Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 20 Apr 2024 05:00:25 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Per Valerio (20 giugno 1952 – 18 aprile 2022) https://www.carmillaonline.com/2024/04/20/per-valerio-20-giugno-1952-18-aprile-2022/ Sat, 20 Apr 2024 05:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82003 Caro Valerio,

sono passati due anni da quando hai scelto di ritirarti su un pianeta migliore di questo.

Due anni possono essere molto lunghi e allo stesso molto brevi: lunghi perché non c’è stato momento in cui la tua figura e le tue parole non ci siano mancate, brevi perché ci è sembrato sempre che tu fossi ancora qui, con noi.

Alla notizia della tua scomparsa, in redazione, il dolore si era subito sommato al timore. Il timore di non farcela a continuare il tuo lavoro, lo sconforto per non essere magari in grado di mantenere la barra salda e [...]]]> Caro Valerio,

sono passati due anni da quando hai scelto di ritirarti su un pianeta migliore di questo.

Due anni possono essere molto lunghi e allo stesso molto brevi: lunghi perché non c’è stato momento in cui la tua figura e le tue parole non ci siano mancate, brevi perché ci è sembrato sempre che tu fossi ancora qui, con noi.

Alla notizia della tua scomparsa, in redazione, il dolore si era subito sommato al timore.
Il timore di non farcela a continuare il tuo lavoro, lo sconforto per non essere magari in grado di mantenere la barra salda e rischiare, per questo motivo, di andare a sbattere contro scogli e demoni che tu sapevi sempre indicare e prevedere per tempo.

Con le gambe inizialmente molli siamo riusciti, però, ad andare avanti e a mantenere quella unità nella diversità che ha sempre contraddistinto Carmilla, la tua creatura.
L’abbiamo fatto continuando a scrivere, “ostinatamente in direzione contraria” come avrebbe detto De André; ad osservare il mondo, la cultura e la letteratura con strumenti sempre diversi per ognuno di noi, ma che tu ci hai insegnato ad affinare.

Alcuni di noi ti hanno dedicato un libro, sperando che altri, magari ad opera di studiosi più giovani, possano seguire, per sottolineare l’importanza della tua opera e dei tuoi scritti in un ambito letterario e culturale spesso asfittico, anche quando si pensa “altro” e di “opposizione”.

Abbiamo continuato ad immaginare e re-immaginare il mondo, conducendo la battaglia che forse ti stava più a cuore: quella contro la colonizzazione dell’immaginario collettivo ad opera del capitalismo e dei suoi servi e scherani.

Unico italiano a farlo e ad anticiparlo, insieme a James Ballard e Philip Dick, hai saputo cogliere nella continua rifondazione dell’immagine del mondo uno dei momenti e modi topici per combattere e controbattere il dominio reale instaurato dal capitale. Non solo sul terreno del valore e della sua costante accumulazione attraverso lo sfruttamento di ogni risorsa vivente, ma soprattutto su quello di ciò che davvero conta, oppure no, per la prosecuzione della vita su questo pianeta.

Una vita vera e piena che, per te e per noi tutti, non può essere sottomessa o ridotta alle esigenze del capitale morto. Quel capitale accumulato che si nutre di orari di lavoro e ricatti sullo stesso sempre più pesanti e dal quale occorre far di tutto per fuggire.

Abbiamo seguito le tue tracce sul cammino che porta alla capacità di resistere, comunque, al vampiro che ancora attanaglia il mondo dei viventi e che cerca, in modi sempre più abbietti, distruttivi, perversi e demoniaci di trasformarlo in un mondo di zombie, di morti viventi. Chiamando vita ciò che è morto e condannando tutto ciò che gli si oppone.
Chiamando pace la guerra ed esaltando quest’ultima come mezzo definitivo per affermare in eterno i propri, miserabili valori.
Travestendo da “diritto” ogni individualistica affermazione del povero e impotente “io” borghese contro il ben più importante interesse collettivo e la potenza della riflessione che può scaturirne.

Noi siamo ancora qui, al nostro posto e al tuo fianco: contro il nazionalismo, il fascismo, l’egoismo, la miseria economica e morale di un sempre più finto liberalismo.
No pasaran….anzi meglio Venceremos!

La Redazione
20 aprile 2024

]]>
L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv https://www.carmillaonline.com/2024/04/19/lebreo-immaginario-degli-antisemiti-non-abita-a-tel-aviv/ Thu, 18 Apr 2024 22:10:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81974 di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro [...]]]> di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita. 

E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna. La natura “sordidamente giudaica” infatti non viene attribuita agli ebrei, ma a tutta la società contemporanea, caratterizzata dalla scissione tra il citoyen, il cittadino astratto dedito al bene comune, incarnazione della volontà generale, portatore della razionalità illuministica, da una parte, e il bourgeois, l’uomo concreto, egoista, dedito esclusivamente ai suoi interessi individuali, ostinatamente attaccato alla sua particolarità, dall’altra. La raffigurazione dell’ebreo altro non è che il risultato dell’attribuzione a un’alterità mostruosa delle caratteristiche proprie del bourgeois. Le caratteristiche, cioè, della società civile che mettono costantemente a rischio l’appartenenza dell’individuo alla comunità politica raggiunta attraverso la partecipazione alla vita dello stato.
In queste pagine del giovane filosofo tedesco abbiamo, insomma, un’anticipazione del concetto psicoanalitico di proiezione, il meccanismo inconscio attraverso il quale un soggetto attribuisce a un nemico immaginario il proprio lato oscuro e inconfessabile. Nel caso specifico, la sua essenziale asocialità. Questo stesso dispositivo retorico viene replicato in molti altri testi, come accade ripetutamente con l’utilizzo da parte di Marx della figura dell’usuraio ebreo Shylock, il personaggio del Mercante di Venezia di Shakespeare. E ciò testimonia, secondo Disegni, come il tema dell’antisemitismo sia presente in tutta la sua produzione teorica. Sebbene in modo implicito, Marx ci ripete che gli antisemiti hanno la stessa religione dei loro ebrei immaginari: adorano solo il dio denaro.

Ma c’è di più. Secondo l’autore l’opera matura di Marx si può configurare anche come una critica dell’economia politica dell’antisemitismo. Quest’ultimo, sin dai suoi inizi fino al suo apice nazista, si basa sulla dicotomia tra lavoro e denaro. Il primo santificato, il secondo demonizzato. Il lavoro rende liberi, sta scritto all’entrata del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Quella che potrebbe sembrare soltanto una macabra ironia è in realtà uno dei fondamenti dell’antisemitismo, secondo Disegni.
Il lavoro è al centro del progetto emancipatore della modernità borghese. È ciò che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia della natura e di costruire liberamente il proprio mondo. È il naturale fondamento della proprietà. Ma il lavoro è anche ciò che, nell’ideologia nazista, connette i singoli alla comunità razzialmente connotata. Esso è pensato come intrinsecamente nazionale, ariano. Ma il mondo in cui si esplica questo lavoro è tutt’altro che coeso, pacificato, comunitario. È un mondo in profonda crisi, scisso. E questa crisi deve essere attribuita al potere del denaro che ha un carattere cosmopolita, ubiquo, astratto. In una parola, ebraico. Il potere del denaro opprime e disgrega la laboriosa comunità nazionale. Bisogna perciò eliminare ciò che impedisce il naturale compimento del benessere collettivo sopprimendo il mostruoso detentore di questo potere. In sintesi, si parte dalla dicotomia tra lavoro e denaro e si arriva alla soluzione finale. 

Vedremo tra breve la critica di Marx a questo dispositivo, ma prima bisogna notare che esso può funzionare solo se viene accettato il binomio ebrei-denaro. Un binomio che affonda le sue radici nel medioevo quando gli ebrei, impediti nel partecipare alle più comuni attività produttive, si specializzano nel commercio e nel prestito di denaro. Tutto ciò potrebbe far pensare a una sostanziale continuità tra il medioevo e modernità quanto a discriminazione contro gli ebrei. Cosa che Disegni nega decisamente. L’antisemitismo, afferma, è un fatto moderno che ha natura completamente diversa dall’antigiudaismo medioevale. Insomma, “soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare”, per dirla con Marx, può sorgere una questione ebraica, cioè il problema se sia lecito o meno negare l’emancipazione a un gruppo particolare.
Il trattamento discriminatorio riservato agli ebrei non poneva alcun problema alla coscienza medioevale. Quel mondo era esplicitamente composto da diversi gruppi caratterizzati da differenti diritti e doveri. La mancata emancipazione degli ebrei è dunque una questione che si pone nell’ambito del progetto illuministico, segnalando le sue interne contraddizioni. Anche se il binomio ebrei-denaro nasce in un lontano passato il suo significato muta con il mutare del significato del denaro che, nel mondo borghese, ha un ruolo essenzialmente diverso rispetto a quanto accadeva nei modi di produzione precapitalistici.

E qui è il concetto di modo di produzione ad essere quanto mai rilevante. Marx non parla semplicemente di un modo di appropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro. Cosa che sarebbe tutto sommato compatibile, secondo Disegni, con l’idea, antisemita, che è il potere del denaro ad espropriare il lavoro. Marx parla, appunto, di modo di produzione e cioè di una modalità in cui si esplica il lavoro che è essa stessa la forma in cui si realizza l’espropriazione. Insomma, la contraddizione è tutta interna al lavoro che, da una parte è strumento di potenziale emancipazione, dall’altra di effettivo sfruttamento.
Non è un caso che Marx giunge a formulare i suoi concetti più maturi sul capitale passando attraverso la critica di Proudhon che vorrebbe abolire il denaro per salvaguardare il lavoro. Il lavoro così com’è. Il socialista francese, veemente antisemita fino al punto di invocare lo sterminio degli ebrei, sarà sempre uno dei suoi bersagli polemici da un punto di vista teorico e politico. Perché la sua puerile dialettica tra un lato buono da salvaguardare (il lavoro) e un lato cattivo da abolire (il denaro) mette capo ad un programma che potremmo sintetizzare con la famosa formula “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Marx invece vuole un cambiamento radicale, a partire dal rivoluzionamento dei rapporti di produzione. Il filosofo tedesco non nega l’importanza del lavoro per l’emancipazione dell’umanità, ma ritiene che è proprio in questo ambito che si infrangono le promesse della modernità. Ed è proprio da qui che bisogna iniziare ad incidere se a quelle promesse si vuol tener fede.

