di Valerio Evangelisti

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[E’ trascorso un decennio da quando Carmilla pubblicò questo articolo, apparso anni prima su una rivistina “militante”. Ritengo opportuno riproporlo, sia perché i nostri lettori sono in parte cambiati, sia perché la sostanza del discorso mi sembra ancora valida. Oggi, forse, più di allora.]

C’è da chiedersi davvero come il marxismo, nato quale strumento di liberazione delle classi subalterne, e non solo delle classi subalterne, abbia potuto essere frainteso al punto da venire identificato come una negazione di libertà. E perché mai tutte – dico tutte – le società fondate sui suoi presupposti siano risultate in varia misura inaccettabili e disumane, tanto da perire simultaneamente in un grande suicidio collettivo – salvo le poche che sopravvivono in posizione marginale, oppure che, come la Cina, hanno adattato a una struttura politica dispotica rimasta intatta elementi di capitalismo mutuati dall’Occidente.Sono ben consapevole che la domanda si presta a un’infinità di risposte e solleva questioni enormi. Ma, in un momento in cui il capitalismo trionfante rivela il proprio volto più odioso, da qualche parte bisognerà pure cominciare a cercare di rispondere, se si è convinti che un percorso di liberazione debba nuovamente essere intrapreso. Altrimenti non resta che far finta che nulla sia accaduto, iscrivendosi così di diritto al partito degli imbecilli, oppure adeguarsi a una realtà che vede i tre quarti dell’umanità crepare di stenti per mantenere il restante quarto, a sua volta stratificato al suo interno.
Se una riflessione critica deve avere un punto di partenza, penso che occorra cercarlo nella radice stessa del marxismo, e cioè in Marx. Da lì il movimento operaio è partito per andare a perire. Da lì dovrebbe ripartire per disegnarsi un nuovo destino.

1. L’errore capitale

Affronterò il tema prendendolo un po’ alla lontana. Il valore scientifico della critica marxista dell’economia per decenni è stato posto in discussione, dagli economisti borghesi ma non solo, per via della nota contraddizione riguardante la trasformazione dei valori in prezzi. Credo che sia opportuno riassumere la questione per chi non sia al corrente dell’oggetto del contendere.
E’ noto che, secondo Marx, le merci si scambiano sulla base della quantità di lavoro che è stata necessaria a produrle, che determina dunque il loro valore. Ciò vale anche per la merce forza-lavoro, il cui valore è dato dalla quantità di lavoro contenuta nelle merci necessarie alla sua riproduzione – cioè dall’assieme dei beni che, in condizioni date, consentono agli operai di vivere, mettere su famiglia, accedere ai beni di consumo indispensabili o comunque socialmente ritenuti tali, ecc.
Qui sta la radice dello sfruttamento. Perché, delle merci che gli operai producono, solo una quota minoritaria è destinata alla riproduzione della loro classe; il resto, sottratto il valore (sempre espresso in lavoro, sia chiaro, e misurato in ore) dei beni di produzione, viene appropriato dalla classe capitalistica e distolto da un uso sociale. Marx, in parte sulla scorta di altri economisti classici, chiama capitale variabile (v) la quota del valore prodotto destinata alla ricostituzione della forza-lavoro, che si traduce, in termini monetari, nell’assieme dei salari; capitale costante (c) la quota riservata ai beni di produzione, vale a dire, sempre in termini monetari, gli investimenti in macchinari (con tutto ciò che è a questi legato: energia, manutenzione, ecc.); e plusvalore (p) la quota ulteriore appropriata dai capitalisti, cioè il valore del pluslavoro che gli operai erogano a beneficio non di se stessi, ma della classe che li domina.
La formula c+v+p è quella detta della composizione organica del capitale, mentre la formula del profitto (P) è data dal rapporto p/(c+v).
