delle macchine avrebbe sostituito quello operaio, descrivendo “un futuro nel quale le macchine avrebbero sostituito la manodopera, creando una società senza lavoro, di abbondanza e divertimento” (J. Rifkin). Il testo più importante di questa tradizione è Guardando indietro di Edward Bellamy, pubblicato nel 1888.  Julian West, il protagonista del romanzo, a seguito di una seduta di ipnosi, si ritrova nella Boston dell’anno 2000. Il sistema economico del futuro è il capitalismo di stato controllato da un esecutivo tecnico-politico che governa i mezzi di produzione e divide equamente il profitto tra tutti i cittadini. Un’organizzazione chiamata Esercito Industriale ha il compito operativo di attribuire le mansioni ai cittadini e distribuire le merci che sono in visione in enormi magazzini e consegnate direttamente nelle abitazioni attraverso un sistema capillare di posta pneumatica. Ogni cittadino ha ricevuto una formazione universitaria e deve lavorare fino a quarantacinque anni. Musica e libri sono disponibili gratuitamente.

A partire dall’enorme successo del libro di Bellamy, negli Stati Uniti si sviluppa una cultura utopistica che vede nella tecnologia pubblica la chiave per eliminare la fatica, la ripetitività e il rischio dal lavoro, per elevare socialmente la classe dei lavoratori ed eliminare il parassitismo delle classi dirigenti, arricchitesi generazione dopo generazione all’interno di un sistema di privilegi. E sarà proprio la prima fantascienza, quella delle riviste popolari chiamate pulp, a teorizzare la scomparsa delle nazioni e lo svilupparsi di uno stato mondiale gestito da un’unica classe tecnica, stabilire la parità tra i sessi e disegnare nuove forme delle città. Tuttavia, in Europa, a partire dalla Prima Guerra Mondiale, diventa evidente che al progredire delle tecnologie corrisponde una maggiore capacità distruttiva e un rafforzamento dei poteri elitari. Non è solo il rischio paventato da Marx di un’applicazione della legge del profitto che condanni i lavoratori a produrre di più, lavorando sempre più ore e senza un aumento della paga, ma una trasformazione antropologica del potere. La moda frivola che negli ultimi tempi ha colpito il termine distopico, diventato di uso comune e utilizzato con un senso improprio, sta tentando di alterarne l’ambito squisitamente politico, ma il suo significato rimane, ovvero il fallimento dell’utopia e l’instaurarsi dello stato totalitario.

I motivi per cui le utopie si trasformano in distopie sono sostanzialmente due: l’utopia parziale e l’utopia statica. Le utopie parziali sono quelle che costruiscono società egualitarie e felici, ma delimitate, coinvolgono solo specifici territori o tipologie di abitanti. Anzi spesso occultano sfruttamenti esterni crudeli e violenti. Un esempio lo possiamo trovare nel mondo descritto dalla serie portoghese 3% (2016), ideata da Pedro Aguilera, dove un’idilliaca isola tropicale è la sede di una microsocietà ecologica chiamata Offshore, in cui regnano l’abbondanza, la raffinatezza e l’eguaglianza tra gli abitanti. Tuttavia quel benessere è garantito dall’assoluta povertà di una terra desolata e povera, senz’acqua e cibo, abbandonata alla violenza, l’Entroterra. La scelta dei fondatori di questa colonia utopica è di rendere sterili gli abitanti e di garantirsi il ricambio generazionale attraverso una selezione a cui sono posti annualmente i giovani dell’Entroterra. I migliori abbandoneranno i quartieri degradati dell’Entroterra, per entrare a fare parte dell’élite, i perdenti trascorreranno la loro esistenza nella miseria accuratamente pianificata. In qualche modo 3% ripropone il tema dell’utopia dei pochi che era alla base del film Zardoz (1974), diretto da John Boorman, dove in un mondo regredito e selvaggio garantisce il cibo agli abitanti del Vortex, una città tecnologica e chiusa da una cupola in cui i privilegiati abitanti sono indifferenti alle sofferenze che patiscono coloro che sono tenuti fuori. In generale, sul modello de La macchina del tempo di Wells, gli abitanti di queste utopie parziali e privilegiate sono gli eredi delle classi dirigenti che, grazie alle risorse che hanno espropriato e sottratto alle comunità, sono in grado di allontanarsi e fuggire da un mondo diventato, a causa loro, inospitale, sovrappopolato e violento. Non è un caso che storicamente lo stesso fascismo tedesco, il nazismo, abbia a più riprese evocato componenti utopiche da riservarsi ai soli ariani, sia nella progettazione delle città affidata all’architetto Albert Speer sia ai frequenti richiami della propaganda che ostentava la ricerca della felicità per i tedeschi. Non serve specificare quanto questo utopismo fosse patologico e progettato su una piramide razziale che riservava la possibilità di accedervi solo a chi poteva vantare il necessario livello di purezza. Agli altri toccava subire discriminazione, terrore e schiavitù. Infatti, liquidate le prime esperienze utopiche tipiche di un mondo ancora inesplorato, l’utopia, se vuole evitare la caduta distopica, non può che richiedere l’universalità dei suoi principi su tutto il pianeta.