Ma non è tutto. Il potere del denaro non è un mero abbaglio, ma un’apparenza necessaria che scaturisce dallo stesso modo di produzione capitalistico. È la realtà fenomenica, il mondo come appare immediatamente agli individui che si sentono soggiogati da una potenza aliena, estranea di cui non riescono a comprendere il funzionamento. Il denaro è la manifestazione più appariscente del capitale, anche se in realtà è solo una delle forme in cui si incarna il capitale stesso per adempiere alla sua natura di valore che incessantemente si valorizza. Tutto ciò sarebbe assolutamente impensabile al di fuori del modo di produzione capitalistico in cui il denaro, nelle sue diverse forme, è il medium universale della produzione materiale e dunque della riproduzione degli individui. Per questo il binomio ebrei-denaro nella modernità capitalistica mette capo a un particolare tipo di pregiudizio antiebraico, l’antisemitismo, che è cosa storicamente diversa dall’antigiudaismo del medioevo, epoca in cui il denaro ha solo un ruolo limitato.
Questo ci spiega, secondo Disegni, la pervasività dell’antisemitismo. Non è sbagliato parlare della radice piccolo-borghese di questo fenomeno, ma è limitativo. Se ci si fermasse a questa considerazione di natura sociologica, sostiene l’autore, non potremmo capire perché l’antisemitismo abbia attecchito ampiamente anche tra la borghesia propriamente detta e tra le classi popolari. L’apparenza necessaria di cui abbiamo parlato, essendo un fenomeno che in modi diversi riguarda tutti, ci può infatti spiegare la diffusione del pregiudizio antiebraico. 

In sede di commento, come già anticipato, prendiamo spunto da alcune questioni suscitate dal libro per arrivare ai giorni nostri. Sebbene Disegni non lo espliciti, a partire dalla connotazione storicamente determinata del pregiudizio antiebraico moderno, così come la descrive lo stesso autore, si può contestare alla radice l’idea che le critiche allo stato di Israele possano rappresentare una forma di antisemitismo, come pretenderebbe, per esempio, la cosiddetta definizione operativa dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto. La connotazione ectoplasmatica dell’ebraismo immaginario degli antisemiti è infatti l’esatto opposto della natura concreta di uno Stato. A maggior ragione se abbiamo a che fare con una potenza fortemente militarizzata e pervicacemente impegnata a conquistare palmo a palmo la “terra promessa”, incurante di chi da secoli la abita. Il forte legame con la terra contrasta in modo netto la natura deterritorializzata del potere del denaro, espressione per eccellenza del presunto potere ebraico.
Insomma, se vogliamo capire dove attecchiscono oggi le radici della sempreverde malapianta dell’antisemitismo dobbiamo guardare altrove. Bisognerebbe indagare il rapporto tra il pregiudizio antiebraico e il razzismo genericamente inteso, tema che è completamente assente nel testo di Disegni. Per esempio si potrebbe fare riferimento al ruolo attribuito al miliardario ebreo Soros nell’attuazione del fantomatico Piano Kalergi, cioè la sostituzione etnica delle popolazioni bianche attraverso l’immigrazione extraoccidentale. In questo ever green del complottismo più farneticante, vediamo fondersi il più classico antisemitismo con il razzismo altrettanto classico nei confronti delle popolazioni non occidentali che oggi si declina soprattutto come islamofobia. La comunità nazionale degli onesti lavoratori, per riprendere uno dei temi del libro di Disegni, non sarebbe oggi minacciata solo dall’alto, dal potere “ebraico” del denaro, ma anche (o forse soprattutto) dal basso, dalla marea di colore formata dai migranti. 

Il fatto è che in tempi recenti il capitale ha iniziato a dismettere le sembianze cosmopolite e multiculturaliste degli anni ruggenti della mondializzazione neoliberista. In tempi di deglobalizzazione selettiva (processo, invero, assai contraddittorio) indossa sempre più volentieri una maschera nazionale. Ma, sotto questa maschera, la comunità nazionale rimane un’ombra priva di corpo perché la scissione marxiana tra citoyen e bourgeois rimane operativa e, semmai, si è approfondita. Per questo si cerca dare nuova linfa a questo corpo esangue attraverso una retorica etno-nazionalista. Il risultato, però, è solo una fragile soggettività pseudo-collettiva caratterizzata da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Un rancore che può avere come bersaglio, anche se con motivazioni differenti, gli immigrati o un qualsiasi altro gruppo razzializzato. Compresi, evidentemente, gli ebrei perché il capitale deterritorializzato può tornare a rappresentare un nemico da dare in pasto alla plebe impoverita in un periodo in cui monta la retorica del rimpatrio dei capitali (che poi si rivela essere una parziale rilocalizzazione in chiave geopolitica).
Inutile girarci attorno, mettere a tema il rapporto tra antisemitismo e razzismo non può che creare imbarazzo tra i sostenitori a prescindere dello stato di Israele (per essere chiari, non sto parlando dell’autore del libro recensito di cui non conosco le posizioni in proposito). Il legame indissolubile tra colonialismo e razzismo, infatti, riguarda anche il sionismo che, sin dalle sue origini tardo ottocentesche, è un progetto di carattere coloniale. L’idea che la Palestina fosse una terra senza popolo da destinare a un popolo senza terra (in teoria al popolo ebraico, in realtà al movimento politico sionista che non ha mai coinciso con l’insieme delle persone di fede e cultura ebraiche) è tutto sommato sovrapponibile al concetto che da sempre giustifica la spoliazione coloniale, quello terra nullius: terra di nessuno, appunto, e per questo liberamente appropriabile. Il fatto che il sionismo abbia avuto successo perché ha offerto un approdo di salvezza agli ebrei perseguitati in Europa nulla toglie alla sua natura coloniale, mentre aggiunge sale sulle ferite del popolo palestinese che, utilizzando le parole di Edward Said, si trova a vivere non solo il dramma dell’occupazione, ma anche “la tragedia di essere vittima delle vittime”. 

In conclusione, tornando al testo di Disegni, è senz’altro vero, come sostiene l’autore, che l’antisemitismo ha una sua connotazione peculiare che lo distingue dal razzismo genericamente inteso. Ma distinto non significa privo di relazioni. Se, per contrastare un supposto antisemitismo, si finiscono per alimentare stereotipi razzisti di altra natura (per esempio quelli nei confronti delle popolazioni di fede islamica che si oppongono allo stato di Israele), si rischia seriamente di bruciarsi con il fuoco che si sta appiccando per tenere lontano dal proprio fortino le orde di barbari. Ha di nuovo ragione Disegni quando sostiene che l’antisemitismo è il frutto di una mancanza di radicalità nell’affrontare il tema del lavoro sfruttato e alienato, ma lo stesso vale per il razzismo in quanto tale. Una radicalità che possiamo ritrovare anche con l’aiuto di Marx. Una radicalità che la leggenda del suo antisemitismo vorrebbe screditare. Anche per questo è oggi utile leggere Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo.

]]>
Due anni… https://www.carmillaonline.com/2024/04/17/due-anni/ Wed, 17 Apr 2024 21:55:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82144 di Nico Maccentelli

Due anni fa ci lasciava Valerio. Due anni che sono volati tra vicende che stanno cambiando radicalemte il mondo. Me lo ricordo ancora, a operazione speciale russa iniziata, in una delle ultime assemblee contro la guerra, in teleconferenza, sostenere quello che poi gli analisti più acuti, quelli che non fanno propaganda e non sono a libro paga dei centri di potere mediatico delle élite atlantiste, vanno dicendo da un paio d’anni. L’analisi lucida di Valerio proveniva da quanto accadeva in Donbass fin dal 2014, da un sostegno internazionalista autentico verso quelle popolazioni martoriate da anni di bombardamenti nazisti.

Non [...]]]> di Nico Maccentelli

Due anni fa ci lasciava Valerio. Due anni che sono volati tra vicende che stanno cambiando radicalemte il mondo. Me lo ricordo ancora, a operazione speciale russa iniziata, in una delle ultime assemblee contro la guerra, in teleconferenza, sostenere quello che poi gli analisti più acuti, quelli che non fanno propaganda e non sono a libro paga dei centri di potere mediatico delle élite atlantiste, vanno dicendo da un paio d’anni. L’analisi lucida di Valerio proveniva da quanto accadeva in Donbass fin dal 2014, da un sostegno internazionalista autentico verso quelle popolazioni martoriate da anni di bombardamenti nazisti.

Non faccio certo fatica oggi a immaginare cosa direbbe Valerio di fronte a questa guerra imperialista a pezzi, a un imperialismo a dominanza USA in declino e all’ignavia complice dei vassalli tra i quali si distingue il nostro paese senza alcuna discontinuità tra centrosinistra e destre atlantiste, che proseguono a svendere il paese e a macellare le classi popolari.

