Cinema & tv – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Mikasa ti amo. L’attacco dialettico dei giganti https://www.carmillaonline.com/2025/07/22/mikasa-ti-amo-lattacco-dialettico-dei-giganti/ Mon, 21 Jul 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89757 di Luca Cangianti

L’antagonista, il villain, il mostro, il nemico si presentano come doppio dell’eroe. Di questo abbiamo parlato in un articolo precedente. Nell’Attacco dei giganti – manga di Hajime Isayama dal quale è stato in seguito realizzato un anime – si fa un passo avanti verso una relazione dialettica dalle tinte hegeliane.

Uno spoiler titanico Per argomentare questa tesi partiamo da un’esposizione priva di qualsiasi cautela in materia di spoiler. Da cento anni l’umanità residua vive nella città di Paradis protetta da un muro alto cinquanta metri. Fuori c’è il “nemico naturale”, i giganti. Si tratta di umanoidi che ricordano [...]]]> di Luca Cangianti

L’antagonista, il villain, il mostro, il nemico si presentano come doppio dell’eroe. Di questo abbiamo parlato in un articolo precedente. Nell’Attacco dei giganti – manga di Hajime Isayama dal quale è stato in seguito realizzato un anime – si fa un passo avanti verso una relazione dialettica dalle tinte hegeliane.

Uno spoiler titanico
Per argomentare questa tesi partiamo da un’esposizione priva di qualsiasi cautela in materia di spoiler. Da cento anni l’umanità residua vive nella città di Paradis protetta da un muro alto cinquanta metri. Fuori c’è il “nemico naturale”, i giganti. Si tratta di umanoidi che ricordano degli zombie in formato ciclopico. Nei documenti storici non c’è traccia della causa che ha portato alla loro apparizione; divorano solo gli esseri umani, ma non disponendo di un apparato digerente li rigurgitano; non respirano, non soffrono la fame né la sete, non hanno organi sessuali e se privati di un arto lo rigenerano. Hanno bisogno solo di luce e il loro punto debole si trova dietro il collo.
L’incidente scatenante avviene quando due giganti, il Colossale e il Corazzato, aprono una breccia nelle mura: i mostri dilagano causando morte e distruzione. Eren Jaeger, l’eroe, assiste impotente alla morte della madre. Giura vendetta e, insieme ai suoi amici Armin e Mikasa, si unisce al Corpo di Ricerca, il cui scopo è scoprire l’origine e la natura dei giganti. I suoi militi, tenaci e indomiti, sono gli unici a uscire dalle mura. Sono rivoluzionari e sognatori: in una società chiusa e dominata dalla paura, rappresentano la speranza di un mondo migliore, il coraggio di andare oltre i limiti, praticamente e metaforicamente. Il loro motto è: «Offriamo i nostri cuori!»
Nel corso degli eventi Eren scopre di avere la capacità di trasformarsi egli stesso in gigante, pur conservando la sua coscienza umana. Inizia così una lunga guerra, non solo per sconfiggere i giganti, ma anche per svelare molti misteri. Si scopre che i giganti sono esseri umani trasformati e che il vero nemico è il mondo esterno alle mura – in particolare la nazione di Marley, che da secoli opprime gli eldiani, gli unici esseri umani capaci di trasformarsi in giganti. L’isola di Paradis altro non è che l’ultimo rifugio di questo popolo dopo la caduta dell’impero di Eldia. Gli abitanti della città fortificata pensavano di combattere contro i mostri e adesso scoprono che i mostri sono loro, o almeno che il mondo li considera tali.
Ereditando i ricordi del padre, Eren scopre l’origine dei nove giganti primordiali, la storia del popolo di Ymir, cioè Eldia, e i conflitti tra questa e Marley. Eren decide allora di distruggere il mondo per garantire la sopravvivenza del suo popolo. Alleatosi temporaneamente con il fratellastro Zeke Jaeger, s’impossessa del potere della Fondatrice Ymir che permette il controllo assoluto su tutti i giganti. Infine scatena il Boato della Terra che consiste nella liberazione di milioni di giganti colossali imprigionati nelle mura di Paradis. Questi si mettono in marcia per sterminare l’umanità fuori dall’isola.
Quando Mikasa e Armin scoprono gli intenti di Eren, si ribellano al suo piano e formano un’alleanza con alcuni ex avversari, uniti da un obiettivo comune: fermare Eren e salvare l’umanità. Quest’ultimo nel frattempo si è trasformato in un mega-mostro osseo. Durante lo scontro finale, Armin colpisce la bestia con il potere del Colossale, mentre Mikasa penetra all’interno della struttura titanica per cercare il corpo umano di Eren. Lo trova in stato semicosciente, con un’espressione di pace sul volto. Mikasa, da sempre legata a Eren da un amore tragico e sconfinato, si trova di fronte alla scelta più difficile: salvare il mondo oppure l’uomo che ama. Gli taglia la testa e lo bacia (esattamente in quest’ordine). In una realtà alternativa mostrata nei capitoli finali, Eren rivela a Mikasa di aver voluto essere fermato da lei. Sapeva di essere oltre ogni redenzione, ma desiderava che fosse Mikasa a chiudere il cerchio. Il potere dei giganti scompare e l’umanità, pur se ridotta a un misero venti per cento, sopravvive. Ciò nonostante la tensione tra Paradis e le altre nazioni rimane.

La negazione determinata
L’attacco dei giganti è una narrazione di scontro, di guerra, di svolte, di rivelazioni e di paradossi, ma i termini che si oppongono e cozzano non sono estrinseci. Essi si strutturano secondo uno schema prossimo alla negazione determinata di Hegel. Come il filosofo spiega nella Scienza della logica «L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico […] è la conoscenza […] che il negativo è insieme anche il positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata. […] Codesta negazione è un nuovo concetto, ma un conetto che è superiore e più ricco che non il precedente […] ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto.»1 Facciamo un esempio: nel confliggere frontale di due figure sociali (negazione astratta), una potrebbe esser pronta a sottomettersi all’altra per salvare la propria vita (negazione di sé). Si genera così la relazione tra servo e signore descritta nella Fenomenologia dello spirito.2 Hegel dice che il lato dominato di questo rapporto è costretto a lavorare per quello dominante, ma in questo modo apprende a plasmare gli oggetti e il mondo, dunque acquisisce potere e coscienza di sé (negazione determinata), mentre il signore si limita a fruire immediatamente dei prodotti creati dal servo. Quest’ultimo grazie al lavoro nega sé stesso come pura passività e trasforma tale negazione in un momento positivo: si forma nel lavoro e si riconosce come soggetto più libero e cosciente del signore. La negazione determinata non comporta distruzione, ma trasformazione e conservazione di un contenuto in un nuovo contesto più avanzato.

Le contraddizioni dei giganti
Riassumiamo ora i conflitti principali dell’Attacco dei giganti. 1) I giganti sono nemici degli umani rinchiusi in Paradis, ma poi si rivela che anche quest’ultimi possono trasformarsi in giganti. L’alterità nemica è quindi interiorizzata e il conflitto si sposta fuori le mura. 2) Le mura proteggono l’umanità dai giganti, ma la loro capacità di resistenza è dovuta al potere d’indurimento dei giganti che sono intrappolati all’interno delle fortificazioni stesse. 3) Eren e Armin sognano il mare e la libertà oltre le mura e i giganti, ma scopriranno che al di là dell’oceano c’è Marley che vuole sterminare gli abitanti di Paradis considerandoli mostri. È da Marley infatti che provengono i giganti che assediano Paradis. Essi altro non sono che parte della popolazione eldiana trasformata forzosamente. 4) Eren è l’eroe che sogna un mondo migliore, ma si trasforma nel distruttore della Terra. 5) Sempre lui dichiara: «Io sono uno schiavo della libertà!». Vuole andare oltre le mura, conoscere il mondo, essere libero di scegliere, ma quando accede ai ricordi del futuro del Gigante Fondatore si rende conto che le sue azioni erano già state previste. È lui che ha mostrato al padre gli eventi a venire per costringerlo a compiere determinate azioni. 6) Mikasa ama Eren, ma lo uccide: la ragazza compie l’impresa dell’eroe Eren sconfiggendo l’antagonista Eren e la sua dialettica priva di sintesi – il Boato della Terra.

L’amore di Mikasa
«Il primo momento nell’amore», sostiene Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, «è che io non voglio essere una persona autonoma per me e che, se lo fossi, mi sentirei manchevole e incompleto. Il secondo momento è che io acquisto me in un’altra persona, che io valgo in lei ciò che a sua volta essa consegue in me. L’amore è pertanto la contraddizione più prodigiosa, che l’intelletto non può sciogliere, giacché non vi è nulla di più arduo di questo carattere puntiforme dell’autocoscienza, che viene negato e che io pur tuttavia devo avere come affermativo.»3 Il primo momento è simbolizzato da Mikasa che non si separa mai dalla sciarpa regalatale da Eren; il secondo dalle caratteristiche di Eren che attraggono Mikasa: lo spirito combattivo, il desiderio di giustizia e di libertà. Il motto ricorrente dell’eroe è infatti: «Combatti, devi combattere!» Nel momento in cui questi stessi elementi rischiano di provocare la distruzione, Mikasa compie il più grande atto di amore. Uccide il suo amato per conservarne le aspirazioni. Gli taglia la testa e, dopo un bacio che toglie il fiato, la trattiene in grembo. In questo modo, prossemicamente, Mikasa nega, ma conserva Eren e ciò che egli simbolizza. Dando la morte, Mikasa è la vita che trionfa sulla morte, la dialettica allo stato puro, lancinante, eroica, struggente. Per questo non si può che amare Mikasa.

L’antagonista come motore della storia
Jean Hyppolite afferma che nella Fenomenologia dello spirito «la dialettica producentesi nell’esteriorità si traspone all’interno dell’autocoscienza stessa». In questo modo «la dualità delle autocoscienze viventi diviene la duplicazione dell’autocoscienza all’interno di sé. L’indipendenza del signore e la severa educazione del servo divengono la padronanza-di-sé dello stoico – sempre libero quali che siano le circostanze o i casi della sorte – o l’esperienza della libertà assoluta dello scettico, il quale dissolve ogni posizione diversa da quella dell’io stesso.»4 E così come Alexandre Kojève ricorda che la negazione dell’Altro in Hegel non è assoluta, ma sempre determinata,5 noi possiamo affermare che il gigante rappresenta la negazione determinata di Eren e che, più in generale in narratologia, l’antagonista nega determinatamente l’eroe. Questo infatti riesce a compiere il proprio viaggio6 grazie alla lotta con l’antagonista così come il servo progredisce spiritualmente in virtù del conflitto con il signore, che funge da catalizzatore. Il nemico, l’antagonista, non è mera opposizione esterna, ma momento interno del processo dialettico che permette all’eroe di confliggere, negarsi e autogenerarsi in una nuova superiore identità. Non si sconfigge il nemico annientandolo, ma passandoci attraverso, interiorizzandolo come negativo.
Marx affermava che «È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia». Noi possiamo aggiungere che senza «questo inconveniente della società»7 non ci sarebbe stato né incidente scatenante né conflitto. Saremmo rimasti a casa, non avremmo intrapreso viaggio alcuno e di conseguenza non ci saremmo evoluti. Nessuna storia sarebbe stata scritta o raccontata; non ci saremmo innamorati di Mikasa, non saremmo morti e non continueremmo a vivere in lei.


  1. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, vol. I, Laterza, 1988, p. 36. 

  2. Cfr. id., Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1988, pp. 159-164. 

  3. Id. Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio con le aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Laterza, 1999, pp. 332-333. 

  4. Jean Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, La Nuova Italia, 1989, p. 191. 

  5. Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 1996, p. 65. 

  6. Cfr. A. Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi, Mimesis 2020. 

  7. K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1993, pp. 78-79. 

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Ombre nell’acqua (2025) e altri orrori balneari https://www.carmillaonline.com/2025/07/15/ombre-nellacqua-2025-e-altri-orrori-balneari/ Tue, 15 Jul 2025 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89601 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva australiana in sei episodi Ombre nell’acqua (The Survivors, 2025 – Netflix) realizzata da Tony Ayres e tratta dal romanzo omonimo del 2020 di Jane Harper, è ambientata a Eaglehawk Neck, in Tasmania, in una località di mare immaginaria, Evelin Bay. Si tratta di un luogo liminale e lontano, quasi una variante esotica soleggiata delle località isolate e marginali nelle quali si ambientano diverse serie crime nordiche, da Trapped (Ófærð, dal 2015 – Netflix) a La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix).

Su Evelin Bay gravano degli oscuri avvenimenti del passato, la scomparsa [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva australiana in sei episodi Ombre nell’acqua (The Survivors, 2025 – Netflix) realizzata da Tony Ayres e tratta dal romanzo omonimo del 2020 di Jane Harper, è ambientata a Eaglehawk Neck, in Tasmania, in una località di mare immaginaria, Evelin Bay. Si tratta di un luogo liminale e lontano, quasi una variante esotica soleggiata delle località isolate e marginali nelle quali si ambientano diverse serie crime nordiche, da Trapped (Ófærð, dal 2015 – Netflix) a La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix).

Su Evelin Bay gravano degli oscuri avvenimenti del passato, la scomparsa di una ragazza e la morte in mare di altri due giovani durante una tempesta mentre si recavano a soccorrere un loro amico, Kieran Elliott (Charlie Vickers), intrappolato in una grotta sommersa dall’alta marea. Quest’ultimo, come anche la protagonista di Glaskupan, si è costruito la sua vita lontano dal luogo natio da cui si è dovuto allontanare per provare a sfuggire da un passato insopportabile.

Nel momento in cui, quindici anni dopo i tragici eventi che lo hanno condotto ad andarsene, Kieran vi fa ritorno assieme alla giovane compagna Mia Chang (Yerin Ha) e alla figlioletta Audrey, le ombre del passato riemergono e lo avvolgono sotto la forma non solo di un senso di colpa che lo attanaglia ma anche dell’accusa, perpetrata in paese dai parenti delle vittime, di essere il responsabile della morte degli amici che si misero in mare per soccorrerlo.

