Cinema & tv – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’Eternauta: neve letale su Javier Milei. https://www.carmillaonline.com/2025/06/07/leternauta-neve-letale-su-javier-milei/ Fri, 06 Jun 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88478 di Walter Catalano

C’era molta attesa per l’uscita della serie Netflix tratta da L’Eternauta, il capolavoro del fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld, disegnato da Francisco Solano López, e pubblicato sul periodico argentino Hora Cero Suplemento Semanal dal 1957 al 1959, poi ristampato nel 1961 su testata omonima. Come il mate o i tanghi di Carlos Gardel, questa serie a fumetti è diventata un vero e proprio simbolo dell’identità argentina, in senso culturale, politico e sociale. In questo la versione filmata diretta da Bruno Stagnaro e interpretata da Ricardo Darín nel ruolo del protagonista Juan Salvo, con la [...]]]> di Walter Catalano

C’era molta attesa per l’uscita della serie Netflix tratta da L’Eternauta, il capolavoro del fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld, disegnato da Francisco Solano López, e pubblicato sul periodico argentino Hora Cero Suplemento Semanal dal 1957 al 1959, poi ristampato nel 1961 su testata omonima. Come il mate o i tanghi di Carlos Gardel, questa serie a fumetti è diventata un vero e proprio simbolo dell’identità argentina, in senso culturale, politico e sociale. In questo la versione filmata diretta da Bruno Stagnaro e interpretata da Ricardo Darín nel ruolo del protagonista Juan Salvo, con la consulenza per la sceneggiatura dello stesso nipote di Oesterheld, non smentisce affatto le proprie radici e proprio questi aspetti probabilmente non sono stati compresi dai critici (non pochi) che l’hanno attaccata, rinfacciandole la lentezza, il ritmo posato, la visione corale, e preferendole altre serie apocalittiche di origine statunitense – L’Eternauta, secondo loro, ha perso la sua originaria singolarità ed è diventata ormai scontata, inutile, una fra le tante. Niente di più sbagliato. L’Eternauta, molto semplicemente, ha rifiutato di svendersi ai canoni hollywoodiani della narrazione e ha scelto di restare per atmosfera, scenari e cadenza, profondamente argentina: perfino il gioco di carte che gli amici si trovano a giocare all’inizio della mortale avventura, significativamente, non è il poker ma il truco, gioco quasi sconosciuto fuori dall’America Latina.

Un’autenticità che le evita, per esempio, tutti i luoghi comuni fritti e rifritti in cui cadono gran parte delle altre serie fantascientifiche, più o meno catastrofiche, statunitensi, anche quelle che erano apparentemente partite bene come The Last of Us – della cui prima stagione avevo su queste pagine parlato positivamente ma che ho interrotto già alla prima puntata della seconda stagione dopo un patetico incipit fatto di ridicoli stereotipi: rapporto conflittuale padre-figlia, “brutalismo” femminista di maniera, immancabili e noiosissime storie di lesbiche, ecc. ecc. – e che sottolinea invece più della rappresentazione indiscriminata della violenza, ossessione tipicamente nordamericana, il rapporto di unione e di solidarietà delle comunità che fronteggiano la catastrofe. Altri critici, di opposto orientamento, non nordamericanofili ma invece troppo puristi, non hanno invece apprezzato i cambiamenti della serie rispetto al fumetto: che sia ambientato, per esempio, nell’Argentina contemporanea e non in quella degli anni ’50, che i protagonisti siano tutte persone di mezza età, se non anziane, e il trentenne Juan Salvo del fumetto abbia qui almeno trent’anni di più, una compagna matura e una figlia adulta. Alla prima obiezione risponde efficacemente lo stesso regista: Oesterheld usava la metafora fantascientifica per parlare della sua attualità, dell’Argentina del suo tempo; Stagnaro ha voluto mantenersi coerente con tali propositi non facendo dell’archeologia visiva ma denunciando – come avrebbe fatto Oesterheld – il presente, l’Argentina alla deriva di Javier Milei. Un taglio profondo sull’attualità che implica inserire anche una prospettiva storica: l’eco della dittatura di Videla, la tragedia dei desaparecidos – che colpì lo stesso Oesterheld con le sue quattro figlie e i loro compagni, tutti legati ai Montoneros, la frangia marxista dei peronisti – e questo giustifica l’età matura dei protagonisti, gli incubi ricorrenti di Juan Salvo che si rivede giovane, disperato combattente abbandonato in una trincea delle Malvinas sotto le incursioni inglesi e che quarant’anni dopo deve imbracciare ancora le armi, ma questa volta per una causa. “Se si vuole essere fedeli a tutto, non si è fedeli a niente”- aggiunge il regista Stagnaro.

Una prospettiva che ritengo sia un arricchimento rispetto al fumetto così come il tentativo di spiegazione “scientifica” dell’origine della nevicata mortale – imprecisata nel testo originale – il “collasso” delle fasce di Van Allen, come spiega Tano (César Troncoso), l’ingegnere elettronico: “È un anello di particelle radioattive che circonda la terra ed è sostenuto dalla forza magnetica dei due poli; è come uno scudo che protegge la Terra da venti solari e altri agenti. Ma se i poli si annullano le particelle radioattive ci piovono addosso”. I fiocchi di neve che cadono su Buenos Aires sono particelle radioattive provenienti dalle fasce di Van Allen. Il malfunzionamento delle bussole che risultano fuori asse, lo porta a sospettare che è in atto un’inversione dei poli magnetici terrestri che ha alterato il campo geomagnetico. Secondo la sua teoria, una forza sconosciuta ha innescato un’inversione dei poli, indebolendo temporaneamente la magnetosfera. Di conseguenza, quella che sta cadendo sulle loro teste non è semplice neve ma “frammenti della fascia di Van Allen in tempo reale”.

L’estrema qualità visiva e di scrittura conferma anche per questa serie il balzo in avanti di Netflix che ha realizzato ultimamente produzioni assai originali e fuori dai canoni abituali, come, in campo western, la bellissima American Primeval, o in quello noir, l’altrettanto sorprendente Ripley, tratta dal primo romanzo di Patricia Highsmith dedicato all’amorale Tom Ripley. Come quelle citate, anche L’Eternauta si discosta con vigore dagli stilemi correnti e corrivi: chi l’ha criticata, chi ha parlato di flop, di mancanza di ritmo, di occasione mancata, di noia, semplicemente è del tutto assuefatto a tali stilemi e non riesce ad apprezzare niente di quanto sfugga a temi, personaggi, situazioni e ritmi banalmente convenzionali. In realtà queste incomprensioni ci sembrano, se non analoghe, certo non del tutto dissimili da quelle che colpirono direttamente Oesterheld e la sua riscrittura del 1969 di El Eternauta, pubblicata sul settimanale argentino Gente y la Actualidad (e in seguito tradotta su varie pubblicazioni a fumetti come Linus, El Globo, alteralter, Il Mago, Charlie Mensuel, Métal Hurlant) e disegnata non più da Solano López, ma dall’assai più estremo e sperimentale Alberto Breccia. Qui lo sceneggiatore – divenuto nel frattempo responsabile della comunicazione dei Montoneros, e la cui funzione di autore partigiano si rese evidente anche nelle altre opere realizzate in quegli anni, come La guerra degli Antares, una serie simile all’Eternauta ambientata in un’Argentina alternativa ricca e prosperosa in cui il peronismo non è mai finito, ed Evita, vida y obra de Eva Perón, una biografia a fumetti dedicata a Evita Peròn – accrebbe i riferimenti politici, fece un’aperta critica al regime dittatoriale a cui il peronismo di destra dell’ultimo Peròn e dei governi retti dopo la sua morte dalla moglie Isabelita, stava aprendo la strada nel paese e denunciò in metafora l’imperialismo statunitense – il dettaglio simbolico degli invasori che collocano la loro base operativa nella Plaza del Congreso di Buenos Aires, per esempio – enfatizzando l’idea che la salvezza dei cittadini sia un’impresa collettiva.

Nonostante il risultato di sorprendente qualità grafica e narrativa, la nuova versione di El Eternauta non piacque. I lettori inviarono lettere alla redazione della rivista per protestare contro i cambiamenti nel personaggio e il contenuto rivoluzionario della storia, motivo per cui la direzione di Gente decise di sospendere la serie. Una decisione che costrinse Oesterheld e Breccia a sintetizzare la storia e a inserire ampi chiarimenti scritti, con l’obiettivo di dare al fumetto un finale coerente. Nonostante questa brutta esperienza, Oesterheld volle far rivivere il personaggio dopo il colpo di Stato del 1976 per aumentare ulteriormente il suo impegno politico. Il progetto, intitolato El Eternauta II, proseguiva la storia della lotta di Juan Salvo contro gli invasori ed era di nuovo illustrato dal primo disegnatore della serie, Solano López, al quale Oesterheld riuscì a inviare le sceneggiature che stava scrivendo in clandestinità. Anche qui la trama è sempre più orientata alla critica politica, con Oesterheld stesso che diventa un personaggio narrante nella storia e che, in un sorprendente rispecchiarsi di narrazione e realtà, continuò a scrivere i capitoli successivi fino alla sua scomparsa a seguito del rapimento e conseguente assassinio nell’aprile del 1977. La saga è continuata dopo la morte di Oesterheld, proseguita da altri autori come Alberto Ongaro e Pablo Maiztegui e sempre disegnata da Solano López ma senza serbare del tutto il mordente dei primi cicli. Chi storce il naso quindi di fronte alle inevitabili modifiche della versione filmata rispetto al fumetto originario si comporta un po’, magari non tanto per preclusioni politiche quanto prevalentemente estetiche, come i lettori conservatori di Gente che vollero l’interruzione del rinnovato Eternauta in versione engagé e pop.

Anche l’adattamento televisivo persegue affini obbiettivi di rinnovamento stilistico e tematico nel pieno rispetto dello spirito originario della narrazione. La recitazione composta, i volti segnati dagli anni dei personaggi, il ritmo lento e la fotografia gelida, conferiscono un’intensità immersiva e potente alla visualizzazione dell’incubo immaginato da Oesterheld, molto angosciante e tutt’altro che noiosa. Un incubo che inizia e si protrae nella prima parte delle sei puntate della prima stagione (una seconda è già stata annunciata, alla faccia dei criticoni) come mortale catastrofe climatica, che svolta a metà serie in invasione extraterrestre con l’apparizione improvvisa dei Cascarudos, gli insettoni micidiali e di misteriosi oggetti luminosi nel cielo, e nel finale prelude alle successive sorprese del fumetto: gli Uomini-Robot (umani sotto controllo mentale alieno) che già si sono manifestati; dei Kol invece, l’altra razza aliena schiavizzata dagli invasori, abbiamo visto per ora – proprio nell’ultima puntata – solo la mostruosa mano brulicante di dita; per la seconda stagione aspettiamo ancora i Gurbos, ciclopici e invulnerabili pachidermi, e infine Ellos, Loro, i manipolatori ultimi, gli inavvicinabili e invincibili padroni. Senza volto come le lobbies supreme del capitalismo multinazionale.

 

 

 

 

 

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Proletariato intellettuale e lavoro manuale nella fabbrica dei sogni https://www.carmillaonline.com/2025/06/05/le-basi-materiali-della-macchina-dei-sogni/ Thu, 05 Jun 2025 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88445 di Sandro Moiso

David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro

In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena [...]]]> di Sandro Moiso

David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro

In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena tradotto da Giuliana Lupi per le edizioni minimum fax.

David Mamet, nato a Chicago il 30 novembre del 1947, con ironia e perspicacia, fornisce risposte dirette, illuminanti e spesso sconcertanti a tali domande, rivelando allo stesso tempo le disfunzioni e i processi reali dell’industria cinematografica, la più grande e redditizia «macchina dei sogni» del pianeta. Mamet, di cui minimum fax ha già pubblicato in precedenza Note in margine di una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro (2012) e I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema (2023), può farlo perché ha ricoperto praticamente tutti i ruoli più importanti che ruotano intorno alla “settima arte”: sceneggiatore, regista, attore, produttore, dedicando tutta la sua vita al cinema e alla scrittura.

E’ stato infatti lo sceneggiatore di film celebri come Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson (1981), Il verdetto di Sidney Lumet (1982), Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) e Hannibal di Ridley Scott (2001), solo per citarne alcuni, ma complessivamente ha al suo attivo 28 film (di 9 dei quali è stato anche regista), 34 opere teatrali, 3 fiction per la televisione, 21 saggi, 2 raccolte di poesie, 5 libri per bambini, 11 canzoni. Mentre il suo primo importante riconoscimento era arrivato con l’opera tetrale Glengarry Glen Ross, una feroce rappresentazione del mondo degli affari americano, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1984 e dalla quale avrebbe poi tratto la sceneggiatura per il film Americani, con Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin e Kevin Spacey nel 1992.

Tutto questo, però, non è stato qui ricordato soltanto per sottolineare il medagliere dell’autore e l’importanza della sua personalità per il mondo del cinema statunitense, ma piuttosto per sottolineare come i suoi saggi sul mondo del cinema e della scrittura cinematografica affondino le loro radici in una vasta e pluridecennale esperienza e una profonda conoscenza dello stesso ambiente culturale, economico e sociale che lo circonda e permea.

In tempi di dazi trumpiani che mettono in risalto come i prodotti del cinema non siano in fondo che merci e prodotti destinati al consumo di massa e in un paese, l’Italia, in cui si parla, troppo spesso e senza riguardo per la realtà, di “cinema d’autore”, Mamet si rivela utilissimo, lui che certamente “autore” è stato sia come sceneggiatore che come regista, per comprendere i meccanismi di quella che, in fin dei conti, non è altro che la più importante industria dell’immaginario collettivo, cosa già compresa all’inizio del XX secolo da rivoluzionari come Lenin e Trockij1.

Ma, probabilmente, non ancora qui da noi: in un ambiente socioculturale in cui non solo le tv, pubbliche e private, ma anche le sale cinematografiche snobbano quasi sempre i titoli di coda dei film tagliandoli o eliminandoli del tutto, quasi che il film fosse una sorta di magico prodotto del pensiero dei registi e degli sceneggiatori più celebri oppure, ancor peggio, della fisicità degli attori e delle attrici. Contribuendo così a coltivare nel pubblico il mito borghese e fetente dell’individuo e della sua “creatività”, avulso comunque dai processi della produzione sociale e della collaborazione collettiva. Continuando a separare il lavoro intellettuale da quello manuale, per mera convenienza ideologica di classe, mentre il prodotto di qualsiasi attività umana non deriva che dalla sintesi concretizzante tra i due2.

Non è un caso quindi che il saggio di Mamet inizi proprio da lì, dall’ambiente cinematografico come “fabbrica” in cui il contributo di tutti (operai, costumisti, scenografi, fotografi, attrezzisti, fonici, elettricisti, falegnami, tecnici degli effetti speciali, facchini, montatori, segretarie e segretari di produzione e tanti altri ancora) è fondamentale per la riuscita dell’impresa. Proprio per evitare quell’ignominia del ricordare i marchi delle auto o delle merci senza ricordare la manodopera che ha contribuito a realizzarle oppure le grandi battaglie parlando soltanto dei generali e dei “condottieri” senza ricordare i soldati che le hanno combattute sul campo e le loro sofferenze.