Mi scuso di questa esposizione elementare, ma cose che un tempo erano universalmente note, oggi appaiono molto meno scontate. Continuando a sintetizzare all’estremo, le cose si complicano quando, per l’individuazione dei meccanismi di sfruttamento e di accumulazione del profitto, si passa da un unico ipotetico stabilimento all’intero sistema. Marx ipotizza (realisticamente) due settori produttivi, di cui uno dedito ai mezzi di produzione (con due sezioni: produzione di mezzi produttivi di mezzi di produzione, produzione di mezzi produttivi di beni di consumo), l’altro ai beni di consumo, in rapporti di scambio tra loro. E’ chiaro che, nei due settori, la composizione organica del capitale sarà differente, essendo diversa l’entità del capitale costante impiegato. Varierà dunque, conseguentemente, anche l’entità del profitto realizzato.
Fin qui, si badi, stiamo parlando di valori, legati al numero di ore lavorate contenute nel prodotto: la moneta è ancora di là da venire. Gli scambi tra i due settori, come in genere quelli tra merci, si hanno sulla base del valore dei beni prodotti. Ma la forma concreta in cui ciò avviene deve vedere di necessità la partecipazione della moneta. A questo punto fanno la loro comparsa costi, prezzi e il profitto espresso in forma monetaria.
Avevamo ipotizzato profitti diversi, in termini di valore, nei diversi settori produttivi. Quando però parliamo di profitto monetario, il suo saggio, dato dal rapporto tra plusvalore complessivo e costi (costi per capitale variabile e costi per capitale costante), tende a essere il medesimo in tutti i settori del sistema. In caso contrario, infatti, non si avrebbe equilibrio, perché, ad esempio, se il produttore dei beni di consumo si accorgesse che il suo profitto è minore di quello dell’altro settore, abbandonerebbe i beni di consumo e si dedicherebbe ai beni di produzione. E viceversa.
La parificazione dei profitti, impossibile a livello di composizione organica, avviene al momento della fissazione dei prezzi dei beni prodotti. Marx parla infatti di prezzi di produzione, che si ottengono moltiplicando il valore del capitale impiegato in ogni branca produttiva per il saggio medio del profitto di tutto il sistema. Un differenziale, insomma, grazie al quale i prezzi vengono fissati in modo da ricondurre i profitti nella media, ridistribuendo il plusvalore complessivo nell’intero sistema in rapporto al capitale impiegato in ciascun ramo produttivo.
E qui sta l’errore madornale. Perché se gli scambi avvengono sulla base dei prezzi, e i prezzi vengono determinati tramite il saggio del profitto, non è più vero che le merci si scambiano in base al loro valore, cioè alla quantità di lavoro che contengono. Sarebbe vero solo se la composizione organica del capitale fosse identica in tutti i settori produttivi, il che chiaramente non è. Stando così le cose, la teoria del valore-lavoro risulta inutile ai fini della comprensione dei meccanismi effettivi del sistema economico.
Rimarrebbe un Marx “filosofo”, mentre il Marx critico dell’economia rientrerebbe nell’ombra, come la borghesia si è sempre augurata.

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2. Il mercato e la forza

Come ho già accennato, sono stati spesi fiumi d’inchiostro per trovare una via d’uscita soddisfacente al “problema della trasformazione”, che rimediasse alla svista di Marx e, al tempo stesso, salvasse l’essenziale della teoria dello sfruttamento. Solo in un caso l’operazione ha avuto successo: nella soluzione rigorosissima ed eterodossa proposta dall’economista italiano Vittorangelo Orati, rimasta purtroppo misconosciuta (V. Orati,Produzione di merci a mezzo lavoro, ed. Liguori, 1984). Tutte le altre soluzioni avanzate si sono rivelate insoddisfacenti, o perché troppo laboriose, o perché finivano col sopprimere questa o quella parte del ragionamento marxiano. La maggior parte degli economisti marxisti ha poi finito per far proprio lo schema di Sraffa della produzione di merci a mezzo di merci, che aggira la problematica dello sfruttamento dando per scontato un “surplus” di cui non spiega l’origine e la funzione sociale, essendo slegato dal valore-lavoro.