Come nel citato Glaskupan, anche in Ombre nell’acqua la vicenda narrata segue uno schema tutto sommato convenzionale: il personaggio protagonista, che ormai vive in città, fa ritorno nel paesino immerso nella natura della sua infanzia ove è stato coinvolto molto tempo prima in una vicenda drammatica; il ritorno lo costringe a fare i conti con un passato che continua ad incombere su di lui come sulla comunità locale dilaniata da quanto accaduto; a riportare a galla il passato provvede un nuovo evento traumatico che sconvolge nuovamente il paese; le indagini su questo ultimo evento permettono di approfondire diversi personaggi protagonisti tanto del presente quanto del passato, portando alla luce gli aspetti più oscuri di ognuno di loro; la risoluzione del nuovo dramma contribuisce a risolvere anche il precedente; l’emersione del rimosso consente a diversi personaggi di liberarsi di un peso che altrimenti avrebbe continuato a gravare su di loro.

Per quanto Ombre nell’acqua, come detto, si dipani lungo uno schema narrativo non particolarmente originale, non manca di mettere in luce alcuni aspetti meno scontati. La serie palesa, ad esempio, come nella piccola comunità cali più facilmente il sipario su una tragica scomparsa femminile rispetto alle scomparse maschili che invece continuano ad essere ricordate non soltanto dai parenti stretti ma dall’intero paese che elegge quei ragazzi a “figli della comunità” mentre destina all’oblio la ragazzina, la cui memoria resta privata all’interno della cerchia dei parenti stretti.

Di fronte al nuovo dramma, alla morte della giovane Bronte (Shannon Berry) intenta a ricostruire quella parte del passato che la comunità ricorda nelle sue cerimonie pubbliche ma che preferisce non affrontare fino in fondo, gli abitanti del paesino si preoccupano più di scagionarsi a vicenda che non di scoprire chi l’ha uccisa: la famiglia e comunità dovono pur essere preservate.

In Ombre nell’acqua – che non a caso lo stesso Tony Ayres definisce “un melodramma familiare travestito da mistery” – si aprono poi molteplici squarci su dinamiche affettive complesse, che ricordano un po’ le narrazioni scandinave, per quanto queste ultime insistano maggiormente su contesti parentali altolocati.

Si pensi, ad esempio al rapporto tra Kieran e la madre Verity (Robyn Malcolm), che gli ha a lungo negato l’amore materno incolpandolo della morte del fratello, oppure tra lo stesso protagonista e la sua vecchia fiamma Olivia “Liv” (Jessica De Gouw), che scatena la gelosia della compagna Mia con cui è tornato a Evelin Bay. Quest’ultima, a sua volta, si trova a fare i conti con la memoria del suo rapporto di amicizia in età adolescenziale con la scomparsa Gabbie. Le inquietudini affettive si ampliano poi nei rapporti tra Trish Birch (Catherine McClements) e le figlie Gabbie, che non vuole dimenticare, e “Liv”, dunque di quest’ultima con il fidanzato problematico Ash (George Mason) e via dicendo.

Altra questione posta dal film riguarda la figura di Brian Elliott (Damien Garvey), il padre del protagonista alle prese con l’Alzheimer non solo per il particolare rapporto che la famiglia si trova a strutturare con lui nei momenti di minor lucidità, ma anche per come la giustizia si possa e si debba rapportare nei suoi confronti quando lo ritiene possibile responsabile della morte della giovane Bronte.

Al di là degli intrecci tra personaggi, Ombre nell’acqua è particolare per la liminalità del luogo che possiede non solo caratteristiche spaziali ma anche temporali: il lato oscuro di Evelin Bay è dovuto agli accadimenti del passato il quale, al pari della lontananza geografica, sembra avvolgere la località in una dimensione oscura e terribile.

Evelin Bay è connotata dalla presenza di una natura imponente, di certo affascinante ma, per certi aspetti, ostile, gotica – un gotico decontestualizzato in un luogo esotico – si potrebbe persino dire: enormi scogliere con grotte ed anfratti naturali nei quali è estremamente pericoloso avventurarsi, spiagge sulle quali si riversa una potente risacca, tempeste marine che possono scoppiare improvvisamente in modo violento.

Il paese e i suoi dintorni dove si ambienta Ombre nell’acqua può quindi bene rappresentare una ulteriore variazione dell’orrore balneare, di una situazione, cioè, in cui si intensificano i tratti sia orrorifici che angosciosi, ambientata però in una località marina, apparentemente spensierata e, soprattutto, in una soleggiata estate.

La vicenda della serie si svolge infatti nella stagione estiva australe, e i personaggi camminano spesso lungo spiagge – sarà proprio una spiaggia il luogo in cui verrà ritrovato il cadavere di Bronte – e si incontrano nel pub del paese a bere e a scherzare. Il locale è per il protagonista sia un luogo in cui riceve la benevola accoglienza di alcuni vecchi amici, che quello in cui si manifesta pubblicamente l’ostilità di chi gli imputa la responsabilità della perdita dei propri cari, i giovani che la comunità si appresta a ricordare nell’imminente quindicesimo anniversario della scomparsa.

Un’altra caratteristica delle località dell’orrore balneare (ma anche, spesso, della liminalità nordica) è quella di possedere uno spazio nel quale la vita comunitaria si svolge apparentemente normale: un pub, una locanda, un negozio dove gli abitanti si ritrovano a discutere mentre sta incombendo un oscuro e inconoscibile terrore.

Agli spazi ‘antropizzati’, se così si può dire, si contrappongono quelli naturali che circondano, come un inquietante labirinto che si distende d’intorno, la cittadina e le sue case. Quasi come mostri naturali appaiono allora le scogliere, le insenature, le stesse onde del mare, le grotte, le foreste e, nel momento dell’arrivo di una tempesta, gli addensamenti nuvolosi nel cielo. Evelin Bay è anche questo: la bellezza e l’orrore di una natura sempre in agguato sembrano fare biologicamente parte della sua essenza.

L’orrore balneare, d’altra parte, possiede numerose interessanti declinazioni nella letteratura ma, soprattutto, nel cinema. Basti pensare alle località di mare, origine della dimensione orrorifica, in cui si ambientano alcuni racconti di Edgar Allan Poe, come Il manoscritto trovato in una bottiglia e La storia di Arthur Gordon Pym o a Whitby, la località balneare inglese dove, in un inquietante e tempestoso agosto, giunge la nave mostruosa del vampiro in Dracula di Bram Stoker, momenti resi efficacemente da Werner Herzog nella sua rilettura attuata con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979) in cui si vede Lucy in un piccolo cimitero sulla riva del mare battuta dal vento.

Una interessante riscrittura di una storia di vampiri in chiave gotico-balneare-mediterraneo è stata poi attuata nei primi anni del Novecento da Daniele Oberto Marrama nel suo racconto dal titolo Il Dottor Nero, in cui un vecchio capitano di mare, al calar della sera di un giorno di maggio, non riesce ad affacciarsi alla terrazza della sua villa sul mare, a Capri, per timore dei vampiri.

Come detto, sono numerosi gli esempi cinematografici di serene e spensierate località marine che si trasformano improvvisamente in scenari spaventosi quando non proprio orrorifici. Si pensi alla cittadina balneare di Bodega Bay in cui si ambienta Gli uccelli (Birds, 1963) di Alfred Hitchcock: qui, in pieno periodo di vacanze, si scatena l’infernale impazzimento degli uccelli. Lo scenario dell’azione, nella piccola località di provincia, si dipana spesso tra piccoli negozi e locande, veri e propri luoghi di aggregazione sui quali però si sta per abbattere un inquietante orrore.

Non si può poi non pensare a Lo squalo (Jaws, 1975) di Steven Spielberg, dove nell’immaginario paesino balneare di Amity si sta per abbattere la furia assassina del feroce animale. Anche Amity, come Bodega Bay, nei momenti iniziali della storia appare come un luogo perfetto e idilliaco, intriso della sua tranquillità unicamente dedita al turismo nel pieno della stagione estiva.

L’orrore, sotto la forma di squalo, emerge dai più oscuri interstizi dell’industria spettacolare della società capitalistica, quella del turismo estivo e del divertimento a tutti i costi; prima dell’apparizione del mostro, infatti, i turisti nuotano e si divertono spensierati e ignari dell’orrore che si può celare dietro al divertimento di massa imposto dalla società contemporanea che già a metà degli anni Settanta, in cui si ambienta il film, toccava uno dei suoi culmini.

In Il mondo dietro di te (Leave the World behind, 2023) di Sam Esmail, invece, al posto dello squalo, creatura mostruosa legata pur sempre all’universo naturale e animale, l’orrore si insinua su una spiaggia affollata sotto le vesti di una petroliera a guida autonoma satellitare sabotata da un fantomatico attacco terroristico. Negli anni Venti del Duemila, sembra che il terrore, persino su una spiaggia, non possa più essere condotto da uno squalo più o meno mutante ma da un mostro tecnologico guidato dall’intelligenza artificiale.

Infine, legato a eventi del passato, come quelli di Ombre nell’acqua, appare anche l’orrore che racconta John Carpenter in Fog (The Fog, 1980): la nebbia assassina che invade le strade di San Antonio Bay, un’altra tranquilla località balneare, è legata a eventi avvenuti cento anni prima quando gli abitanti del paese avevano provocato il naufragio di una nave di lebbrosi.

La natura ostile di Evelin Bay, per certi aspetti, appare anche ‘vampiresca’ nei confronti degli abitanti del luogo: ne risucchia le forze vitali fino alla morte e li fa precipitare in angosciosi perturbamenti. Al posto del castello abitato dall’inquietante conte troviamo scenari naturali bellissimi ma anche angoscianti, intrisi di un fascino oscuro ed ambiguo.

Tra l’altro, sempre in tema di vampiri, si incontra una interessante decontestualizzazione esotica e ‘australe’ della figura del vampiro nel film Vita da vampiro – What we do in the Shadows (2014) di Taika Waititi e Jemaine Clement, in cui sono messe in scena le vicende quotidiane di un gruppo di vampiri che vivono a Wellington, in Nuova Zelanda.

Parlando di natura ‘vampiresca’ non è possibile allora non ricordare la spiaggia tropicale dove vengono condotti gli ospiti di un lussuoso resort in Old (2021) di M. Night Shyamalan: in una natura dalle connotazioni esotiche molto simili a quelle che vediamo in Ombre nell’acqua, i personaggi in spiaggia sono sottoposti a un rapidissimo processo di invecchiamento che li conduce inesorabilmente ad ammalarsi.

Dietro la bellezza di una spiaggia esotica si cela l’orrore della società capitalistica: il resort, infatti, altro non è se non un laboratorio che utilizza inconsapevoli turisti come cavie per la sperimentazione di nuovi farmaci attuata da una scienza al servizio del capitale.

Se l’industria del turismo spettacolare che mercifica ogni luogo del mondo, da una parte, blandisce i suoi potenziali clienti, dall’altra li trasforma in vittime sacrificali che devono essere immolate sull’altare del cieco sviluppo e – per dirla con Robert Kurz – di una ragione sempre più “sanguinaria”.

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L’eternauta e le declinazioni del nemico https://www.carmillaonline.com/2025/07/03/leternauta-e-le-declinazioni-del-nemico/ Wed, 02 Jul 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89460 di Mazzino Montinari

Quattro amici, la solita partita a carte, le battute, le allusioni, il rischio di esagerare, qualcuno ride, qualcuno ci resta male, ma è questione di un attimo, un bluff, una combinazione giusta di semi e numeri e si riparte. Nel fare le stesse cose, trascorrono i giorni, i mesi, gli anni. Passerebbero anche se riempissimo la vita di innumerevoli novità, perché il tempo, il nostro tempo, avanza inesorabile, pronto ad assorbire tutto ciò che non è ancora accaduto. Per Juan e gli altri il passato è memoria condivisa, ricordi offuscati o, forse, accuratamente selezionati. Per loro, come per noi, [...]]]> di Mazzino Montinari

Quattro amici, la solita partita a carte, le battute, le allusioni, il rischio di esagerare, qualcuno ride, qualcuno ci resta male, ma è questione di un attimo, un bluff, una combinazione giusta di semi e numeri e si riparte. Nel fare le stesse cose, trascorrono i giorni, i mesi, gli anni. Passerebbero anche se riempissimo la vita di innumerevoli novità, perché il tempo, il nostro tempo, avanza inesorabile, pronto ad assorbire tutto ciò che non è ancora accaduto. Per Juan e gli altri il passato è memoria condivisa, ricordi offuscati o, forse, accuratamente selezionati. Per loro, come per noi, tutto appare allo stesso modo. Finché una cesura interrompe quel tempo. Un’irruzione dal cielo che sconvolge tutto.

La neve è un evento di per sé sorprendente. Cambia il paesaggio e le abitudini, almeno per quei cittadini che abitano al livello del mare e che accolgono quella precipitazione atmosferica con sentimenti opposti, inquieti, che si tratti di gioia ludica o di irritazione pragmatica. Se però quei fiocchi cadono in una stagione calda, lo stupore prende il sopravvento.
Non finisce qui. Juan e i suoi compari comprendono presto che quella nevicata è devastante, uccide al solo contatto con la pelle. Le persone cadono al suolo, le macchine sbandano e concludono la loro corsa contro un muro o un palo della luce. Il quotidiano ora è avvolto dalla morte. Il tempo si è trasformato in un buco nero che divora indiscriminatamente ciò che incontra, per non farlo più essere. I quattro amici sono testimoni, pur non sapendo di cosa.
De L’eternauta qui hanno già scritto molto bene Marco Sommariva e Walter Catalano. Motivo per cui non è necessario dare le coordinate di un’opera fondamentale nel mondo del fumetto e non solo. Così come sarebbe ridondante ricordare il tragico destino di Héctor Oesterheld, l’autore che scomparve durante l’orrenda dittatura argentina capeggiata dal generale Jorge Rafael Videla.
Non una recensione, perciò, e nemmeno un paragone con l’omonima serie visibile su Netflix, bensì alcuni appunti sull’insorgere di un nemico, sulla sua non immediata riconoscibilità e, poi, sulla capacità di allearsi per fronteggiare qualcosa di mostruoso che sembra inattaccabile e inaccettabile.