La discussione dell’utopia statica ci riporta invece alle considerazioni dell’inizio, alla necessità di porre in discussione costantemente il sistema di regole su cui una società si basa. A capire che sistemi di regole resisi necessari nelle emergenze devono essere abbandonati e ridiscussi appena possibile. Sicuramente il modello storico di riferimento è quello dell’involuzione della Rivoluzione Bolscevica, un fattore che non si limita necessariamente ai soli anni di Stalin, ma che affonda le sue origini nel periodo della guerra civile, nella gestione delle emergenze, nell’instaurarsi di nuove discipline, nella militarizzazione della classe operaia. Oggi possiamo scorgere, alla distanza di un secolo, quanto l’esperienza bolscevica sia stata influenzata dai fattori di aggressività esterna che hanno consentito il prevalere delle componenti più autoritarie, intrinsecamente più adatte a gestire la guerra, sacrificando gli aspetti di partecipazione dal basso, di diffusione della libertà e di autogestione. Senza dimenticare la miseria, la condizione di schiavitù, la precarietà e la mancanza di ogni diritto in cui versavano da secoli le popolazioni della Russia, della Cina, della Cambogia, del Vietnam e di ogni nazione in cui siano avvenute rivoluzioni che hanno sovvertito le strutture di classe per imporre regimi autoritari, è evidente che il trauma europeo è quello della rivoluzione tradita, la delusione di un evento da cui, soprattutto gli intellettuali, si aspettavano molto di più della proletarizzazione dell’intera società. Nella raccolta di Marco Sommariva sono molti i romanzi che rileggono l’involuzione rivoluzionaria, da Noi di Evgenij Zamjatin a R.U.R. di Karel Čapek, per approdare a 1984 di George Orwell, il romanzo che più di tutti crea il canone della distopia, definendone le funzioni e il suo registro etico. Non è un caso che la società di 1984 sia caratterizzata da una guerra continua in cui i tre grandi stati alternano le loro alleanze, ma il conflitto che conta è quello interno, quello del Socing, il socialismo inglese, contro la sua stessa società. E per vincere la guerra interna, c’è bisogno di una guerra esterna che giustifichi sacrifici, riduzione della libertà, stato di emergenza e coprifuoco. In questo modo Orwell riporta la sua Gran Bretagna alla situazione dell’Unione Sovietica staliniana, accerchiata dalle potenze mondiali, ma concentrata sull’istituzione di un forte biopotere. Giulia, la protagonista femminile di 1984, infatti dubita che la guerra esterna esista veramente: “Julia lo lasciò di stucco affermando con noncuranza che secondo lei questa guerra non esisteva. Le bombe-razzo che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate dallo stesso governo di Oceania, «per mantenere la gente nella paura»”. È dunque una società oppressiva per consentire alle strutture di oppressione il mantenimento del loro potere, un potere che dipende da quelle particolari condizioni di instabilità e che finirebbe se si realizzasse il socialismo libertario che Orwell non ha mai mancato di seguire. Non è un caso che in 1984, in più punti, ci si riferisca ai prolet come l’unica possibilità per uscire dall’oppressione del Partito, e non a una classe intellettuale o borghese per ristabilire quelle libertà assolutamente individuali a cui si richiama costantemente uno scrittore come Anthony Burgess, pessimista e incapace di concepire società con un’aspirazione collettiva. Per Orwell, invece, si doveva riprendere faticosamente la strada della libertà globale, della lotta alla superstizione e al dogmatismo politico, del coinvolgimento degli strati più bassi della popolazione nella gestione del potere, come era stato in Spagna per un breve periodo. Dunque l’utopia deve essere dinamica o muore, non devono esserci obiettivi raggiunti da difendere in eterno, affidando a nuove élite poliziesche il compito di reprimere ogni critica di quel sistema. Ma Eduardo Galeano lo ha detto, utopia è camminare e la distopia è fermarsi.

[1] Eduardo Galeano, Parole in cammino, Milano, Sperling & Kupfer, 2006.

[2] Italo Calvino, Le città invisibili, 1972, Milano, Mondadori, 2016.

[3] Antonio Tabucchi, Il filo dell’orizzonte, 1986, Milano, Feltrinelli, 2014.

[4] Darko Suvin, Le metamorfosi della fantascienza, 1979, Bologna, Il Mulino, 1985

[5] Karl Marx, “Frammento sulle macchine”, in «Quaderni Rossi» n. 4, Roma, Nuove Edizioni Operaie, 1964

[6] Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 1964, Milano, Saggiatore, 2015.