Lungi da me la pretesa di trovare una soluzione nuova a un problema tanto complesso, su cui generazioni di brillanti studiosi si sono cimentati senza risultato. Due cose, però, mi preme di far notare. Se invece di un sistema economico delimitato si prende in considerazione il sistema-mondo, e i rapporti di forza che vi vigono, una parte della contraddizione si scioglie. Non è più necessario, infatti, ipotizzare un saggio di profitto tendente all’identità in ogni settore produttivo. Su scala globale, infatti, ciò non è affatto vero. La dialettica sviluppo-sottosviluppo, i rapporti imperialistici tra primo, secondo e terzo mondo, il reticolo dei ricatti economici fanno sì che tra aree produttive il tasso di profitto vari sensibilmente, pur tendendo certo all’identità nei settori compresi in una stessa area. Come sistema-mondo, il sistema capitalistico non è affatto in equilibrio, o meglio, è retto da un equilibrio precario sorretto dai rapporti di forza.
Per comprenderci meglio, se in un quadro solo nazionale o locale il capitalista produttore di beni di consumo che realizzasse un profitto inferiore a quello vigente nel settore dei mezzi di produzione si sposterebbe in quest’ultimo, analogo spostamento non è consentito in ambito mondiale, dove le aree destinate alla produzione di beni di consumo sono vincolate a rimanerlo per sempre, salvo difficili negoziazioni con gli organi del potere sovranazionale. Su scala globale, pertanto, la teoria dei prezzi di produzione risulta superflua: le merci si scambiano tendenzialmente sulla base del loro valore, cioè del loro contenuto in lavoro, equivalente al prezzo (salvo contingenti fluttuazioni), senza adeguamenti a un saggio medio di profitto che risulta inesistente se non all’interno dei singoli settori locali. Eventuali scostamenti dei prezzi dai valori saranno dovuti non alla concorrenza, irrimediabilmente falsata, ma all’esercizio dei rapporti di forza che citavo – e che possiamo considerare un dato, dal momento che non traggono origine dalla dinamica economica, ma determinano le forme di quest’ultima. E poiché nell’area economica che produce mezzi di produzione (con le sue due sezioni), i cui centri di comando sono nell’Occidente (un Occidente esteso ai paesi asiatici “fedeli”), la composizione organica del capitale è più elevata, in quest’area sarà più elevata la produttività del lavoro, e dunque il saggio del plusvalore, e dunque il saggio del profitto; provocando un perenne squilibrio a tutto sfavore delle aree esclusivamente produttrici di beni di consumo.
Ma è lecito sopperire alle falle logiche del pensiero marxiano ampliandone il contesto? Credo di sì, perché Marx, pur prendendo le mosse da ambiti geografici e temporali precisi e anzi storicizzando fino in fondo le proprie teorie, finisce sempre per alludere a figure astratte prese quali modelli universali (il lavoratore collettivo, il capitalista collettivo, l’astrazione monetaria, ecc.). Così facendo approda alla descrizione di un intero sistema capitalistico modello, in quanto tale applicabile a società diverse nel tempo e nello spazio da quella assunta a base per la definizione del modello stesso. Non è necessario, infatti, tenere a mente la società in cui visse Pitagora per cercare di verificare la validità della tavola pitagorica: se quest’ultima si applicasse solo ai sassi dell’agorà ateniese, già da un pezzo avremmo smesso di parlarne.
Tutto ciò, però, è secondario rispetto al discorso che vorrei fare. Ciò che è centrale, invece, è l’asserzione che la teoria del valore-lavoro viene interamente ripristinata dalla presenza di rapporti di forza, cioè da una situazione di prepotenza da un lato e di costrizione dall’altro. Questo stato di cose, ho detto, va considerato un dato, intendendo con ciò una situazione predeterminata, anteriore alla costruzione del modello, che anzi prende vita adeguandosi a essa.