Ne L’eternauta la minaccia arriva inaspettata, anche se poi nel fumetto di Oesterheld (non per ora nella serie) scopriremo che l’invasione preceduta dalla nevicata tossica è frutto di un patto tra gli alieni e le potenze mondiali che, pur di salvarsi, hanno venduto (e condannato) il Sud America. Ad ogni modo, Juan e gli altri non sanno niente, non sono preparati al rovesciamento della loro esistenza. Sono impegnati nelle loro faccende come qualsiasi abitante del pianeta prima di un’invasione degli zombie o come i villeggianti che in una spiaggia fanno il bagno ignari di potersi trasformare in cibo per uno squalo. È la metafora di un presente che non dà segnali se non quelli che siamo già abituati a decriptare. Accanto a noi si muove qualcosa ma non siamo in grado di vederlo, quasi avessimo bisogno dei prodigiosi occhiali di Essi vivono (They Live, 1988), il film scritto e diretto da John Carpenter nel quale, appunto, solo con delle lenti rivelatrici è possibile scoprire che la Terra è stata invasa a nostra insaputa da una potenza extraterrestre.
Lo squalo di Steven Spielberg (Jaws, 1975) non sa di essere un nemico. È inconsapevole del suo ruolo, si dovrà adeguare suo malgrado. Procede seguendo il suo istinto, peraltro falsificato dal cinema perché lui avrebbe fatto altro nella sua vita. I nemici creati da Oesterheld, invece, come il governo e i militari israeliani, hanno pianificato il loro attacco, sanno cosa vogliono, quanta distruzione infliggere, quanto dolore arrecare. Dall’altra parte della barricata, prima che si formi una forza antagonista, uomini e donne sbandano, si dividono, lottano tutti contro tutti, magari per contendersi un’arma o una maschera antigas, una borsa con del cibo o una tuta che resista meglio all’impatto della neve.
È una colpa cercare di sopravvivere? È un delitto, di fronte all’irruzione del radicalmente nuovo di arendtiana memoria, crearsi delle regole inedite? Non è semplice reagire a una guerra che altri hanno dichiarato prevaricando i desideri, l’esistere quotidiano qui e ora, una sola volta e mai più. E poi dove e chi colpire?

Il nemico sotterraneo è destinato a uscire allo scoperto, non può nascondere la sua identità indefinitamente. Gli extraterrestri (insettoni umanoidi, robot e altro ancora) dopo aver colpito le abitudini di una collettività, manifestano i propri intenti in modo chiaro: lo scopo è sterminare per conquistare, disumanizzando le vittime al pari dei carnefici.
È a questo punto che Oesterheld non si accontenta di una Guerra dei mondi (The War of the Worlds, H.G. Wells, 1897) e aggiunge un altro tipo di contendente, il nemico mimetizzato che vive come le persone che inganna e vuole sopprimere. Tre esempi, di cui due abbastanza simili: l’Avversario (L’Adversaire, 2000) di Emmanuel Carrère, dove un uomo ben inserito nella comunità uccide la sua famiglia solo per conservare il suo aspetto. Truffa le persone per potersi permettere un tenore di vita che possa farlo sentire come gli altri e gli altri lo eleggono a uno di loro non potendo credere che si tratti di un impostore omicida. Lo straniero (The Stranger, 1946) di Orson Welles con il protagonista, Charles Rankin, che è uno stimato professore di Harper nel Connecticut. Sta per sposarsi con Mary Longstreet, la figlia del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. I suoi allievi lo adorano e lui compiaciuto ripara persino l’orologio del campanile della chiesa. Manca un dettaglio. Rankin non è chi dice di essere. Sotto una falsa identità, si cela quella spaventosa di Franz Kindler, uno spietato carnefice nei campi di concentramento nazisti, che ha trovato riparo negli Stati Uniti. E infine, forse i più noti e inquietanti imitatori e annientatori del genere umano, i baccelloni immaginati da Don Siegel nell’Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) che si schiudono e replicano gli abitanti di un’intera cittadina, sostituendoli definitivamente.

Gli alieni di Oesterheld padroneggiano corpi e menti umane e dunque producono un conflitto tra simili. Tuttavia, Juan e i resistenti non si arrendono, contrattaccano sacrificandosi e alleandosi, formando una resistenza. Non basta. Non è sufficiente vincere una battaglia. L’orrore rimane, non si può cancellare o addirittura giustificare come fanno i Jair Bolsonaro e Javier Milei del nostro mondo. E così si torna all’inizio e alla fine de L’eternauta, con Juan, il naufrago del pianeta, che vaga per epoche e spazi alla ricerca di un tempo diverso e alternativo, per riportare sulla Terra chi altrimenti non sarà mai più.

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L’Eternauta: neve letale su Javier Milei. https://www.carmillaonline.com/2025/06/07/leternauta-neve-letale-su-javier-milei/ Fri, 06 Jun 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88478 di Walter Catalano

C’era molta attesa per l’uscita della serie Netflix tratta da L’Eternauta, il capolavoro del fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld, disegnato da Francisco Solano López, e pubblicato sul periodico argentino Hora Cero Suplemento Semanal dal 1957 al 1959, poi ristampato nel 1961 su testata omonima. Come il mate o i tanghi di Carlos Gardel, questa serie a fumetti è diventata un vero e proprio simbolo dell’identità argentina, in senso culturale, politico e sociale. In questo la versione filmata diretta da Bruno Stagnaro e interpretata da Ricardo Darín nel ruolo del protagonista Juan Salvo, con la [...]]]> di Walter Catalano

C’era molta attesa per l’uscita della serie Netflix tratta da L’Eternauta, il capolavoro del fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld, disegnato da Francisco Solano López, e pubblicato sul periodico argentino Hora Cero Suplemento Semanal dal 1957 al 1959, poi ristampato nel 1961 su testata omonima. Come il mate o i tanghi di Carlos Gardel, questa serie a fumetti è diventata un vero e proprio simbolo dell’identità argentina, in senso culturale, politico e sociale. In questo la versione filmata diretta da Bruno Stagnaro e interpretata da Ricardo Darín nel ruolo del protagonista Juan Salvo, con la consulenza per la sceneggiatura dello stesso nipote di Oesterheld, non smentisce affatto le proprie radici e proprio questi aspetti probabilmente non sono stati compresi dai critici (non pochi) che l’hanno attaccata, rinfacciandole la lentezza, il ritmo posato, la visione corale, e preferendole altre serie apocalittiche di origine statunitense – L’Eternauta, secondo loro, ha perso la sua originaria singolarità ed è diventata ormai scontata, inutile, una fra le tante. Niente di più sbagliato. L’Eternauta, molto semplicemente, ha rifiutato di svendersi ai canoni hollywoodiani della narrazione e ha scelto di restare per atmosfera, scenari e cadenza, profondamente argentina: perfino il gioco di carte che gli amici si trovano a giocare all’inizio della mortale avventura, significativamente, non è il poker ma il truco, gioco quasi sconosciuto fuori dall’America Latina.

Un’autenticità che le evita, per esempio, tutti i luoghi comuni fritti e rifritti in cui cadono gran parte delle altre serie fantascientifiche, più o meno catastrofiche, statunitensi, anche quelle che erano apparentemente partite bene come The Last of Us – della cui prima stagione avevo su queste pagine parlato positivamente ma che ho interrotto già alla prima puntata della seconda stagione dopo un patetico incipit fatto di ridicoli stereotipi: rapporto conflittuale padre-figlia, “brutalismo” femminista di maniera, immancabili e noiosissime storie di lesbiche, ecc. ecc. – e che sottolinea invece più della rappresentazione indiscriminata della violenza, ossessione tipicamente nordamericana, il rapporto di unione e di solidarietà delle comunità che fronteggiano la catastrofe. Altri critici, di opposto orientamento, non nordamericanofili ma invece troppo puristi, non hanno invece apprezzato i cambiamenti della serie rispetto al fumetto: che sia ambientato, per esempio, nell’Argentina contemporanea e non in quella degli anni ’50, che i protagonisti siano tutte persone di mezza età, se non anziane, e il trentenne Juan Salvo del fumetto abbia qui almeno trent’anni di più, una compagna matura e una figlia adulta. Alla prima obiezione risponde efficacemente lo stesso regista: Oesterheld usava la metafora fantascientifica per parlare della sua attualità, dell’Argentina del suo tempo; Stagnaro ha voluto mantenersi coerente con tali propositi non facendo dell’archeologia visiva ma denunciando – come avrebbe fatto Oesterheld – il presente, l’Argentina alla deriva di Javier Milei. Un taglio profondo sull’attualità che implica inserire anche una prospettiva storica: l’eco della dittatura di Videla, la tragedia dei desaparecidos – che colpì lo stesso Oesterheld con le sue quattro figlie e i loro compagni, tutti legati ai Montoneros, la frangia marxista dei peronisti – e questo giustifica l’età matura dei protagonisti, gli incubi ricorrenti di Juan Salvo che si rivede giovane, disperato combattente abbandonato in una trincea delle Malvinas sotto le incursioni inglesi e che quarant’anni dopo deve imbracciare ancora le armi, ma questa volta per una causa. “Se si vuole essere fedeli a tutto, non si è fedeli a niente”- aggiunge il regista Stagnaro.

Una prospettiva che ritengo sia un arricchimento rispetto al fumetto così come il tentativo di spiegazione “scientifica” dell’origine della nevicata mortale – imprecisata nel testo originale – il “collasso” delle fasce di Van Allen, come spiega Tano (César Troncoso), l’ingegnere elettronico: “È un anello di particelle radioattive che circonda la terra ed è sostenuto dalla forza magnetica dei due poli; è come uno scudo che protegge la Terra da venti solari e altri agenti. Ma se i poli si annullano le particelle radioattive ci piovono addosso”. I fiocchi di neve che cadono su Buenos Aires sono particelle radioattive provenienti dalle fasce di Van Allen. Il malfunzionamento delle bussole che risultano fuori asse, lo porta a sospettare che è in atto un’inversione dei poli magnetici terrestri che ha alterato il campo geomagnetico. Secondo la sua teoria, una forza sconosciuta ha innescato un’inversione dei poli, indebolendo temporaneamente la magnetosfera. Di conseguenza, quella che sta cadendo sulle loro teste non è semplice neve ma “frammenti della fascia di Van Allen in tempo reale”.

L’estrema qualità visiva e di scrittura conferma anche per questa serie il balzo in avanti di Netflix che ha realizzato ultimamente produzioni assai originali e fuori dai canoni abituali, come, in campo western, la bellissima American Primeval, o in quello noir, l’altrettanto sorprendente Ripley, tratta dal primo romanzo di Patricia Highsmith dedicato all’amorale Tom Ripley. Come quelle citate, anche L’Eternauta si discosta con vigore dagli stilemi correnti e corrivi: chi l’ha criticata, chi ha parlato di flop, di mancanza di ritmo, di occasione mancata, di noia, semplicemente è del tutto assuefatto a tali stilemi e non riesce ad apprezzare niente di quanto sfugga a temi, personaggi, situazioni e ritmi banalmente convenzionali. In realtà queste incomprensioni ci sembrano, se non analoghe, certo non del tutto dissimili da quelle che colpirono direttamente Oesterheld e la sua riscrittura del 1969 di El Eternauta, pubblicata sul settimanale argentino Gente y la Actualidad (e in seguito tradotta su varie pubblicazioni a fumetti come Linus, El Globo, alteralter, Il Mago, Charlie Mensuel, Métal Hurlant) e disegnata non più da Solano López, ma dall’assai più estremo e sperimentale Alberto Breccia. Qui lo sceneggiatore – divenuto nel frattempo responsabile della comunicazione dei Montoneros, e la cui funzione di autore partigiano si rese evidente anche nelle altre opere realizzate in quegli anni, come La guerra degli Antares, una serie simile all’Eternauta ambientata in un’Argentina alternativa ricca e prosperosa in cui il peronismo non è mai finito, ed Evita, vida y obra de Eva Perón, una biografia a fumetti dedicata a Evita Peròn – accrebbe i riferimenti politici, fece un’aperta critica al regime dittatoriale a cui il peronismo di destra dell’ultimo Peròn e dei governi retti dopo la sua morte dalla moglie Isabelita, stava aprendo la strada nel paese e denunciò in metafora l’imperialismo statunitense – il dettaglio simbolico degli invasori che collocano la loro base operativa nella Plaza del Congreso di Buenos Aires, per esempio – enfatizzando l’idea che la salvezza dei cittadini sia un’impresa collettiva.

Nonostante il risultato di sorprendente qualità grafica e narrativa, la nuova versione di El Eternauta non piacque. I lettori inviarono lettere alla redazione della rivista per protestare contro i cambiamenti nel personaggio e il contenuto rivoluzionario della storia, motivo per cui la direzione di Gente decise di sospendere la serie. Una decisione che costrinse Oesterheld e Breccia a sintetizzare la storia e a inserire ampi chiarimenti scritti, con l’obiettivo di dare al fumetto un finale coerente. Nonostante questa brutta esperienza, Oesterheld volle far rivivere il personaggio dopo il colpo di Stato del 1976 per aumentare ulteriormente il suo impegno politico. Il progetto, intitolato El Eternauta II, proseguiva la storia della lotta di Juan Salvo contro gli invasori ed era di nuovo illustrato dal primo disegnatore della serie, Solano López, al quale Oesterheld riuscì a inviare le sceneggiature che stava scrivendo in clandestinità. Anche qui la trama è sempre più orientata alla critica politica, con Oesterheld stesso che diventa un personaggio narrante nella storia e che, in un sorprendente rispecchiarsi di narrazione e realtà, continuò a scrivere i capitoli successivi fino alla sua scomparsa a seguito del rapimento e conseguente assassinio nell’aprile del 1977. La saga è continuata dopo la morte di Oesterheld, proseguita da altri autori come Alberto Ongaro e Pablo Maiztegui e sempre disegnata da Solano López ma senza serbare del tutto il mordente dei primi cicli. Chi storce il naso quindi di fronte alle inevitabili modifiche della versione filmata rispetto al fumetto originario si comporta un po’, magari non tanto per preclusioni politiche quanto prevalentemente estetiche, come i lettori conservatori di Gente che vollero l’interruzione del rinnovato Eternauta in versione engagé e pop.