E non faccio neppure fatica (a differenza di alcuni che questa “fatica” l’hanno fatta, prendendo solo ciò che faceva comodo…), a pensare a quali posizioni avrebbe avuto Evangelisti anche dopo i tre anni di pandemia: l’intervento a tre firme, di Valerio, Roberto Sassi (un compagno che anche lui se ne è andato recentemente) e mia (qui) aveva già tutto quello che serviva per svilupare un’analisi puntuale sulla svolta biopolitica autoritaria che poi ha fatto da preludio alla guerra imperialista: guerra sociale interna in tandem con quella esterna, basate entrambe sul ricatto, la paura, la criminalizzazione.

L’ultimo periodo di Valerio è stato molto limitante, non avendo lui il greepass. E uso un eufemismo. Anche gli ultimi compleanni fatti da Mimì, il ristorante sotto casa sua, erano un ricordo. Ci siamo ridotti a dei pranzi clandestini, dove ci ritrovavamo a parlare di quella fase di cui non si vedeva allora via d’uscita e della protesta sociale che andava letta al di là delle lenti ideologiche di chi da sempre cerca di adattarle alla realtà oggettiva e dei fatti.

È per questo che quest’anno, questi compagni hanno deciso di ricordare Valerio con un pranzo rievocativo di quei momenti. Un’iniziativa semplice, senza tanti fronzoli: non si è invitato praticamente nessun relatore, ci saranno solo interventi a ruota libera di chi ci vorrà essere. Penso che a lui sarebbe piaciuto così. Lui che non amava il frastuono delle lusinghe, le mitologie personalistiche, le corti dei miracoli. Ma invece una buona birra insieme, in sincera amicizia, sì.

 

]]>
Sport e dintorni – Autobiografia di John Carlos, inossidabile “eroe dello sport” https://www.carmillaonline.com/2024/04/16/sport-e-dintorni-autobiografia-di-john-carlos-inossidabile-eroe-dello-sport/ Tue, 16 Apr 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81595 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

John Carlos, Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, a cura di Dave Zirin, tr. it. di Gigi Roggero, DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 192, € 18,00

John Carlos rientra a pieno diritto in quella ristretta cerchia di sportivi che possono fregiarsi del “titolo” di “eroe dello sport”. Appartiene a tale categoria chi, a differenza del “campione”, oltre ad essere celebrato per le prestazioni in gara, assume una rilevanza che esula dal semplice successo sportivo, faccia breccia nella memoria collettiva, ispirando ideali e rispecchiando valori. Alla costruzione dell’“eroe dello sport” è [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

John Carlos, Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, a cura di Dave Zirin, tr. it. di Gigi Roggero, DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 192, € 18,00

John Carlos rientra a pieno diritto in quella ristretta cerchia di sportivi che possono fregiarsi del “titolo” di “eroe dello sport”. Appartiene a tale categoria chi, a differenza del “campione”, oltre ad essere celebrato per le prestazioni in gara, assume una rilevanza che esula dal semplice successo sportivo, faccia breccia nella memoria collettiva, ispirando ideali e rispecchiando valori. Alla costruzione dell’“eroe dello sport” è necessario un pubblico che si appassioni alle prodezze dell’atleta instaurando con esso una relazione stabile e fiduciaria, identificandosi con le sue vicende sportive ed extrasportive.

Oltre a ciò, il processo di eroicizzazione necessita di una narrazione adeguata e se agli albori del Novecento la figura dell’eroe sportivo risulta strettamente legata alla fatica fisica, al coraggio e alla caparbietà con cui l’atleta si impone di raggiungere l’obiettivo attingendo senza lesinare a tutte le forze di cui è in possesso, al mito delle origini difficili, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale – una figura spesso sfruttata dalla propaganda dei sistemi totalitari –, esiste un numero ancora più ristretto di casi in cui, invece, l’eroe diventa il simbolo del riscatto di un’intera comunità, quando non addirittura di un intero continente: un eroe che, affrontate con successo le prove che si presentano lungo il suo viaggio, riesce a condividere la vittoria con la sua gente e, al contempo, farsi portavoce di quest’ultima.

Tale variante di “eroe dello sport”, che si sottrae alle dinamiche della propaganda di regime (tanto nelle sue forme dittatoriali che democratiche), non a caso si sviluppa all’interno di quell’immaginario collettivo conflittuale proprio della “stagione dei movimenti”, tra la fine degli anni Sessanta del Novecento e la fine del decennio successivo, quando lo spazio dello sport, grazie anche alla sua inedita esposizione mediatica, viene travolto da una serie di eventi che ne riconfigurano gli spazi – sino a quel tempo “chiusi” alle dinamiche del mondo esterno – come spazi aperti, fluidi e contesi.

L’adesione nel 1964 del pugile afroamericano Cassius Clay ai Black Muslims, con tanto di cambio del nome in Muhammad Ali, e il suo rifiuto, espresso nel 1967, di prestare il servizio militare, dunque di prendere parte all’intervento armato statunitense in Indocina, intreccia due dei principali nervi scoperti che attraversano gli Stati Uniti dell’epoca: la guerra nel Vietnam e le lotte della comunità afroamericana. A fare di Ali un “eroe dello sport” è la sua capacità di usare contemporaneamente le armi del corpo e quelle della parola, abilità che gli consente di identificarsi con la sua comunità e le sue cause mentre questa, a sua volta, si riconosce nelle sue gesta e nelle sue parole.

Qualcosa di analogo avviene alle Olimpiadi del Messico del 1968, quando Tommie Smith e John Carlos entrano a far parte degli “eroi dello sport” nel momento in cui alla grande prestazione sportiva affiancano i pugni chiusi levati al cielo durante le premiazioni e pronunciano parole al vetriolo nel corso della conferenza stampa. È il momento culminante della battaglia antirazzista intrapresa dagli atleti afroamericani aderenti all’Olympic Project for Human Rights apertasi con la minaccia di boicottaggio dei giochi in segno di protesta contro il razzismo imperversante negli Stati Uniti e una serie di richieste che andavano dalla restituzione del titolo di campione dei pesi massimi a Muhammad Ali, la rimozione del razzista Avery Brundage da capo del Comitato olimpico internazionale, il divieto di partecipazione ai giochi olimpici alla Rodesia e al Sudafrica dell’apartheid.

Quanto è successo alle Olimpiadi messicane è entrato nella storia. Il 16 ottobre 1968, alla finale dei 200 metri piani, Smith vince la gara ottenendo il nuovo record mondiale della specialità mentre Carlos si piazza al terzo posto. Alle premiazioni i due atleti afroamericani decidono di salire sul podio scalzi, indossare un guanto nero e assistere all’inno statunitense a capo chino alzando al cielo il pugno chiuso. La successiva conferenza stampa, tra l’imbarazzo degli organizzatori e dei rappresentanti della delegazione statunitense, offre ai due l’occasione di spiegare il significato delle loro gesta sul podio: dare voce alla rabbia e alla volontà di lotta degli afroamericani contro la discriminazione razziale. Se a renderli campioni sono state le loro prestazioni atletiche, a farne degli “eroi dello sport” è stata la loro presa di coscienza di incarnare un’intera comunità e di agire e parlare in suo nome, contribuendo così a infiammare e dare forza agli oppressi, anche oltre la comunità afroamericana di appartenenza.

Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo di John Carlos (DeriveApprodi, 2024) risulta interessante non tanto per la curiosità di conoscere la vita di un “campione dello sport”, quanto piuttosto alla luce del fatto che Carlos continua a rappresentare – in compagnia di Tommie Smith e Muhammad Ali – una delle figure di “eroe dello sport” più inossidabili del pantheon dei “dannati della terra” afroamericani e non.

Come scrive Gigi Roggero nella Prefazione all’edizione italiana, dopo le Olimpiadi del Messico, Smith e Carlos erano visti come «appestati, colpevoli di non essersi limitati a correre per vincere medaglie, ma di aver voluto alzare la testa spostando l’attenzione sui diritti negati e una certa America, probabilmente la maggioranza, non glielo aveva perdonato». Ed è così. La “colpa” di Carlos, come del compagno Smith, è stata appunto quella di non essersi “accontentato” di essere un “campione” olimpico statunitense, ma di aver voluto “caricare” la sua impresa di gesti e parole in favore di una comunità sfruttata e mantenuta ai margini della società nordamericana. La “colpa”, come per Ali, è la presa di parola a nome di una collettività che si è prontamente riconosciuta in lui. L’autobiografia di Carlos assume dunque uno specifico valore proprio in questo, nel significare le vicende personali di una vita alla luce del ruolo che questa ha saputo incarnare nell’immaginario dei “dannati della terra”.

«Sento il fuoco per come i miei eroi Malcolm X e Paul Robeson sono diventati francobolli. Sento il fuoco per come Muhammad Ali è diventato un francobollo ambulante, un uomo senza voce. Sento il fuoco perché Martin Luther King è una tazza commemorativa da McDonald’s. Sono arrabbiato perché tutti i nostri denti politici sono stati sottoposti alla devitalizzazione della cultura pop». Così scrive Carlos guardando a come il potere ha tentato di riassorbire – riuscendovi solo in parte – la portata rivoluzionaria di gesta e parole come le sue in quei lontani giochi olimpici messicani. «“La rivolta dell’atleta nero”. Ora potete portarla al macero. È un modo per tenerci in campo, sicuri, dolci e vendibili. Non la vedo affatto come la rivolta dell’atleta nero. È stata la rivolta dell’uomo nero. L’atletica era il mio lavoro. Non ho fatto quello che ho fatto come atleta. Ho alzato la voce per protestare come uomo».

La storia della famiglia di Carlos è una delle tante storie di migrazione. Un padre calzolaio proveniente dalla Carolina del Sud chiamato a giocarsi la vita nella prima guerra mondiale trattato dagli ufficiali bianchi «come una merda» e una madre assistente infermiera, di origini giamaicane ma cresciuta a Cuba prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Una quotidianità fatta di lotte ed espedienti per sbarcare il lunario, di speranze più o meno frustrate di poter migliorare le condizioni di vita, di angherie a volte mandate giù a fatica altre combattute per garantire alle nuove generazioni tempi migliori.