Certo, per gli amanti del “cinema d’autore” così come per i filosofi del demiurgo borghese, è utile alimentarne il culto rimuovendo il sudore, le fatiche, i sacrifici e i contributi, spesso altrettanto creativi, delle maestranza sui suoi luoghi di produzione come Hollywood o Cinecittà, ma non lo è per Mamet che, invece, vuole proprio sottolineare sia il contributo degli “altri” che le pecche dello star system e dei suoi “eroi” e delle sue “eroine”.

Lo diceva Billy Wilder: sai di aver finito di dirigere quando non ti reggono più le gambe […] Ma si affronta il giorno o la notte con un senso di responsabilità verso i propri collaboratori e con il terrore di deluderli. Perché la gente che lavora a un film si spacca il culo.
L’attore protagonista può protestare, e spesso lo fa. Viene coccolato. Giustificato e incoraggiato (con tanto di compenso in denaro) a coltivare la mancanza di controllo dei suoi impulsi. Quando la star fa una scenata […] la troupe rimane impassibile e il regista, io, osserva quello straordinario autocontrollo e pensa: «Ti ringrazio, Signore, di questa lezione».
Il regista, gli attori, il produttore e lo sceneggiatore sono sopra la riga, tutti gli altri sotto.
Esiste un sistema a due livelli nel cinema, proprio come nell’esercito. Chi sta sopra la riga si presume contribuisca al finanziamento o ai potenziali proventi del film molto più delle «maestranze» – cioè i tecnici – che lavorano sul set, in ufficio o nei laboratori.
[…] Parlavo di cattivi comportamenti, qualche film fa, con l’attrezzista capo. Lui mi raccontò di aver lavorato con una star maleducata che, per rallegrare l’atmosfera o in un eccesso di buonumore, si era messa a ballare con gli anfibi sul tetto di una Mercedes nuova di zecca. «Fece quasi diecimila dollari di danni», mi disse, «e ci rimasi davvero male, perché avevo rinunciato al mio giorno libero per cercare un attrezzo di scena: neanche ero pagato».
In alcuni divi non c’è solo belligeranza, ma anche la tendenza a litigare. Ne ho visto uno misurare con un metro a nastro la propria roulotte perché sospettava che non fosse perfettamente uguale (come da contratto) a quella del suo coprotagonista.
E intanto l’attrezzista rinuncia al suo giorno libero per garantire che, lunedì, il portafoglio, il coltello, la valigetta o l’orologio siano perfetti.
Questo, secondo la mia esperienza, non è un esempio isolato, bensì la norma nel mondo del cinema. Mentre la star esce in ritardo dalla sua roulotte, mentre il produttore sbraita al cellulare gridando oscenità all’assistente che, con ogni probabilità, ha fatto un errore nel prenotargli il ristorante, la gente sul set dà il massimo per realizzare un film perfetto. Non credo di esagerare.
[…] Alcuni uomini d’affari ritengono di poter realizzare un film pefetto (vale a dire con un buon ritorno economico) in generale, facendo a meno del rispetto, dell’abilità o dell’umiltà necessari, e ispirati e sostenuti soltanto dall’amore per il denaro.
[…] Mi torna in mente il vecchi adagio: in migliaia hanno lavorato negli anni per erigere le cattedrali, e nessuno ha messo il proprio nome su una sola di quelle costruzioni.
Noi, ovviamente, apprezziamo il film per il lavoro degli identificabili, gli attori, ma non potremmo goderne se non fosse per il lavoro degli anonimi, la troupe.
[…] Mentre riflettevo su questo, pensando alla star, pagata venti milioni di dollari che rovina il tetto di un’auto, e all’attrezzista, pagato ventimila dollari, che rinuncia al suo giorno libero per la riuscita dell’opera, credo di aver iniziato davvero a capire la teoria marxista del plusvalore. Domanda: di chi è il film? Passate una giornata sul set e lo saprete3.

Il saggio di Mamet parla di molto altro ancora e può funzionare come autentico viatico per chiunque voglia avvicinarsi al cinema anche da un punto di vista professionale, occupandosi di produzione, sceneggiatura (e di come presentarla) oppure di come siano state realizzate le migliori scene di film di azione o di guerra e perché, ma è l’attenzione rivolta al lavoro “anonimo” oppure al tentativo di Ronald Reagan di distruggere il movimento sindacale americano per abbassare i costi del lavoro, compreso quello delle troupe cinematografiche, per impedire il trasferimento delle attività produttive all’estero e a minor costo, che fa di questo saggio un testo da cui davvero non si può prescindere per comprendere, con i piedi saldamente piantati in terra, quali siano le basi materiali della “creazione” dell’immaginario contemporaneo.

In cui, però, come ricorda proprio in apertura l’autore, la standardizzazione della produzione industriale di stampo ancora fordista, spinge a ridurre sia la qualità del prodotto che quella delle attività di quel proletariato intellettuale di cui lo sciopero lungo degli sceneggiatori hollywoodiani ha rappresentato la più concreta e visibile manifestazione dello scontento.

Tutti i fiumi sfociano nel mare. Eppure il mare non si riempie. Il cinema, nato come l’ultima trovata commerciale in fatto di divertimento popolare, sembra essere tornato al punto di partenza. I giorni della sceneggiatura volgono al termine. Al suo posto troviamo una premessa alla quale appiccicare le varie gag. Questi eventi, che una volta non erano che ornamenti della storia vera e propria, sono ormai quasi l’unica ragione d’essere del film. Nei thriller gli eventi sono le scene d’azione e le esplosioni; nei film dell’orrore gli squartamenti; nei film polizieschi e di guerra le sparatorie e i bombardamenti. Il cinema basato soltanto sui “punti culminanti” è figlio del cinema porno.
[…] Oggi le case di produzione puntano tutto sui franchise movie, vale a dire sul richiamo di un pubblico che si è già creato autonomamente. Ed è sempre più difficile collocare sul mercato film non quantificabili, man mano che il modello del franchising prosegue la sua avanzata verso il controllo totale dei budget della casa di produzione e , quindi, del mercato. Tutte le attività industriali migrano infatti verso il monopolio, e la ridotta concorrenza provoca inevitabilmente un calo di qualità4.


  1. Si veda L. Trockij, Vodka, chiesa e cinema, «Pravda», 12 luglio 2023, ora in L. Trockij, Opere scelte, vol. 13, Cultura e socialismo, Roma 2004, pp. 87-90.  

  2. In proposito si veda il sempre attuale A. S. Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli editore, Milano 1977.  

  3. D. Mamet, Il duro lavoro in D. Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 15-20.  

  4. D. Mamet, op. cit., pp.9-10.  

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Il cinema di Massimo Troisi https://www.carmillaonline.com/2025/05/26/il-cinema-di-massimo-troisi/ Mon, 26 May 2025 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88150 di Gioacchino Toni

Roberto Lasagna, Massimo Troisi. Quando c’è amore…, Prefazione di Giorgio Simonelli, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 142, edizione cartacea € 14,00, edizione digitale € 9,99

L’arrivo sulla scena del fenomeno Troisi deve essere inserito all’interno del particolare contesto napoletano a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta segnato da un’intensa vivacità culturale, musicale e teatrale che ha i suoi più illustri protagonisti in Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, James Senese, Roberto De Simone, La Nuova Compagnia di Canto Popolare insieme a tante esperienze teatrali di avanguardia che hanno attraversato la scena partenopea.

Sono anni in cui un’intera città respira [...]]]> di Gioacchino Toni

Roberto Lasagna, Massimo Troisi. Quando c’è amore…, Prefazione di Giorgio Simonelli, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 142, edizione cartacea € 14,00, edizione digitale € 9,99

L’arrivo sulla scena del fenomeno Troisi deve essere inserito all’interno del particolare contesto napoletano a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta segnato da un’intensa vivacità culturale, musicale e teatrale che ha i suoi più illustri protagonisti in Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, James Senese, Roberto De Simone, La Nuova Compagnia di Canto Popolare insieme a tante esperienze teatrali di avanguardia che hanno attraversato la scena partenopea.

Sono anni in cui un’intera città respira l’idea di rivalsa nei confronti del Nord e della Capitale, a cui finirà per dare manforte anche il Napoli di Maradona, anni in cui l’universo partenopeo è alle prese con un’intensa, per quanto breve, illusione di riscatto destinata a spegnersi insieme alla spinta propulsiva degli investimenti pubblici che, con tutte le loro contraddizioni, avevano saputo portare un po’ di ossigeno ad un mondo desideroso di dire la sua anche fuori da quel Mezzogiorno italiano in cui la città sembrava condannata ad essere relegata.

In Massimo Troisi. Quando c’è amore… (Mimesis, 2025) Roberto Lasagana, avvalendosi di una serie di conversazioni con alcune figure che hanno collaborato con Troisi – Enzo Decaro, Pino Donaggio, Anna Pavignano e Roberto Perpignani –, analizza la produzione cinematografica dell’autore-attore partenopeo indagandone le vicende produttive, le dinamiche narrative, la costruzione dei personaggi, la messa in scena, la recitazione e l’impatto sul pubblico.

Nel corso del libro, Lasagna si confronta criticamente sia con l’ardito accostamento che, nel corso del documentario Laggiù qualcuno mi ama (2023), Mario Martone fa della produzione, delle scelte stilistiche e narrative cinematografiche di Troisi alla Nouvelle Vague francese, che con le perplessità espresse da una parte della critica, soprattutto all’uscita dei primi film, sul ricorso del partenopeo a modalità considerate eccessivamente leggere ed ironiche per affrontate tematiche sociali come quelle relative all’emigrazione.

Di certo, secondo Lasagna, il cinema di Troisi manifesta caratteristiche autoriali destinate ad essere sempre più approfondite di opera in opera ricorrendo ad una espressività caratterizzata da un indissolubile intreccio tra mimica e linguaggio che dietro ad un’apparente leggerezza si rivela capace di trasmettere in maniera poetica emozioni e riflessioni profonde imperniate sulla difficoltà di comunicare sentimenti in un intrecciarsi di incomprensioni, inquietudini, imbarazzi, malinconie, disincanti ed ironie che difficilmente il cinema italiano aveva saputo esprimerne, se non in un lontano passato.

Per quanto all’uscita di Ricomincio da tre (1981) il cinema di Troisi sia stato inserito all’interno di un generale processo di rinnovamento della commedia italiana che ha coinvolto autori come Carlo Verdone e Nanni Moretti, la proposta dell’autore-attore partenopeo presenta caratteristiche sue peculiari destinate a contraddistinguere l’intera sua produzione.

In particolare, sottolinea Lasagna, il cinema di Troisi rivela uno sguardo attento sulla realtà indagata in alcuni suoi frammenti quotidiani a partire da una lettura introspettiva venata di ironia capace di intercettare pur nelle specificità partenopee l’intero pubblico italiano che aveva imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo grazie ad alcune spassose performance televisive, insieme a Enzo Decaro e Lello Arena, nel trio La Smorfia in una serie di spiazzanti sketch, persino dissacratori in alcuni casi, indugianti su problematiche sociali solitamente assenti dalla comicità italiana precedente e, comunque, affrontate con taglio diverso rispetto ad altri autori del periodo.

Nella sua produzione cinematografica, Troisi mantiene l’idioma napoletano e la mimica con cui il pubblico italiano lo aveva conosciuto nelle apparizioni televisive. Con il suo film di esordio, Troisi propone una commedia che guarda con inedita e spiazzante franchezza alla fragilità esistenziale di un giovane campano costretto a guardare avanti con amarezza ed insoddisfazione dopo la tragedia del grande terremoto irpino e che decide di spostasi senza progettualità in un’altra città, semplicemente desideroso di cambiare aria almeno per qualche tempo. Più volte il protagonista del film, Gaetano, si trova a rifiutare l’etichetta dell’emigrante che, in quanto napoletano, gli viene costantemente appiccicata, come a voler ribadire «il bisogno di una generazione di trovare un ascolto nuovo, che contempli i vissuti più intimi, le dimensioni relazionali, i problemi psicologici» (p. 30).

Se pochi anni prima Nanni Moretti aveva messo inscena lo scombussolamento di una generazione che aveva perso i punti di riferimento politici e ideologici, Troisi con «Ricomincio da tre segue un tragitto con i tempi dell’attore comico portatore di un desiderio di fuga dalla realtà di casa; in esso, l’essenzialità drammaturgica, il rigore e i toni disadorni della messa in scena, appoggiano una vena malinconica e proletaria, dove la comicità dell’attore trova guizzi nel testo dai risvolti surreali». (p. 30).

Troisi ama, con il cinema, la possibilità di scardinare con l’autoironia e con un linguaggio sempre più padroneggiato le convenzioni, lavorando sull’affinamento dei gesti, dei dialoghi, della parola, disegnando personaggi che rivelano nel rapporto con il contesto il bisogno di sottrarsi agli stereotipi e ai condizionamenti familiari (Ricomincio da tre, 1981), ma dando finalmente una visibilità e un’attenzione sentita alla figura dell’insicuro, dell’indeciso, quando non addirittura dell’inetto principalmente nel campo delle relazioni affettive (Scusate il ritardo, 1983) (p. 17).

Nella sua veste di sceneggiatore, interprete e regista, Troisi dribbla dunque i cliché mettendoli alla berlina per affrontare il disagio esistenziale e sociale di un giovane napoletano, Gaetano, e con esso di una generazione, ricorrendo al registro della commedia venata di note romantiche e malinconiche.

La proposta di Troisi è di raccontare, con l’indolenza scossa del suo personaggio memorabile, la condizione esistenziale fluida e l’incertezza dei tempi attuali, la complessità del rapporto tra i sessi, muovendosi in una polemica delicata fatta di ironia e sentimenti ovverosia librandosi su aspetti intimi, coltivando il garbo e la passione intellettuale per il Sud e tuttavia allontanando lo sguardo dalle linee accreditate che vogliono la rappresentazione cinematografica del Meridione in linea con i toni folcloristici o con le conformità ai cliché gangsteristici-mafiosi. Troisi non soltanto racconta il contesto da cui Gaetano prende le mosse ma lo analizza e denuncia il bisogno di evasione ironizzando sul luogo comune dell’emigrante che si rivela uno schema/pregiudizio persistente gettato addosso al giovane in cerca di nuovi orizzonti in cui ritrovarsi (p. 31).

Dopo il cortometraggio televisivo Morto Troisi, viva Troisi! (1982), un finto reportage sulla propria morte, con Scusate il ritardo (1983) Troisi ribadisce la scelta autoriale di mantenere sostanzialmente il medesimo personaggio, che ormai tende a coincidere con sé stesso, al centro delle vicende, mettendolo a nudo e allargando le tematiche trattate alla morte, con cui inizia il film, la malattia, la perdita e la complessità dei rapporti tra gli individui derivata tanto dalle fragilità dei soggetti che dall’universo entro cui questi si trovano a vivere.

Stavolta il protagonista, Vincenzo, non abbandona Napoli ma nuovamente siamo in presenza del difficile rapporto tra un uomo e una donna diversamente fragili. Anche in questo film l’attore-regista si rivela abile nel trattare questioni complesse inserendo momenti di fine ironia e di alta comicità. Indimenticabile l’imbarazzata e seria conversazione sul letto con la partner in cui Vincenzo non riesce a staccare l’orecchio dalla radiolina che annuncia il Cesena in vantaggio sul Napoli.