La posizione sovraordinata di alcune aree economico-sociali, cioè, non scaturisce per conseguenza logica dal modello di scambi instaurato, ma si determina prima, a seguito di una violenza originaria che costringe alcuni popoli all’obbedienza mentre assegna ad altri (o meglio, alle loro classi dominanti) il comando. E’ solo dopo che i vincitori impongono un sistema economico che perpetui la loro supremazia.
E’ chiaro che alludo alla colonizzazione e alla conquista di intere aree del mondo, poi obbligate a produrre per sempre quei beni di consumo di cui colonizzatori e conquistatori, divenuti nel frattempo produttori di mezzi di produzione, avevano bisogno. Penso che ciò non abbia bisogno di ulteriori dimostrazioni, e vada considerato come acquisito dalla ricerca storica. Più delicato è invece il passaggio successivo. Abbiamo visto ora l’esistenza di un dato – l’impossibilità di un saggio uniforme del profitto – che cela una situazione di violenza e di potere. Esistono, negli schemi marxiani di descrizione dell’economia capitalistica, altri dati generati all’esterno dell’economia stessa?
Sì, ne esiste uno: il capitale variabile, ovvero il valore della forza-lavoro.

3. Due forme di violenza

A ben vedere, tutta la teoria marxiana riposa sul fatto che la forza-lavoro, al pari delle altre merci, è retribuita al suo valore; cioè al valore del lavoro contenuto nelle merci necessarie a ricostituirla. Tale valore è storicamente dato: in ciascuna società e in ciascuna epoca storica esiste un “pacchetto” di merci ritenuto necessario alla ricostituzione della forza-lavoro, si tratti di semplici beni di sussistenza (come poteva essere nei secoli passati) oppure di beni di sussistenza integrati da altri beni di consumo il cui possesso è ritenuto o divenuto “normale”. Non dimentichiamo, infatti (e qui ci scostiamo consapevolmente dal ragionamento marxiano), che nel valore della forza-lavoro, nella sua espressione monetaria (salario), una quota è destinata a riprodurre non solo il produttore, ma anche il consumatore – cioè l’acquirente di una parte dei beni di consumo prodotti dal sistema.
Ma prima di affrontare quest’ultimo argomento, che costituisce in certa misura un elemento innovativo, è bene soffermarsi sul nostro “pacchetto” di merci che consente alla forza-lavoro di riprodursi. Chi lo determina? Non gli schemi di riproduzione del capitale, e nemmeno le formule del plusvalore. E’ la società che lo determina, in un processo che sul piano logico si colloca anteriormente ai meccanismi economici.
Il plusvalore, chiave dell’accumulazione di capitale e momento costituente dell’intero sistema capitalistico, è dunque funzione inversa (ricordiamoci che p = c / v ) di una variabile che si costituisce non nell’economico, ma nel sociale, in un quadro di rapporti di forza. I rapporti di forza esistenti tra chi riceve una retribuzione commisurata ai suoi bisogni di riproduzione e chi determina 1) l’ammontare di quella retribuzione; 2) quale parte della popolazione debba semplicemente riprodursi, producendo ricchezza. Tutte e due queste scelte vengono operate sul piano storico-sociale, in un virtuale momento che si colloca “a priori” rispetto all’economia. E quel momento è interamente occupato dall’esercizio del potere, dallo scontro da cui qualcuno esce sconfitto e qualcun altro vincitore, dalla costrizione politica.
Le classi, insomma, vengono modellate non dai meccanismi di estorsione del plusvalore, che servono unicamente a perpetuarle, bensì dall’azione cosciente dei vincitori di un conflitto che ha già avuto luogo, il risultato del quale è il potere per alcuni di condannare altri alla riproduzione come forza-lavoro, cioè alla creazione gratuita di ricchezza a beneficio dei dominatori. Dominatori il cui potere consiste essenzialmente nella possibilità di ordinare la società in classi sociali e di sorvegliarne la stratificazione a proprio beneficio.