Nato e cresciuto ad Harlem, a pochi passi dal Cotton Club, in un quartiere in cui bianchi e neri hanno convissuto senza farsi troppi problemi di pelle fino a quando la televisione ha mostrato marce per l’integrazione e lo spauracchio del “nero che si ribella” ha iniziato a togliere il sonno agli abitanti dalla pelle chiara che, in un battito di ciglia, hanno fatto i bagagli e abbandonato un quartiere “destinato” a vedere la droga diffondersi affiancandosi all’alcol e smembrando la comunità.

«Ero ad Harlem e la maggior parte delle persone che entravano nel nostro paradiso uptown erano bianchi provenienti dal centro». «Crescendo ad Harlem, non sapevo di essere “nero”. Ero un essere umano». «Ma andando al Savoy ho visto chi serviva e chi veniva servito. Vedevo chi mangiava bene e chi si occupava dell’intrattenimento». Il desiderio infantile di Carlos di andare alle Olimpiadi come nuotatore si infrange quando il padre trova le parole per spiegargli che il vero problema per avere accesso alla piscina per gli allenamenti non era dovuto alla retta di iscrizione al club ma al colore della pelle.

Carlos racconta di quando da ragazzino con la sua banda si appropriava come Robin Hood di cibo e vestiti depositati sui treni per distribuirli nel quartiere rincorso – invano, nel suo caso – dalla polizia. I ricordi vanno poi all’incontro con Malcom X nella sua Harlem. «Malcolm mi ha dato la giustificazione verbale e la fiducia politica per fare ciò che ho sempre sentito nel mio intimo: agire».

Ben presto in diversi si sono accorti della velocità con cui il ragazzino correva, dunque l’improvvisa opportunità di allenarsi al New York Pioneer Club, uno dei migliori club di atletica leggera newyorchesi nella difficoltà di procurarsi un paio di scarpette decenti. Il matrimonio con Kim in giovane età ed il trasferimento nel Bronx, ove sarebbe nata la figlia Kimme, dunque il periodo trascorso nell’East Texas. «Ho poi imparato qualcosa che ho portato con me fino a oggi: l’assoluto rifiuto di essere sfruttato. Ecco cosa e rimasto impresso nella mia mente dall’esperienza nell’East Texas. Ho visto come il mio dominio in pista generasse contratti per gli allenatori, fondi per il dipartimento di atletica e facesse aprire i cordoni della borsa agli investitori. Ho visto da vicino come ci fossero soldi per tutti, tranne che per le persone che ci mettevano il sangue, il sudore e le lacrime. Ecco perché ancora oggi, ogni volta che parlo, chiedo che gli atleti universitari ricevano una piccola parte della torta».

Dunque il ritorno a New York. «Era l’inizio del 1968 ed era ora di tornare a casa. Non sapevo quale sarebbe stata la mia prossima mossa. A quel punto non sapevo se avrei provato a partecipare alle Olimpiadi o se le avrei boicottate, stavo solo cercando di far uscire la mia famiglia da una situazione molto brutta. Ecco dove avevo la testa. Era ora che il “cavallo” tornasse ad Harlem». È questo il momento in cui la vita di Carlos si intreccia con quella dei leader dell’Olympic Project for Human Rights, con Lee Evans e Tommie Smith. Le infinite discussioni circa il “che fare” in vista delle olimpiadi messicane: «Il punto più basso e stato quando abbiamo dovuto discutere con altri giovani atleti la necessità del boicottaggio. Ci guardavano come se capissero e fossero d’accordo con noi, ma non avessero altra scelta che voltarsi dall’altra parte».

Poi, nell’aprile del 1968, l’assassinio di Martin Luther King a Memphis. E di nuovo tante discussioni circa la necessità di boicottare Messico 1968, tesi ormai sostenuta soltanto da Harry Edwards, Tommie Smith, Lee Evans e Carlos: «i ragazzi che si opponevano al boicottaggio e che mettevano il successo individuale al di sopra di tutto, avevano tragicamente capito in che direzione stesse andando il mondo. Farsi i fatti propri, mandare al diavolo gli altri, dimenticarsi delle proprie sorelle e dei propri fratelli: ecco cosa ha definito l’epoca moderna». La retromarcia del Cio sul Sudafrica ha contributo a spegnere l’idea del boicottaggio; non restava che trovare il modo per manifestare all’interno dei giochi olimpici la rabbia in corpo che non era venuta meno.

Anch’io volevo restare a casa, ma dopo aver riflettuto a lungo ho deciso che non potevo. Sentivo che se fossi rimasto a casa qualcuno avrebbe vinto una medaglia e sarebbe salito sul podio, e sarebbe stato al posto in cui dovevo esserci io. Non avrebbe rappresentato ciò che volevo e dovevo rappresentare in quel momento. Entrare in quella squadra era un imperativo. Era un imperativo vincere una medaglia, perché se non fossi rimasto a casa, volevo essere a Città del Messico per esprimere ciò che sentivo. Non sapevo cosa avrei fatto, ma qualcosa andava fatto e l’avrei fatto.

Il resto lo sappiamo. Quanto avvenne alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968 è l’inizio della storia di Carlos e al contempo ciò che risignifica la sua intera esistenza di “eroe dello sport”. Per fregiarsi di questo “titolo”, come detto, non basta essere “campioni”, occorre far parte di una “comunità di dannati in lotta”.


Sport e dintorni

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa https://www.carmillaonline.com/2024/04/15/il-nuovo-disordine-mondiale-25-fratture-della-guerra-estesa/ Mon, 15 Apr 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81870 di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e [...]]]> di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa .
«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes e Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.

Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per la LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.

Il titolo della rivista rinvia al Grande Continente, intendendo con questa definizione l’Europa nella sua possibile concezione francese (sottintendente per questo una grandeur che viene estesa all’intera politica continentale), sia nelle sue scelte economiche che politiche e strategico-militari.
Il contenuto, in questo numero, è ancora incentrato sulla guerra in Ucraina, essendo uscito, in Italia, proprio nel mese di ottobre 2024, a ridosso dell’azione militare di Hamas e delle sue conseguenze politiche, militari e umanitarie. Ma pur mantenendo il baricentro sulla frontiera orientale d’Europa, allarga comunque lo sguardo al rapporto tra guerra, tecnica, tecnologia e tecnocrazia (si vedano gli articoli da pagina 69 alla 113) e alla dottrina della “guerra ecologica” con gli articoli compresi tra pagina 117 e pagina 154.

Un panorama della guerra che viene oppure, a seconda dei punti di vista, che è già in atto che pone comunque al centro, fin dall’introduzione di Gilles Gressani e Mathéo Malik, il progressivo spostamento della centralità politica, militare ed economica dall’Occidente, e in particolare dall’Europa, ad altre aree, non solo geografiche.

Tra la pandemia e l’esplosione delle rivalità geopolitiche, un ordine è crollato; dal lento muoversi delle placche tettoniche, un nuovo mondo emerge, senza che si possa ancora definire la sua forma. Interregno: intervallo di tempo fra la morte, l’abdicazione, la deposizione di un re, o altro sovrano, e l’elezione o la proclamazione del successore. Periodo di vacanza, di passaggio, di transizione, di crisi. Interruzione di durata variabile. Tendenze di un mondo in profonda ristrutturazione, che però non siamo in grado di descrivere, trasformare o fermare1.

E’ una considerazione concisa e importante allo stesso tempo, quella appena citata. Una considerazione che riguarda l’ordine imperiale e geopolitico del mondo, in sempre più rapida trasformazione. Una considerazione in cui l’unico elemento assente è quello della lotta di classe che, comunque, tarda ancora a manifestarsi nelle forme e modalità ritenute canoniche. Motivo per cui, esattamente come per l’ordine geopolitico e imperiale messo in crisi, anche tanta Sinistra, sia istituzionale che (pretesa) radicale o antagonista, si è trovata impreparata, sorpresa e confusa una volta messa di fronte alla guerra. Fino al punto di schierarsi apertamente, e senza alcuna capacità previsionale, con uno dei fronti in lotta.

Ecco allora che la rivista qui recensita, che pure tifa per una delle parti già coinvolte nella lotta “dinastica”, in corso su scala planetaria da tempo, ma esplosa davanti a tutti a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, ovvero per l’Europa così come fino ad ora ha voluto fingere di rappresentarsi, può costituire un utile punto di riferimento per una riflessione che voglia escludere qualsiasi complottismo o interpretazione ideologizzata a proposito del nuovo disordine mondiale.

Nuovo disordine mondiale in cui tutti gli attori statali, economici e militari, pur fingendo grande unità di intenti con i presunti vicini e alleati, giocano in realtà per se stessi. In una partita il cui disordine aumenta man mano che tutte le regole precedentemente stabilite dal Risiko occidentale vengono abbandonate, tradite o ridefinite da ogni giocatore senza accordo alcuno con tutti gli altri players. Si tratti di Unione Europea, di NATO o di Brics (solo per sintetizzare in poche sigle), nessuno sembra davvero affidarsi totalmente agli alleati. In particolare nei confronti di quelli occidentali ed europei. Come si sottolinea ancora nell’introduzione:

Nella guerra che oppone la Russia all’Ucraina, i tre quarti della popolazione mondiale scelgono di non scegliere. Il non allineamento resta una leva potente per difendere i propri interessi. Dall’India di Modi al Brasile di Lula, passando per l’Indonesia di Jokowi o per le potenze del Golfo, delle nuove potenze geopolitiche formulano nuove priorità. Hanno dei mezzi, delle ambizioni a volte immense. Sfrutteranno tutte le estensioni della guerra per guadagnare il riconoscimento dei loro interessi. Utilizzeranno anche dei “modelli di crescita elaborati nel secolo scorso, in particolare la politica industriale e il capitalismo politico”. Bisogna studiarli da vicino per capire la loro forza di attrazione sul resto del mondo, ai danni di un continente ancora una volta traumatizzato, finalmente – e definitivamente? – provincializzato2.