Non ci resta che piangere (1984) vede Troisi e Benigni nelle vesti di registi ed attori di un film in costume, alla cui sceneggiatura collabora Giuseppe Bertolucci: una sorta di divagazione che il Nostro si concede rispetto al suo personale percorso autoriale. Nella pellicola, che ottiene un enorme successo ai botteghini, la complicità dei due mattatori funziona alla perfezione in un succedersi di situazioni comiche surreali in cui i due restano in perfetto equilibrio senza che uno si sacrifichi al ruolo di spalla all’altro.

All’apice della notorietà, dopo aver recitato in Hotel Colonial (1987) di Cinzia TH Torrini, Troisi torna alla regia con il film Le vie del Signore sono finite (1987), alla cui sceneggiatura lavora insieme ad Anna Pavignano, con una colonna sonora scritta e interpretata dall’amico Pino Daniele. Ambientata in epoca fascista e attraversata da momenti in sagace critica ed ironia nei confronti del regime, l’opera è incentrata attorno a un protagonista, Camillo, da lui stesso impersonato, incapace di relazionarsi senza ricorrere a menzogne.

Con una leggerezza che non suona mai come superficialità, Le vie del Signore sono finite espone alla derisione l’Italia fascista innescando con l’ironia dell’autore – questa volta accompagnata scopertamente da sfumature malinconiche – la sua critica a un contesto drammatico come quello del paese sotto la dittatura. Un paese che avrebbe bisogno seriamente di una iniezione di umanità, di una cura per le menti, mentre lo sguardo irriverente dell’autore si dedica nel film all’amicizia e alla sofferenza per amore, temi umanissimi che sopravvivono nello sguardo pieno di delicatezza di un film in cui Troisi si confronta con la Storia del ventennio fascista e riesce a divertire parlando di un personaggio che a un certo punto verrà ritenuto un miracolato quando recupererà l’uso delle gambe (p. 69).

L’ultima prova che vede Troisi alla regia è Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991) e nuovamente lavora al soggetto e alla sceneggiatura insieme ad Anna Pavignano affidando le musiche a Piano Daniele. Stavolta l’ambientazione è meno popolare rispetto ai precedenti film, ma ancora una volta l’autore-attore-regista guarda alle difficoltà dei rapporti di coppia a ridosso del matrimonio programmato. Tommaso, interpretato dallo stesso Troisi, è, ancora una volta, un uomo profondamente insicuro, per quanto più maturo rispetto ai protagonisti dei film precedenti, così come insicura è la promessa moglie che, però, a fronte dell’immobilismo e del fatalismo dell’uomo, riesce, tra mille sofferenze, a prendere una decisione forte che impatterà sulla vita di entrambi.

Le scosse e le sorprese attraversano questa commedia melancomica in cui Troisi mette in campo le riflessioni sulla coppia con la spiccata attitudine a declinare i tormenti sentimentali in passaggi di comicità che non solo esprimono il retrogusto amaro della maschera comica ma disinnescano ogni posa. […] Con il linguaggio e con le reazioni del cuore di Tommaso è tutto un mondo che si pretende immobile a scoprire che attorno le cose cambiano, che anche quando non si vuol ferire o colpire non è possibile rimanere estranei, che il petto si gonfia e il batticuore sale e che persino la fine di un amore richiede comprensione e rispetto dell’altro (p. 90).

Sentitosi raccontare della promessa sposa colta in atteggiamenti amorosi con un altro, Tommaso afferma: “Perché siete tutti così sinceri con me?! Cosa vi ho fatto di male io?! Chi vi ha chiesto niente? Queste non sono cose che si dicono in faccia. Queste sono cose che vanno dette alle spalle dell’interessato. Sono sempre state dette alle spalle”. Per certi versi in questa affermazione è possibile cogliere una delle caratteristiche principali della poetica di Troisi. In questo film, come nei precedenti, l’autore sembra obbligare i suoi protagonisti a fare i conti con uno sguardo sincero: li scopre, li denuda, li mette di fronte ad uno specchio che, per quanto possa rivelarsi impietoso, resta pur sempre amorevole e solidale nei loro confronti, perché l’ironia e la comicità di Troisi non giungono mai al dileggio e alla cattiveria.

Troisi non manca di raccontare con leggerezza e ironia un personaggio le cui perplessità e insicurezze sono inquietudini avvinghiate alla vita che si traducono in ansie e in un atteggiamento generale verso l’esistenza e la quotidianità con (e senza) gli altri. La sua mimica e la sua gestualità coniugano le reminiscenze eduardiane del suo dialogare afasico in un gustoso compendio sui dubbi amorosi che manifesta tutta l’autenticità e il proposito dell’artista di maturare come uomo di cinema. Le sequenze sono impaginate come quadri di umanità privi di coloritura effettistica e armonizzate dalla musicalità interna di un racconto che segue l’irrompere nella vita ordinaria del sentimento amoroso quasi fosse non esattamente una malia ma un malanno, un virus contagioso che influenza i comportamenti individuali e sociali. […] Il travaglio sentimentale diventa cinema dell’anima in questo sguardo amorosamente disincantato capace di grande leggerezza nell’accogliere le voci delle persone comuni intente a parlare delle loro vicissitudini sentimentali; diventa intenso pathos nelle svolte, come quella del matrimonio mancato, che la canzone Quando di Pino Daniele accompagna fino al finale in cui Troisi si affida a un nitido movimento della macchina da presa per lasciare la coppia al rispettoso dialogo che sfuma (ed è come se non volesse mai staccare) sui titoli di coda (pp. 93-94).

Nell’interpretazione di Troisi ne Il postino (1994) di Michael Rardford, il cui soggetto è stato liberamente derivato da un romanzo di Antonio Skármeta, si vorrà vedere il testamento di un artista che sembra rivelarsi oltre la finzione. Certo, la sua tragica scomparsa a ridosso dell’ultimo ciak ha contribuito a portare a vedere direttamente l’attore in questo suo ultimo personaggio. Resta pertanto difficile valutare il film prescindendo dal fatto che lavorando ad esso se ne è andato uno degli artisti più importanti che hanno attraversato il cinema italiano gli anni Ottanta.

Troisi, grazie alla sua sensibilità di interprete ironico e intenso, è intenzionato a perlustrare nuove direzioni nel suo percorso artistico e Il postino affronta dimensioni poetiche e universali rese linguisticamente moderne e metaforicamente disvelanti, asseconda le ambizioni di un artista che ha saputo raccontare l’amore ma anche immergersi, grazie alla fisicità straordinaria della sua recitazione e la sincerità delle sue scelte registiche, in prospettive sociali e culturali che il suo cinema ha affrontato privilegiando le (dis) avventure interiori dei personaggi (p. 104).

Il volume di Roberto Lasagna si rivela un’attenta analisi dell’opera cinematografica di Troisi capace di evitare quel processo beatificazione che non di rado si accompagna alle scomparse premature. Non è facile guardare criticamente ai film di Troisi perché incombe su di essi la perdita in giovane età di un autore-attore che, con le forme della commedia disincantata, ironica e malinconica, ma capace anche di smuovere il riso, ha saputo toccare, con i suoi personaggi, corde evidentemente condivise da tanti in un Paese avviato, proprio in quegli anni Ottanta, a perdersi in un pantano falso quanto patinato. Se con altri autori è più facile mantenersi distaccati nell’analizzarne le opere, con Troisi tutto sembra farsi più complesso. È come se nello scrivere dei suoi film ci si sentisse un po’ imbarazzati e reticenti come i suoi personaggi. E come loro si è mossi dal desiderio di poter semplicemente dire che si amano certe cose, senza doverne dare spiegazione.

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L’Iran dall’interno. Il seme del fico sacro https://www.carmillaonline.com/2025/05/24/liran-dallinterno-il-seme-del-fico-sacro/ Sat, 24 May 2025 05:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88331 di Roberta Cospito

Premiato alla scorsa edizione del Festival di Cannes con il Premio Speciale della Giuria, Il seme del fico sacro è l’ultimo film del regista iraniano Mohammad Rasoulof. Nel 2020 il suo film Il male non esiste, dedicato alla pena di morte, aveva vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. lI seme del fico sacro è stato girato senza il benestare del governo iraniano, condizione che ha costretto il regista, già arrestato nell’estate del 2022 e poi detenuto nel carcere di Evin, divenuto noto ai più dopo la vicenda di Cecilia Sala, a ripiegare spesso in ambienti interni protetti e in pochi [...]]]> di Roberta Cospito

Premiato alla scorsa edizione del Festival di Cannes con il Premio Speciale della Giuria, Il seme del fico sacro è l’ultimo film del regista iraniano Mohammad Rasoulof. Nel 2020 il suo film Il male non esiste, dedicato alla pena di morte, aveva vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. lI seme del fico sacro è stato girato senza il benestare del governo iraniano, condizione che ha costretto il regista, già arrestato nell’estate del 2022 e poi detenuto nel carcere di Evin, divenuto noto ai più dopo la vicenda di Cecilia Sala, a ripiegare spesso in ambienti interni protetti e in pochi esterni lontani dai controlli del regime. Oggi, a eccezione di Soheila Golestani che interpreta la moglie del giudice protagonista, tutti gli attori e la troupe non si trovano più in Iran, dove è in atto un processo in corso nei confronti di tutti coloro che hanno preso parte al film, accusati di propaganda contro il regime, attentati contro la sicurezza pubblica, diffusione della prostituzione e corruzione sulla Terra.

Il seme del fico sacro è un coraggioso racconto che, descrivendo i dissidi all’interno di una famiglia, narra della vita quotidiana nello stato teocratico iraniano. Iman, il pater familias, ha da poco ottenuto l’ambita promozione a giudice presso il Tribunale della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, proprio mentre un’ondata di proteste contrarie al regime dilaga per tutta la nazione. Quando il giudice si rende conto che la sua pistola d’ordinanza, simbolo del potere violento, è misteriosamente scomparsa dal cassetto del comodino della sua camera da letto, sospetta sia della moglie sia delle due figlie. L’episodio è centrale, ma privo d’importanza per lo spettatore, è il classico “espediente MacGuffin”, un pretesto che funge da propulsore dell’intera vicenda. Le due giovani, con in mano i loro telefoni cellulari, che diffondono senza filtri le immagini della protesta e la violenta repressione della polizia, vivono una realtà molto diversa rispetto a quella della madre che subisce l’informazione televisiva di Stato, ma soprattutto diversa da quella del padre che, contrariamente alla donna che prova ad avere un dialogo con le figlie, non dimostra nessun segno di apertura e comprensione. L’uomo, unico portatore di reddito all’interno della famiglia è nella posizione di stabilire le regole di comportamento delle figlie, condizionando il comportamento di sua moglie che cerca, con una tenacia che man mano va attenuandosi, di mantenere unita la famiglia. Il suo compito si rivela, però, impossibile poiché l’uomo, spaventato dal rischio di rovinare la sua reputazione e di perdere il lavoro, diventa sempre più paranoico e inizia, in casa propria, un’indagine in cui viene oltrepassato ogni limite. Il giudice, infatti, diverrà sempre più violento finendo con l’applicare alle figlie e alla moglie le pratiche riservate ai dissidenti politici.

La maschera del padre e marito premuroso cede velocemente il posto all’inquisitore, non appena la famiglia mette in discussione il credo e l’operato di Iman che, altrettanto rapidamente, è riuscito a tacitare la parte onesta della sua coscienza per condannare a morte quanti vengono considerati nemici del sistema senza neppure una verifica delle prove a loro carico. Il film si concentra sulla famiglia, ma non si tratta di un semplice scontro generazionale. Mai come in questo caso il personale è politico, anzi il privato è politico e i normali rapporti familiari e sociali vengono sostituiti con metodi di coercizione e di controllo violenti, divenendo così il perfetto doppio dello Stato teocratico, dove la religione si è trasformata da fede in ideologia politica e, infine, in repressione violenta.

La pellicola mostra come la società eserciti forti pressioni sulla famiglia del giudice – da quelle subite dall’uomo sul posto di lavoro, alle urla di protesta della folla in rivolta che entrano in casa dalle finestre che affacciano sulla strada – e racconta quanto sia fondamentale l’opposizione a questo stato di cose, con particolare attenzione alla forza delle protagoniste femminili il cui simbolo è diventato ormai Mahsa Amini, la ragazza assassinata in Iran nel 2022 dalle forze dell’ordine morale islamico, perché non indossava correttamente il velo.

Sono le giovani il motore della rivolta in famiglia, non solo perché hanno a disposizione i video girati con i telefoni, ma soprattutto per la scelta di non ignorare quanto accade. Quando la repressione colpisce un’amica delle ragazze, il cui volto tumefatto riempie lo schermo, le due sorelle decidono di accoglierla in casa e prendersene cura, coinvolgendo la madre nell’opera di soccorso. E da quel momento che la donna non riesce più a ignorare la realtà.

Nel film è evidente lo scarto tra le immagini della propaganda ufficiale del regime trasmesse e diffuse dalla televisione, e quelle riprese coi cellulari dai partecipanti alle manifestazioni di protesta, diffuse grazie ai social. Alcune di queste sequenze sono state utilizzate per il film e si riconoscono sia dal formato verticale dell’inquadratura sia dalle scene particolarmente violente e caotiche che culminano con un uomo in divisa che spara verso la telecamera di un telefonino.

Il seme del fico sacro che parrebbe essere un titolo avulso dalla storia, nasce da un’esperienza del regista che, conosciuto l’albero in una delle isole meridionali dell’Iran, prende il fico sacro come simbolo di resistenza. Il ciclo di vita di questa pianta ha colpito l’immaginario di Mohammad Rasoulof: i semi della pianta cadono sui rami di altri alberi attraverso gli escrementi degli uccelli che di questa si cibano, germogliano e crescono penetrando con le radici il fusto della pianta ospite, spaccandola dall’interno.

Le nuove generazioni, i nuovi semi che nascono nel regime degli ayatollah si sostituiranno a esso cancellandolo e rimpiazzandolo, pare volerci dire il regista.

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Glaskupan (2025) – Quando la liminalità nordica genera mostri https://www.carmillaonline.com/2025/05/21/glaskupan-2025-quando-la-liminalita-nordica-genera-mostri/ Wed, 21 May 2025 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88222 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Ideata da Camilla Läckberg, la serie televisiva svedese in sei puntate Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh su una sceneggiatura stesa da Amanda Högberg ed Axel Stjärne, mette in scena il riemergere di un trauma che ha segnato l’infanzia di una giovane donna, Lejla (Léonie Vincent), nel momento in cui questa rimette piede nel paese natale. Rientrata dall’estero nella casa paterna dove è cresciuta per le esequie della madre adottiva, la protagonista si imbatte nel sospetto suicidio di una conoscente e nella contemporanea scomparsa della [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Ideata da Camilla Läckberg, la serie televisiva svedese in sei puntate Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh su una sceneggiatura stesa da Amanda Högberg ed Axel Stjärne, mette in scena il riemergere di un trauma che ha segnato l’infanzia di una giovane donna, Lejla (Léonie Vincent), nel momento in cui questa rimette piede nel paese natale. Rientrata dall’estero nella casa paterna dove è cresciuta per le esequie della madre adottiva, la protagonista si imbatte nel sospetto suicidio di una conoscente e nella contemporanea scomparsa della figlia di quest’ultima che la catapulta nella sua tragica infanzia segnata dall’esperienza di un rapimento e dallo stato di prigionia che l’ha vista rinchiusa all’interno di una struttura trasparente sottoposta allo sguardo del rapitore senza poterlo a sua volta vedere.

