di Giovanni Iozzoli

Donato Tagliapietra, Gli autonomi. Volume V. L’Autonomia operaia vicentina dalla rivolta di Valdagno alla repressione di Thiene, Edizioni DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 256, € 19,00

A voler spiegare come si scrive un testo documentato e rigoroso, su un frammento dei nostri anni ’70, senza melanconie memorialistiche e narcisismi biografici, il quinto volume della serie “Gli autonomi” potrebbe essere citato come esempio virtuoso.
Il libro, dedicato all’esperienza del movimento autonomo nell’alto vicentino – una perimetrazione solo apparentemente marginale, in realtà ricca di implicazioni e connessioni generali –, è scritto “al presente”: niente nostalgie, niente autocompiacimento, meno che mai dissociazione. L’autore non fa mai astrazione dal suo punto di osservazione naturale: la durezza spigolosa e inafferrabile dei tempi d’oggi.

Il racconto dell’autonomia vicentina presenta dei tratti di vivo interesse, innanzi tutto per la specificità del territorio. Quella raccontata da Donato Tagliapietra, dirigente dei Collettivi Politici Veneti, ex prigioniero degli infiniti processi che seguirono al 7 aprile, è innanzitutto una storia operaia, anche e soprattutto nella sua dimensione di rifiuto della fabbrica: la cronaca dell’emersione embrionale di un “altro movimento operaio”, in cui un pezzo di gioventù di provincia rigetta la coazione al lavoro e l’etica sacrificale del cottimo e dello straordinario a cui i padri avevano sacrificato la vita.

Non a caso il libro si apre con i fatti della rivolta di Valdagno quasi a sottolineare la matrice proletaria (non genericamente ribelle o controculturale) di quella incubazione che sul finire degli anni del boom, prepara le condizioni dell’esplosione del decennio successivo:

Nell’ambito della prima industrializzazione italiana l’industria tessile vicentina ha un ruolo di prim’ordine, tanto da conferire a questa provincia caratteri strutturali che l’avvicinano di più all’esperienza del triangolo industriale che a quella veneta e italiana […] A rendere originale il processo di industrializzazione vicentino è stato il modo in cui la fabbrica si inserisce nella struttura sociale preesistente, apparentemente senza traumi né fratture nette, anzi salvaguardando gli antichi equilibri. Tutto ciò ha fatto parlare di uno specifico modello di sviluppo: quello veneto. Fino all’aprile del 1968 alla Marzotto di Valdagno (p. 11)

Sui fatti di Valdagno, molto si è scritto, collocandoli addirittura tra gli episodi fondativi del ’68 italiano: la statua del fondatore Gaetano Marzotto abbattuta, le ore di scontri con la polizia dentro territori abituati alla pacificazione e a un’etica del lavoro asfissiante. È l’autonomia di classe all’opera, prima che si generalizzi l’uso stesso della categoria.

Da quel fecondo spartiacque, nei grandi comuni industriali di Thiene, Schio, Marano, Bassano, l’autunno caldo evoca una generazione di giovanissimi quadri di movimento – interni/esterni al tessuto delle fabbriche – che avviano un’altra prassi e un’altra progettualità dentro i territori. Si consolida un’area di contrapposizione ed estraneità ai due mondi allora egemoni: il Veneto bianco – con i suoi cascami clericali e democristiani – e l’opposizione ufficiale, il Pci – con le sue strategie e ritualità paludate.

Inizia la stagione dei gruppi, l’emersione di un’“altra sinistra” che prende forma pubblica, con le sue sedi, le sue sigle, le sue iniziative. È una stagione breve, tutto si consuma in un lampo: i tempi sono accelerati, densi e straordinariamente fecondi. Potere operaio si è sciolta nel ’73, Lotta Continua annaspa dentro la radicalità delle sue contraddizioni e delle aspettative che il conflitto ha evocato soprattutto nelle componenti più giovanili. È il 1976, quando la nuova composizione giovanile di movimento nella bassa vicentina, matura un passaggio di rottura:

Tempo qualche settimana e usciamo da Lotta Continua. Semplicemente, senza strascichi polemici, anzi mantenendo intatto il patrimonio relazionale costruito nella militanza condivisa. Niente porte sbattute o accuse incrociate. D’altronde non portiamo via le masse, semplicemente una parte relativamente piccola ma molto coesa e determinata, non partecipa più a quell’agire collettivo e progettuale dopo tre anni abbondanti di appartenenza. Andiamo a costruire quotidianità da un’altra parte. Da quel momento siamo un’altra cosa […] Il nuovo riferimento è l’Autonomia Operaia, che non è un nuovo gruppo, ma un progetto politico e di lotta da costruire insieme. Con un tempismo perfetto arriva la proposta dei compagni dei Collettivi Politici Padovani, fatta a tutte le realtà di movimento della regione, di incontrarci per discutere un progetto di organizzazione regionale. (p. 38)

Il veneto bianco riproduce le stesse dinamiche sociali e generazionali del resto d’Italia. Questa nuova composizione giovanile, al di là delle sigle di riferimento, si colloca culturalmente in una condizione di rottura esistenziale con il mondo dei padri: il rifiuto delle ideologie lavoriste – sia in salsa micro-capitalistica che berlingueriana –, la tendenza a fare comunità, costruendo una nuova militanza che coincide con le scelte di vita, la musica, le sperimentazioni psichedeliche, la liberazione sessuale. E il tema delle legittimità dell’uso della forza – anche armata – che ormai comincia diventare dirimente.

Nasce una militanza con caratteristiche nuove, che agisce dentro dinamiche e filiere sociali molto dirette. Con Alquati possiamo definirla di “medio raggio”, nel senso di un intervento politico pubblico, fortemente condiviso, praticato nel quotidiano e in uno specifico territorio; condizione che permette più facilmente di non scadere nel leaderismo e nel soggettivismo perché impegnata alla organizzazione della forma pubblica dell’autonomia operaia. Si tratta di organismi proletari di massa, autonomi da partiti e sindacati, dove la lotta per affermare i bisogni e l’uso della forza marciano di pari passo: si vuole essere quadri complessivi, nel senso che non deve esserci separazione tra il politico e il militare. Tra il ’76 e l’80 si registrano in Veneto più di 500 atti di “uso ragionato della forza”. Nella maggior parte dei casi sono azioni di sabotaggio e danneggiamenti nei confronti delle proprietà di fascisti, forze dell’ordine, politici democristiani e baroni universitari. Fratellanza e intelligenza, forza e complicità: questo diventa lo spazio dove si colloca la nuova militanza. (p. 51)

Tutto si mescola freneticamente in mesi che valgono come anni, mentre la crisi italiana si avvita sempre di più tra tentazioni autoritarie e il fosco orizzonte del compromesso storico in gestazione.
In una dimensione di densa socialità e contropotere reale esercitato nei territori, si va a costituire quello che l’autore definisce “il laboratorio veneto” – un rapporto di forza reale che misura ogni giorno la propria egemonia; ma che costringe anche a reinventare continuamente forme, linguaggi e pratiche, per rimanere al passo con i tempi della crisi/ristrutturazione che sta ridisegnando la società veneta. L’allungamento della filiera produttiva – che oggi è assunto come elemento fondamentale di gerarchizzazione del lavoro vivo – conosce in quel tessuto un suo campo fondamentale di avvio e sperimentazione. I giovani autonomi vicentini “inseguono” davanti ai cancelli delle fabbriche i loro coetanei operai, organizzando le ronde contro gli straordinari o l’intervento contro i licenziamenti, ma devono anche nel contempo costruire le loro “filiere” alternative – sociali e antagoniste – in cui ricomporre nel territorio quel mondo operaio che si va sfilacciando, nel decentramento produttivo, nell’autosfruttamento dei capannoncini e del lavoro a domicilio.

Tutta la storia dell’Autonomia vicentina – per collocazione, cultura, memoria – è imperniata sul rifiuto/superamento della condizione operaia. L’esperienza storica dei Gruppi Sociali vive all’interno di questa dinamica diventando immediatamente lo strumento attraverso il quale aggredire e rompere la nuova costrizione al lavoro. In particolare questo progetto organizzativo trova sostegno pieno nella teoria dell’operaio sociale che permette a tutti – operai, disoccupati, studenti, piccoli commercianti, precari etc – di sentirsi direttamente messi in produzione […] Esistiamo allora come operai e operaie sociali, non come figure sociologiche ma in quanto soggetti politici capaci di trovare soluzioni che liberino conflitto di classe, nella sua forma post-fordista. L’intervento militante quotidiano privilegia i nuovi distretti industriali, i nuovi laboratori, i paesi dove i comparti della grande fabbrica vengono decentrati. Il lavoro ci insegue sempre più dentro il territorio e noi lì lo abbiamo aspettato. Perché questo è il terreno in cui siamo più forti. (p. 93)