E tutto ciò, che non può far altro che acuire il disordine e farlo precipitare in una guerra “grande” che già non si sa più se sia la Terza o la Quarta guerra mondiale e che più che essere la manifestazione di un “piano” o di più “piani” organizzati, è invece quella di una confusione generale di intenti e obbiettivi che non coincidono affatto, ma che confliggono tra di loro, anche all’interno dei maggiori paesi coinvolti.

Si badi, per esempio, alle esternazioni di Macron sulla volontà di inviare truppe in Ucraina: è forse un tentativo di compattare la Nazione in vista di un nuovo ruolo geopolitico della Francia oppure quello di mostrare che la grandeur della stessa (vecchio sogno di De Gaulle) potrebbe sostituirsi alla presenza americana, soprattutto dal punto di vista militare in Europa, dopo le dichiarazioni di disimpegno del tutt’altro che pacifista Trump in caso di vittoria di quest’ultimo alle prossime elezioni presidenziali?

Oppure è una sfida al Regno Unito e alla Germania sul piano militare e politico per chi davvero, in Europa, dovrà portare i pantaloni “mimetici” in casa? E tutte queste possibili considerazioni come possono condurre ad un reale impegno militare comune europeo e ad una centralizzazione del comando della forze armate dei paesi della UE?

Senza contare l’eterna conflittualità con l’italietta dei piani Mattei e dei sotterfugi per rimanere nell’Africa Sub-sahariana a discapito della presenza politica e militare francese nella stessa area. Oggi resa ancor più critica dopo la vittoria elettorale in Senegal di una fazione politica a lungo perseguitata da un Presidente particolarmente fedele all’Occidente e alla Francia.

Ridurre il tutto al conflitto per il petrolio sarebbe enormemente fuorviante. Certo il conflitto per l’oro nero insanguina il pianeta fin dalla prima guerra mondiale ed è giunto, oggi, fin davanti alle spiagge di Gaza, ma sottolineare un unico movente per il disordine che attanaglia il pianeta, nelle sue forme più sanguinarie e distruttive, è davvero troppo riduttivo e fuorviante. Tenendo anche conto del fatto che, come si segnala ancora nella stessa introduzione: «L’importazione di chip da parte della Cina – 260 miliardi di dollari nel 2017, anno dei primi passi di Xi a Davos – è stata di gran lunga superiore alle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita o all’export di automobili della Germania. Le somme che la Cina spende ogni anno per l’acquisto di chip sono superiori a quelle dell’intero commercio globale di aerei. Nessun prodotto è più importante dei semiconduttori nel commercio mondiale»3.

Pertanto, ancora solo a titolo d’esempio, la questione Taiwan va ben al di là del semplice interesse “nazionalistico” poiché, come ormai tutti dovrebbero sapere, l’isola rivendicata dalla Cina è il primo produttore mondiale di circuiti integrati. Settore, quest’ultimo, rispetto cui Pechino sta cercando di raggiungere una posizione di autonomia sia attraverso il controllo delle cosiddette “terre rare” necessarie per la produzione degli stessi, e del settore informatico ed elettronico più in generale, sia attraverso ciò che Xi definì proprio nel 2017 come l’”assalto ai valichi” ovvero al monopolio o ai monopoli della produzione dei semiconduttori, particolarmente importanti ormai anche dal punto di vista militare in un contesto in cui la Cina cerca da anni, in parte riuscendoci, di superare le forze armate americane sul piano dell’ammodernamento e nell’utilizzo dell’AI.

Se l’unico obiettivo della Cina fosse quello di giocare un ruolo maggiore in questo ecosistema (il settore dei semiconduttori – NdR), le sue ambizioni avrebbero potuto essere soddisfatte. Ma Pechino non sta cercando una posizione migliore in un sistema dominato da Washington e dai suoi alleati. L’invito di Xi a “prendere d’assalto le fortificazioni” non è una richiesta di una quota di mercato leggermente più alta. L’ambizione è diversa: si tratta di ricreare interamente l’industria globale dei semiconduttori, non di integrarsi al suo interno […] E’ una visone economica rivoluzionaria, con il potenziale di trasformare profondamente l’economia globale e i suoi flussi commerciali […] E non sono solo i profitti della Silicon Valley a essere minacciati: se lo sforzo cinese verso l’autosufficienza nei semiconduttori avrà successo, i suoi vicini, le cui economie dipendono per lo più dalle esportazioni, ne risentiranno ancora di più […] La posta in gioco è il più fitto insieme di catene di approvvigionamento e flussi commerciali del mondo, le filiere dell’elettronica che hanno sostenuto la crescita economica e la stabilità politica dell’Asia nell’ultimo mezzo secolo […] Nemmeno un populista come Trump avrebbe potuto immaginare una revisone più radicale dell’economia globale4.

Ma, ancora una volta, questo è solo uno degli elementi di confronto e conflitto, sospeso tra l’economico e il militare, che agitano le acque, non solo del Mar Rosso o del Golfo Persico. Motivo per cui, anche se per le ragioni precedentemente esposte, «Grand Continent» non poteva ancora parlarne, un ultimo sguardo, e forse anche qualcosa di più, va concesso a quanto sta capitando a Gaza e dintorni. A partire dall’ambigua posizione statunitense nei confronti di Isarele e del conflitto e ai massacri condotti nella striscia. Posizione che, con l’astensione (e non il veto) sulla mozione approvata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 25 marzo, più che dimostrare una ben organizzata strategia statunitense del Medio Oriente dimostra invece come il percorso ambiguo e altalenante sia dovuto più a indecisioni e debolezze, sia nei confronti di un elettorato interno stanco di Biden che di un mastino come Netanyahu che, nel suo disperato attaccamento al potere, morde la mano del suo attuale “padrone” sperando nell’arrivo, a novembre, di un altro meglio disposto (per ora soltanto a parole), più che a un ben mirato piano di controllo delle contraddizioni dell’area.

In un contesto in cui, sia con un presidente democratico che repubblicano, gli Stati Uniti dovranno tenere sempre più conto delle tendenze centrifughe degli alleati arabi e, allo stesso tempo, della sempre più forte presenza economica e diplomatica cinese nell’area del Golfo. Con un progressivo allontanamento da Israele come unico garante degli interessi americani nell’area medesima.

In fin dei conti la confusione israeliana nell’azione a Gaza è lo specchio della confusione americana e occidentale in genere. Confusione che, attualmente, è in grado di garantire soltanto il diffondersi di un paesaggio di rovine da Gaza City a Kiev e Belgorod senza altra prospettiva del protrarsi e l’inasprirsi di una guerra che, in assenza di una diversa azione delle classi meno abbienti contro la stessa, seguirà il suo corso fino all’estensione di un panorama di rovine su scala planetaria e da cui uscirà, forse, un nuovo sovrano.

In questo senso le riflessioni e i contributi contenuti nella rivista in questione possono essere di stimolo anche per un lavoro politico che non sia soltanto di passiva accettazione dell’esistente o, al contrario, di interpretazione inutilmente e dannosamente ideologica degli avvenimenti e dei cambiamenti politici, militari ed economici attualmente in corso.


  1. G. Gressani e M. Malik, Introduzione a «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, p. 8.  

  2. G. Gressani, M. Malik, op. cit., p. 11.  

  3. G.Gressani e M. Malik, op. cit., p.12.  

  4. C. Miller, Da Taiwan al metaverso: infrastrutture dell’iperguerra in «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, op. cit., pp.94-95.  

]]>
Disinganni https://www.carmillaonline.com/2024/04/14/disinganni/ Sun, 14 Apr 2024 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82094 di Francesca Fiorentin

[In occasione dell’uscita della nuova raccolta di poesie di Francesca Fiorentin, Disinganni (Robin Edizioni, 2024), si riportano di seguito alcune poesie da essa selezionate ringraziando l’editore per la gentile concessione (p.l.)]

 

Ti rimando la palla, mondo, maleducata, dritta in faccia, immemore delle aperte ferite da me inferte. Difeso dal Padreterno sei il fratellastro viziato, preferito.

 

Sei pallida come un cencio. Ho sonno, tutto qui. Sempre sonno. Hai gli organi avvelenati. Sicuramente, e non so come smaltire le scorie le scorie, le persone, non so come smaltirle.

 

Non è mio, è di altri il sangue che scorre, la lama [...]]]> di Francesca Fiorentin

[In occasione dell’uscita della nuova raccolta di poesie di Francesca Fiorentin, Disinganni (Robin Edizioni, 2024), si riportano di seguito alcune poesie da essa selezionate ringraziando l’editore per la gentile concessione (p.l.)]

 

Ti rimando la palla, mondo,
maleducata, dritta in faccia,
immemore delle aperte
ferite da me inferte.
Difeso dal Padreterno
sei il fratellastro viziato, preferito.

 

Sei pallida come un cencio.
Ho sonno, tutto qui. Sempre sonno.
Hai gli organi avvelenati.
Sicuramente, e non so come smaltire le scorie
le scorie, le persone,
non so come
smaltirle.

 

Non è mio, è di altri il sangue che scorre,
la lama affilata
sono il feto di un uovo di piombo;
esploderà i vivi
e dal fuoco, rimbalzati sulla scia del cielo,
coriandoli neri volanti
lontano.
Di me non vedrete il volto,
esangue in una pozza di rosso.