Anche l’adattamento televisivo persegue affini obbiettivi di rinnovamento stilistico e tematico nel pieno rispetto dello spirito originario della narrazione. La recitazione composta, i volti segnati dagli anni dei personaggi, il ritmo lento e la fotografia gelida, conferiscono un’intensità immersiva e potente alla visualizzazione dell’incubo immaginato da Oesterheld, molto angosciante e tutt’altro che noiosa. Un incubo che inizia e si protrae nella prima parte delle sei puntate della prima stagione (una seconda è già stata annunciata, alla faccia dei criticoni) come mortale catastrofe climatica, che svolta a metà serie in invasione extraterrestre con l’apparizione improvvisa dei Cascarudos, gli insettoni micidiali e di misteriosi oggetti luminosi nel cielo, e nel finale prelude alle successive sorprese del fumetto: gli Uomini-Robot (umani sotto controllo mentale alieno) che già si sono manifestati; dei Kol invece, l’altra razza aliena schiavizzata dagli invasori, abbiamo visto per ora – proprio nell’ultima puntata – solo la mostruosa mano brulicante di dita; per la seconda stagione aspettiamo ancora i Gurbos, ciclopici e invulnerabili pachidermi, e infine Ellos, Loro, i manipolatori ultimi, gli inavvicinabili e invincibili padroni. Senza volto come le lobbies supreme del capitalismo multinazionale.

 

 

 

 

 

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Proletariato intellettuale e lavoro manuale nella fabbrica dei sogni https://www.carmillaonline.com/2025/06/05/le-basi-materiali-della-macchina-dei-sogni/ Thu, 05 Jun 2025 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88445 di Sandro Moiso

David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro

In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena [...]]]> di Sandro Moiso

David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro

In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena tradotto da Giuliana Lupi per le edizioni minimum fax.

David Mamet, nato a Chicago il 30 novembre del 1947, con ironia e perspicacia, fornisce risposte dirette, illuminanti e spesso sconcertanti a tali domande, rivelando allo stesso tempo le disfunzioni e i processi reali dell’industria cinematografica, la più grande e redditizia «macchina dei sogni» del pianeta. Mamet, di cui minimum fax ha già pubblicato in precedenza Note in margine di una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro (2012) e I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema (2023), può farlo perché ha ricoperto praticamente tutti i ruoli più importanti che ruotano intorno alla “settima arte”: sceneggiatore, regista, attore, produttore, dedicando tutta la sua vita al cinema e alla scrittura.

E’ stato infatti lo sceneggiatore di film celebri come Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson (1981), Il verdetto di Sidney Lumet (1982), Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) e Hannibal di Ridley Scott (2001), solo per citarne alcuni, ma complessivamente ha al suo attivo 28 film (di 9 dei quali è stato anche regista), 34 opere teatrali, 3 fiction per la televisione, 21 saggi, 2 raccolte di poesie, 5 libri per bambini, 11 canzoni. Mentre il suo primo importante riconoscimento era arrivato con l’opera tetrale Glengarry Glen Ross, una feroce rappresentazione del mondo degli affari americano, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1984 e dalla quale avrebbe poi tratto la sceneggiatura per il film Americani, con Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin e Kevin Spacey nel 1992.

Tutto questo, però, non è stato qui ricordato soltanto per sottolineare il medagliere dell’autore e l’importanza della sua personalità per il mondo del cinema statunitense, ma piuttosto per sottolineare come i suoi saggi sul mondo del cinema e della scrittura cinematografica affondino le loro radici in una vasta e pluridecennale esperienza e una profonda conoscenza dello stesso ambiente culturale, economico e sociale che lo circonda e permea.

In tempi di dazi trumpiani che mettono in risalto come i prodotti del cinema non siano in fondo che merci e prodotti destinati al consumo di massa e in un paese, l’Italia, in cui si parla, troppo spesso e senza riguardo per la realtà, di “cinema d’autore”, Mamet si rivela utilissimo, lui che certamente “autore” è stato sia come sceneggiatore che come regista, per comprendere i meccanismi di quella che, in fin dei conti, non è altro che la più importante industria dell’immaginario collettivo, cosa già compresa all’inizio del XX secolo da rivoluzionari come Lenin e Trockij1.

Ma, probabilmente, non ancora qui da noi: in un ambiente socioculturale in cui non solo le tv, pubbliche e private, ma anche le sale cinematografiche snobbano quasi sempre i titoli di coda dei film tagliandoli o eliminandoli del tutto, quasi che il film fosse una sorta di magico prodotto del pensiero dei registi e degli sceneggiatori più celebri oppure, ancor peggio, della fisicità degli attori e delle attrici. Contribuendo così a coltivare nel pubblico il mito borghese e fetente dell’individuo e della sua “creatività”, avulso comunque dai processi della produzione sociale e della collaborazione collettiva. Continuando a separare il lavoro intellettuale da quello manuale, per mera convenienza ideologica di classe, mentre il prodotto di qualsiasi attività umana non deriva che dalla sintesi concretizzante tra i due2.

Non è un caso quindi che il saggio di Mamet inizi proprio da lì, dall’ambiente cinematografico come “fabbrica” in cui il contributo di tutti (operai, costumisti, scenografi, fotografi, attrezzisti, fonici, elettricisti, falegnami, tecnici degli effetti speciali, facchini, montatori, segretarie e segretari di produzione e tanti altri ancora) è fondamentale per la riuscita dell’impresa. Proprio per evitare quell’ignominia del ricordare i marchi delle auto o delle merci senza ricordare la manodopera che ha contribuito a realizzarle oppure le grandi battaglie parlando soltanto dei generali e dei “condottieri” senza ricordare i soldati che le hanno combattute sul campo e le loro sofferenze.

Certo, per gli amanti del “cinema d’autore” così come per i filosofi del demiurgo borghese, è utile alimentarne il culto rimuovendo il sudore, le fatiche, i sacrifici e i contributi, spesso altrettanto creativi, delle maestranza sui suoi luoghi di produzione come Hollywood o Cinecittà, ma non lo è per Mamet che, invece, vuole proprio sottolineare sia il contributo degli “altri” che le pecche dello star system e dei suoi “eroi” e delle sue “eroine”.

Lo diceva Billy Wilder: sai di aver finito di dirigere quando non ti reggono più le gambe […] Ma si affronta il giorno o la notte con un senso di responsabilità verso i propri collaboratori e con il terrore di deluderli. Perché la gente che lavora a un film si spacca il culo.
L’attore protagonista può protestare, e spesso lo fa. Viene coccolato. Giustificato e incoraggiato (con tanto di compenso in denaro) a coltivare la mancanza di controllo dei suoi impulsi. Quando la star fa una scenata […] la troupe rimane impassibile e il regista, io, osserva quello straordinario autocontrollo e pensa: «Ti ringrazio, Signore, di questa lezione».
Il regista, gli attori, il produttore e lo sceneggiatore sono sopra la riga, tutti gli altri sotto.
Esiste un sistema a due livelli nel cinema, proprio come nell’esercito. Chi sta sopra la riga si presume contribuisca al finanziamento o ai potenziali proventi del film molto più delle «maestranze» – cioè i tecnici – che lavorano sul set, in ufficio o nei laboratori.
[…] Parlavo di cattivi comportamenti, qualche film fa, con l’attrezzista capo. Lui mi raccontò di aver lavorato con una star maleducata che, per rallegrare l’atmosfera o in un eccesso di buonumore, si era messa a ballare con gli anfibi sul tetto di una Mercedes nuova di zecca. «Fece quasi diecimila dollari di danni», mi disse, «e ci rimasi davvero male, perché avevo rinunciato al mio giorno libero per cercare un attrezzo di scena: neanche ero pagato».
In alcuni divi non c’è solo belligeranza, ma anche la tendenza a litigare. Ne ho visto uno misurare con un metro a nastro la propria roulotte perché sospettava che non fosse perfettamente uguale (come da contratto) a quella del suo coprotagonista.
E intanto l’attrezzista rinuncia al suo giorno libero per garantire che, lunedì, il portafoglio, il coltello, la valigetta o l’orologio siano perfetti.
Questo, secondo la mia esperienza, non è un esempio isolato, bensì la norma nel mondo del cinema. Mentre la star esce in ritardo dalla sua roulotte, mentre il produttore sbraita al cellulare gridando oscenità all’assistente che, con ogni probabilità, ha fatto un errore nel prenotargli il ristorante, la gente sul set dà il massimo per realizzare un film perfetto. Non credo di esagerare.
[…] Alcuni uomini d’affari ritengono di poter realizzare un film pefetto (vale a dire con un buon ritorno economico) in generale, facendo a meno del rispetto, dell’abilità o dell’umiltà necessari, e ispirati e sostenuti soltanto dall’amore per il denaro.
[…] Mi torna in mente il vecchi adagio: in migliaia hanno lavorato negli anni per erigere le cattedrali, e nessuno ha messo il proprio nome su una sola di quelle costruzioni.
Noi, ovviamente, apprezziamo il film per il lavoro degli identificabili, gli attori, ma non potremmo goderne se non fosse per il lavoro degli anonimi, la troupe.
[…] Mentre riflettevo su questo, pensando alla star, pagata venti milioni di dollari che rovina il tetto di un’auto, e all’attrezzista, pagato ventimila dollari, che rinuncia al suo giorno libero per la riuscita dell’opera, credo di aver iniziato davvero a capire la teoria marxista del plusvalore. Domanda: di chi è il film? Passate una giornata sul set e lo saprete3.

Il saggio di Mamet parla di molto altro ancora e può funzionare come autentico viatico per chiunque voglia avvicinarsi al cinema anche da un punto di vista professionale, occupandosi di produzione, sceneggiatura (e di come presentarla) oppure di come siano state realizzate le migliori scene di film di azione o di guerra e perché, ma è l’attenzione rivolta al lavoro “anonimo” oppure al tentativo di Ronald Reagan di distruggere il movimento sindacale americano per abbassare i costi del lavoro, compreso quello delle troupe cinematografiche, per impedire il trasferimento delle attività produttive all’estero e a minor costo, che fa di questo saggio un testo da cui davvero non si può prescindere per comprendere, con i piedi saldamente piantati in terra, quali siano le basi materiali della “creazione” dell’immaginario contemporaneo.

In cui, però, come ricorda proprio in apertura l’autore, la standardizzazione della produzione industriale di stampo ancora fordista, spinge a ridurre sia la qualità del prodotto che quella delle attività di quel proletariato intellettuale di cui lo sciopero lungo degli sceneggiatori hollywoodiani ha rappresentato la più concreta e visibile manifestazione dello scontento.

Tutti i fiumi sfociano nel mare. Eppure il mare non si riempie. Il cinema, nato come l’ultima trovata commerciale in fatto di divertimento popolare, sembra essere tornato al punto di partenza. I giorni della sceneggiatura volgono al termine. Al suo posto troviamo una premessa alla quale appiccicare le varie gag. Questi eventi, che una volta non erano che ornamenti della storia vera e propria, sono ormai quasi l’unica ragione d’essere del film. Nei thriller gli eventi sono le scene d’azione e le esplosioni; nei film dell’orrore gli squartamenti; nei film polizieschi e di guerra le sparatorie e i bombardamenti. Il cinema basato soltanto sui “punti culminanti” è figlio del cinema porno.
[…] Oggi le case di produzione puntano tutto sui franchise movie, vale a dire sul richiamo di un pubblico che si è già creato autonomamente. Ed è sempre più difficile collocare sul mercato film non quantificabili, man mano che il modello del franchising prosegue la sua avanzata verso il controllo totale dei budget della casa di produzione e , quindi, del mercato. Tutte le attività industriali migrano infatti verso il monopolio, e la ridotta concorrenza provoca inevitabilmente un calo di qualità4.


  1. Si veda L. Trockij, Vodka, chiesa e cinema, «Pravda», 12 luglio 2023, ora in L. Trockij, Opere scelte, vol. 13, Cultura e socialismo, Roma 2004, pp. 87-90.  

  2. In proposito si veda il sempre attuale A. S. Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli editore, Milano 1977.  

  3. D. Mamet, Il duro lavoro in D. Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 15-20.  

  4. D. Mamet, op. cit., pp.9-10.  

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Il cinema di Massimo Troisi https://www.carmillaonline.com/2025/05/26/il-cinema-di-massimo-troisi/ Mon, 26 May 2025 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88150 di Gioacchino Toni

Roberto Lasagna, Massimo Troisi. Quando c’è amore…, Prefazione di Giorgio Simonelli, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 142, edizione cartacea € 14,00, edizione digitale € 9,99

L’arrivo sulla scena del fenomeno Troisi deve essere inserito all’interno del particolare contesto napoletano a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta segnato da un’intensa vivacità culturale, musicale e teatrale che ha i suoi più illustri protagonisti in Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, James Senese, Roberto De Simone, La Nuova Compagnia di Canto Popolare insieme a tante esperienze teatrali di avanguardia che hanno attraversato la scena partenopea.

Sono anni in cui un’intera città respira [...]]]> di Gioacchino Toni

Roberto Lasagna, Massimo Troisi. Quando c’è amore…, Prefazione di Giorgio Simonelli, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 142, edizione cartacea € 14,00, edizione digitale € 9,99

L’arrivo sulla scena del fenomeno Troisi deve essere inserito all’interno del particolare contesto napoletano a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta segnato da un’intensa vivacità culturale, musicale e teatrale che ha i suoi più illustri protagonisti in Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, James Senese, Roberto De Simone, La Nuova Compagnia di Canto Popolare insieme a tante esperienze teatrali di avanguardia che hanno attraversato la scena partenopea.

Sono anni in cui un’intera città respira l’idea di rivalsa nei confronti del Nord e della Capitale, a cui finirà per dare manforte anche il Napoli di Maradona, anni in cui l’universo partenopeo è alle prese con un’intensa, per quanto breve, illusione di riscatto destinata a spegnersi insieme alla spinta propulsiva degli investimenti pubblici che, con tutte le loro contraddizioni, avevano saputo portare un po’ di ossigeno ad un mondo desideroso di dire la sua anche fuori da quel Mezzogiorno italiano in cui la città sembrava condannata ad essere relegata.

In Massimo Troisi. Quando c’è amore… (Mimesis, 2025) Roberto Lasagana, avvalendosi di una serie di conversazioni con alcune figure che hanno collaborato con Troisi – Enzo Decaro, Pino Donaggio, Anna Pavignano e Roberto Perpignani –, analizza la produzione cinematografica dell’autore-attore partenopeo indagandone le vicende produttive, le dinamiche narrative, la costruzione dei personaggi, la messa in scena, la recitazione e l’impatto sul pubblico.