Riuscita a fuggire alla reclusione che l’avrebbe probabilmente condotta alla morte – come avvenuto ad altre ragazzine catturate prima di lei –, non appena sufficientemente grande, Lejla aveva lasciato il paese per trasferirsi il più lontano possibile dall’orribile trauma infantile. La mancata individuazione del colpevole del suo rapimento, oltre a contribuire all’incapacità della giovane di elaborare compiutamente il suo trauma, non può che insinuare il dubbio che la nuova scomparsa di una ragazzina in paese sia addebitabile alla stessa persona.

Lejla non può sottrarsi dall’indagare su quanto accaduto in paese sia perché si tratta di conoscenti sia a causa delle analogie con quanto le è accaduto da piccola, episodio oscuro che continua a tormentarla. Per quanto non le sia chiaro se le analogie siano reali o solamente da lei immaginate, risolvere il nuovo caso può rappresentare una resa dei conti definitiva con il proprio trauma infantile. Caso vuole che la figura paterna da cui fa ritorno la protagonista, Valter (Johan Hedenberg), sia una ex poliziotto ormai in pensione che a suo tempo si era occupato del suo caso, mentre ora a capo delle locale stazione di polizia è il fratello di quest’ultimo, Tomas (Johan Rheborg).

Lo spettatore è sapientemente indotto a guardare al paesino ed ai suoi abitanti con gli occhi di Lejla, personaggio definito con precisione nella sua personalità e bene interpretato dall’attrice, sin dal momento del suo arrivo sul posto. Ancor prima dei nuovi tragici eventi in cui si imbatte la giovane, tutto in quel luogo, dalle cose più banali ai personaggi che incontra nuovamente dopo tanto tempo, assumono un’aria ansiogena ed inquietante. Se gli abitanti del paese non possono che guardare a Lejla come alla ragazzina che riuscì a salvarsi dalla tragica esperienza del rapimento, questa, a sua volta, non può fare a meno di percepire qualcosa di allarmante in ognuno di essi.

L’essere stata costretta a sottoporsi allo sguardo morboso del rapitore all’interno della “scatola trasparente” induce la giovane a provare profondo fastidio ogni volta che uno sguardo si posa su di lei, compreso quello della figura paterna. Ad infastidirla non è tanto lo sguardo reciproco con le persone ma la sensazione di essere guardata a sua insaputa.

Come si conviene in una narrazione di tale tipo, i sospettati del nuovo caso si moltiplicano e l’idea che ci sia un collegamento con i fatti accaduti in passato non tarda a prendere piede, così come dalle indagini non possono che emergere le torbide dinamiche di una piccola comunità che, come al solito, sotto l’apparente normalità paesana nasconde ombre e non detti.

Ecco allora che, insieme a chi indaga, lo spettatore viene ad esercitare il suo ruolo voyeuristico che guarda impietosamente alle vite altrui senza accettare di essere a sua volta osservato: Tomas, ad esempio, farà di tutto per celare a tutti la relazione segreta che lo riguarda emersa casualmente dalle indagini. La scatola di vetro a cui è stata costretta Lejla da piccola sembra riecheggiare nelle modalità con cui il paese ed i suoi abitanti sono osservati nella quotidianità durante le indagini.

Il ricorso ad una fotografia dalle tonalità livide e distaccate contribuisce a creare l’effetto di una luminosità televisiva quasi a rimandare a quella scatola di vetro capace di offrire trasparenza a senso unico, di soddisfare il desiderio di potere scopico da esercitare sugli altri, mostrando al tempo stesso come ad emergere sia l’intimità delle persone che fanno da contorno alla malvagità più profonda che, invece, riesce tutto sommato a sottrarsi allo sguardo indagatore.

Quello in cui si svolge l’azione è uno spazio liminale, lontano dal centro. Il paese immaginario di Granås, situato nella regione di Dalarna nella Svezia centrale, presentato dalla serie, fa parte di un’estrema landa dell’universo geografico scandinavo, estremamente distante, ad esempio, da Stoccolma, solamente evocata nel corso della storia come una città per certi aspetti ‘corruttrice’, che attira i giovani dei paesi e li spinge ad abbandonare la propria terra.

Lejla ha fatto ritorno al luogo della sua infanzia giungendovi dagli Stati Uniti, dove si era da tempo trasferita costruendosi una nuova vita come criminologa comportamentista: si può star certi che quegli “Stati Uniti” evocati dalla ragazza coincidono con una grande città, non certo con l’estrema periferia dell’Ovest o del Centro degli States. Tornare al proprio paesino natale equivale a una vera e propria regressione verso gli spettri e i fantasmi dell’infanzia e dell’adolescenza, come aveva magistralmente mostrato Luchino Visconti in Vaghe stelle dell’orsa (1965), in cui la protagonista Sandra (Claudia Cardinale) ritorna dopo molti anni al suo paese natale, Volterra, un territorio di provincia abitato dai fantasmi dell’infanzia e dell’adolescenza.

Ecco che quelle spazialità liminali rappresentate dal film, ben lontane dall’immagine idilliaca di un mondo ovattato immerso in una natura da cartolina, assumono in sé qualcosa di mostruoso: si vedono notturni boschi inquietanti, lande ghiacciate al crepuscolo o all’alba, fattorie isolate in mezzo alla neve, una piccola stazione di polizia ove gli agenti vengono impunemente irrisi da un gruppo di giovinastri xenofobi del luogo, strade che, dopo pochi agglomerati di case, si perdono praticamente in mezzo al nulla. È questo il luogo in cui torna Lejla, è il luogo dove si nascondono i mostri della sua infanzia: il suo rapimento e la sua esposizione nella “cupola di vetro” a cui viene fatto riferimento nel titolo.

Nelle serie televisive crime nordiche, come si è soliti definirle con tutta le approssimazioni delle etichette di genere, frequentemente la liminalità si rivela generatrice di mostri: si pensi, ad esempio, alle islandesi Trapped (Ófærð, dal 2015) o I delitti del Walhalla (Brot, 2019) in cui i crimini più atroci non avvengono nelle città ma in luoghi sperduti e isolati, in cui la stazione di polizia appare essa stessa sommersa dalla barbarie di molti abitanti del luogo. Gli unici che non se ne vanno da questi luoghi o sono onesti e integerrimi poliziotti – ma in Glaskupan neanche tanto – oppure sono rozzi e imbarbariti abitanti, chiusi e xenofobi, personaggi che di quella liminalità sembrano aver assunto il peggio.

Si può ricordare come anche in un episodio della sesta stagione (2023) della serie TV britannica Black Mirror, dal titolo Loch Henry, diretto da Sam Miller, uno spazio nordico lontano dal centro (in questo caso si tratta della campagna scozzese) si configura come un oscuro luogo generatore di mostri. Qui a fare ritorno al proprio paese natale, Loch Henry, è Davis (Samuel Blenkin), un giovane studente di cinema che vi si reca assieme alla fidanzata Pia (Myha’la Herrold), di origini americane. I due arrivano da una grande città come Londra e si spingono nei meandri più liminali della campagna scozzese; nella fattispecie, nel paesino di Loch Henry, negli anni Novanta, si erano consumati degli orrendi delitti dei quali l’unico colpevole era stato individuato in Iain Adair (Tom Crowhurst), un folle psicopatico. Davis e Pia scopriranno che l’orrore, invece, proveniva dalla sfera più intima e insospettabile, cioè dalla stessa casa di Davis: efferati complici di Iain Adair erano infatti il padre, Kenneth (Gregor Firth) – un poliziotto morto in circostanze poco chiare – e la madre di Davis, Janes (Monica Margaret Dolan), che accoglie la coppia. Tra l’altro, oltre a provenire da un universo ovattato e accogliente, l’orrore efferato è provocato da un tutore dell’ordine, l’insospettabile poliziotto padre di Davis.

Come in Glaskupan, l’autore di crudeli delitti è proprio un poliziotto, colui che invece dovrebbe vigilare sull’ordine e sulla tranquillità di quei lontani e liminali paesini. Non si può non ricordare, allora, come anche in La zona morta (The Dead Zone, 1983) di David Cronenberg, l’autore degli efferati crimini che incombono su uno sperduto paesino del Canada sia proprio un insospettabile giovane poliziotto, aiutato dalla complicità dell’altrettanto insospettabile madre, poi scoperto grazie alle capacità sensitive di Johnny Smith (Christopher Walken).

Al posto del mostro fantastico, spettro, creatura o vampiro, in quelle foreste e nei paesini di diverse storie crime nordiche c’è il ‘mostro criminale’, non meno terribile di una ostile creatura fantastica. Non c’è un essere mostruoso generato dal folklore o dal mito ma la quintessenza del crimine che ha le sue stesse radici in un folklore contemporaneo, in una vox populi che, a volte, deriva anche dalla tecnologia mediatica.

Si prenda, ad esempio, un interessante film britannico dove è presente un mostro ‘tradizionale’: Il rituale (The Ritual, 2017) di David Bruckner, in cui un gruppo di amici inglesi che si avventura in una foresta svedese viene assalito da una orrenda creatura dalla connotazione divina, nata dal mito e dal folklore del posto. Come Harker, in Dracula di Bram Stoker, inglese e razionalista, si avventura nella irrazionale Transilvania fino all’incontro col mostro, così gli amici, non a caso inglesi, si allontanano dal loro universo razionale fin nel cuore della irrazionale Svezia, nei suoi luoghi più liminali. Potrebbero benissimo essere i dintorni del paese di Granås messo in scena da Glaskupan. Ma qui non si annida il terribile mostro divino, bensì una serie di crimini che coinvolgono diversi individui a cavallo fra il passato e il presente.

Un’altra presenza mostruosa, strettamente legata al territorio, è proprio il passato: è quest’ultimo ad emergere come un mostro, una terribile creatura incarnata in abusi e crimini svariati ed è più facile che emerga in spazi estremi e periferici piuttosto che nel cuore di una grande città. I tempi di Jack lo Squartatore e del Mostro di Düsseldorf sembrano ormai definitivamente superati; evidentemente il mostruoso contemporaneo che ricompare dal passato non abita più in quelle grandi città che, invece, si mostravano esse stesse infernali a cavallo tra Otto e Novecento. La metropoli contemporanea nel suo volersi smart è forse alle prese con altre mostruosità che non sembrano venire percepite come tali.

Il mostro-crimine emergente dal passato esige poi una sua vittima, preferibilmente una bella fanciulla. Ed è questo il ruolo di Lejla, che non a caso è stata rinchiusa in una teca di vetro, come prima e dopo di lei innumerevoli altre bambine e ragazzine, ed esposta: la radice folklorica di questo mostro-crimine esige un’esposizione al suo cospetto. Nulla di diverso, in sostanza, dall’esposizione della fanciulla al mostro: come acutamente rileva Furio Jesi, «nella cultura tedesca collegata più o meno direttamente al pietismo» si può incontrare «una vera e propria esposizione della donna – madre, sorella, sposa – al mostro – mostro, spettro “vampiro”»1.

Lejla, nel corso della storia, verrà drogata da un perverso criminale e la vedremo muoversi barcollante come una sonnambula nella notte nel bel mezzo di un cupo bosco, come in una truce fiaba. Sempre Jesi ricorda come nel mito germanico la figura della sonnambula appaia sotto le vesti di Kundry, «la cui persona nel Parsifal è periodicamente dominata dalla forza demonica dell’incantatore Klingsor, che la fa cadere in uno stato magicamente ipnotico o sonnambolico e si serve della bellezza di lei per tentare e vincere i paladini della purezza»2.

Al posto dell’incantatore diverse storie crime nordiche mettono il criminale, più o meno folle, che si serve della purezza e della bellezza dell’eroina. Non è un caso che nella serie televisiva Glaskupan, come punto di convergenza del crimine venga evocata proprio la notte di Valpurga, facente parte al massimo grado della cultura folklorica germanica e svedese, la notte in cui, nel Faust di Goethe, assistiamo al grande sabba delle streghe e in cui Harker giunge al castello di Dracula.

Lejla, sonnambula e fanciulla esposta al mostro del crimine, appare totalmente avvolta dalla mostruosità del passato facente parte del suo spazio liminale. Frequentemente quella mostruosità non giunge dall’esterno, dalle foreste notturne o dalle lande ghiacciate, ma dal calore domestico vicino al camino acceso.

Se nelle fiabe e nel folklore il mostro sta al di fuori e aggredisce la delicata intimità del calore domestico, in diverse storie crime nordiche, come in Glaskupan, è già dentro quelle tiepide e silenziose case, che appaiono anche tremendamente gelide, segnate dalla mostruosità del loro sussistere al limite di uno spazio geografico aperto a un passato che emerge come un inquietante spettro.


  1. F. Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, introduzione di David Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 50. 

  2. Id., Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900, a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Milano, 2018, p. 104. 

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Una divinità postumana che canta con l’autotune https://www.carmillaonline.com/2025/04/26/una-divinita-postumana-che-canta-con-lautotune/ Sat, 26 Apr 2025 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88144 di Chiara de Stefano

Opus – Venera la tua stella di Mark Anthony Green, USA 2025.

C’è qualcosa di spettrale e carnale in Opus – Venera la tua stella, primo lungometraggio del giovane regista Mark Anthony Green, approdato nelle sale italiane lo scorso ventisette marzo. Una lunga seduta medianica, in cui l’anima della vecchia stella del pop Alfred Moretti – incarnata con grazia ieratica da John Malkovich – aleggia come un idolo secolare piangente nella cattedrale profana del culto contemporaneo: la fama.

Green ci trascina infatti nei recessi arcani dell’America mistica, tra canyon che paiono scolpiti dalla volontà di un dio [...]]]> di Chiara de Stefano

Opus – Venera la tua stella di Mark Anthony Green, USA 2025.

C’è qualcosa di spettrale e carnale in Opus – Venera la tua stella, primo lungometraggio del giovane regista Mark Anthony Green, approdato nelle sale italiane lo scorso ventisette marzo. Una lunga seduta medianica, in cui l’anima della vecchia stella del pop Alfred Moretti – incarnata con grazia ieratica da John Malkovich – aleggia come un idolo secolare piangente nella cattedrale profana del culto contemporaneo: la fama.

Green ci trascina infatti nei recessi arcani dell’America mistica, tra canyon che paiono scolpiti dalla volontà di un dio edace e silenzi saturi di presagi, per narrare una storia che è insieme thriller, horror e allegoria perturbante.

Una villa-tempio sperduta nel nulla, chiesa e prigione, diventa teatro di un sabba estatico in cui critici, influencer e giornalisti – sibille del mondo patinato dello spettacolo – si radunano per ascoltare in anteprima il nuovo album del profeta-pop star Moretti. Ma è solo Ariel Ecton (Ayo Edebiri), la giovane protagonista redattrice con la t-shirt dei Radiohead, a scorgere sin da subito la dannazione e la perversione dietro la divinità pop: il culto, il rito e, infine, il sacrificio.