 

Diminuire le creature, destituire il piccolo loro potere,
le idee lasciare cadere come sassi,
uno spazio tu occupi vicino
a voce di lago claustrale.

 

 

 

 

 

 

]]>
La Labbazia degli incubi (1) https://www.carmillaonline.com/2024/04/13/la-labbazia-degli-incubi-1/ Sat, 13 Apr 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81938 di Franco Pezzini

Gorgó, Trinacria e la Schiaffiatùra

 

Si dice che scese tra gli uliveti simile al capitombolo

della notte, un essere tremendo come un’apparizione

in difficoltà, col capo avvolto da piccoli serpenti e

insieme da minute corone di spine piene di animazione.

 

Orazio Labbate, La Schiaffiatùra. Nascita, doppelgänger e scomparsa della gorgone buterese, Italo Svevo, Trieste-Roma 2024.

La trilogia del gotico siciliano partorita nel tempo da Orazio Labbate (cfr. qui e qui) non poteva che condurre a una serie di sviluppi – più che innesti, si tratta cioè di ineludibili e coerenti gemmazioni. Leggerle alla luce [...]]]> di Franco Pezzini

Gorgó, Trinacria e la Schiaffiatùra

 

Si dice che scese tra gli uliveti simile al capitombolo

della notte, un essere tremendo come un’apparizione

in difficoltà, col capo avvolto da piccoli serpenti e

insieme da minute corone di spine piene di animazione.

 

Orazio Labbate, La Schiaffiatùra. Nascita, doppelgänger e scomparsa della gorgone buterese, Italo Svevo, Trieste-Roma 2024.

La trilogia del gotico siciliano partorita nel tempo da Orazio Labbate (cfr. qui e qui) non poteva che condurre a una serie di sviluppi – più che innesti, si tratta cioè di ineludibili e coerenti gemmazioni. Leggerle alla luce di una ormai lunga storia del gotico pare quanto mai opportuno: sia per richiamarne il radicarsi in uno sviluppo letterario del genere troppo spesso svilito alla percezione di lettori e scrittori nei suoi effetti più facili e naïf, laddove invece traghetta non-detti ulceranti, inquietudini serie, turbamenti epocali; sia per rimarcarne il carattere di ricerca e laboratorio, di inventio continua e lucida, scipita da tanti adagiamenti mediocri nella formula conchiusa e invece sempre fertile a chi sappia spalancarla e lavorarci. Il cantiere di Labbate, la sua Labbazia degli incubi, è appunto sempre aperto come una forgia ben avviata.

Sviluppi, dunque, alla trilogia. Il primo naturalmente in chiave di sistematizzazione teorica, saggistica, con il piccolo repertorio sull’Orrore letterario uscito per Italo Svevo nel 2022: a radicare idealmente il suo gotico siciliano nella storia della letteratura italiana contemporanea. Ma un secondo sviluppo, questa Schiaffiatùra, rimanda idealmente assai più indietro nel tempo, e con un linguaggio narrativo-sapienziale da testo (anti-)sacro e sovversivamente mitologizzante. Se mythos è – da antica accezione – parola importante, merita comprendere in che senso.

Assai più indietro nel tempo: non solo per il richiamo agli antichi miti mediterranei (greci, e insieme vertiginosamente meticci) e al lascito ctonio pagàno sottesi alla trilogia, ma per il ruolo non accidentale che il topos qui ripreso della Gorgone riveste all’alba del gotico. Se cioè Medusa, o l’arcaica figura-ombra ecatea da cui irrompe nei cataloghi mitologici classici – diciamo genericamente Gorgó, nella forma contratta di allarme d’un intero catalogo di pericoli notturni (Mormó, Gelló, Lamó…) – finisce in effetti con il rappresentare la dea-mostro/alpha, all’origine e all’omphalòs del discorso occidentale sul mostruoso e insieme sul Femminile, a sovrapporsi a una Sicilia omphalòs del Mediterraneo, essa insieme non perde la dimensione di maschera fatale: la reliquia numinosa di un dramma mitico e rituale che resta sotteso al linguaggio nero del gotico e insieme ne innerva esplicitamente il modellarsi storico. Il gorgoneion come maschera di sconcerto pietrificante e rivelazione fatale di verità connota infatti ossessivamente l’esperienza della rivoluzione e l’idea stessa di libertà “alla francese”, impastati con l’idea di un Terrore che dona alla scrittura del gotico scioccanti echi storici e svela nessi denunciati con lucidità per esempio da Sade.

La Schiaffiatùra si inserisce insomma in una tradizione letteraria non solo risalente e genuina, ma dagli echi – vorrei dire – necessari per capire un’operazione come quella di Labbate: ben collocabile e insieme innovativa sull’orizzonte di un gotico mediterraneo fin dall’Otranto walpoliana e dai suoi immediati sviluppi. D’altra parte proprio in Walpole troviamo un richiamo congruo alla lettura di questo nuovo testo: là dove la seconda edizione del Castello d’Otranto, quella firmata dall’autore con il nome vero, altera alcuni versi di un altro Orazio – il poeta latino – nella citazione d’incipit  “Vanae / fingentur species, tamen ut pes, & caput uni / reddantur formae”. In sostanza le immagini che appaiono “vanae” e la bizzarria delle parti estreme di creature chimeriche sorte come da deliri febbrili conducono egualmente (a differenza che nell’originale latino) a una forma completa, a un senso artistico, a un’efficacia reale. Ciò che si riscontra nelle “formae” tenebrose di queste pagine, con le continue epifanie quasi lisergiche o allucinatorie del demone/divinità protagonista, e il controcanto delle citazioni iniziali da Guénon ed Edgar Wind. Dove due sembrano le chiavi per decrittare sequenze tanto imbizzarrite d’immagini.

Anzitutto quella dei miti sottostanti la trilogia: miti ctoni, inferi, tellurici, legati a una gnosi perturbante come di oscuri gruppi ereticali brandenti blasfemia e inversioni. Un’epopea forse carpocraziana, nicolaita, se non fosse che il sesso evocato non ha granché d’un nesso di libertino & soteriologico e si innerva piuttosto in ipotetici e oscuri misteri agrari, in incubi rurali, in beffarde paure notturne delle campagne. In questo contesto, di Gorgoni ne esisterebbe una pluralità: dove prima viene idealmente la tripode Trinacria (una Sicilia archetipica e mostruosa) e solo dopo, come circonfusa da un nimbo colloso di oscurità, l’indicibile Schiaffiatùra emersa nella zona arida e fatale di Butera, centro della geografia del gotico di Labbate.

Sorta di trickster carnascialesco, vorace e voluttuoso, ipostasi di orrore nelle sue epifanie tra “animelle di campagnoli morti” e “demonietti lussuriosi”, la Schiaffiatùra inverte la crescita verso l’alto dei rami degli alberi sovvertendone “l’intuizione del bene” e obbliga i cani, i gatti, i gechi a rovesciare la testa (ecco le inversioni associate nel mondo latino alle streghe), imbeve la terra di un sangue corrotto in disturbante, inconveniente profanazione di quello eucaristico, strappa imprevedibilmente alle campagne buteresi “il senso prensile della materia”. Dio della menzogna e degli oracoli, protegge “bricconi, bugiardi, mistificatori, bestemmiatori, viaggiatori buteresi. Coloro che amano di nascosto tra le selve e nei trogoli”, salvo poi ingannarli senza pietà. Opera soprattutto per confondere e “rendere i cristiani mescolanze mostruose” a suon di insultanti ricombinazioni anatomiche, come nella walpoliana sovversione dei versi dell’antico Orazio; e per disorientare i fedeli scatenando “in essi visioni di second’ordine”. Del resto, gli “esseri inferiori, ricchi di infingimenti e assenti della più alta dignità, operano nell’orrore tra il vuoto e la terra”. Di suo, la “Schiaffiatùra rappresentava daccapo: la morte alla carne, la morte allo spirito, il punto di rovesciamento delle croci, il buffone che si traveste di ogni divino mediatore cristiano per curarsi con il contrario dei suoi simboli”.

Una certa complessità da magistero gnostico avvolge le operazioni dissacramentali dell’entità, e non è questa la sede per seguirne il filo: ma l’autore ben riesce a offrire all’antiteologia della gorgone rurale una vertigine genuina tra ostie blasfemizzate, possessioni di statue, straniate veggenze. Fino alla fine della sua parabola mitica, o se si preferisce agli ultimi capitoli del suo cacovangelo. Dove cioè prende avvio quanto così anticipato:

 

Vi era nell’incorporea psiche della Trinacria il proposito di generare un Doppelgänger della Schiaffiatùra. Nel sinistro carnevale perpetuo della sua psicologia germinavano considerazioni su una morte scherzosa del demone obliquo a lei indigesto poiché contrario al macabro riso embriogenico.

 

Il che condurrà alla sconfitta del demone. Segue Compendio fotografico: i territori della Schiaffiatùra, cioè una breve raccolto di foto d’una Butera scabra e impressionante, dall’apparenza tempestosa.

Indubbiamente in queste pagine che stillano nigredo, umori putridi e sogni intossicati si coglie la lezione di Ligotti – non quello modaiolo feticizzato superficialmente dai nerd, che allargano solo il lovecraftismo degli stentatelli a un nuovo oggetto da altarini biascicando facile l’orrore, l’orrore, ma il maestro sornione di stile dalla disperazione onesta: però con Labbate si va ben oltre e a maggiore profondità, in grazia di una ricchezza variegata di letture ben al di là dell’horror. Ricordare la mole di opere recensita settimanalmente da un autore in fondo giovane, a corona di una pregressa formazione vastissima, permette di non cadere in equivoci grotteschi.