In Marx tutto ciò emerge con evidenza dalla parte del I libro del Capitale dedicata alle forme storiche dell’accumulazione primaria in Inghilterra. Ma altrettanta chiarezza non c’è nei marxisti e nei marxismi successivi, tutti tesi a studiare forme eque di ripartizione del plusvalore, come se quello fosse stato il problema! Se si è seguito il ragionamento svolto fin qui, il problema era invece quello di eliminare la costrizione primaria, l’esercizio di forza volto alla stratificazione.
Pur tra molte incertezze, questa scala di priorità è abbastanza leggibile nella teoria marxiana, o almeno in alcune sue parti: al pensiero di Marx la tematica dell’estinzione dello Stato è consustanziale; molto meno a quello di Engels; meno ancora a quello di Lenin. I successori parleranno di estinzione dello Stato ripetendo un dogma divenuto litania, ma di cui – è tacita intesa – si potrebbe fare benissimo a meno.
Il “socialismo”, cui i marxismi danno vita, è essenzialmente un sistema teso a ridistribuire in forma sociale il plusvalore, sottraendo quest’ultimo all’appropriazione individuale; ma non è in alcun modo un sistema che sopprima la costrizione o l’esercizio del potere finalizzato alla stratificazione. Ciò che fa non è sopprimere il plusvalore (che si potrebbe sopprimere solo eliminando la grandezza da cui dipende, e cioè il capitale variabile), bensì affidarne la massa allo Stato affinché la ripartisca attraverso il suo uso sociale, cioè come “salario indiretto” che integra a posteriori il capitale variabile. Così un meccanismo economico sancitorio di una suddivisione in classi preesistente al suo avvio viene mantenuto sostanzialmente intatto, e si ha solo un aggiustamento nella destinazione del plusvalore. Ne scaturirà una nuova costrizione, che modellerà nuove classi e nuova forza-lavoro destinata alla semplice ricostituzione di se stessa. Quando il problema vero era quello della soppressione del potere di generare stratificazione, cioè di un’uscita dall’economia politica attraverso la dissoluzione della politica come esercizio di costrizione.
Quando i sistemi a “socialismo reale” (passati e presenti) dosano beni e ricchezze ai loro sottoposti in virtù del grado di fedeltà e di dedizione al lavoro che manifestano, di fatto esercitano una coercizione finalizzata a creare stratificazione. Condannano, cioè, a una condizione prossima o inferiore a una semplice riproduzione gli “asociali”, senza per questo che cessi l’estorsione del plusvalore a danno della popolazione nel suo complesso. Ci saranno scostamenti nella ripartizione del capitale variabile rispetto alla sua entità socialmente e storicamente data (meno agli “asociali”, più agli “integrati”), ma ci saranno sempre capitale variabile e plusvalore, e un potere che si autoconserva fissando l’entità del primo e la destinazione del secondo sulla base di rapporti di forza precostituiti. Cambiano la natura del potere e la fisionomia di contorno delle classi, ma non muta la logica del sistema.
Altro che liberazione! Il socialismo è una merda.

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4. Chi non salta è un plusvalore. E’. E’.

Avevo accennato di sfuggita al fatto che Marx, nel soffermarsi sul meccanismo di riproduzione della forza-lavoro attraverso un pacchetto di merci, non ne considera più di tanto la funzione consumatrice. Certo, le assegna un ruolo nella riproduzione del capitale (il capitale variabile della sezione I viene speso, assieme a una parte del plusvalore rimasto nelle tasche dei capitalisti, nei beni di consumo prodotti nella sezione II, così come il capitale variabile della stessa sezione II), ma non le attribuisce un ruolo dinamico nei confronti dell’intero sistema. La cosa è comprensibile: ai suoi tempi, i consumi della classe operaia erano ristretti a poco più del necessario per la mera sussistenza.