Per questi stilemi, Opus richiama altri celebri film come The Wicker Man (Robin Hardy, 1973), The Invitation (Karyn Kusama, 2015), Apostle (Gareth Evans, 2018), Midsommar (Ari Aster, 2019) e Speak No Evil (Christian Tafdrup, 2022). Green però tinge il suo film di un pop acido e nevrastenico, dove la tensione è perfino sensuale e l’estasi sonora diventa completa possessione di tutti i personaggi: sia dei Livellisti, gli adepti vestiti di blu, che degli ospiti in abiti eleganti e monocromatici come le vecchie pedine del Cluedo. La liturgia che ne deriva è una decomposizione rituale dell’identità: il sacrificio non è solo figurato, ma necessario. Ariel è l’offerta pensante, l’elemento deviante, e dunque, come afferma René Girard, il capro espiatorio perfetto, immolato sull’altare di un desiderio collettivo condizionato. Difatti, il meccanismo mimetico – l’imitazione isterica dei desideri altrui – trova qui la sua forma contemporanea: la subcultura sclerotica dei fan, l’idolatria digitale, la massificazione della devozione.

Dal punto di vista tecnico, Opus è una sinfonia elettrica in chiaroscuro: la saturazione cromatica della pellicola accompagna il lento climax degli eventi e la luce negli esterni, dominati da una luce naturale rarefatta, evoca un misticismo desolato.  Gli interni sono invece rappresentati come ossessivi, colmi di claustrofobia chic, ma eremitica. Per questo utilizzo della luce richiama il chiaroscuro del cinema espressionista tedesco, ma lo tinge di paillettes, danze estatiche e cibi fluorescenti.

La scenografia è metafora architettonica del vuoto interiore delle coscienze vuote e impazienti di essere colmate. Le stanze minimaliste e spoglie, svuotate di ogni appiglio alla quotidianità, sospingono i personaggi in un limbo identitario, ma li sospendono nel miraggio del lusso postmoderno.

Il sound design alterna vibrazioni psichedeliche e pulsazioni dance, pezzi orecchiabili che danno un ritmo alla narrazione. I silenzi, usati con sapienza musicale, sono pieni di presagi che rendono il corso degli eventi piuttosto prevedibile. Si intuisce presto il risvolto sacrificale già  nel suono martellante delle canzoni inedite che soffoca i suoni della normalità, per fare spazio a una nuova e inquietante armonia. La sonorità del film appare quindi come un’eco del rito sacrificale, che travalica la dimensione musicale e si fa anche visiva e psicologica.

L’inquietudine che il film lascia dietro di sé è simile a quella dei grandi miti tragici: il sacro non salva più, perché ha perso il suo volto. La stella fissa, eterna e impassibile, è il nuovo idolo: non brilla più per guidare, ma per annientare.

Green dunque non si limita a raccontare la dinamica del sacrificio: egli la trasfigura, la innalza a condizione ontologica. Moretti, profeta e carnefice, è l’immagine della divinità postumana, di un Dio algoritmico che finalmente non è più silente, ma canta con l’autotune.

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Severance – Scissione: nuove forme di schiavismo nel tardo capitalismo https://www.carmillaonline.com/2025/04/22/severance-scissione-nuove-forme-di-schiavismo-nel-tardo-capitalismo/ Tue, 22 Apr 2025 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87682 di Fosca Gallesio

Un’inquadratura plongée dall’alto mostra un grande tavolo su cui giace una donna priva di sensi, da un altoparlante da tavolo una voce maschile chiede “Come si chiama?” La donna riprende coscienza e l’altoparlante le chiede di rispondere a un breve questionario. La donna infastidita cerca inutilmente di uscire dalla porta chiusa, non capisce dove si trova né perché. Poi, quando accetta di rispondere alle domande, è presa da un senso di angoscia: non sa rispondere, non sa il suo nome, non sa dove è nata, né come si chiamano i suoi genitori. Nulla, una tabula rasa.

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di Fosca Gallesio

Un’inquadratura plongée dall’alto mostra un grande tavolo su cui giace una donna priva di sensi, da un altoparlante da tavolo una voce maschile chiede “Come si chiama?” La donna riprende coscienza e l’altoparlante le chiede di rispondere a un breve questionario. La donna infastidita cerca inutilmente di uscire dalla porta chiusa, non capisce dove si trova né perché. Poi, quando accetta di rispondere alle domande, è presa da un senso di angoscia: non sa rispondere, non sa il suo nome, non sa dove è nata, né come si chiamano i suoi genitori. Nulla, una tabula rasa.

Questo è il surreale inizio di Scissione – in originale Severance – una brillante serie distopica, che racconto di un mondo dove le persone possono scindere la propria coscienza tra lavoro e vita privata. Grazie a un microchip impiantato nel cervello, possono creare un alter-ego di se stessi che esiste solo per lavorare: è sveglio e attivo solo nei luoghi e negli orari di lavoro e non ha nessun ricordo della sua vita fuori dall’ufficio. Se il titolo italiano sembra rimandare al concetto di personalità scissa (che in inglese si dice invece split personality), il titolo originale Severance, oltre a significare separazione, viene usato nell’ambito lavorativo per indicare la liquidazione dopo il licenziamento (severance pay). E infatti più oltre alle implicazioni psicologiche della scissione, la serie vuole riflettere sulle dinamiche del lavoro, su come il rapporto sbilanciato tra lavoro e vita privata possa influire sulla nostra personalità e soprattutto sulle dinamiche di potere e controllo messe in atto dai datori di lavoro per ottenere il massimo profitto dagli impiegati.

Nella prima scena assistiamo a quella che è a tutti gli effetti la nascita di un interno (innie) – così vengono chiamate le coscienze lavoratrici, in contrapposizione agli esterni (outies) che li hanno generati e vivono la vita normale fuori dall’ufficio. Il tavolo da riunioni è come un grembo materno in cui la nuova coscienza si risveglia, adulta e consapevole di tutte le nozioni comuni, ma del tutto ignara della sua identità e senza alcun ricordo personale. Questi interni vengono chiamati solo con il nome proprio, seguito appena dall’iniziale del cognome, una rappresentazione della loro assoluta mancanza di storia.

La serie, trasmessa da Apple TV nel 2022 e ora alla seconda stagione, è stata creata dal quasi esordiente Dan Erickson ed ha visto la luce grazie alla produzione e alla regia di Ben Stiller, che molti conoscono soprattutto come attore di commedie, ma che ha all’attivo diversi film da regista e, soprattutto in televisione, si è dedicato a progetti drammatici (consigliatissima la serie Escape at Dannemora). Erickson racconta che l’idea per Scissione gli è venuta sperimentando sulla propria pelle l’alienazione del lavoro da ufficio, quando, prima di avere successo come sceneggiatore, lavorava per una ditta produttrice di porte. La ripetitività e il senso di inutilità del proprio lavoro lo ha portato a immaginare di poter dimenticare le ore passate in ufficio, anzi di poter evitare del tutto di esperirle. Da qui l’idea della scissione: una tecnologia che permette di creare un doppio di sé che vive solo per lavorare. Questo concept fantascientifico non è altro che una metafora dello sfruttamento dei lavoratori e del lavaggio del cervello da parte delle aziende, che hanno esigenza di eliminare qualsiasi elemento di distrazione e disturbo per avere persone completamente dedite alle loro mansioni, anzi che vivono solo per questo, immolate sull’altare dell’efficienza e della produttività.

L’aspetto più crudele della scissione è che gli interni non sono altro che schiavi fatti schiavi da se stessi: infatti il responsabile della loro vita da incubo, reclusi nell’ufficio, è il loro esterno, quindi l’altro se stesso. Un altro di cui non sanno nulla, ma che decide del loro destino, un altro così vicino, ma eternamente irraggiungibile.

Ma il vero cattivo della serie è la Lumon, la mega-compagnia biotech che ha inventato il microchip e vive grazie al lavoro degli impiegati scissi. La serie mostra l’azienda come una struttura di potere opprimente, basata su pratiche che esaltano un culto della personalità del fondatore (il signor Kier) e legano gli impiegati in una forma di devozione, che ricorda il fenomeno delle sette. La Lumon (come molte aziende reali) ha un codice etico e una lista di principi, che danno al lavoro un aspetto vocazionale, che serve a giustificare l’esistenza dei lavoratori scissi. E questa devozione si spinge fino alla scissione, alla creazione di persone che per tutta la loro esistenza avranno l’unico scopo di lavorare per la Lumon, che sono vive solo grazie e per l’azienda.

La Lumon rappresenta tutte le grandi aziende che cercano di migliorare la propria immagine aderendo a grandi ideali e proclamando di avere degli alti obbiettivi etici, mentre l’unico loro interesse è il profitto e lo sfruttamento sempre maggiore del plusvalore dato dai lavoratori. Lo stesso Erickson racconta come i datori di lavoro vogliano far sentire i dipendenti come una famiglia, convincendoli che hanno uno scopo più alto del mero guadagno (per esempio lo slogan di Starbuck è “Non facciamo solo caffè, ma rendiamo il mondo un posto migliore”). Questa identificazione del lavoratore con la mission aziendale non è solo disturbante, ma crea una vera alienazione da se stessi, dai propri obbiettivi e desideri personali. La società tende a identificare le persone con il loro lavoro: si dice “tu sei un avvocato, un commesso, un operaio”, ma questo in realtà non dice assolutamente nulla della persona. Questo paradosso è mostrato molto bene in una scena in cui il protagonista Mark va a cena con delle persone che gli chiedono che lavoro faccia e lui con imbarazzo ammette di essere un lavoratore scisso e quindi di non avere alcuna idea di quale sia il suo lavoro. La scena mette in evidenza come la separazione della coscienza, che potrebbe apparire desiderabile, in realtà finisca per creare due personalità parziali che non riescono a trovare senso nella propria esistenza. Mark prima faceva il professore universitario, un lavoro appassionante e soddisfacente, mentre ora si ritrova incapace di dare una forma a se stesso perché ha scelto di cancellare il lavoro dalla propria esperienza di vita; dall’altra parte il suo interno è altrettanto incompleto, non avendo alcuna identità a parte essere un impiegato.

Un aspetto particolare della serie è il tono della narrazione che, pur partendo da un presupposto da thriller fantascientifico alla Black Mirror, sceglie di essere una tragicommedia umana, venata di ironia surreale e sarcasmo sociale. Gli autori citano come riferimenti film come Brazil (dove è messa in scena una tecno-burocrazia opprimente), Matrix e The Truman Show (che mettono in discussione il rapporto reale/immaginario) e Being John Malkovich, dove è evidente il discorso sull’identità; ma ci sono anche riferimenti beckettiani nella dilatazione temporale sospesa che i protagonisti interni vivono negli spazi dell’ufficio. La serie ha un particolare tono malinconico, con elementi umoristici nel racconto paradossale della vita lavorativa degli scissi, che la rende uno dei più interessanti prodotti seriali degli ultimi anni.

Al centro della storia c’è Mark Scout che ha deciso di fare la scissione dopo l’improvvisa morte della moglie: incapace di superare il lutto, Mark ha scelto di rimuoverlo dal suo cervello per otto ore al giorno, ma la sua vita da esterno rimane arida e senza gioia, gli unici rapporti sociali li ha con la sorella e il marito di lei, mentre lui sembra condannato a una perenne solitudine. Il suo stato emotivo è messo in mostra anche attraverso l’ambientazione: una provincia americana invernale, segnata dalla monotonia dei grigi e dall’atmosfera gelida e ovattata del silenzio della neve
Ma dall’altra parte c’è anche Mark S., l’interno che lavora per la Lumon, che mostra invece i lati positivi del carattere di Mark. L’interno è infatti una persona dal cuore gentile, affezionato ai suoi colleghi di lavoro, sinceramente motivato a fare del mondo un posto migliore e per questo, almeno all’inizio, lo vediamo dedicarsi con entusiasmo al lavoro.

A fare da contraltare alla spensierata vita di Mark S. c’è Helly R., la giovane donna che abbiamo visto all’inizio, appena arrivata nel reparto di scissione, che non riesce ad accettare la sua nuova condizione. Nelle prime puntate Helly fa ripetuti tentativi di fuga, ma ogni volta che scappa dalla porta del piano della scissione, si trova a rientrarvi subito dopo. Questo perché da interna non ha alcun potere, è la sua controparte esterna che decide come vivere e la costringe ad essere al lavoro ogni giorno. Helly non può scegliere perché ogni volta che si trova fuori dall’ufficio non è più cosciente e l’esterna in un video in cui le dice esplicitamente: “Tu non sei una persona, io sono una persona. Tu non puoi decidere.”

Altri due personaggi completano il reparto di Macrodata refinement dove lavorano i personaggi: sono Dylan G. e Irving B. (interpretato da uno straordinario John Turturro). Entrambi rappresentano dei topoi dell’impiegato: Dylan è ossessionato dalla produttività e ambisce a degli inutili premi aziendali (dei ridicoli aggeggi anti-stress tipo trappole per le dita), mentre Irving appare rigidamente identificato con gli astratti principi etici della Lumon, ma in realtà è perseguitato da inquietanti visioni e finirà per sfidare la policy aziendale per amore.

I quattro impiegati del reparto sono supervisionati dall’inquietante Mr. Milchick (che non ha fatto la scissione), un uomo con un eterno sorriso stampato in faccia, dai modi affettatamente gentili, che rappresenta la facciata ipocrita della Lumon e l’atteggiamento di benevola indulgenza e controllo costante che l’azienda ha per i propri impiegati, che tratta come bambini da disciplinare. In effetti gli interni hanno una coscienza giovane e ingenua e lo vediamo nel modo in cui gioiscono delle ridicole gratifiche che l’azienda offre loro, che sono un’ambita variazione dalla routine del lavoro al computer. Così nelle puntate vediamo la “musical dance experience”, un momento di svago in cui si balla e si festeggia, e i i momenti di team building, con i giochi in cui a turno si racconta la propria vita (anche se gli interni hanno ben poco da raccontare) e anche le feste di saluto per il pensionamento, che in realtà per gli interni significa la fine della loro esistenza ed è quindi più un funerale.

Ma c’è un altro personaggio fondamentale nella dirigenza Lumon: Miss Cobel (interpretata da un’ottima Patricia Arquette), la gelida direttrice del reparto scissione. Se Milchick è il volto umano ed empatico dell’azienda, Cobel rappresenta il potere e il controllo totale che la Lumon ha sui lavoratori. Miss Cobel non concede nessuno spazio di autonomia e sembra non avere nessuna comprensione delle difficoltà degli impiegati, trattandoli in maniera del tutto funzionale. Ed è lei a commissionare le punizioni necessarie dopo i ripetuti tentativi di fuga di Helly. Così vediamo un altro spazio degli uffici: la break room o sala del personale che, invece di essere un luogo di svago e pausa del lavoro, è una stanza buia dove il lavoratore che ha fatto qualcosa che non doveva è costretto a leggere un’elaborata confessione e richiesta di perdono, che deve ripetere per centinaia di volte, finché non sembrerà sincero a insindacabile giudizio del superiore Mr Milchick.