L’operaio sociale è quindi la categoria che supporta questo sforzo tutto politico: e nasce dalla pratica, dalla necessità di “giustificare” e sistematizzare questi processi. Ortoprassi e spregiudicatezza teorica sono in quegli anni due poli che marcano un processo necessario e virtuoso di prassi-teoria-prassi (poi diventeranno sbracamento solipsistico, man mano che il conflitto si essiccherà e resteranno in campo solo i chiacchieroni da seminario, ma questo è un altra storia).

L’autore rende puntigliosamente conto dei processi di formazione delle strutture autonome – dai coordinamenti operai ai comitati studenteschi, ricomposti orizzontalmente nella figura dei Gruppi Sociali – ,così come delle campagne che scandiranno la forza crescente dell’autonomia operaia in veneto e la sua progettualità nazionale, in rapporto con l’area milanese di Rosso.
Nasce Radio Sherwood – con la sua redazione vicentina – ed il settimanale politico Autonomia: strumenti indispensabili per rendere conto della ricchezza delle iniziative diffuse sul territorio.
Le ronde operaie “mobili” contro gli straordinari, diventano modello di intervento nel sociale, nella lotta per la casa e nelle prime occupazioni di spazi sociali. Il crescendo del contropotere evoca un crescendo di repressione, che prova a rintuzzare, palmo a palmo, l’egemonia che gli autonomi conquistano su pezzi importanti di tessuto sociale: i confederali e il PCI diventano parte attiva di questo sforzo di contrasto all’autonomia operaia, in un susseguirsi di arresti, processi e inchieste, che culmineranno, nel grande showdown finale del PM Calogero (il libro riporta anche l’imbarazzante e famigerato post pubblicato nel 2017 da Umberto Contarello, all’epoca ventiduenne segretario della FGCI padovana, che racconta di come Calogero andasse personalmente nei locali della Federazione del PCI ad istruirlo sulla versione che avrebbe dovuto sostenere come testimone d’accusa al processo contro l’Autonomia…).

Ma nel vicentino lo spartiacque di un’epoca non è il 7 aprile del ’79. È piuttosto la tragedia di Thiene, la morte inaspettata di tre giovani proletari dei collettivi vicentini, Angelo del Santo, Alberto Graziani e Maria Antonietta Berna, e il successivo assurdo suicidio in carcere di Lorenzo Bortoli. Donato Tagliapietra lascia capire che fu quell’evento a segnare la fine di qualcosa: agli attacchi repressivi le strutture autonome erano abituate; ma i fatti di Thiene recano un segno autodistruttivo che difficilmente avrebbe potuto ricomporsi.

A Thiene, attorno alle ore 17.00, un’esplosione provoca la morte di tre compagni, militanti dei Cpv. La storia si interrompe e si capisce che niente più sarebbe stato come prima. Esiste un prima e un dopo l’11 aprile ’79. (p. 163)

I tre militanti stavano realizzando un ordigno esplosivo che sarebbe servito dentro la campagna di risposta alla maxi retata del 7 Aprile. Le strutture dell’autonomia vicentina rivendicano immediatamente l’internità delle figure e del percorso dei tre giovani militanti morti e scrivono in un comunicato uscito subito dopo i fatti:

Nessuna disputa di linea politica, nessuna differenziazione di impostazione di analisi dentro il movimento, può offuscare, negare l’appartenenza dei compagni all’intero movimento rivoluzionario, a tutti i comunisti. L’intero movimento di classe deve rivendicare a sé questi compagni caduti. Per non dimenticare. Per ricordare. (p. 164)

L’autore ci riporta al clima drammatico di quei giorni.