La prima cifra è insomma quella del gorgoneion gnostico, idealmente alla base delle livide e tortuose fedi della trilogia, dei suoi climi ossessi, delle sue comunità infestate. Ma, come detto, c’è una seconda chiave, fondamentale per capire quest’opera e ricondurla a uno statuto di mito, parola importante: e cioè quella della lingua, della voce. La Schiaffiatùra è in qualche modo la lingua stessa della trilogia, ne illumina la voce sul piano delle visioni come il saggio L’orrore letterario lo fa sul piano critico dell’analisi di un filone. Ne colloca insomma le catabasi e i guizzi beffardi, le sfide e provocazioni: e come la Gorgone classica urla a lingua spiegata, così La Schiaffiatùra racconta la lingua immansueta del suo autore, i suoi rituali immaginali, la potenza di fuoco del suo approccio letterario.

Però c’è un terzo sviluppo, dopo il saggio critico e il racconto sapienziale: ed è quello del manifesto sul gotico siciliano. Vi torneremo a proposito della prossima riproposta in libreria del seminale Lo Scuru.

(1. Continua)

]]>
Fahrenheit 451: molto prima del fuoco https://www.carmillaonline.com/2024/04/13/fahrenheit-451-molto-prima-del-fuoco/ Fri, 12 Apr 2024 22:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81981 di Sergio Cimino

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, 2023, pp. 180, € 12,50.

“Era una gioia appiccare il fuoco”, pensa Montag, nel noto incipit del romanzo di Ray Bradbury. E quel fuoco non ha smesso di dardeggiare negli oltre settant’anni di vita di questo capolavoro. Il corpo dei vigili, che nella realtà futura immaginata dallo scrittore americano, non si occupa più di spegnere gli incendi ma ha il compito di bruciare i libri, irradia la sua potente deflagrazione simbolica non solo in chi ha letto il romanzo, ma anche in coloro che ne hanno solo sentito parlare. La suggestione si alimenta delle [...]]]> di Sergio Cimino

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, 2023, pp. 180, € 12,50.

“Era una gioia appiccare il fuoco”, pensa Montag, nel noto incipit del romanzo di Ray Bradbury.
E quel fuoco non ha smesso di dardeggiare negli oltre settant’anni di vita di questo capolavoro.
Il corpo dei vigili, che nella realtà futura immaginata dallo scrittore americano, non si occupa più di spegnere gli incendi ma ha il compito di bruciare i libri, irradia la sua potente deflagrazione simbolica non solo in chi ha letto il romanzo, ma anche in coloro che ne hanno solo sentito parlare. La suggestione si alimenta delle immagini forti evocate dall’invenzione letteraria, prime fra tutte quelle degli storici roghi dei libri appiccati dai nazisti.

Nella parte di mondo autoproclamatasi Regno della libertà, lo schiacciamento interpretativo del romanzo su una chiave di lettura liberaldemocratica non stupisce.
Certo, in questi decenni, tra le analisi di Fahrenheit non sono mancate quelle che attraverso l’estremizzazione tipica delle distopie, hanno evidenziato gli aspetti maggiormente critici delle società capitalistiche occidentali. È il caso, ad esempio, del conformismo indotto dai sempre più pervasivi programmi televisivi. Nel romanzo, la televisione diviene una presenza costante nelle case, fino ad occupare intere pareti. L’ambizione più grande è quella di poter installare anche la quarta parete, creando nella propria abitazione qualcosa che si avvicina alla realtà virtuale. Attraverso un convertitore di frequenza, infatti, i personaggi televisivi si rivolgono direttamente al telespettatore, chiamandolo per nome. Le presenze sullo schermo divengono propri familiari, di cui si condividono senza sosta e senza fine, le vicissitudini più varie, dalle quali però è bandito qualsiasi senso compiuto. È l’intrattenimento totalizzante, qualcosa che, presente solo in germe al tempo di stesura dell’opera, va ascritta alla capacità predittiva di Bradbury.
Se l’analisi del romanzo viene allargata non solo al presente narrativo in cui sono collocati i personaggi, ma anche alle dinamiche storiche che lo hanno preparato, il risultato in termini di significanza politica dell’opera diviene molto più complesso, sia della sintesi liberal di facile presa, di cui si diceva al principio, sia di una disamina frammentaria dei singoli aspetti deteriori delle democrazie occidentali ad economia capitalistica, la cui carica critica potrebbe facilmente essere disinnescata nel considerare tali aspetti come elementi accidentali e quindi emendabili, di un sistema socioeconomico del quale non viene messo in discussione il primato.

Per procedere all’analisi larga di cui si diceva, punto centrale del dispositivo politico del romanzo è il lungo discorso che il capitano dei vigili del fuoco, Beatty, pronuncia in casa di Montag, cercando di fornirgli una base ideologica che prevenga quello che il suo superiore ha già subodorato come lo sviluppo di un pensiero critico foriero di una possibile ribellione.
Per raggiungere questo scopo il capitano Beatty è disposto a rischiare quello che normalmente non deve essere fatto: narrare la storia della loro professione, cosa che solo i capi ancora ricordano. Ma l’evoluzione della milizia, fino al compito istituzionale di distruggere i libri esistenti, è così connaturata con la storia tout court, che il passaggio a quest’ultima avviene senza soluzione di continuità.
Scopriamo così che il progresso tecnologico ha impresso una maggiore velocità ai processi sociali. Tutto ha cominciato ad andare più veloce. Il turbine, partito dai mezzi di trasporto e dai processi produttivi, si è esteso ai tempi di vita. I libri, le riviste, tutto ciò che richiede applicazione, viene ridotto a sintesi. Gli articoli ai soli titoli. Il condensato di opere complesse le ha rese accessibili democraticamente alla massa. Ciò aumenta anche la portata quantitativa delle informazioni a disposizione di ciascuno con il risultato che sotto la spinta di tutte queste sollecitazioni il pensiero viene disperso. A ciò si accompagna un progressivo discredito dell’attività intellettuale, che diviene solo un peso capace di far perdere tempo inutilmente. Gli studi divengono sempre più brevi e, quel che più conta, devono essere funzionali ai processi produttivi. Per marginalizzare l’attività intellettuale, un ruolo importante è svolto dal tempo libero, durante il quale tutto deve distrarre il pensiero. Diviene importante un costante stimolo a fare qualcosa. Assumono rilevanza le attività sportive, i consumi, l’ossessione degli spostamenti incessanti con le auto.
Un punto importante del racconto del capitano Beatty è quello relativo alla tutela delle minoranze. La strumentalizzazione della questione conduce a depotenziare qualsiasi posizione critica che possa condurre ad un turbamento sociale. Sembra di vedere l’uso cloroformizzante che viene fatto del politically correct ai nostri giorni.

E l’arte? La musica, la letteratura, il cinema, in un quadro siffatto, devono suscitare solo riflessi condizionati, “una reazione tattile alla vibrazione”.
Nella costante ricerca di non lasciare spazio al pensiero, persino eventi naturali come la morte devono essere occultati, con l’eliminazione dei riti funebri e la loro sostituzione con procedure industrializzate di polverizzazione dei corpi, affinché anche in quel caso sia allontanato ciò che potrebbe produrre angoscia.
Ecco perché al termine del racconto del capitano Beatty, la realtà in cui i vigili del fuoco hanno il compito di bruciare i libri, che è poi l’elemento maggiormente iconico del romanzo, viene ridotto ad un fatto quasi irrilevante.
Scopriamo infatti, che non vi è stato bisogno di alcuna legge liberticida per condurre alla proibizione dei libri. Ma che è stato lo svilimento dei libri e delle attività intellettuali su cui si è incentrata la narrazione del capitano, a renderli privi di importanza, detestati dalle masse. Solo dopo è intervenuta la legge, che ha ratificato una situazione di fatto.
Se la gran parte dei singoli punti toccati dal racconto del capitano Beatty agghiaccia per la familiarità con analoghi aspetti del nostro presente, quello che colpisce ancor più, è proprio la lucida consapevolezza della rilevanza che assumono le sotterranee (e sotterrate, dai mezzi di propagazione ideologica nelle mani della classe dominante…) dinamiche sociali nella spiegazione dei processi storici.
Ed in fondo, il mondo di Fahrenheit 451, cosa configura se non un quasi perfetto Regno della libertà?
Beatty ci fa sapere che persino un libro nelle mani di un vigile del fuoco può essere ammissibile. Almeno una volta nella vita, succede ad ogni milite del fuoco di sentire un certo prurito, che gli fa venire voglia di sapere cosa dicono i libri. Che si gratti allora. E scopra da solo che i libri non hanno proprio nulla da dire. Di modo che dopo questa scoperta, possa tornare ad essere uno dei custodi della pace spirituale. Uno di quelli che evitano di divenire come la famiglia di Clarissa McClellan. Eccentrici, che invece di chiedersi come una cosa sia fatta, si attardano ancora a chiedersi il perché venga fatta.