Un altro luogo significativo è l’Ala dell’Eternità: un ambiente museale dove si celebra il fondatore della Lumon, Kier Egan, con una riproduzione in scala naturale della sua casa e una celebrazione dei suoi discendenti che hanno ricoperto il ruolo di CEO, raffigurati in statue di cera. Questo spazio mostra il culto della personalità su cui si basano le pratiche aziendali: Kier è rappresentato come una sorta di messia (viene detto spesso Praise Kier, sia lode a Kier) e quindi lavorare alla Lumon significa essere i suoi adepti.

L’entità dominante dell’azienda si manifesta negli spazi del lavoro: l’ufficio di Scissione è più che un’ambientazione simbolica, ma diventa quasi un personaggio, rappresentando il corpo dell’azienda all’interno del quale sono prigionieri i lavoratori scissi. Gli uffici della Lumon sono un labirinto di corridoi bianchi, rischiarati dalla monotona luce dei neon, corridoi in cui vediamo i personaggi camminare per un tempo lunghissimo, che si diramano in deviazioni tutte uguali e che sembrano avere un solo punto di partenza, l’ascensore da cui si entra al piano della scissione, e un solo punto di arrivo, l’ufficio del reparto Macro Data Refinement dove lavorano i protagonisti. Anche la stanza del MDR è particolare: una sala spropositatamente grande che al centro ha un cubicolo con quattro scrivanie per gli impiegati, il pavimento verde acido e il soffitto bianco grigio coi neon che incombe dall’alto. Questo luogo di lavoro freddo e funzionale, eppure tremendamente inutile nel suo spreco di spazio, è privo di qualsiasi elemento umano, del tutto spersonalizzato e spersonalizzante, e sembra ridurre gli umani che lo abitano a piccole formiche operose perse in un eterno vagare per i corridoi o nella ripetizione dei loro compiti ossessivi al computer.

E proprio a proposito del lavoro al computer vale la pena far notare come esso appaia del tutto arbitrario e apparentemente insignificante. Quando Mark spiega alla nuova arrivata Helly cosa deve fare, le mostra semplicemente un monitor su cui scorrono una serie di numeri incolonnati e le dice di individuare i numeri particolari e metterli in una casella insieme. Ma come si capisce quali sono i numeri particolari? Mark risponde che deve scegliere i numeri che le fanno paura; di fronte all’incertezza di Helly, Mark la incoraggia a fare pratica e le promette che ci prenderà la mano. Il lavoro del reparto Macro Data Refinement sembra essere quello di trattare questi misteriosi numeri in modo incomprensibile, senza una logica, ma agendo in base alle sensazioni. Di fronte alle difficoltà di Helly ad affrontare un compito che appare del tutto inutile e ripetitivo, Mark le ricorda che il loro lavoro è “misterioso e importante.” Questo è un concetto che viene ripetuto spesso e serve come unica spiegazione per i compiti senza senso che gli impiegati devono svolgere; ma avere qualcosa di misterioso e importante da fare è anche un modo per dare un senso di soddisfazione, per avere l’idea di servire uno scopo più alto, anche se i lavoratori scissi non hanno idea del piano generale, ma devono funzionare come formiche operaie.

Il design della Lumon è ispirato all’architettura funzionalista degli anni ’50 e ’60 (in particolare alle costruzioni di Eero Saarinen), e anche la tecnologia è antiquata: i computer hanno i grandi monitor col tubo catodico degli anni ’80, quando vediamo dei filmati sono proiettati su vecchi televisori con dei videoregistratori, ma anche fuori dall’ufficio ci sono macchine vecchie e cellulari non ancora smart. Secondo alcuni questo indicherebbe che il mondo in cui è ambientata la serie sia una realtà parallela alla nostra, simile, ma non uguale. Ma potrebbe anche non esserci alcuna spiegazione narrativa per questo aspetto: la mancanza di tecnologia digitale all’interno della Lumon potrebbe essere solo un modo per esasperare il senso di isolamento degli interni, un modo per tagliarli fuori dal mondo.

Scissione esprime un forte messaggio politico attraverso un high concept fantascientifico estremamente efficace, che incarna le dinamiche di controllo necessarie alla crescita virale del tardo capitalismo. Il bilanciamento tra vita lavorativa e vita personale è qui paradossalmente risolto con la scissione della coscienza, che crea una personalità totalmente schiava del lavoro. La serie è uscita all’inizio del 2022, nell’anno precedente l’America è stato segnata dal fenomeno sociale della Great Resignation, in cui 47 milioni di americani si sono licenziati dal lavoro, anche a seguito dei mutamenti portati dalla pandemia. Con il lavoro da remoto molte persone si sono rese conto dell’inutilità di spendere mezza giornata in ufficio, quando potevano svolgere lo stesso quantitativo di lavoro da casa, gestendo molto meglio il proprio tempo. Questa ridefinizione dell’equilibrio vita privata/lavoro ha portato a guardare con occhio diverso i rapporti con i datori di lavoro, portando a rivendicazioni che valorizzassero in maniera maggiore gli spazi e i tempi personali. E questa ribellione dei lavoratori è proprio l’elemento che definisce l’arco narrativo di Scissione: la presa di coscienza e l’unione fra gli interni scissi li porterà a rompere i confini dell’isolamento dell’ufficio, per rivendicare uno spazio esterno di autonomia e libertà. La rivoluzione al capitalismo schiavista della Lumon, la grande compagnia monstre che governa addirittura la coscienza delle persone, è l’orizzonte che ha fatto la forza della serie, che nei tre anni trascorsi tra la prima e la seconda stagione è diventata una delle serie più viste e più discusse della contemporaneità.

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The Shrouds (2024). Il corpo, oltre l’ultimo respiro https://www.carmillaonline.com/2025/04/13/the-shrouds-2024-il-corpo-oltre-lultimo-respiro/ Sun, 13 Apr 2025 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87864 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Per quanto Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg, nel mettere in scena il desiderio degli esseri umani di ritrovare un barlume di vita nella ricerca del dolore in un corpo ormai anestetizzato nel suo lento ma inesorabile processo di artificializzazione, avesse tutte le caratteristiche per risultare l’episodio finale di una lunga carriera incentrata sui processi di mutazione del corpo e con esso dell’identità dei personaggi, evidentemente non si era ancora giunti ai titoli di coda ed al momento di riaccendere le luci in sala. A distanza di un paio di anni dal film [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Per quanto Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg, nel mettere in scena il desiderio degli esseri umani di ritrovare un barlume di vita nella ricerca del dolore in un corpo ormai anestetizzato nel suo lento ma inesorabile processo di artificializzazione, avesse tutte le caratteristiche per risultare l’episodio finale di una lunga carriera incentrata sui processi di mutazione del corpo e con esso dell’identità dei personaggi, evidentemente non si era ancora giunti ai titoli di coda ed al momento di riaccendere le luci in sala. A distanza di un paio di anni dal film il regista canadese ha aggiunto alla sua produzione un ulteriore episodio, portando la macchina da presa sin dentro la tomba, in quell’ultimo prolungamento di presenza del corpo ancora soggetto alla trasformazione nel suo lento e inesorabile processo di dissoluzione finale. Il desiderio di dare a vedere gli splendori e le mostruosità delle mutazioni del corpo umano in vita si è spinto alla sua ultima metamorfosi, prima della definitiva scomparsa.

Pensato inizialmente come opera seriale televisiva, The Shrouds (2024) si è trasformato in un film, presentato in anteprima al 77º Festival di Cannes nel 2024. Questa ultima produzione cronenberghiana ruota attorno alla figura di Karsh (Vincent Cassel), produttore di video industriali, che, dilaniato dalla perdita della moglie Becca (Diane Kruger), decide di costruire una futuristica necropoli dotata di una tecnologia, denominata Grave Tech, in grado di mostrare in tempo reale la decomposizione dei cadaveri avvolti all’interno di avveniristici sudari.

Nel momento in cui tale innovativa tecnologia si appresta ad essere lanciata sul mercato internazionale e dunque, potenzialmente, a divenire una modalità di sepoltura diffusa almeno tra chi può permettersi i costi, alcune di queste avveniristiche sepolture vengono profanate. Tentando di individuare i responsabili del gesto e di comprenderne le motivazioni, il protagonista si trova a fare i conti con una serie di ipotesi che contemplano non meglio definiti gruppi ecologisti antitecnologici, hacker al soldo dello spionaggio di potenze straniere e segrete sperimentazioni mediche, oltre che gelosie e risvolti passionali inconfessati di amanti ed ex coniugi che toccano i protagonisti del film, inducendo Karsh a riflettere sulla sua attività imprenditoriale e sul senso del prolungare il rapporto con il corpo dell’amata per via scopica.

Se tradizionalmente i sudari (shrouds), a cui ricorrono diversi riti funebri, intendono celare il volto dei defunti, nel film, nella loro variante tecnologica, questi manifestano, al contrario, l’intenzione di rivelare, insieme al volto ed al resto della salma di chi ha perso la vita, la “morte al lavoro”, nel suo atto di trasformare e consumare quel che ancora resta dell’essere umano dopo l’ultimo respiro, il corpo.

L’avveniristica tecnologia capace di prolungare il contatto visivo con il corpo intende soddisfare la necessità di mantenere il legame con il corpo di una persona cara, nell’incapacità di pensarla, anche nel ricordo, oltre ad esso. Per il protagonista del film, il corpo della moglie defunta resta l’unico, straziante, ancoraggio possibile all’amata; le immagini che mostrano in diretta il suo processo di deterioramento divengono, dunque, un ultimo disperato tentativo di prolungarne la presenza corporea.

Come ribadito tante volte dal cinema cronenberghiano e dallo stesso autore, il corpo resta la vera essenza dell’essere umano, la sua identità1. Un corpo destinato a trasformarsi in continuazione in vita come, per qualche tempo, dopo il sopraggiungere della morte, prima che di questo scompaia ogni traccia.

Karsh realizza una necropoli dalle forme minimaliste composta da una serie ordinata di lapidi dotate di monitor attraverso cui, ricorrendo ad una app, è possibile osservare i defunti a cui si è legati. Le sofisticate immagini tridimensionali dei corpi, a differenza di quanto accade nella tradizione che dalle antiche maschere mortuarie conduce alle fotografie post mortem, non mirano alla mummificazione degli effigiati, bensì a soddisfare un voyeurismo necrofilo, un desiderio scopico da consumare in tempo reale al fine di prolungare il rapporto, per quanto esclusivamente visivo, con i corpi dei defunti.

Non sfugge come il desiderio di mantenere il legame con la moglie venuta a mancare si converta in business, a riprova di come anche la morte ed il lutto non tardino ad essere piegati al profitto, né sfugge l’impulso a portare alle estreme conseguenze la pratica di vetrinizzazione ossessiva e continuativa a cui si è votato l’individuo contemporaneo2, in assenza della quale sembra non riuscire più a percepire ed a manifestare al mondo la propria presenza, il proprio esserci e con esso il proprio essere3. Emblematica, in tal senso, la conversazione, al loro primo incontro in un ristornate, tra il protagonista e Myrna Slotnik (Jennifer Dale), in cui i due ironizzano sull’impossibilità che si possano ancora dare “incontri al buio”, stante la possibilità tecnologica di sapere e, soprattutto, vedere tutto della persona con cui ci si incontra per la prima volta.

Come altri film cronenberghiani, The Shrouds mette in scena l’impossibile unità tra entità distinte e la tematica del doppio4 che si palesa non solo nelle due sorelle Becca e Terry, pressoché identiche, interpretate dalla medesima attrice e replicate persino nella grafica di Hunny, l’assistente AI installata sullo smartphone del protagonista, ma anche nel ricorrere, nel ruolo di quest’ultimo, ad un attore, Cassel, duplicante le fattezze del regista stesso.

Se nel film si possono cogliere richiami a celebri doppi femminili hitchcockiani, o a personaggi che si duplicano su più piani visivo/narrativi in film precedenti dello stesso canadese, a rafforzare l’effetto moltiplicatore provvedono i tanti schermi dei dispositivi tecnologici presenti, nonché i momenti di intimità con la moglie che si replicano nelle apparizioni oniriche di Karsh, mentre le menomazioni e le cicatrici di Becca ricompaiono, agli occhi dell’uomo, sul corpo di SooMin Szabo (Sandrine Holt), l’amante che, costretta a cercare il contatto tattile con la realtà e con gli individui, a causa del suo stato di cecità, suggerisce un’alternativa alla dipendenza scopica del protagonista.

Il futuro distopico e ipertecnologico narrato dal film, un futuro assai vicino e simile alla nostra epoca, in cui l’Intelligenza Artificiale ed i più diversi dispositivi digitali fanno parte della sfera più intima degli individui, è ossessionato dalle tombe e dalla morte come negli interstizi più arcani ed arcaici della modernità. Sembra che non ci sia nessuna differenza fra un’epoca digitalizzata e ipermoderna e gli inizi del XVIII secolo in cui si diffuse una vera e propria “epidemia vampirica” soprattutto nell’Europa dell’est5. Se i viaggiatori occidentali, all’epoca, erano ‘contagiati’ dalle credenze e dalle superstizioni delle sperdute lande orientali dell’Europa, laddove si riesumavano i morti e si mutilavano per paura che potessero riemergere dal sepolcro per nuocere ai vivi, in pieno occidente ipertecnologico si costruiscono tombe per poter osservare il processo di decomposizione dei cadaveri.

Quello messo in scena da Cronenberg è un mondo ossessionato dalla morte, che guarda con terrore a ciò che sta sottoterra e desidera tenere sotto controllo i processi di cui sono investiti i corpi nelle tombe: un mondo molto simile a quello degli inizi del Settecento, quando si temevano i vampiri e si riesumavano i morti. Le magiche superstizioni si sono velate di tecnologia ma restano ugualmente crudeli e barbare. L’orrore della modernità si è trasformato in tecnologia. Le paure notturne, il terrore degli incubi, quegli esseri che apparivano nella notte e si posavano sui corpi addormentati gravando su di essi riemergono sotto forma di ossessioni e depressioni legate a un passato irrisolto.

Se le fake news sui vampiri, negli anni Trenta del Settecento, hanno posto le basi per le attuali teorie del complotto6, sembra che queste ultime vadano di pari passo con il miglioramento delle tecnologie. L’aumento della tecnologia e delle innovazioni scientifiche corrisponde all’aumento di un sostrato magico7 lungamente represso che riemerge dalle profondità dei cimiteri. L’uomo digitalizzato, circondato di AI e di smart car che si guidano da sole, di ritrovati tecnologici all’avanguardia, è superstizioso e intriso di arcana magia non meno di un contadino della Slesia del Settecento8. Non a caso, il geniale informatico creatore di AI, Maury (Guy Pearce), è fermamente convinto di essere vittima di una serie di complotti.

Come per altre opere dell’autore, anche da The Shrouds è inutile pretendere maggiore verosimiglianza e definizione negli intrecci complottisti che vengono tratteggiati sommariamente soltanto per fare da sfondo alle questioni che interessano il regista, d’altra parte anche il mondo reale contemporaneo non è particolarmente incline alla plausibilità delle sue spiegazioni, basti pensare, ad esempio, alla narrazione riguardante le carneficine belliche in corso da parte di politici, media principali e narratori ‘alternativi’ da social inclini a limitarsi a ribaltare le versioni ufficiali.