Nel corso del libro, Lasagna si confronta criticamente sia con l’ardito accostamento che, nel corso del documentario Laggiù qualcuno mi ama (2023), Mario Martone fa della produzione, delle scelte stilistiche e narrative cinematografiche di Troisi alla Nouvelle Vague francese, che con le perplessità espresse da una parte della critica, soprattutto all’uscita dei primi film, sul ricorso del partenopeo a modalità considerate eccessivamente leggere ed ironiche per affrontate tematiche sociali come quelle relative all’emigrazione.

Di certo, secondo Lasagna, il cinema di Troisi manifesta caratteristiche autoriali destinate ad essere sempre più approfondite di opera in opera ricorrendo ad una espressività caratterizzata da un indissolubile intreccio tra mimica e linguaggio che dietro ad un’apparente leggerezza si rivela capace di trasmettere in maniera poetica emozioni e riflessioni profonde imperniate sulla difficoltà di comunicare sentimenti in un intrecciarsi di incomprensioni, inquietudini, imbarazzi, malinconie, disincanti ed ironie che difficilmente il cinema italiano aveva saputo esprimerne, se non in un lontano passato.

Per quanto all’uscita di Ricomincio da tre (1981) il cinema di Troisi sia stato inserito all’interno di un generale processo di rinnovamento della commedia italiana che ha coinvolto autori come Carlo Verdone e Nanni Moretti, la proposta dell’autore-attore partenopeo presenta caratteristiche sue peculiari destinate a contraddistinguere l’intera sua produzione.

In particolare, sottolinea Lasagna, il cinema di Troisi rivela uno sguardo attento sulla realtà indagata in alcuni suoi frammenti quotidiani a partire da una lettura introspettiva venata di ironia capace di intercettare pur nelle specificità partenopee l’intero pubblico italiano che aveva imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo grazie ad alcune spassose performance televisive, insieme a Enzo Decaro e Lello Arena, nel trio La Smorfia in una serie di spiazzanti sketch, persino dissacratori in alcuni casi, indugianti su problematiche sociali solitamente assenti dalla comicità italiana precedente e, comunque, affrontate con taglio diverso rispetto ad altri autori del periodo.

Nella sua produzione cinematografica, Troisi mantiene l’idioma napoletano e la mimica con cui il pubblico italiano lo aveva conosciuto nelle apparizioni televisive. Con il suo film di esordio, Troisi propone una commedia che guarda con inedita e spiazzante franchezza alla fragilità esistenziale di un giovane campano costretto a guardare avanti con amarezza ed insoddisfazione dopo la tragedia del grande terremoto irpino e che decide di spostasi senza progettualità in un’altra città, semplicemente desideroso di cambiare aria almeno per qualche tempo. Più volte il protagonista del film, Gaetano, si trova a rifiutare l’etichetta dell’emigrante che, in quanto napoletano, gli viene costantemente appiccicata, come a voler ribadire «il bisogno di una generazione di trovare un ascolto nuovo, che contempli i vissuti più intimi, le dimensioni relazionali, i problemi psicologici» (p. 30).

Se pochi anni prima Nanni Moretti aveva messo inscena lo scombussolamento di una generazione che aveva perso i punti di riferimento politici e ideologici, Troisi con «Ricomincio da tre segue un tragitto con i tempi dell’attore comico portatore di un desiderio di fuga dalla realtà di casa; in esso, l’essenzialità drammaturgica, il rigore e i toni disadorni della messa in scena, appoggiano una vena malinconica e proletaria, dove la comicità dell’attore trova guizzi nel testo dai risvolti surreali». (p. 30).

Troisi ama, con il cinema, la possibilità di scardinare con l’autoironia e con un linguaggio sempre più padroneggiato le convenzioni, lavorando sull’affinamento dei gesti, dei dialoghi, della parola, disegnando personaggi che rivelano nel rapporto con il contesto il bisogno di sottrarsi agli stereotipi e ai condizionamenti familiari (Ricomincio da tre, 1981), ma dando finalmente una visibilità e un’attenzione sentita alla figura dell’insicuro, dell’indeciso, quando non addirittura dell’inetto principalmente nel campo delle relazioni affettive (Scusate il ritardo, 1983) (p. 17).

Nella sua veste di sceneggiatore, interprete e regista, Troisi dribbla dunque i cliché mettendoli alla berlina per affrontare il disagio esistenziale e sociale di un giovane napoletano, Gaetano, e con esso di una generazione, ricorrendo al registro della commedia venata di note romantiche e malinconiche.

La proposta di Troisi è di raccontare, con l’indolenza scossa del suo personaggio memorabile, la condizione esistenziale fluida e l’incertezza dei tempi attuali, la complessità del rapporto tra i sessi, muovendosi in una polemica delicata fatta di ironia e sentimenti ovverosia librandosi su aspetti intimi, coltivando il garbo e la passione intellettuale per il Sud e tuttavia allontanando lo sguardo dalle linee accreditate che vogliono la rappresentazione cinematografica del Meridione in linea con i toni folcloristici o con le conformità ai cliché gangsteristici-mafiosi. Troisi non soltanto racconta il contesto da cui Gaetano prende le mosse ma lo analizza e denuncia il bisogno di evasione ironizzando sul luogo comune dell’emigrante che si rivela uno schema/pregiudizio persistente gettato addosso al giovane in cerca di nuovi orizzonti in cui ritrovarsi (p. 31).

Dopo il cortometraggio televisivo Morto Troisi, viva Troisi! (1982), un finto reportage sulla propria morte, con Scusate il ritardo (1983) Troisi ribadisce la scelta autoriale di mantenere sostanzialmente il medesimo personaggio, che ormai tende a coincidere con sé stesso, al centro delle vicende, mettendolo a nudo e allargando le tematiche trattate alla morte, con cui inizia il film, la malattia, la perdita e la complessità dei rapporti tra gli individui derivata tanto dalle fragilità dei soggetti che dall’universo entro cui questi si trovano a vivere.

Stavolta il protagonista, Vincenzo, non abbandona Napoli ma nuovamente siamo in presenza del difficile rapporto tra un uomo e una donna diversamente fragili. Anche in questo film l’attore-regista si rivela abile nel trattare questioni complesse inserendo momenti di fine ironia e di alta comicità. Indimenticabile l’imbarazzata e seria conversazione sul letto con la partner in cui Vincenzo non riesce a staccare l’orecchio dalla radiolina che annuncia il Cesena in vantaggio sul Napoli.

Non ci resta che piangere (1984) vede Troisi e Benigni nelle vesti di registi ed attori di un film in costume, alla cui sceneggiatura collabora Giuseppe Bertolucci: una sorta di divagazione che il Nostro si concede rispetto al suo personale percorso autoriale. Nella pellicola, che ottiene un enorme successo ai botteghini, la complicità dei due mattatori funziona alla perfezione in un succedersi di situazioni comiche surreali in cui i due restano in perfetto equilibrio senza che uno si sacrifichi al ruolo di spalla all’altro.

All’apice della notorietà, dopo aver recitato in Hotel Colonial (1987) di Cinzia TH Torrini, Troisi torna alla regia con il film Le vie del Signore sono finite (1987), alla cui sceneggiatura lavora insieme ad Anna Pavignano, con una colonna sonora scritta e interpretata dall’amico Pino Daniele. Ambientata in epoca fascista e attraversata da momenti in sagace critica ed ironia nei confronti del regime, l’opera è incentrata attorno a un protagonista, Camillo, da lui stesso impersonato, incapace di relazionarsi senza ricorrere a menzogne.

Con una leggerezza che non suona mai come superficialità, Le vie del Signore sono finite espone alla derisione l’Italia fascista innescando con l’ironia dell’autore – questa volta accompagnata scopertamente da sfumature malinconiche – la sua critica a un contesto drammatico come quello del paese sotto la dittatura. Un paese che avrebbe bisogno seriamente di una iniezione di umanità, di una cura per le menti, mentre lo sguardo irriverente dell’autore si dedica nel film all’amicizia e alla sofferenza per amore, temi umanissimi che sopravvivono nello sguardo pieno di delicatezza di un film in cui Troisi si confronta con la Storia del ventennio fascista e riesce a divertire parlando di un personaggio che a un certo punto verrà ritenuto un miracolato quando recupererà l’uso delle gambe (p. 69).

L’ultima prova che vede Troisi alla regia è Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991) e nuovamente lavora al soggetto e alla sceneggiatura insieme ad Anna Pavignano affidando le musiche a Piano Daniele. Stavolta l’ambientazione è meno popolare rispetto ai precedenti film, ma ancora una volta l’autore-attore-regista guarda alle difficoltà dei rapporti di coppia a ridosso del matrimonio programmato. Tommaso, interpretato dallo stesso Troisi, è, ancora una volta, un uomo profondamente insicuro, per quanto più maturo rispetto ai protagonisti dei film precedenti, così come insicura è la promessa moglie che, però, a fronte dell’immobilismo e del fatalismo dell’uomo, riesce, tra mille sofferenze, a prendere una decisione forte che impatterà sulla vita di entrambi.

Le scosse e le sorprese attraversano questa commedia melancomica in cui Troisi mette in campo le riflessioni sulla coppia con la spiccata attitudine a declinare i tormenti sentimentali in passaggi di comicità che non solo esprimono il retrogusto amaro della maschera comica ma disinnescano ogni posa. […] Con il linguaggio e con le reazioni del cuore di Tommaso è tutto un mondo che si pretende immobile a scoprire che attorno le cose cambiano, che anche quando non si vuol ferire o colpire non è possibile rimanere estranei, che il petto si gonfia e il batticuore sale e che persino la fine di un amore richiede comprensione e rispetto dell’altro (p. 90).

Sentitosi raccontare della promessa sposa colta in atteggiamenti amorosi con un altro, Tommaso afferma: “Perché siete tutti così sinceri con me?! Cosa vi ho fatto di male io?! Chi vi ha chiesto niente? Queste non sono cose che si dicono in faccia. Queste sono cose che vanno dette alle spalle dell’interessato. Sono sempre state dette alle spalle”. Per certi versi in questa affermazione è possibile cogliere una delle caratteristiche principali della poetica di Troisi. In questo film, come nei precedenti, l’autore sembra obbligare i suoi protagonisti a fare i conti con uno sguardo sincero: li scopre, li denuda, li mette di fronte ad uno specchio che, per quanto possa rivelarsi impietoso, resta pur sempre amorevole e solidale nei loro confronti, perché l’ironia e la comicità di Troisi non giungono mai al dileggio e alla cattiveria.

Troisi non manca di raccontare con leggerezza e ironia un personaggio le cui perplessità e insicurezze sono inquietudini avvinghiate alla vita che si traducono in ansie e in un atteggiamento generale verso l’esistenza e la quotidianità con (e senza) gli altri. La sua mimica e la sua gestualità coniugano le reminiscenze eduardiane del suo dialogare afasico in un gustoso compendio sui dubbi amorosi che manifesta tutta l’autenticità e il proposito dell’artista di maturare come uomo di cinema. Le sequenze sono impaginate come quadri di umanità privi di coloritura effettistica e armonizzate dalla musicalità interna di un racconto che segue l’irrompere nella vita ordinaria del sentimento amoroso quasi fosse non esattamente una malia ma un malanno, un virus contagioso che influenza i comportamenti individuali e sociali. […] Il travaglio sentimentale diventa cinema dell’anima in questo sguardo amorosamente disincantato capace di grande leggerezza nell’accogliere le voci delle persone comuni intente a parlare delle loro vicissitudini sentimentali; diventa intenso pathos nelle svolte, come quella del matrimonio mancato, che la canzone Quando di Pino Daniele accompagna fino al finale in cui Troisi si affida a un nitido movimento della macchina da presa per lasciare la coppia al rispettoso dialogo che sfuma (ed è come se non volesse mai staccare) sui titoli di coda (pp. 93-94).

Nell’interpretazione di Troisi ne Il postino (1994) di Michael Rardford, il cui soggetto è stato liberamente derivato da un romanzo di Antonio Skármeta, si vorrà vedere il testamento di un artista che sembra rivelarsi oltre la finzione. Certo, la sua tragica scomparsa a ridosso dell’ultimo ciak ha contribuito a portare a vedere direttamente l’attore in questo suo ultimo personaggio. Resta pertanto difficile valutare il film prescindendo dal fatto che lavorando ad esso se ne è andato uno degli artisti più importanti che hanno attraversato il cinema italiano gli anni Ottanta.

Troisi, grazie alla sua sensibilità di interprete ironico e intenso, è intenzionato a perlustrare nuove direzioni nel suo percorso artistico e Il postino affronta dimensioni poetiche e universali rese linguisticamente moderne e metaforicamente disvelanti, asseconda le ambizioni di un artista che ha saputo raccontare l’amore ma anche immergersi, grazie alla fisicità straordinaria della sua recitazione e la sincerità delle sue scelte registiche, in prospettive sociali e culturali che il suo cinema ha affrontato privilegiando le (dis) avventure interiori dei personaggi (p. 104).

Il volume di Roberto Lasagna si rivela un’attenta analisi dell’opera cinematografica di Troisi capace di evitare quel processo beatificazione che non di rado si accompagna alle scomparse premature. Non è facile guardare criticamente ai film di Troisi perché incombe su di essi la perdita in giovane età di un autore-attore che, con le forme della commedia disincantata, ironica e malinconica, ma capace anche di smuovere il riso, ha saputo toccare, con i suoi personaggi, corde evidentemente condivise da tanti in un Paese avviato, proprio in quegli anni Ottanta, a perdersi in un pantano falso quanto patinato. Se con altri autori è più facile mantenersi distaccati nell’analizzarne le opere, con Troisi tutto sembra farsi più complesso. È come se nello scrivere dei suoi film ci si sentisse un po’ imbarazzati e reticenti come i suoi personaggi. E come loro si è mossi dal desiderio di poter semplicemente dire che si amano certe cose, senza doverne dare spiegazione.