L’evoluzione storica, la nascita di una soggettività delle classi subalterne, le lotte e anche la maggiore ricchezza globalmente prodotta finiscono però per modificare, nel corso del ’900, la situazione, quanto meno nei paesi occidentali. L’allargamento assoluto della quota di capitale variabile, dovuta non a una diminuzione del plusvalore, ma a un incremento di tutte le grandezze (grazie anche a un’enorme velocizzazione dei processi di rotazione del capitale), finisce per conferire ai consumi operai quella funzione dinamica che prima non avevano o avevano solo in parte. L’automatica supremazia del settore I, produttore di mezzi di produzione, resta in vigore, come si è visto, nei rapporti internazionali. Ma all’interno dell’Occidente il settore II acquista forza sempre maggiore, dal momento che non si limita a produrre mezzi di sussistenza, bensì si allarga a un’ampia fascia di beni di cui la forza-lavoro ha necessità man mano che strappa giornate lavorative sempre più brevi, e dunque maggiore tempo libero. Ancora una volta, un dato economico cela un rapporto di forza, in questo caso squilibrato a favore delle classi subalterne.
Dove invece l’equilibrio resta quasi invariato è nei paesi socialisti, i classici “paesi del plusvalore”; perché qui le condizioni mutate non si traducono in un aumento significativo del capitale variabile – rimasto ancorato a livelli di sussistenza – bensì in una quota maggiore di plusvalore, che lo Stato ridistribuisce socialmente a conclusione di ogni ciclo produttivo. Di conseguenza, i consumi operai non acquistano funzione dinamica, dal momento che non di consumi si tratta, bensì degli esiti di una redistribuzione sociale del plusvalore, secondo criteri decisi di volta in volta dall’apparato statale (e con destinazione di larghe quote a rafforzare l’accumulazione del settore I). La supremazia rimane al settore I, la cui produzione (di mezzi di produzione) resta preponderante; nel settore II, invece, la produzione cresce molto meno, dal momento che v non cresce e pv viene in parte destinato al settore I. Bene, simile situazione rispecchia molto bene le formule di Marx, e anzi vi aderisce quasi interamente; ma riflette anche la stessa subordinazione della forza-lavoro in vigore ai tempi di Marx.
Se infatti è assodato, come credo, che capitale variabile è sinonimo di violenza e costrizione, impedire che esso si dilati nel consumo vuol dire bloccare non solo la dinamica economica, ma anche la dinamica sociale. Perché il consumo di beni che non siano di sussistenza è sintomo di tempo non lavorato, di ribellione ai ruoli e alle stratificazioni.
A qualcuno si rizzeranno i capelli in testa, ma sono convinto che la liberazione delle classi subalterne debba vedere molto consumo e molta produzione, al di là di ogni concezione monastica dell’eguaglianza; e ciò non attraverso la riappropriazione sociale del plusvalore, bensì tramite la fine della distinzione tra capitale variabile e plusvalore, e la distruzione dei rapporti di dominio, preliminari a ogni economia, che quella distinzione racchiude. Le società socialiste del plusvalore, riservando alla Stato la distribuzione del plusprodotto, hanno cristallizzato la forza-lavoro, l’hanno inchiodata al capitale variabile e alla propria riproduzione. Così hanno esercitato nei suoi confronti una violenza analoga a quella primaria che guida la stratificazione capitalistica, su scala locale, nazionale o mondiale, prima ancora che il sistema economico si incarichi di perpetuare la piramide delle diseguaglianze creato dall’esercizio della violenza e del potere.
Ma il discorso è appena agli inizi. Occorre soffermarsi sulle forme politiche della liberazione; occorre rivedere le formule di Marx in una chiave complessa, che cioè tenga conto delle dimensioni plurime – economiche e storico-sociali – di ciascuna delle loro grandezze; occorre far emergere il problema dell’individualità – matrice del consumo – che nessun marxismo post-marxiano ha saputo affrontare.
Compiti difficili, eppure non impossibili, per chi ritenga che un’ipotesi di superamento del capitalismo debba avere base concreta. E sia cosciente del fatto che non è consentito sbagliare una seconda volta.