Non è nemmeno impensabile che la smania voyeuristico-esibizionista contemporanea possa spingersi fino a seguire la decomposizione dei corpi oltre la morte, se si pensa che nella realtà vetrinizzata dei nostri giorni c’è persino chi, mosso da un incontenibile desiderio di esibizionismo sui social, non ha esitato a sottoporre al rischio di estinzione un’intera comunità indigena isolata dal resto del mondo al solo scopo di ottenere qualche visualizzazione in più9.

Anche in The Shrouds, come avviene in diverse altre opere cronenberghiane, viene posta una certa attenzione sull’atto del cibarsi da parte dei personaggi. La bocca rappresenta uno dei possibili viatici di accesso all’affascinante mondo interno ai corpi, a quella bellezza celata dall’epidermide a cui hanno fatto esplicito riferimento tanto Dead Ringers (1988), quanto Crimes of the Future (2022). Non a caso, dopo i titoli iniziali avvolti in un suggestivo pulviscolo luminoso ectoplasmatico dal lentissimo andamento spiraliforme, il film si apre su una bocca spalancata da un onirico urlo che si trasforma rapidamente nella cruda ‘realtà’ della cavità orale del protagonista sottoposto alle cure di un dentista, il dottor Jerry Hofstra (Eric Weinthal), che gli rivela come nel marcire della sua dentatura sia possibile vedere uno sorta di somatizzazione della decomposizione della donna amata osservata grazie ai tecnologici sudari.

L’urlo con cui si apre il film può ricordare quello lanciato da Lucy, sempre nei momenti iniziali della storia, in Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog. Qui, dopo una carrellata dalle connotazioni oniriche che riprende in primo piano diverse inquietanti mummie, vediamo la giovane svegliarsi di soprassalto e urlare, come se le immagini mostruose iniziali rappresentassero una prosecuzione ectoplasmatica del vampiro che sta per sferrare il suo attacco. Anche nel film di Cronenberg vediamo delle immagini che mostrano il corpo di Becca all’interno della tomba, un corpo evanescente che sembra uno spettro, una entità incorporea che non possiede assolutamente la fisicità della putrefazione cui lo stesso corpo è sottoposto.

Probabilmente, l’urlo viene lanciato proprio perché quel corpo si è trasformato in una escrescenza vampiresca, in una “mummia del pensiero”, un “automa spirituale” per utilizzare due espressioni usate da Gilles Deleuze riguardo agli esseri sonnambulici di Vampyr. Der Traum des Allan Grey (1932) di Carl Theodor Dreyer10. Come Nosferatu e come la vampira del film di Dreyer, Becca è un “automa spirituale” che riemerge non solo dalla tomba ma anche dal greve passato del protagonista. È un corpo non solo fisico ma anche spirituale perché emerge dalla coscienza ferita del personaggio; è un fantasma, è un corpo-pensiero divenuto spettro e vampiro. Becca assume connotazioni evanescenti e vampiresche anche nelle sue visite notturne a Karsh, al quale si mostra nuda e ricoperta di cicatrici, con un seno e un braccio amputati. Come in Crimes of the future (2022), le ferite e le alterazioni dei corpi sono anche ferite e alterazioni mentali e psicologiche: Becca-vampira è un corpo divenuto pensiero, emerso dalla terra putrescente ma anche dalle malate plaghe della mente del protagonista. È fatta più di pensiero che di carne.

Una delle prime sequenze del film mostra Karsh intrattenersi a pranzo con una donna, Myrna Slotnik (Jennifer Dale), presentatagli dal comune dentista, in un ristorante collocato nel complesso cimiteriale da lui realizzato. In un’elegante sala arredata con gusto minimalista giapponese alle cui pareti sono esposti alcuni esemplari degli inquietanti sudari tecnologici richiamanti antichi costumi orientali, Karsh consuma con fare controllato il suo pasto a minuti bocconi e piccoli sorsi di vino mentre inizia a confidare alla donna quanto ha realizzato per soddisfare il legame viscerale che continua ad intrattenere con la moglie scomparsa, in particolare con il suo corpo.

Che si tratti dei gesti del dentista sulla cavità orale dell’uomo, dei bocconi di cibo e dei sorsi di vino che valicano la bocca, viatico che conduce all’interno del corpo, o dell’osservazione del cadavere in decomposizione della moglie, attraverso orifizi, ferite e lacerazioni Cronenberg continua a condurre con le sue immagini oltre l’epidermide esplorando l’aspetto più corporeo dell’esistenza umana nella sua magnificenza e repellenza, nella sua potenza e vulnerabilità. The Shrouds ribadisce una volta ancora come il corpo resti per Cronenberg l’unico dato dell’esistenza umana a cui è possibile aggrapparsi, almeno finché ne resta traccia.

Il complesso cimiteriale e il ristorante di Karsh sono caratterizzati da linee geometriche e fredde, incastonate in un’architettura dai tratti razionalistici dai richiami orientali, come del resto la stessa abitazione avveniristica del personaggio. Non si può non pensare allora all’istituto di ricerca di Stereo (1969), al centro dermatologico House of Skin di Crimes of the Future (1970), al complesso residenziale delle Starliner Towers di Shivers (1975), alla clinica del dottor Keloid di Rabid (1977) ed al tetragono blocco granitico in cui ha sede la ConSec di Scanners (1981), tutti edifici isolati e caratterizzati da innovative architetture geometriche di stampo razionalista.

Nello spazio ipertecnologico, laddove la stessa tecnologia celebra i suoi fasti erigendosi a ornamento e sollazzo estetico per le frange più ricche della società, molto probabilmente, si cela l’orrore più terribile. Il perturbamento e l’orrore si nascondono negli angoli più razionali e tecnologici, dove i ricchi e i benpensanti, nei loro abiti eleganti, conversano amabilmente davanti a elaborate e costose portate.

Ancora una volta Cronenberg ci mostra come il mostro se ne stia rintanato negli spazi più impensati, nelle vite più regolate e scandite da razionali orpelli tecnologici e digitali. Se in Videodrome (1983) il mostro nascosto nell’intimità degli spazi domestici era rappresentato dallo schermo televisivo, terribile ed inquietante manipolatore degli individui, dei loro corpi e delle loro menti, The Shrouds mette in scena la pervasività dell’intelligenza artificiale che si insinua negli interstizi più privati dell’abitazione del protagonista. Hunny non è altro che una rivisitazione attuale e distopica dello schermo televisivo di Videodrome.

La stessa Tesla guidata da Karsh, lungi dall’apparire come un’icona pubblicitaria utilizzata subdolamente dal regista (niente di più lontano, crediamo, dagli intenti di Cronenberg per quanto notoriamente appassionato di automobili e motociclette), appare come un’auto mostruosa e ‘malvagia’, una versione attualizzata della demonica Crhistine di Christine la macchina infernale (Christine, 1983) di John Carpenter. Mentre il personaggio è alla guida, appare sì in primo piano il volante dell’auto con il marchio di fabbrica ma esso sembra alludere alla mostruosità insita in quello stesso marchio.

Se una volta era il diavolo in persona a guidare le automobili che andavano da sole, come la già citata Christine o la macchina nera dell’omonimo film (The Car, 1977) di Elliot Silverstein, adesso guidatrice fantasma è la tecnologia rappresentata per sineddoche dalle multinazionali automobilistiche, come Tesla appunto, in mano ad Elon Musk, braccio destro di Donald Trump e, come il neopresidente degli Stati Uniti, in prima fila fra le schiere dei negazionisti climatici.

Nel momento in cui Karsh appare ‘prigioniero’ della sua auto, condotto da Maury contro la sua volontà, la macchina da presa inquadra il volante mentre in sottofondo ascoltiamo delle sonorità inquietanti e dalle connotazioni ‘mostruose’, come se l’essere umano alla guida sia in realtà un impotente burattino in mano alla tecnologia che lo sta imprigionando e comandando. L’auto assume connotazioni inquietanti come la vecchia auto guidata da Vaughan in Crash (1996), personaggio mostruoso e quasi novella creatura frankensteiniana. In tale film, l’auto, guidata da quest’ultimo, sembrava quasi una entità infernale che si muoveva da sola.

Non possono che tornare alla mente anche le ‘demoniche’ Tesla di un recente film come Il mondo dietro di te (Leave the World behind, 2023) di Sam Esmail, in cui una schiera di Tesla impazzite a guida automatica rischia di travolgere e uccidere la famiglia protagonista mentre sta fuggendo dalla misteriosa villa in cui si era recata per una breve vacanza.

Se la “nuova carne” era il prodotto più mostruoso di film come Videodrome e Crimes of the Future (2022), adesso, in The Shrouds, la carne sembra essersi ormai decomposta insieme ad ogni residuo di umanità, mentre resta la ‘nuova tecnologia’ che ormai ha fagocitato i corpi e li ha sotterrati insieme a quella stessa umanità ormai putrefatta e dimenticata.


  1. David Cronenberg: «il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci»: intervista rilasciata a Richard Porton, Il regista come filosofo, in D. Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di D. Schwartz, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, p. 270. 

  2. Cfr. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2007. 

  3. Cfr. E. Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Milano-Udine, 2022. 

  4. Cfr. A. Chimento, C. Maccaferri, Dal corpo mutante alla proiezione inconscia: il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg, in L. Taddio, a cura di, David Cronenberg. Un metodo pericoloso, Mimesis, Milano-Udine, 2012. 

  5. Cfr. F.P. de Ceglia, Vampyr. Storia naturale della resurrezione, Einaudi, Torino, 2023, p. 20 e seguenti. 

  6. Cfr. ivi, pp. 22-23. 

  7. Cfr. V. Susca, Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2022. 

  8. Cfr. G.N. Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024. 

  9. Cfr. Tenta di contattare una delle tribù più isolate del mondo, arrestato youtuber americano, “Rai News.it”, 7 aprile 2025. 

  10. Cfr. G. Deleuze, Cinema II. L’immagine tempo, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989, p. 190. 

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Poteve Opevaio. Fantozzi e l’astrazione kafkiana del padrone https://www.carmillaonline.com/2025/04/01/poteve-opevaio-fantozzi-e-lastrazione-kafkiana-del-padrone/ Tue, 01 Apr 2025 05:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87473 di Marco Sommariva

Mentre non è ancora morto il Poteve Opevaio, schiere di sfruttati continuano a prendere il bus al volo

Per la regia di Luciano Salce, il 27 marzo 1975 usciva nei cinema Fantozzi, e il giorno del cinquantesimo anniversario – giovedì 27 marzo 2025 – tornerà nelle sale questo primo leggendario capitolo della saga del Ragionier Ugo; a festeggiare lo storico personaggio inventato da Paolo Villaggio, sarà una versione del film rimessa a nuovo dal laboratorio di restauro cinematografico L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì per il processo di color correction.

Fantozzi nasce nelle storie che Villaggio [...]]]> di Marco Sommariva

Mentre non è ancora morto
il Poteve Opevaio,
schiere di sfruttati
continuano a prendere il bus al volo

Per la regia di Luciano Salce, il 27 marzo 1975 usciva nei cinema Fantozzi, e il giorno del cinquantesimo anniversario – giovedì 27 marzo 2025 – tornerà nelle sale questo primo leggendario capitolo della saga del Ragionier Ugo; a festeggiare lo storico personaggio inventato da Paolo Villaggio, sarà una versione del film rimessa a nuovo dal laboratorio di restauro cinematografico L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì per il processo di color correction.

Fantozzi nasce nelle storie che Villaggio scrive per “L’Europeo”, un settimanale d’attualità edito da Rizzoli pubblicato sino al 2013; diventerà un libro nel 1971, quando lo stesso editore del settimanale gli proporrà di raccogliere queste storie in volume.

Nella premessa del libro datata luglio 1971, l’attore genovese scrive: “Con Fantozzi ho cercato di raccontare l’avventura di chi vive in quella sezione della vita attraverso la quale tutti (tranne i figli dei potentissimi) passano o sono passati: il momento in cui si è sotto padrone. Molti ne vengono fuori con onore, molti ci sono passati a vent’anni, altri a trenta, molti ci rimangono per sempre e sono la maggior parte. Fantozzi è uno di questi. Nel suo mondo il padrone non è più una persona fisica, ma un’astrazione kafkiana, è la società, il mondo. E di questa struttura lui ha paura sempre e comunque perché sa che è una struttura-società che non ha bisogno di lui e che non lo difenderà mai abbastanza. Questo per lo meno qui da noi. Ma questo rischia di diventare un discorso politico troppo serio per uno «scherzo» quale deve essere tutta questa faccenda del «libro» e mi fermo qui”.

Era ed è sì un discorso politico: lo era allora, quando sul viso di Fantozzi ritrovavamo tutte le sconfitte dell’impiegato medio italiano, non una caricatura, ma una discarica pubblica dove ci si alleggeriva tutti, in cui si evacuavano le risate amare che le nostre facce da culo producevano guardando le genuflessioni del Ragionier Ugo davanti allo stesso Megadirettore Galattico che ci aspettava l’indomani in ufficio, al quale rispondevamo “faccio subito” intanto che speravamo che qualcuno gli sparasse nelle gambe; lo è al giorno d’oggi, mentre una struttura-società che non ha bisogno di noi e non ci difenderà mai abbastanza, ci sta sfruttando con quella viscida delicatezza che cinquant’anni fa ancora non esisteva, che prevede di non prenderci a manganellate perché, con gli anni, è stata capace di convincerci che dobbiamo essere noi a manganellare i nostri pari che non seguono le direttive dei potenti – non a caso, nella stessa premessa l’autore ci consiglia coi potenti “di essere vischiosi, servili e sempre d’accordo anche su posizioni «fasciste»”, un po’ come certi conduttori televisivi che da decenni non riusciamo a scollarceli di dosso, regnanti indiscussi di squallidi studi televisivi consacrati alle celebrazioni del regime.

Sul manganellare i nostri pari, Villaggio aveva capito che era un processo già iniziato: “[…] la pesantissima boccia di metallo di 42 chili centrò in piena nuca il suo direttore, che aveva accostato alle labbra in quel momento un bicchiere di vino ristoratore. Fantozzi non si fermò neppure a chiedere scusa ma si diede alla macchia sulle montagne. Cominciò allora una delle più feroci cacce all’uomo degli ultimi centovent’anni. Parteciparono alla ricerca cani-poliziotto e feroci molossi napoletani, mescolati ai quali c’erano moltissimi impiegati ruffiani che si erano offerti come cani da riporto per segnalarsi presso la direzione sperando in un aumento. Dopo tre giorni e tre notti di drammatica caccia tra gli acquitrini, Fantozzi fu circondato da un gruppo di colleghi abbaianti, tenuti al guinzaglio da alcuni feroci dirigenti”.