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L’Iran dall’interno. Il seme del fico sacro https://www.carmillaonline.com/2025/05/24/liran-dallinterno-il-seme-del-fico-sacro/ Sat, 24 May 2025 05:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88331 di Roberta Cospito

Premiato alla scorsa edizione del Festival di Cannes con il Premio Speciale della Giuria, Il seme del fico sacro è l’ultimo film del regista iraniano Mohammad Rasoulof. Nel 2020 il suo film Il male non esiste, dedicato alla pena di morte, aveva vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. lI seme del fico sacro è stato girato senza il benestare del governo iraniano, condizione che ha costretto il regista, già arrestato nell’estate del 2022 e poi detenuto nel carcere di Evin, divenuto noto ai più dopo la vicenda di Cecilia Sala, a ripiegare spesso in ambienti interni protetti e in pochi [...]]]> di Roberta Cospito

Premiato alla scorsa edizione del Festival di Cannes con il Premio Speciale della Giuria, Il seme del fico sacro è l’ultimo film del regista iraniano Mohammad Rasoulof. Nel 2020 il suo film Il male non esiste, dedicato alla pena di morte, aveva vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. lI seme del fico sacro è stato girato senza il benestare del governo iraniano, condizione che ha costretto il regista, già arrestato nell’estate del 2022 e poi detenuto nel carcere di Evin, divenuto noto ai più dopo la vicenda di Cecilia Sala, a ripiegare spesso in ambienti interni protetti e in pochi esterni lontani dai controlli del regime. Oggi, a eccezione di Soheila Golestani che interpreta la moglie del giudice protagonista, tutti gli attori e la troupe non si trovano più in Iran, dove è in atto un processo in corso nei confronti di tutti coloro che hanno preso parte al film, accusati di propaganda contro il regime, attentati contro la sicurezza pubblica, diffusione della prostituzione e corruzione sulla Terra.

Il seme del fico sacro è un coraggioso racconto che, descrivendo i dissidi all’interno di una famiglia, narra della vita quotidiana nello stato teocratico iraniano. Iman, il pater familias, ha da poco ottenuto l’ambita promozione a giudice presso il Tribunale della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, proprio mentre un’ondata di proteste contrarie al regime dilaga per tutta la nazione. Quando il giudice si rende conto che la sua pistola d’ordinanza, simbolo del potere violento, è misteriosamente scomparsa dal cassetto del comodino della sua camera da letto, sospetta sia della moglie sia delle due figlie. L’episodio è centrale, ma privo d’importanza per lo spettatore, è il classico “espediente MacGuffin”, un pretesto che funge da propulsore dell’intera vicenda. Le due giovani, con in mano i loro telefoni cellulari, che diffondono senza filtri le immagini della protesta e la violenta repressione della polizia, vivono una realtà molto diversa rispetto a quella della madre che subisce l’informazione televisiva di Stato, ma soprattutto diversa da quella del padre che, contrariamente alla donna che prova ad avere un dialogo con le figlie, non dimostra nessun segno di apertura e comprensione. L’uomo, unico portatore di reddito all’interno della famiglia è nella posizione di stabilire le regole di comportamento delle figlie, condizionando il comportamento di sua moglie che cerca, con una tenacia che man mano va attenuandosi, di mantenere unita la famiglia. Il suo compito si rivela, però, impossibile poiché l’uomo, spaventato dal rischio di rovinare la sua reputazione e di perdere il lavoro, diventa sempre più paranoico e inizia, in casa propria, un’indagine in cui viene oltrepassato ogni limite. Il giudice, infatti, diverrà sempre più violento finendo con l’applicare alle figlie e alla moglie le pratiche riservate ai dissidenti politici.

La maschera del padre e marito premuroso cede velocemente il posto all’inquisitore, non appena la famiglia mette in discussione il credo e l’operato di Iman che, altrettanto rapidamente, è riuscito a tacitare la parte onesta della sua coscienza per condannare a morte quanti vengono considerati nemici del sistema senza neppure una verifica delle prove a loro carico. Il film si concentra sulla famiglia, ma non si tratta di un semplice scontro generazionale. Mai come in questo caso il personale è politico, anzi il privato è politico e i normali rapporti familiari e sociali vengono sostituiti con metodi di coercizione e di controllo violenti, divenendo così il perfetto doppio dello Stato teocratico, dove la religione si è trasformata da fede in ideologia politica e, infine, in repressione violenta.

La pellicola mostra come la società eserciti forti pressioni sulla famiglia del giudice – da quelle subite dall’uomo sul posto di lavoro, alle urla di protesta della folla in rivolta che entrano in casa dalle finestre che affacciano sulla strada – e racconta quanto sia fondamentale l’opposizione a questo stato di cose, con particolare attenzione alla forza delle protagoniste femminili il cui simbolo è diventato ormai Mahsa Amini, la ragazza assassinata in Iran nel 2022 dalle forze dell’ordine morale islamico, perché non indossava correttamente il velo.

Sono le giovani il motore della rivolta in famiglia, non solo perché hanno a disposizione i video girati con i telefoni, ma soprattutto per la scelta di non ignorare quanto accade. Quando la repressione colpisce un’amica delle ragazze, il cui volto tumefatto riempie lo schermo, le due sorelle decidono di accoglierla in casa e prendersene cura, coinvolgendo la madre nell’opera di soccorso. E da quel momento che la donna non riesce più a ignorare la realtà.

Nel film è evidente lo scarto tra le immagini della propaganda ufficiale del regime trasmesse e diffuse dalla televisione, e quelle riprese coi cellulari dai partecipanti alle manifestazioni di protesta, diffuse grazie ai social. Alcune di queste sequenze sono state utilizzate per il film e si riconoscono sia dal formato verticale dell’inquadratura sia dalle scene particolarmente violente e caotiche che culminano con un uomo in divisa che spara verso la telecamera di un telefonino.

Il seme del fico sacro che parrebbe essere un titolo avulso dalla storia, nasce da un’esperienza del regista che, conosciuto l’albero in una delle isole meridionali dell’Iran, prende il fico sacro come simbolo di resistenza. Il ciclo di vita di questa pianta ha colpito l’immaginario di Mohammad Rasoulof: i semi della pianta cadono sui rami di altri alberi attraverso gli escrementi degli uccelli che di questa si cibano, germogliano e crescono penetrando con le radici il fusto della pianta ospite, spaccandola dall’interno.

Le nuove generazioni, i nuovi semi che nascono nel regime degli ayatollah si sostituiranno a esso cancellandolo e rimpiazzandolo, pare volerci dire il regista.

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Glaskupan (2025) – Quando la liminalità nordica genera mostri https://www.carmillaonline.com/2025/05/21/glaskupan-2025-quando-la-liminalita-nordica-genera-mostri/ Wed, 21 May 2025 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88222 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Ideata da Camilla Läckberg, la serie televisiva svedese in sei puntate Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh su una sceneggiatura stesa da Amanda Högberg ed Axel Stjärne, mette in scena il riemergere di un trauma che ha segnato l’infanzia di una giovane donna, Lejla (Léonie Vincent), nel momento in cui questa rimette piede nel paese natale. Rientrata dall’estero nella casa paterna dove è cresciuta per le esequie della madre adottiva, la protagonista si imbatte nel sospetto suicidio di una conoscente e nella contemporanea scomparsa della figlia di [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Ideata da Camilla Läckberg, la serie televisiva svedese in sei puntate Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh su una sceneggiatura stesa da Amanda Högberg ed Axel Stjärne, mette in scena il riemergere di un trauma che ha segnato l’infanzia di una giovane donna, Lejla (Léonie Vincent), nel momento in cui questa rimette piede nel paese natale. Rientrata dall’estero nella casa paterna dove è cresciuta per le esequie della madre adottiva, la protagonista si imbatte nel sospetto suicidio di una conoscente e nella contemporanea scomparsa della figlia di quest’ultima che la catapulta nella sua tragica infanzia segnata dall’esperienza di un rapimento e dallo stato di prigionia che l’ha vista rinchiusa all’interno di una struttura trasparente sottoposta allo sguardo del rapitore senza poterlo a sua volta vedere.

Riuscita a fuggire alla reclusione che l’avrebbe probabilmente condotta alla morte – come avvenuto ad altre ragazzine catturate prima di lei –, non appena sufficientemente grande, Lejla aveva lasciato il paese per trasferirsi il più lontano possibile dall’orribile trauma infantile. La mancata individuazione del colpevole del suo rapimento, oltre a contribuire all’incapacità della giovane di elaborare compiutamente il suo trauma, non può che insinuare il dubbio che la nuova scomparsa di una ragazzina in paese sia addebitabile alla stessa persona.

Lejla non può sottrarsi dall’indagare su quanto accaduto in paese sia perché si tratta di conoscenti sia a causa delle analogie con quanto le è accaduto da piccola, episodio oscuro che continua a tormentarla. Per quanto non le sia chiaro se le analogie siano reali o solamente da lei immaginate, risolvere il nuovo caso può rappresentare una resa dei conti definitiva con il proprio trauma infantile. Caso vuole che la figura paterna da cui fa ritorno la protagonista, Valter (Johan Hedenberg), sia una ex poliziotto ormai in pensione che a suo tempo si era occupato del suo caso, mentre ora a capo delle locale stazione di polizia è il fratello di quest’ultimo, Tomas (Johan Rheborg).

Lo spettatore è sapientemente indotto a guardare al paesino ed ai suoi abitanti con gli occhi di Lejla, personaggio definito con precisione nella sua personalità e bene interpretato dall’attrice, sin dal momento del suo arrivo sul posto. Ancor prima dei nuovi tragici eventi in cui si imbatte la giovane, tutto in quel luogo, dalle cose più banali ai personaggi che incontra nuovamente dopo tanto tempo, assumono un’aria ansiogena ed inquietante. Se gli abitanti del paese non possono che guardare a Lejla come alla ragazzina che riuscì a salvarsi dalla tragica esperienza del rapimento, questa, a sua volta, non può fare a meno di percepire qualcosa di allarmante in ognuno di essi.

L’essere stata costretta a sottoporsi allo sguardo morboso del rapitore all’interno della “scatola trasparente” induce la giovane a provare profondo fastidio ogni volta che uno sguardo si posa su di lei, compreso quello della figura paterna. Ad infastidirla non è tanto lo sguardo reciproco con le persone ma la sensazione di essere guardata a sua insaputa.

Come si conviene in una narrazione di tale tipo, i sospettati del nuovo caso si moltiplicano e l’idea che ci sia un collegamento con i fatti accaduti in passato non tarda a prendere piede, così come dalle indagini non possono che emergere le torbide dinamiche di una piccola comunità che, come al solito, sotto l’apparente normalità paesana nasconde ombre e non detti.

Ecco allora che, insieme a chi indaga, lo spettatore viene ad esercitare il suo ruolo voyeuristico che guarda impietosamente alle vite altrui senza accettare di essere a sua volta osservato: Tomas, ad esempio, farà di tutto per celare a tutti la relazione segreta che lo riguarda emersa casualmente dalle indagini. La scatola di vetro a cui è stata costretta Lejla da piccola sembra riecheggiare nelle modalità con cui il paese ed i suoi abitanti sono osservati nella quotidianità durante le indagini.

Il ricorso ad una fotografia dalle tonalità livide e distaccate contribuisce a creare l’effetto di una luminosità televisiva quasi a rimandare a quella scatola di vetro capace di offrire trasparenza a senso unico, di soddisfare il desiderio di potere scopico da esercitare sugli altri, mostrando al tempo stesso come ad emergere sia l’intimità delle persone che fanno da contorno alla malvagità più profonda che, invece, riesce tutto sommato a sottrarsi allo sguardo indagatore.

Quello in cui si svolge l’azione è uno spazio liminale, lontano dal centro. Il paese immaginario di Granås, situato nella regione di Dalarna nella Svezia centrale, presentato dalla serie, fa parte di un’estrema landa dell’universo geografico scandinavo, estremamente distante, ad esempio, da Stoccolma, solamente evocata nel corso della storia come una città per certi aspetti ‘corruttrice’, che attira i giovani dei paesi e li spinge ad abbandonare la propria terra.

Lejla ha fatto ritorno al luogo della sua infanzia giungendovi dagli Stati Uniti, dove si era da tempo trasferita costruendosi una nuova vita come criminologa comportamentista: si può star certi che quegli “Stati Uniti” evocati dalla ragazza coincidono con una grande città, non certo con l’estrema periferia dell’Ovest o del Centro degli States. Tornare al proprio paesino natale equivale a una vera e propria regressione verso gli spettri e i fantasmi dell’infanzia e dell’adolescenza, come aveva magistralmente mostrato Luchino Visconti in Vaghe stelle dell’orsa (1965), in cui la protagonista Sandra (Claudia Cardinale) ritorna dopo molti anni al suo paese natale, Volterra, un territorio di provincia abitato dai fantasmi dell’infanzia e dell’adolescenza.

Ecco che quelle spazialità liminali rappresentate dal film, ben lontane dall’immagine idilliaca di un mondo ovattato immerso in una natura da cartolina, assumono in sé qualcosa di mostruoso: si vedono notturni boschi inquietanti, lande ghiacciate al crepuscolo o all’alba, fattorie isolate in mezzo alla neve, una piccola stazione di polizia ove gli agenti vengono impunemente irrisi da un gruppo di giovinastri xenofobi del luogo, strade che, dopo pochi agglomerati di case, si perdono praticamente in mezzo al nulla. È questo il luogo in cui torna Lejla, è il luogo dove si nascondono i mostri della sua infanzia: il suo rapimento e la sua esposizione nella “cupola di vetro” a cui viene fatto riferimento nel titolo.

Nelle serie televisive crime nordiche, come si è soliti definirle con tutta le approssimazioni delle etichette di genere, frequentemente la liminalità si rivela generatrice di mostri: si pensi, ad esempio, alle islandesi Trapped (Ófærð, dal 2015) o I delitti del Walhalla (Brot, 2019) in cui i crimini più atroci non avvengono nelle città ma in luoghi sperduti e isolati, in cui la stazione di polizia appare essa stessa sommersa dalla barbarie di molti abitanti del luogo. Gli unici che non se ne vanno da questi luoghi o sono onesti e integerrimi poliziotti – ma in Glaskupan neanche tanto – oppure sono rozzi e imbarbariti abitanti, chiusi e xenofobi, personaggi che di quella liminalità sembrano aver assunto il peggio.