[7] Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, 1995, Milano, Mondadori, 2002.

Dalla prefazione del volume Ombre dal futuro.

 

Prefazione. A morte il Grande Fratello di Domenico Gallo

1. La Terra Australe di Gabriel de Foigny (1676)
2. I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1726)
3. L’ultimo uomo di Mary Shelley (1826)
4. Tempi difficili di Charles Dickens (1854)
5. Erewhon di Samuel Butler (1872)
6. I cinquecento milioni della Bégum di Jules Verne (1879)
7. La terra delle tenebre di Margaret Oliphant (1888)
8. Un racconto del XX secolo di Ignatius Donnelly (1890)
9. La macchina del tempo di Herbert George Wells (1895)
10. Il risveglio del dormiente di Herbert George Wells (1899)
11. Le meraviglie del Duemila di Emilio Salgari (1907)
12. Il tallone di ferro di Jack London (1907)
13. Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson (1907)
14. L’altra parte di Alfred Kubin (1908)
15. Guerra alla Cina. L’inaudita invasione di Jack London (1910)
16. La principessa delle rose di Luigi Motta (1911)
17. La peste scarlatta di Jack London (1912)
18. L’osteria volante di Gilbert K. Chesterton (1914)
19. R.U.R. Rossum’s Universal Robots di Karel Čapek (1921)
20. Noi di Evgenij Zamjatin (1924)
21. Metropolis di Thea von Harbou (1925)
22. Blocchi di Ferdinand Bordewijk (1931)
23. Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932)
24. Da noi non può succedere di Sinclair Lewis (1935)
25. La notte della svastica di Katharine Burdekin (1937)
26. Il mal bianco di Karel Čapek (1937)
27. L’uomo è forte di Corrado Alvaro (1938)
28. Antifona di Ayn Rand (1938)
29. Schiavi degli invisibili di Eric Frank Russell (1939)
30. L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares (1940)
31. Kallocaina di Karin Boye (1940)
32. Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler (1940)
33. La fattoria degli animali di George Orwell (1945)
34. Un mondo sinistro di Vladimir Nabokov (1947)
35. La peste di Albert Camus (1947)
36. 1984 di George Orwell (1949)
37. Piano meccanico di Kurt Vonnegut (1952)
38. Il richiamo del corno di Sarban (1952)
39. I mercanti dello Spazio di Frederik Pohl e Cyril M. Kornbluth (1953)
40. Abissi d’acciaio di Isaac Asimov (1953)
41. Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953)
42. Il signore delle mosche di William Golding (1954)
43. Io sono leggenda di Richard Matheson (1954)
44. Belmoro di Corrado Alvaro (1957)
45. Giustizia facciale di Leslie Poles Hartley (1960)
46. Ritorno dall’universo di Stanislaw Lem (1961)
47. Arancia meccanica di Anthony Burgess (1962)
48. L’isola di Aldous Huxley (1962)
49. Il seme inquieto di Anthony Burgess (1962)
50. Storie naturali di Primo Levi (1966)
51. L’epidemia di Per Wahlöö (1968)
52. Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick (1968)
53. Diario della Guerra al Maiale di Adolfo Bioy Casares (1969)
54. Epepe di Ferenc Karinthy (1970)
55. Vizio di forma di Primo Levi (1971)
56. Il gregge alza la testa di John Brunner (1972)
57. L’uomo che voleva essere colpevole di Henrik Stangerup (1973)
58. Lo smeraldo di Mario Soldati (1974)
59. I viaggiatori della sera di Umberto Simonetta (1976)
60. Dissipatio H.G. di Guido Morselli (1977)
61. 1984 e 1985 di Anthony Burgess (1978)
62. L’ombra dello scorpione di Stephen King (1978)
63. Il pianeta irritabile di Paolo Volponi (1978)
64. Futuro in trance di Walter Tevis (1980)
65. Neuromante di William Gibson (1984)
66. Gli Antimercanti dello Spazio di Frederik Pohl (1984)
67. Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (1985)
68. L’incarico di Friedrich Dürrenmatt (1986)
69. La parabola del seminatore di Octavia E. Butler (1993)
70. Cecità di José Saramago (1995)
71. Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro (2005)
72. La scuola dei disoccupati di Joachim Zelter (2006)
73. La strada di Cormac McCarthy (2006)
74. Utopia di Ahmed Khaled Tawfiq (2011)
75. Il Cerchio di Dave Eggers (2013)
76. Il condominio di Via della Notte di Maria Attanasio (2013)
77. Sottomissione di Michel Houellebecq (2015)
78. Qualcosa, là fuori di Bruno Arpaia (2016)
79. Orologi rossi di Leni Zumas (2018)
80. Il muro di John Lanchester (2019)
81. Avrai i miei occhi di Nicoletta Vallorani (2020)
82. Melma rosa di Fernanda Trías (2022)

Postfazione. La distopia oggi di Marco Piracci

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