A differenza dei tanti comici che proliferano nei numerosi spettacoli d’oggi creati apposta per far ridere il pubblico e che sempre più raramente raggiungono l’obiettivo, Villaggio non ci parla di una zona dell’Italia – siciliani o calabresi “contro” milanesi, nordisti “contro” sudisti, apologie del romanesco, napoletano, toscano, eccetera – non ci parla di uomini “contro” donne e viceversa – i primi che sporcano di pipì la seduta del water, le seconde che sono intrattabili in “quei giorni” – no, Villaggio non ha alcuna intenzione di anestetizzarci con queste fesserie che fingiamo di credere esistere ancora ridendo fintamente a crepapelle perché intorno a noi altri fanno la stessa cosa, no, Villaggio ci parla dell’autobus preso al volo perché cinquant’anni fa si provava a dormire sino all’ultimo minuto dopo giornate snervanti già allora per la mancanza di senso, che mi ricordano molto da vicino la vita che fanno certe dipendenti della cooperativa che ha in appalto la pulizia degli uffici dove lavoro che, stremate dalla giornata lavorativa precedente, alle cinque del mattino prendono al volo il primo di tre autobus che, dopo un’ora e mezza di viaggio, le porterà a svuotarmi nuovamente il cestino chiedendomi scusa per il disturbo, e il tutto per un pugno di euro all’ora, lo stesso che a volte mi capita di dare in elemosina a Yassir, il ragazzo bengalese che mi riporta a posto il carrello vuoto, dopo che ho riempito l’auto coi sacchetti della spesa, situazione che a volte mi fa sentire come il Megadirettore Galattico Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam, il Direttore Marchese Conte Piermatteo Barambani o un altro qualsiasi feroce padrone o amministratore delegato: è un attimo saltare dall’altra parte della barricata senza neppure accorgersene.

Se è vero che 1984 di Orwell fu un romanzo premonitore, vedete se vi dice qualcosa dei nostri giorni questo estratto del libro Fantozzi: “Cominciò […] una discussione tra giovani sulla contestazione studentesca e l’intervento americano in Vietnam. Fantozzi credeva di essere nel covo della reazione: ma con suo grande stupore s’accorse che più quei gran signori erano bardati con orologi Cartier e brillanti (con uno solo dei quali lui avrebbe vissuto senza patemi il resto dei suoi giorni) più erano su posizioni maoiste. La maggior parte, giudicò Fantozzi, era a sinistra del partito comunista cinese. […] L’indomani mattina lui “timbrava” alle 8: pensando a quei giovani sovversivi che si sarebbero svegliati a mezzogiorno, gli si confondevano le idee”.

Questo è Fantozzi; Villaggio, invece, nella biografia in quarta di copertina della seconda edizione del libro, datata 1981, si definisce “figlio di padre ricchissimo” e per questo “a sinistra del partito comunista cinese”, non solo, sostiene che “a Roma ha fondato con un gruppo di nobili una frangia politica di estrema sinistra molto “in” che si chiama «POTEVE OPEVAIO»”.

Il libro Fantozzi era anche confortante; alla rabbia di mio padre che bestemmiava nel leggere dell’ennesima apparizione mariana a una contadina quattordicenne, piuttosto che a dei bambini impegnati a sorvegliare un gregge o a una bambina belga, il concittadino e quasi coetaneo Paolo Villaggio rispondeva così: “Un giorno c’era un tale caldo che a Fantozzi alle undici del mattino, mentre era in cucina che faceva correre un po’ d’acqua per bere, comparve improvvisamente la Madonna. Era in piedi sull’acquaio e gli sorrideva, poi scomparve. “Sarà questo maledetto caldo” si disse: e decise di raggiungere la moglie in campagna. Mentre si preparava per il viaggio si domandava perché mai la Madonna per il passato si sia limitata a comparire a pastorelli semianalfabeti e in zone montuose, e mai per esempio a Von Braun, al Centro Spaziale di Houston durante una riunione della NASA. Non ricordava infatti di aver mai letto sui giornali notizie di questo tipo: “Ieri alle 16,30 la Santa Vergine è comparsa improvvisamente dietro la lavagna di un’aula gremita di studenti della scuola di ingegneria di Pisa, durante la lezione di “meccanica applicata alle macchine”. Il docente professor Mannaroni-Turri, noto ateo, è svenuto di fronte a duecento studenti”.

Il libro Fantozzi è ancora confortante; alla mia rabbia condita di bestemmie che fa seguito all’ascolto di boiate pazzesche tipo quella espressa da due signore bionde col fisico scolpito che, d’estate, alla spiaggia, lamentano il “sold out” – a giugno! – nelle “location” più “in” di New York che le costringerà a trascorrere il Capodanno da un’altra parte, mentre una donna africana larga quanto le due messe assieme passa loro accanto stracarica di mercanzia che nessuno vuole, le pagine del libro mi consolano così: “A un’ora da Roma, Fantozzi andò in corridoio a fumare. C’erano due bambini molto belli biondi, figli di ricchi: tutti i figli dei ricchi sono biondi e uguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri, disuguali e sembrano scimmie. Erano dei bambini molto educati e non facevano rumore. Una baby-sitter americana bionda li custodiva. Uscirono dallo scompartimento le madri. Erano molto giovani, molto belle, molto ricche, molto profumate, molto eleganti e molto abbronzate: venivano da due mesi sulla neve a Gstaad in Svizzera e parlavano della gente che c’era lassù. Fantozzi le guardava con la bocca semiaperta. Le due donne cominciarono a parlare delle loro prossime vacanze al mare ed erano un po’ in pensiero perché non sapevano più dove andare: dovunque ormai andassero, dalla Corsica alle isole Vergini, trovavano della gente orribile. Fantozzi si commosse quasi per il dramma di quelle poverette. Il treno entrò alla stazione Termini. Sulla banchina c’era una tragica lunga fila di terremotati siciliani del Belice. Erano seduti sulle loro valigie di cartone […] e guardavano muti il vuoto. Una delle due signore disse: “E’ stato un anno davvero disgraziato!”. “Meno male” pensò Fantozzi “che si occupano di questi poveracci!”. “Perché?” domandò l’amica. E l’altra: “Perché non abbiamo mai avuto a Gstaad una neve così poco farinosa!”

Perché mi consolano queste pagine? Perché avere testimonianza scritta che figure così mostruosamente stronze già esistevano più di mezzo secolo fa e che, quindi, certi orrori non sono solo frutto degli sfaceli della mia generazione, solleva un poco il morale: lo so, non sono messo bene.

Perché la mia generazione, e pure quella dopo, di errori ne ha fatti veramente tanti, nonostante gli ammonimenti ricevuti da cinema e letteratura; avvertimenti che, ancor oggi, continuano a esser lanciati vista la produzione di Scissione, una serie televisiva statunitense del 2022 dove gli impiegati di una ditta non conoscono altro al di fuori delle attività svolte all’interno dell’azienda, sono solo schiavi asserviti al raggiungimento di uno scopo il cui significato è loro precluso. Allo sceneggiatore televisivo e produttore statunitense Dan Erickson, l’idea gli è stata ispirata da certe sue deprimenti esperienze lavorative giovanili maturate in ambito impiegatizio, un po’ come Paolo Villaggio quando, da giovane, lavorava all’Italsider di Genova come impiegato e iniziava a mettere in cantiere certe idee, ma per saperne di più su Scissione v’invito a leggere questo pezzo di Walter Catalano: Severance/Scissione: il Corporate Horror e gli incubi di Fantozzi.

Conforto, consolazione, riconoscenza, ecco quello che raccolgo dal genio di Paolo Villaggio, e non sono il solo; scriveva Oreste Del Buono nell’introduzione al libro: “L’ultima apparizione di Paolo Villaggio a cui ho assistito in televisione quasi mi ha fatto piangere per la riconoscenza. La riconoscenza per chi si sobbarca il peso di tutti i diseredati dell’aspetto e del gesto, di tutti gli umiliati e offesi dalla propria bruttezza e goffaggine, di tutti i mutilati del pensiero e della prassi, dell’affabilità e della sintassi. Si era sotto le feste di Natale, magari alla viglia stessa. Avevano chiamato Paolo Villaggio in televisione per commentare insieme natività e austerità, un miscuglio di moda nel nostro disgraziato paese”.

Chi aveva invitato l’attore genovese s’aspettava da lui un po’ d’umorismo, ma sbagliò i suoi conti: Villaggio si presentò trasandato, malmostoso e, parlando con piglio truce, disse “controvoglia una sgradevolezza dopo l’altra” e prese a parlar male di se stesso, perché quello aveva da dire – Paolo Villaggio non fingeva mai.

A proposito di Natale, leggete quest’altro estratto del libro Fantozzi: “A casa la signora Pina gli preparò una minestra calda. Lui si sedette a tavola con uno sguardo da pazzo e diede la prima cucchiaiata. La moglie lo guardò e gli disse: “Buon Natale, amore!”. In quel momento l’albero si abbatté sulla tavola con violenza, centrò Fantozzi in piena nuca e lui tuffò la faccia nella minestra rovente. Si provocò ustioni di quarto grado. Non gli uscì un lamento: più tardi, nel buio della stanza da letto, pare che abbia pianto in silenzio con grande dignità”.

Quella dignità che perdiamo quando siamo preda della sindrome da consumo; ossia, quasi sempre.

Villaggio fa cenno al boom consumistico in un’intervista rilasciata alla Televisione Svizzera nel 1975: “Il piccolo Fantozzi, l’omino che per anni è vissuto nel boom consumistico, ha ricevuto dai mass-media, cioè dalla televisione, dai settimanali e da tutte le informazioni possibili, uno stimolo preciso, quasi un ordine a consumare, ad acquistare, a vivere secondo determinati schemi, e lo schema di questa filosofia era precisissimo: attento!, che se compri e ti attrezzi in determinati modi, cioè secondo la chiave consumistica, potrai essere felice, vivrai in un mondo che sarà felice e contento per mille anni. Improvvisamente, invece, un crack strano; insomma, tutto questo sistema meraviglioso, pieno di promesse, questo mondo fiabesco si è incrinato: è bastato che nel Medio Oriente una forte tensione internazionale chiudesse i rubinetti del petrolio perché tutta la grande economia mondiale entrasse in crisi”.

Villaggio fa riferimento al periodo a cavallo tra il 1973 e il 1974 quando, in seguito alla crisi petrolifera, diversi governi del mondo occidentale, tra cui l’Italia, emanarono disposizioni per contenere drasticamente i consumi energetici: ricordo, per esempio, che ci si metteva d’accordo tra parenti per uscire insieme nei giorni festivi, con l’auto che poteva circolare senza prendere la multa – una domenica toccava alle macchine con targhe che terminavano col numero pari, quella dopo era il turno delle dispari.

Oggi come oggi pare che il consumare, l’acquistare, il vivere secondo determinati schemi, siano azioni che non si riescano a fermare, neppure a rallentare.

E se pensate che anche andare a vedere la versione di Fantozzi rimessa a nuovo faccia parte di questo circolo vizioso, quello del consumare e del vivere secondo determinati schemi, vi rispondo che andrò ugualmente a vederlo lasciandovi alla vostra erre moscia e a quella cagata pazzesca de La corazzata Potëmkin.

E mentre mi si azzera la salivazione per l’emozione dovuta a questa mia intransigente presa di posizione, già sento iniziare lo scroscio dei novantadue minuti di applausi che mi renderanno immortale.

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The Monkey, Oz Perkins e la Nemesi edipica https://www.carmillaonline.com/2025/03/29/the-monkey-oz-perkins-e-la-nemesi-edipica/ Sat, 29 Mar 2025 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87707 di Chiara de Stefano

Dopo il successo dello scorso anno di Longlegs, Oz Perkins torna con The Monkey: una commedia horror eccentrica, esagerata e grottesca uscita nelle sale italiane lo scorso venti marzo. Si tratta di un adattamento cinematografico di un racconto di Stephen King contenuto nella raccolta Scheletri (Sperling & Kupfer, 1989) che narra la storia di due gemelli Hal e Bill (Theo James, The White Lotus) e di una vecchia scimmia giocattolo lasciata in eredità dal loro defunto padre. A prima vista, la scimmia meccanica con il suo tamburello sembra innocua, ma presto la loro curiosità si trasforma in [...]]]> di Chiara de Stefano

Dopo il successo dello scorso anno di Longlegs, Oz Perkins torna con The Monkey: una commedia horror eccentrica, esagerata e grottesca uscita nelle sale italiane lo scorso venti marzo. Si tratta di un adattamento cinematografico di un racconto di Stephen King contenuto nella raccolta Scheletri (Sperling & Kupfer, 1989) che narra la storia di due gemelli Hal e Bill (Theo James, The White Lotus) e di una vecchia scimmia giocattolo lasciata in eredità dal loro defunto padre. A prima vista, la scimmia meccanica con il suo tamburello sembra innocua, ma presto la loro curiosità si trasforma in orrore: ogni volta che azionano il giocattolo, qualcuno intorno a loro muore. In preda al panico, cercano di sbarazzarsene, ma anni dopo riappare pronta a rovinare le loro vite e a falciarne altrettante, perché la scimmia – diabolico memento mori – non si distrugge mai​. È l’eco di un passato che non muore, un doppio oscuro del padre scomparso che torna a reclamare la propria colpa sui figli. La maledizione di una tragedia antica, una Nemesi edipica che passa di generazione in generazione, riflettendosi nelle cicatrici di una famiglia spezzata: tópos ricorrente in molte altre opere kinghiane. Essa è l’oggetto che si rivela vivo in uno spazio ritualedirebbe Carlo Severi nel suo saggio L’oggetto-persona (Einaudi, 2018) – perché non è solo un feticcio animato, ma un simulacro con una volontà autonoma. Difatti, non solo uccide, ma sceglie anche chi uccidere. Il suo criterio, divino e arbitrario, fa di essa la caricatura grottesca di Dio. Un essere che non punisce secondo giustizia, ma secondo un capriccio insondabile, un sollazzo fatale. La scimmia è dunque un’entità cosmica, un motore dell’entropia​, un giocattolo maledetto che non insegue, non minaccia, ma semplicemente sceglie. E quando sceglie, la morte è già in atto. A differenza di altri oggetti maledetti del cinema (come il video di The Ring o la bambola assassina in Annabelle), la scimmia non agisce con una logica umana: è un oracolo distorto, un’entità con un’intelligenza arcana, un demiurgo della morte.

Se c’è una costante nel cinema di Perkins, appartenente al cosiddetto elevated horror, è che l’orrore si muove in sottrazione: si insinua, sibila e poi colpisce, paziente, con violenza beffarda e inquietante. Ma The Monkey è anche un’anomalia nella sua filmografia, con la sua pellicola polverosa al neon. Il precedente Longlegs (2024), il cui color grading freddo per gli esterni e caldo per gli interni, costruiva infatti un’atmosfera di terrore ipnotico e rarefatto, qui invece il male si veste di grottesco, di ironico. C’è una consapevolezza quasi camp, in cui il decesso è coreografia, una danza macabra orchestrata con eleganza dal fato stesso​. E proprio per questo The Monkey richiama il modello di Final Destination (James Wong, 2000) e per simbolo intertestuale I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe. L’orrore non è la scimmia che uccide con smisurata violenza, ma il fatto che non possiamo sfuggire alla sua imperscrutabile decisione​. Perkins gioca con le aspettative, facendo oscillare il film tra il puro splatter quasi comico e il sottile terrore psicologico. Le morti sono coreografate come in Evil Dead 2 (Sam Raimi, 1987) assurde fino al ridicolo. Ma dietro la risata c’è una verità inevitabile: la scimmia ci osserva, prima o poi suonerà il suo tamburo di morte​ anche per noi. A meno che non stiamo già girando la sua manovella.

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