Si può ricordare come anche in un episodio della sesta stagione (2023) della serie TV britannica Black Mirror, dal titolo Loch Henry, diretto da Sam Miller, uno spazio nordico lontano dal centro (in questo caso si tratta della campagna scozzese) si configura come un oscuro luogo generatore di mostri. Qui a fare ritorno al proprio paese natale, Loch Henry, è Davis (Samuel Blenkin), un giovane studente di cinema che vi si reca assieme alla fidanzata Pia (Myha’la Herrold), di origini americane. I due arrivano da una grande città come Londra e si spingono nei meandri più liminali della campagna scozzese; nella fattispecie, nel paesino di Loch Henry, negli anni Novanta, si erano consumati degli orrendi delitti dei quali l’unico colpevole era stato individuato in Iain Adair (Tom Crowhurst), un folle psicopatico. Davis e Pia scopriranno che l’orrore, invece, proveniva dalla sfera più intima e insospettabile, cioè dalla stessa casa di Davis: efferati complici di Iain Adair erano infatti il padre, Kenneth (Gregor Firth) – un poliziotto morto in circostanze poco chiare – e la madre di Davis, Janes (Monica Margaret Dolan), che accoglie la coppia. Tra l’altro, oltre a provenire da un universo ovattato e accogliente, l’orrore efferato è provocato da un tutore dell’ordine, l’insospettabile poliziotto padre di Davis.

Come in Glaskupan, l’autore di crudeli delitti è proprio un poliziotto, colui che invece dovrebbe vigilare sull’ordine e sulla tranquillità di quei lontani e liminali paesini. Non si può non ricordare, allora, come anche in La zona morta (The Dead Zone, 1983) di David Cronenberg, l’autore degli efferati crimini che incombono su uno sperduto paesino del Canada sia proprio un insospettabile giovane poliziotto, aiutato dalla complicità dell’altrettanto insospettabile madre, poi scoperto grazie alle capacità sensitive di Johnny Smith (Christopher Walken).

Al posto del mostro fantastico, spettro, creatura o vampiro, in quelle foreste e nei paesini di diverse storie crime nordiche c’è il ‘mostro criminale’, non meno terribile di una ostile creatura fantastica. Non c’è un essere mostruoso generato dal folklore o dal mito ma la quintessenza del crimine che ha le sue stesse radici in un folklore contemporaneo, in una vox populi che, a volte, deriva anche dalla tecnologia mediatica.

Si prenda, ad esempio, un interessante film britannico dove è presente un mostro ‘tradizionale’: Il rituale (The Ritual, 2017) di David Bruckner, in cui un gruppo di amici inglesi che si avventura in una foresta svedese viene assalito da una orrenda creatura dalla connotazione divina, nata dal mito e dal folklore del posto. Come Harker, in Dracula di Bram Stoker, inglese e razionalista, si avventura nella irrazionale Transilvania fino all’incontro col mostro, così gli amici, non a caso inglesi, si allontanano dal loro universo razionale fin nel cuore della irrazionale Svezia, nei suoi luoghi più liminali. Potrebbero benissimo essere i dintorni del paese di Granås messo in scena da Glaskupan. Ma qui non si annida il terribile mostro divino, bensì una serie di crimini che coinvolgono diversi individui a cavallo fra il passato e il presente.

Un’altra presenza mostruosa, strettamente legata al territorio, è proprio il passato: è quest’ultimo ad emergere come un mostro, una terribile creatura incarnata in abusi e crimini svariati ed è più facile che emerga in spazi estremi e periferici piuttosto che nel cuore di una grande città. I tempi di Jack lo Squartatore e del Mostro di Düsseldorf sembrano ormai definitivamente superati; evidentemente il mostruoso contemporaneo che ricompare dal passato non abita più in quelle grandi città che, invece, si mostravano esse stesse infernali a cavallo tra Otto e Novecento. La metropoli contemporanea nel suo volersi smart è forse alle prese con altre mostruosità che non sembrano venire percepite come tali.

Il mostro-crimine emergente dal passato esige poi una sua vittima, preferibilmente una bella fanciulla. Ed è questo il ruolo di Lejla, che non a caso è stata rinchiusa in una teca di vetro, come prima e dopo di lei innumerevoli altre bambine e ragazzine, ed esposta: la radice folklorica di questo mostro-crimine esige un’esposizione al suo cospetto. Nulla di diverso, in sostanza, dall’esposizione della fanciulla al mostro: come acutamente rileva Furio Jesi, «nella cultura tedesca collegata più o meno direttamente al pietismo» si può incontrare «una vera e propria esposizione della donna – madre, sorella, sposa – al mostro – mostro, spettro “vampiro”»1.

Lejla, nel corso della storia, verrà drogata da un perverso criminale e la vedremo muoversi barcollante come una sonnambula nella notte nel bel mezzo di un cupo bosco, come in una truce fiaba. Sempre Jesi ricorda come nel mito germanico la figura della sonnambula appaia sotto le vesti di Kundry, «la cui persona nel Parsifal è periodicamente dominata dalla forza demonica dell’incantatore Klingsor, che la fa cadere in uno stato magicamente ipnotico o sonnambolico e si serve della bellezza di lei per tentare e vincere i paladini della purezza»2.

Al posto dell’incantatore diverse storie crime nordiche mettono il criminale, più o meno folle, che si serve della purezza e della bellezza dell’eroina. Non è un caso che nella serie televisiva Glaskupan, come punto di convergenza del crimine venga evocata proprio la notte di Valpurga, facente parte al massimo grado della cultura folklorica germanica e svedese, la notte in cui, nel Faust di Goethe, assistiamo al grande sabba delle streghe e in cui Harker giunge al castello di Dracula.

Lejla, sonnambula e fanciulla esposta al mostro del crimine, appare totalmente avvolta dalla mostruosità del passato facente parte del suo spazio liminale. Frequentemente quella mostruosità non giunge dall’esterno, dalle foreste notturne o dalle lande ghiacciate, ma dal calore domestico vicino al camino acceso.

Se nelle fiabe e nel folklore il mostro sta al di fuori e aggredisce la delicata intimità del calore domestico, in diverse storie crime nordiche, come in Glaskupan, è già dentro quelle tiepide e silenziose case, che appaiono anche tremendamente gelide, segnate dalla mostruosità del loro sussistere al limite di uno spazio geografico aperto a un passato che emerge come un inquietante spettro.


  1. F. Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, introduzione di David Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 50. 

  2. Id., Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900, a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Milano, 2018, p. 104. 

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Una divinità postumana che canta con l’autotune https://www.carmillaonline.com/2025/04/26/una-divinita-postumana-che-canta-con-lautotune/ Sat, 26 Apr 2025 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88144 di Chiara de Stefano

Opus – Venera la tua stella di Mark Anthony Green, USA 2025.

C’è qualcosa di spettrale e carnale in Opus – Venera la tua stella, primo lungometraggio del giovane regista Mark Anthony Green, approdato nelle sale italiane lo scorso ventisette marzo. Una lunga seduta medianica, in cui l’anima della vecchia stella del pop Alfred Moretti – incarnata con grazia ieratica da John Malkovich – aleggia come un idolo secolare piangente nella cattedrale profana del culto contemporaneo: la fama.

Green ci trascina infatti nei recessi arcani dell’America mistica, tra canyon che paiono scolpiti dalla volontà di un dio [...]]]> di Chiara de Stefano

Opus – Venera la tua stella di Mark Anthony Green, USA 2025.

C’è qualcosa di spettrale e carnale in Opus – Venera la tua stella, primo lungometraggio del giovane regista Mark Anthony Green, approdato nelle sale italiane lo scorso ventisette marzo. Una lunga seduta medianica, in cui l’anima della vecchia stella del pop Alfred Moretti – incarnata con grazia ieratica da John Malkovich – aleggia come un idolo secolare piangente nella cattedrale profana del culto contemporaneo: la fama.

Green ci trascina infatti nei recessi arcani dell’America mistica, tra canyon che paiono scolpiti dalla volontà di un dio edace e silenzi saturi di presagi, per narrare una storia che è insieme thriller, horror e allegoria perturbante.

Una villa-tempio sperduta nel nulla, chiesa e prigione, diventa teatro di un sabba estatico in cui critici, influencer e giornalisti – sibille del mondo patinato dello spettacolo – si radunano per ascoltare in anteprima il nuovo album del profeta-pop star Moretti. Ma è solo Ariel Ecton (Ayo Edebiri), la giovane protagonista redattrice con la t-shirt dei Radiohead, a scorgere sin da subito la dannazione e la perversione dietro la divinità pop: il culto, il rito e, infine, il sacrificio.

Per questi stilemi, Opus richiama altri celebri film come The Wicker Man (Robin Hardy, 1973), The Invitation (Karyn Kusama, 2015), Apostle (Gareth Evans, 2018), Midsommar (Ari Aster, 2019) e Speak No Evil (Christian Tafdrup, 2022). Green però tinge il suo film di un pop acido e nevrastenico, dove la tensione è perfino sensuale e l’estasi sonora diventa completa possessione di tutti i personaggi: sia dei Livellisti, gli adepti vestiti di blu, che degli ospiti in abiti eleganti e monocromatici come le vecchie pedine del Cluedo. La liturgia che ne deriva è una decomposizione rituale dell’identità: il sacrificio non è solo figurato, ma necessario. Ariel è l’offerta pensante, l’elemento deviante, e dunque, come afferma René Girard, il capro espiatorio perfetto, immolato sull’altare di un desiderio collettivo condizionato. Difatti, il meccanismo mimetico – l’imitazione isterica dei desideri altrui – trova qui la sua forma contemporanea: la subcultura sclerotica dei fan, l’idolatria digitale, la massificazione della devozione.

Dal punto di vista tecnico, Opus è una sinfonia elettrica in chiaroscuro: la saturazione cromatica della pellicola accompagna il lento climax degli eventi e la luce negli esterni, dominati da una luce naturale rarefatta, evoca un misticismo desolato.  Gli interni sono invece rappresentati come ossessivi, colmi di claustrofobia chic, ma eremitica. Per questo utilizzo della luce richiama il chiaroscuro del cinema espressionista tedesco, ma lo tinge di paillettes, danze estatiche e cibi fluorescenti.

La scenografia è metafora architettonica del vuoto interiore delle coscienze vuote e impazienti di essere colmate. Le stanze minimaliste e spoglie, svuotate di ogni appiglio alla quotidianità, sospingono i personaggi in un limbo identitario, ma li sospendono nel miraggio del lusso postmoderno.

Il sound design alterna vibrazioni psichedeliche e pulsazioni dance, pezzi orecchiabili che danno un ritmo alla narrazione. I silenzi, usati con sapienza musicale, sono pieni di presagi che rendono il corso degli eventi piuttosto prevedibile. Si intuisce presto il risvolto sacrificale già  nel suono martellante delle canzoni inedite che soffoca i suoni della normalità, per fare spazio a una nuova e inquietante armonia. La sonorità del film appare quindi come un’eco del rito sacrificale, che travalica la dimensione musicale e si fa anche visiva e psicologica.

L’inquietudine che il film lascia dietro di sé è simile a quella dei grandi miti tragici: il sacro non salva più, perché ha perso il suo volto. La stella fissa, eterna e impassibile, è il nuovo idolo: non brilla più per guidare, ma per annientare.

Green dunque non si limita a raccontare la dinamica del sacrificio: egli la trasfigura, la innalza a condizione ontologica. Moretti, profeta e carnefice, è l’immagine della divinità postumana, di un Dio algoritmico che finalmente non è più silente, ma canta con l’autotune.

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Severance – Scissione: nuove forme di schiavismo nel tardo capitalismo https://www.carmillaonline.com/2025/04/22/severance-scissione-nuove-forme-di-schiavismo-nel-tardo-capitalismo/ Tue, 22 Apr 2025 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87682 di Fosca Gallesio

Un’inquadratura plongée dall’alto mostra un grande tavolo su cui giace una donna priva di sensi, da un altoparlante da tavolo una voce maschile chiede “Come si chiama?” La donna riprende coscienza e l’altoparlante le chiede di rispondere a un breve questionario. La donna infastidita cerca inutilmente di uscire dalla porta chiusa, non capisce dove si trova né perché. Poi, quando accetta di rispondere alle domande, è presa da un senso di angoscia: non sa rispondere, non sa il suo nome, non sa dove è nata, né come si chiamano i suoi genitori. Nulla, una tabula rasa.

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di Fosca Gallesio

Un’inquadratura plongée dall’alto mostra un grande tavolo su cui giace una donna priva di sensi, da un altoparlante da tavolo una voce maschile chiede “Come si chiama?” La donna riprende coscienza e l’altoparlante le chiede di rispondere a un breve questionario. La donna infastidita cerca inutilmente di uscire dalla porta chiusa, non capisce dove si trova né perché. Poi, quando accetta di rispondere alle domande, è presa da un senso di angoscia: non sa rispondere, non sa il suo nome, non sa dove è nata, né come si chiamano i suoi genitori. Nulla, una tabula rasa.

Questo è il surreale inizio di Scissione – in originale Severance – una brillante serie distopica, che racconto di un mondo dove le persone possono scindere la propria coscienza tra lavoro e vita privata. Grazie a un microchip impiantato nel cervello, possono creare un alter-ego di se stessi che esiste solo per lavorare: è sveglio e attivo solo nei luoghi e negli orari di lavoro e non ha nessun ricordo della sua vita fuori dall’ufficio. Se il titolo italiano sembra rimandare al concetto di personalità scissa (che in inglese si dice invece split personality), il titolo originale Severance, oltre a significare separazione, viene usato nell’ambito lavorativo per indicare la liquidazione dopo il licenziamento (severance pay). E infatti più oltre alle implicazioni psicologiche della scissione, la serie vuole riflettere sulle dinamiche del lavoro, su come il rapporto sbilanciato tra lavoro e vita privata possa influire sulla nostra personalità e soprattutto sulle dinamiche di potere e controllo messe in atto dai datori di lavoro per ottenere il massimo profitto dagli impiegati.

Nella prima scena assistiamo a quella che è a tutti gli effetti la nascita di un interno (innie) – così vengono chiamate le coscienze lavoratrici, in contrapposizione agli esterni (outies) che li hanno generati e vivono la vita normale fuori dall’ufficio. Il tavolo da riunioni è come un grembo materno in cui la nuova coscienza si risveglia, adulta e consapevole di tutte le nozioni comuni, ma del tutto ignara della sua identità e senza alcun ricordo personale. Questi interni vengono chiamati solo con il nome proprio, seguito appena dall’iniziale del cognome, una rappresentazione della loro assoluta mancanza di storia.