Quella che si scatena contro una piccola realtà di provincia è una repressione senza eguali. Crudele e feroce. L’intento è quello di sradicare definitivamente l’organizzazione autonoma. Viene messa in campo da Dalla Chiesa attraverso un’operazione che militarizza per un mese un intera zona. (p. 167)

Mandati di cattura e perquisizioni piovono a tappeto su tutto il territorio:

Nel nostro caso niente viene risparmiato, fino alla contestazione a tutti del reato di omicidio. Non esiste un impianto accusatorio, non è mai esistito durante tutta la fase processuale. La volontà di spargere terrore con la rappresaglia è l’impianto accusatorio. Scattano dappertutto posti di blocco, controlli nei luoghi frequentati dai compagni e nelle loro abitazioni. Nei luoghi frequentati dal movimento i poliziotti si scatenano contro le compagne con provocazioni sessiste. (p. 168)

Le persone care alle vittime vengono arrestate o inquisite. Tra loro Lorenzo Bortoli, affittuario dell’appartamento in cui avviene la tragedia e compagno di Maria Antonietta. Dopo due mesi di isolamento, vessazioni, trasferimenti e provocazioni, Lorenzo si suicida nella sezione transiti del carcere di Verona. Da settimane è in piedi una campagna di opinione per la sua liberazione, visti i tentativi di suicidio già messi in atto e lo stato di profonda prostrazione psicologica provocata dalla morte della compagna, oltre che dalla detenzione. Il quarto funerale a pugni chiusi, nella piccola straziata provincia vicentina.

Tra latitanza, carcere e processi (le ultime prescrizioni arrivano nel 2006!) la vicenda politico organizzativa dei Collettivi politici vicentini termina all’inizio degli anni ’80. Le scelte di vita si dividono, il territorio muta segno rapidamente: l’eroina si diffonde capillarmente anche nei piccoli centri; ampi settori del Veneto, soprattutto fino al rapimento Dozier, restano zone altamente militarizzate (a Padova città si riuscirà a rompere il divieto di manifestazione solo nel 1985, dopo l’esecuzione sbirresca di Pedro Greco). E cosa più importante: la controrivoluzione sociale accompagna la valorizzazione capitalistica del “modello veneto”, che passa da dimensione produttiva marginale e periferica, all’inserimento nelle grandi filiere produttive tedesche e mitteleuropee.

L’autore, a differenza di altri che hanno contribuito ai volumi precedenti della serie, ci tiene a rendere onore ai tanti che hanno proseguito, negli anni 80/90 la continuità di un’ipotesi politico organizzativa legata all’autonomia.

Quando uscii le cose erano cambiate, ma mi sentivo ancora interno a una situazione di lotta solida e importante. La storia continuava. Mai un giorno a Padova, dagli studi di Vicolo Pontecorvo, Radio Sherwood era stata in silenzio. Accompagnava sosteneva, difendeva e organizzava lo spazio autonomo. Nasceva il Coordinamento Nazionale Antinucleare Antimperialista, che tanta importanza ebbe in quel preciso momento, considerando quanto di drammatico stava succedendo dentro le organizzazioni combattenti clandestine e nelle carceri speciali. […] Da quel ciclo di lotte presero vita le prime occupazioni con l’avvio, lungo gli anni Novanta del movimento dei Centri Sociali. Nel 1988 a Padova, in via Ticino, nasceva il Pedro, l’anno dopo a Mestre il Rivolta, poi il Morion a Venezia, l’Aggro nel Trevigiano, l’Emoprimodellalista nella bassa padovana, fino allo Ya Basta di Vicenza. […] Quello fu molto sommariamente l’impianto di movimento con il quale si arrivò a Genova 2001. E dopo Genova il movimento di lotta contro la base americana di Dal Molin, a Vicenza, nel febbraio 2007 portò in piazza una manifestazione autonoma di 200.000 persone. (p. 203)

Tutto storicamente corretto. Ma non ci si può sottrarre alla domanda più dolorosa, con cui fa i conti Elisabetta Michielin nella bella introduzione:

Aver visto giusto, aver guardato al territorio pone però un problema. Com’è potuto accadere che lo stesso territorio, lo stesso rifiuto del lavoro, hanno portato a un cambiamento di segno inaspettato nella sua radicalità? Insomma, come e perché si è prodotto l’uomo nuovo della Lega? Quei ragazzi che, piuttosto di entrare in fabbrica, avevano deciso di prendere le armi, come sono diventati gli sfruttatori di se stessi nelle miriadi di piccoli opifici che hanno fatto il miracolo del Nord Est nel secolo scorso? […] E ancora: che quella produzione di soggettività, moltiplicatrice di libertà e di invenzione, abbia partorito il mostro dell’autoreferenzialità e dell’esclusione, in una parola l’inimicizia assoluta nei confronti dell’altro e la completa identificazione con il lavoro? (p. 9)

Domande dolorose. Risposte che meriterebbero ben più di un libro.