La serie, trasmessa da Apple TV nel 2022 e ora alla seconda stagione, è stata creata dal quasi esordiente Dan Erickson ed ha visto la luce grazie alla produzione e alla regia di Ben Stiller, che molti conoscono soprattutto come attore di commedie, ma che ha all’attivo diversi film da regista e, soprattutto in televisione, si è dedicato a progetti drammatici (consigliatissima la serie Escape at Dannemora). Erickson racconta che l’idea per Scissione gli è venuta sperimentando sulla propria pelle l’alienazione del lavoro da ufficio, quando, prima di avere successo come sceneggiatore, lavorava per una ditta produttrice di porte. La ripetitività e il senso di inutilità del proprio lavoro lo ha portato a immaginare di poter dimenticare le ore passate in ufficio, anzi di poter evitare del tutto di esperirle. Da qui l’idea della scissione: una tecnologia che permette di creare un doppio di sé che vive solo per lavorare. Questo concept fantascientifico non è altro che una metafora dello sfruttamento dei lavoratori e del lavaggio del cervello da parte delle aziende, che hanno esigenza di eliminare qualsiasi elemento di distrazione e disturbo per avere persone completamente dedite alle loro mansioni, anzi che vivono solo per questo, immolate sull’altare dell’efficienza e della produttività.

L’aspetto più crudele della scissione è che gli interni non sono altro che schiavi fatti schiavi da se stessi: infatti il responsabile della loro vita da incubo, reclusi nell’ufficio, è il loro esterno, quindi l’altro se stesso. Un altro di cui non sanno nulla, ma che decide del loro destino, un altro così vicino, ma eternamente irraggiungibile.

Ma il vero cattivo della serie è la Lumon, la mega-compagnia biotech che ha inventato il microchip e vive grazie al lavoro degli impiegati scissi. La serie mostra l’azienda come una struttura di potere opprimente, basata su pratiche che esaltano un culto della personalità del fondatore (il signor Kier) e legano gli impiegati in una forma di devozione, che ricorda il fenomeno delle sette. La Lumon (come molte aziende reali) ha un codice etico e una lista di principi, che danno al lavoro un aspetto vocazionale, che serve a giustificare l’esistenza dei lavoratori scissi. E questa devozione si spinge fino alla scissione, alla creazione di persone che per tutta la loro esistenza avranno l’unico scopo di lavorare per la Lumon, che sono vive solo grazie e per l’azienda.

La Lumon rappresenta tutte le grandi aziende che cercano di migliorare la propria immagine aderendo a grandi ideali e proclamando di avere degli alti obbiettivi etici, mentre l’unico loro interesse è il profitto e lo sfruttamento sempre maggiore del plusvalore dato dai lavoratori. Lo stesso Erickson racconta come i datori di lavoro vogliano far sentire i dipendenti come una famiglia, convincendoli che hanno uno scopo più alto del mero guadagno (per esempio lo slogan di Starbuck è “Non facciamo solo caffè, ma rendiamo il mondo un posto migliore”). Questa identificazione del lavoratore con la mission aziendale non è solo disturbante, ma crea una vera alienazione da se stessi, dai propri obbiettivi e desideri personali. La società tende a identificare le persone con il loro lavoro: si dice “tu sei un avvocato, un commesso, un operaio”, ma questo in realtà non dice assolutamente nulla della persona. Questo paradosso è mostrato molto bene in una scena in cui il protagonista Mark va a cena con delle persone che gli chiedono che lavoro faccia e lui con imbarazzo ammette di essere un lavoratore scisso e quindi di non avere alcuna idea di quale sia il suo lavoro. La scena mette in evidenza come la separazione della coscienza, che potrebbe apparire desiderabile, in realtà finisca per creare due personalità parziali che non riescono a trovare senso nella propria esistenza. Mark prima faceva il professore universitario, un lavoro appassionante e soddisfacente, mentre ora si ritrova incapace di dare una forma a se stesso perché ha scelto di cancellare il lavoro dalla propria esperienza di vita; dall’altra parte il suo interno è altrettanto incompleto, non avendo alcuna identità a parte essere un impiegato.

Un aspetto particolare della serie è il tono della narrazione che, pur partendo da un presupposto da thriller fantascientifico alla Black Mirror, sceglie di essere una tragicommedia umana, venata di ironia surreale e sarcasmo sociale. Gli autori citano come riferimenti film come Brazil (dove è messa in scena una tecno-burocrazia opprimente), Matrix e The Truman Show (che mettono in discussione il rapporto reale/immaginario) e Being John Malkovich, dove è evidente il discorso sull’identità; ma ci sono anche riferimenti beckettiani nella dilatazione temporale sospesa che i protagonisti interni vivono negli spazi dell’ufficio. La serie ha un particolare tono malinconico, con elementi umoristici nel racconto paradossale della vita lavorativa degli scissi, che la rende uno dei più interessanti prodotti seriali degli ultimi anni.

Al centro della storia c’è Mark Scout che ha deciso di fare la scissione dopo l’improvvisa morte della moglie: incapace di superare il lutto, Mark ha scelto di rimuoverlo dal suo cervello per otto ore al giorno, ma la sua vita da esterno rimane arida e senza gioia, gli unici rapporti sociali li ha con la sorella e il marito di lei, mentre lui sembra condannato a una perenne solitudine. Il suo stato emotivo è messo in mostra anche attraverso l’ambientazione: una provincia americana invernale, segnata dalla monotonia dei grigi e dall’atmosfera gelida e ovattata del silenzio della neve
Ma dall’altra parte c’è anche Mark S., l’interno che lavora per la Lumon, che mostra invece i lati positivi del carattere di Mark. L’interno è infatti una persona dal cuore gentile, affezionato ai suoi colleghi di lavoro, sinceramente motivato a fare del mondo un posto migliore e per questo, almeno all’inizio, lo vediamo dedicarsi con entusiasmo al lavoro.

A fare da contraltare alla spensierata vita di Mark S. c’è Helly R., la giovane donna che abbiamo visto all’inizio, appena arrivata nel reparto di scissione, che non riesce ad accettare la sua nuova condizione. Nelle prime puntate Helly fa ripetuti tentativi di fuga, ma ogni volta che scappa dalla porta del piano della scissione, si trova a rientrarvi subito dopo. Questo perché da interna non ha alcun potere, è la sua controparte esterna che decide come vivere e la costringe ad essere al lavoro ogni giorno. Helly non può scegliere perché ogni volta che si trova fuori dall’ufficio non è più cosciente e l’esterna in un video in cui le dice esplicitamente: “Tu non sei una persona, io sono una persona. Tu non puoi decidere.”

Altri due personaggi completano il reparto di Macrodata refinement dove lavorano i personaggi: sono Dylan G. e Irving B. (interpretato da uno straordinario John Turturro). Entrambi rappresentano dei topoi dell’impiegato: Dylan è ossessionato dalla produttività e ambisce a degli inutili premi aziendali (dei ridicoli aggeggi anti-stress tipo trappole per le dita), mentre Irving appare rigidamente identificato con gli astratti principi etici della Lumon, ma in realtà è perseguitato da inquietanti visioni e finirà per sfidare la policy aziendale per amore.

I quattro impiegati del reparto sono supervisionati dall’inquietante Mr. Milchick (che non ha fatto la scissione), un uomo con un eterno sorriso stampato in faccia, dai modi affettatamente gentili, che rappresenta la facciata ipocrita della Lumon e l’atteggiamento di benevola indulgenza e controllo costante che l’azienda ha per i propri impiegati, che tratta come bambini da disciplinare. In effetti gli interni hanno una coscienza giovane e ingenua e lo vediamo nel modo in cui gioiscono delle ridicole gratifiche che l’azienda offre loro, che sono un’ambita variazione dalla routine del lavoro al computer. Così nelle puntate vediamo la “musical dance experience”, un momento di svago in cui si balla e si festeggia, e i i momenti di team building, con i giochi in cui a turno si racconta la propria vita (anche se gli interni hanno ben poco da raccontare) e anche le feste di saluto per il pensionamento, che in realtà per gli interni significa la fine della loro esistenza ed è quindi più un funerale.

Ma c’è un altro personaggio fondamentale nella dirigenza Lumon: Miss Cobel (interpretata da un’ottima Patricia Arquette), la gelida direttrice del reparto scissione. Se Milchick è il volto umano ed empatico dell’azienda, Cobel rappresenta il potere e il controllo totale che la Lumon ha sui lavoratori. Miss Cobel non concede nessuno spazio di autonomia e sembra non avere nessuna comprensione delle difficoltà degli impiegati, trattandoli in maniera del tutto funzionale. Ed è lei a commissionare le punizioni necessarie dopo i ripetuti tentativi di fuga di Helly. Così vediamo un altro spazio degli uffici: la break room o sala del personale che, invece di essere un luogo di svago e pausa del lavoro, è una stanza buia dove il lavoratore che ha fatto qualcosa che non doveva è costretto a leggere un’elaborata confessione e richiesta di perdono, che deve ripetere per centinaia di volte, finché non sembrerà sincero a insindacabile giudizio del superiore Mr Milchick.

Un altro luogo significativo è l’Ala dell’Eternità: un ambiente museale dove si celebra il fondatore della Lumon, Kier Egan, con una riproduzione in scala naturale della sua casa e una celebrazione dei suoi discendenti che hanno ricoperto il ruolo di CEO, raffigurati in statue di cera. Questo spazio mostra il culto della personalità su cui si basano le pratiche aziendali: Kier è rappresentato come una sorta di messia (viene detto spesso Praise Kier, sia lode a Kier) e quindi lavorare alla Lumon significa essere i suoi adepti.

L’entità dominante dell’azienda si manifesta negli spazi del lavoro: l’ufficio di Scissione è più che un’ambientazione simbolica, ma diventa quasi un personaggio, rappresentando il corpo dell’azienda all’interno del quale sono prigionieri i lavoratori scissi. Gli uffici della Lumon sono un labirinto di corridoi bianchi, rischiarati dalla monotona luce dei neon, corridoi in cui vediamo i personaggi camminare per un tempo lunghissimo, che si diramano in deviazioni tutte uguali e che sembrano avere un solo punto di partenza, l’ascensore da cui si entra al piano della scissione, e un solo punto di arrivo, l’ufficio del reparto Macro Data Refinement dove lavorano i protagonisti. Anche la stanza del MDR è particolare: una sala spropositatamente grande che al centro ha un cubicolo con quattro scrivanie per gli impiegati, il pavimento verde acido e il soffitto bianco grigio coi neon che incombe dall’alto. Questo luogo di lavoro freddo e funzionale, eppure tremendamente inutile nel suo spreco di spazio, è privo di qualsiasi elemento umano, del tutto spersonalizzato e spersonalizzante, e sembra ridurre gli umani che lo abitano a piccole formiche operose perse in un eterno vagare per i corridoi o nella ripetizione dei loro compiti ossessivi al computer.

E proprio a proposito del lavoro al computer vale la pena far notare come esso appaia del tutto arbitrario e apparentemente insignificante. Quando Mark spiega alla nuova arrivata Helly cosa deve fare, le mostra semplicemente un monitor su cui scorrono una serie di numeri incolonnati e le dice di individuare i numeri particolari e metterli in una casella insieme. Ma come si capisce quali sono i numeri particolari? Mark risponde che deve scegliere i numeri che le fanno paura; di fronte all’incertezza di Helly, Mark la incoraggia a fare pratica e le promette che ci prenderà la mano. Il lavoro del reparto Macro Data Refinement sembra essere quello di trattare questi misteriosi numeri in modo incomprensibile, senza una logica, ma agendo in base alle sensazioni. Di fronte alle difficoltà di Helly ad affrontare un compito che appare del tutto inutile e ripetitivo, Mark le ricorda che il loro lavoro è “misterioso e importante.” Questo è un concetto che viene ripetuto spesso e serve come unica spiegazione per i compiti senza senso che gli impiegati devono svolgere; ma avere qualcosa di misterioso e importante da fare è anche un modo per dare un senso di soddisfazione, per avere l’idea di servire uno scopo più alto, anche se i lavoratori scissi non hanno idea del piano generale, ma devono funzionare come formiche operaie.

Il design della Lumon è ispirato all’architettura funzionalista degli anni ’50 e ’60 (in particolare alle costruzioni di Eero Saarinen), e anche la tecnologia è antiquata: i computer hanno i grandi monitor col tubo catodico degli anni ’80, quando vediamo dei filmati sono proiettati su vecchi televisori con dei videoregistratori, ma anche fuori dall’ufficio ci sono macchine vecchie e cellulari non ancora smart. Secondo alcuni questo indicherebbe che il mondo in cui è ambientata la serie sia una realtà parallela alla nostra, simile, ma non uguale. Ma potrebbe anche non esserci alcuna spiegazione narrativa per questo aspetto: la mancanza di tecnologia digitale all’interno della Lumon potrebbe essere solo un modo per esasperare il senso di isolamento degli interni, un modo per tagliarli fuori dal mondo.

Scissione esprime un forte messaggio politico attraverso un high concept fantascientifico estremamente efficace, che incarna le dinamiche di controllo necessarie alla crescita virale del tardo capitalismo. Il bilanciamento tra vita lavorativa e vita personale è qui paradossalmente risolto con la scissione della coscienza, che crea una personalità totalmente schiava del lavoro. La serie è uscita all’inizio del 2022, nell’anno precedente l’America è stato segnata dal fenomeno sociale della Great Resignation, in cui 47 milioni di americani si sono licenziati dal lavoro, anche a seguito dei mutamenti portati dalla pandemia. Con il lavoro da remoto molte persone si sono rese conto dell’inutilità di spendere mezza giornata in ufficio, quando potevano svolgere lo stesso quantitativo di lavoro da casa, gestendo molto meglio il proprio tempo. Questa ridefinizione dell’equilibrio vita privata/lavoro ha portato a guardare con occhio diverso i rapporti con i datori di lavoro, portando a rivendicazioni che valorizzassero in maniera maggiore gli spazi e i tempi personali. E questa ribellione dei lavoratori è proprio l’elemento che definisce l’arco narrativo di Scissione: la presa di coscienza e l’unione fra gli interni scissi li porterà a rompere i confini dell’isolamento dell’ufficio, per rivendicare uno spazio esterno di autonomia e libertà. La rivoluzione al capitalismo schiavista della Lumon, la grande compagnia monstre che governa addirittura la coscienza delle persone, è l’orizzonte che ha fatto la forza della serie, che nei tre anni trascorsi tra la prima e la seconda stagione è diventata una delle serie più viste e più discusse della contemporaneità.

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