]]>
Sei giorni troppo lunghi https://www.carmillaonline.com/2024/04/11/sei-giorni-troppo-lunghi/ Thu, 11 Apr 2024 21:55:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81784 di Edoardo Todaro

Umberto Lucarelli, Sei giorni troppo lunghi, Milieu Edizioni € 13,00

Milano, anni ’70, anzi Italia 1979. Non voglio addentrarmi sul valore sull’importanza che hanno avuto, in questo paese, gli anni ’70. Anni di conquiste sociali, di protagonismo attivo. Anni che da qualche tempo a questa parte sono posti sotto silenzio, quando va bene, denigrati e ridotti alla definizione abusata e buona per ogni evenienza, di “ anni di piombo “. Ebbene Umberto Lucarelli mette in atto, con “ Sei giorni troppo lunghi “, un’operazione significativa. Lucarelli va in contro tendenza e ci porta in modo, forte e deciso, al [...]]]> di Edoardo Todaro

Umberto Lucarelli, Sei giorni troppo lunghi, Milieu Edizioni € 13,00

Milano, anni ’70, anzi Italia 1979. Non voglio addentrarmi sul valore sull’importanza che hanno avuto, in questo paese, gli anni ’70. Anni di conquiste sociali, di protagonismo attivo. Anni che da qualche tempo a questa parte sono posti sotto silenzio, quando va bene, denigrati e ridotti alla definizione abusata e buona per ogni evenienza, di “ anni di piombo “. Ebbene Umberto Lucarelli mette in atto, con “ Sei giorni troppo lunghi “, un’operazione significativa. Lucarelli va in contro tendenza e ci porta in modo, forte e deciso, al febbraio del 1979. Siamo in pieno periodo di attacco, da parte delle forze della repressione, a tutte quelle realtà  che si pongono sul terreno del conflitto e che mettono in discussione lo stato di cose presente, quindi è doveroso ricordare gli avvenimenti che hanno portato Lucarelli a far stampare questo libro:

Pier Luigi Torregiani era un gioielliere titolare di un piccolo esercizio nella periferia nord di Milano, in via Mercantini, nel quartiere della “Bovisa “La sera del 22 gennaio 1979, Torregiani subì un tentativo di rapina mentre stava cenando in una pizzeria.Torregiani reagì al tentativo di rapina,con conseguente sparatoria che causò la morte di uno dei rapinatori, Orazio Daidone. Il 16 febbraio successivo, mentre stava aprendo il negozio insieme ai figli, fu vittima da parte di un gruppo di fuoco dei PAC .Alcuni militanti dei Proletari Armati per il Comunismo affermarono di aver subito pesanti torture, per far loro rivelare i colpevoli dell’omicidio Torregiani. Tra questi,Sisinnio Bitti, vittima di violenze della polizia, come anche altri membri del Collettivo Politico della Barona,sorto nel 1974. Gli autonomi Sisinnio Bitti, Umberto Lucarelli, Roberto Villa, Gioacchino Vitrani, Annamaria e Michele Fatone  presenteranno esposti all’Autorità Giudiziaria per aver subito violenze dalla polizia,almeno dieci persone avrebbero confessato, sotto tortura, di essere autori materiali dell’omicidio. Il trattamento a cui sono sottoposti i fermati, anzi i sequestrati,entra a pieno titolo, inaugura una tecnica, ripresa in futuro del piano repressivo volto a dare una lettura esclusivamente “ criminale “ di un percorso politico. Tecnica che in precedenza fu già usata nei confronti di Alberto Buonoconto, nel 1975 e di Enrico Triaca nel 1978. Agenti e funzionari della DIGOS fanno a gara: pestaggi, pugni, cerini accesi sotto i piedi ed i testicoli, bastonate sul torace attraverso una coperta per non lasciare segni, ingerimento forzato di acqua con un tubo di gomma, il neon sempre acceso, le false esecuzioni, la musica della radio a tutto volume per coprire le grida di chi è sottoposto a tortura ( in Italia, non in Argentina )  ecc… Due degli arrestati/torturati devono essere ricoverati in ospedale, una storia di adolescenti sequestrati, umiliati, stuprati e torturati.

Detto questo, e  ritornando a “ Sei giorni troppo lunghi “, possiamo dire che, questo testo,  oggi assume un valore in più. Due i motivi: 1) in carcere e di tortura si continua a morire e non certo ad opera di qualche mela marcia, carcere luogo inutile, una istituzione totale che non serve a niente; 2) a dispetto delle anime belle che continuano ad affermare che in Italia la tortura non è esistita e non esiste, che il “ terrorismo “ è stato battuto dalla forza della democrazia:  “ Sei giorni troppo lunghi “ è la smentita secca e decisa, e ci dice che in Italia, questo è avvenuto. Tra l’altro, Lucarelli ne parla di quanto avvenuto in quanto  protagonista, e ne parla soprattutto per averne subito gli effetti collaterali, e ci parla dell’Italia democratica non certo di un paese del Sud America. Lucarelli ci mette a tu per tu con l’urgenza di scrivere per fissare i fatti, quei fatti che fanno parte della storia, anzi della nostra storia, anche se sono state, e sono, storie di ordinaria repressione.

Parlare di questo libro ci obbliga a dover riferirsi ad un testo fondamentale nel momento in cui poniamo elementi di riflessione sulla tortura,la tortura che diviene parte della metodologia degli interrogatori, tortura come norma e non pratica isolata, mi riferisco a “ HENRI ALLEG: La Tortura” con l’importante introduzione di Jean Paul Sartre. Henri Alleg, direttore del quotidiano comunista “ Alger republicain “ che  in maniera esplicita denuncia i metodi degli occupanti francesi contro gli algerini, e verrà sottoposto a tortura. Ma ci obbliga anche di parlare al presente: Alfredo Cospito ed i prigionieri politici in Italia, con il suo famigerato 41 bis; il genocidio in atto in Palestina ….. Ps:  mi permetto di suggerire un libro per approfondire la questione fin qui trattata: “Processo all’istruttoria”  (ormai pressoché introvabile ).

In conclusione ritengo di condividere e ripropongo:  “… ricordare un’epoca viva dentro chi non li ha venduti mai”

]]>
Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa https://www.carmillaonline.com/2024/04/10/mai-tornare-indietro-nemmeno-per-prendere-la-rincorsa/ Wed, 10 Apr 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81795 di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero. Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa [...]]]> di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero.
Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa recensione, ripreso da Andrea Pazienza, serve a rendere bene l’idea del contenuto del testo appena pubblicato dalle Edizioni Colibrì e della necessaria e irrinunciabile radicalità dell’opposizione di classe al capitalismo, alle sue guerre e ai suoi sgherri fascisti, in divisa o meno che questi siano. Ma anche a ricordare, a un mese dalla sua scomparsa, Stefano Milanesi, militante NoTav e rivoluzionario, al quale questo libro sarebbe probabilmente piaciuto.

In un’epoca di ritornante e ammorbante dibattito politico e mediatico sul pericolo rappresentato dal fascismo per l’ordine democratico e il buon vivere civile, in entrambi i casi “borghesi”, la lettura dei testi contenuti nella raccolta curata dalla Calusca City Lights e dal Collettivo Adespota si rivela assolutamente necessaria, se non indispensabile ed essenziale.

Accompagnati da un lungo saggio, interessante quanto appassionato, di Gilles Dauvé (alias Jean Barrot), i diciassette testi che compongono l’appendice documentaria del volume spaziano dalle posizioni espresse da Amadeo Bordiga e dal Partito Comunista d’Italia a quelle di Errico Malatesta, dalla rivista «Bilan» a Otto Rühle, dalla critica radicale italiana ai militanti della Sinistra Comunista, in un mosaico di bilanci e riflessioni che vertono tutte su quanto sia dannoso per i movimenti di classe e il proletariato riporre qualsiasi fiducia nell’illusione di una possibile scelta tra democrazia borghese e autoritarismo fascista.

Soprattutto oggi, mentre si è lontani da una reale ripresa di lotte di classe allargate sia in Italia che in Occidente, ma è ancora dato il tempo per riflettere ed evitare il ripetersi di tanti errori passati, questi testi, niente affatto superati o inadeguati alla presente stagione, possono contribuire, soprattutto nel caso delle generazioni più giovani, a smascherare le trappole e a rivelare le menzogne con cui una sinistra “borghese”, ed oggi “liberale”, ha contribuito alla vittoria dei regimi più autoritari in nome della controrivoluzione e della difesa dell’ordine capitalistico nelle sue forme apparentemente “democratiche” e parlamentari”.

Se l’affermazione di Amadeo Bordiga che «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», pur rivelandosi ancora un ottimo punto di partenza, è, forse, fin troppo nota, abusata e, sicuramente, mai del tutto compresa fino in fondo da coloro che l’hanno usata o denunciata, altre considerazioni e ricostruzioni contenute nel testo possono davvero rivelarsi sorprendenti, illuminanti e utili non soltanto per comprendere dinamiche risvolti di avvenimenti, battaglia e insurrezioni vecchie di un secolo, ma anche per tracciare una linea di confine invalicabile tra ciò che le lotte a venire potranno considerare come utile o dannoso per le tattiche e le strategie che dovranno, comunque, sforzarsi ancora di elaborare.

Per aprire, per così dire, le danze, è bene iniziare dal saggio di Gilles Dauvé1 che delimita immediatamente la cornice in cui inscrivere l’essenza del problema affrontato:

È un luogo comune quello di vedere nel fascismo lo scatenamento della repressione statale al servizio delle classi dominanti. Secondo la formula resa celebre da Daniel Guérin a partire dagli anni Trenta, fascismo = grande capitale. Logicamente, la sola maniera di sbarazzarsene è di mettere fine al capitale.
Fin qui, nulla da ridire. Ahimè, nel 99% dei casi, la logica porta immediatamente fuori strada: se il fascismo incarna il peggio prodotto dal capitalismo, bisogna evitare questo peggio, cioè si dovrebbe fare di tutto per favorire un capitalismo non fascista. Poiché il fascismo è reazione, cerchiamo allora di promuovere il capitalismo sotto forme non reazionarie, non autoritarie, non xenofobe, non militariste, non razziste, in altre parole un capitalismo più moderno, più… capitalista.
Pur ripetendo che il fascismo serve gli interessi del «grande capitale», l’antifascismo si affretta a precisare che, malgrado tutto, nel 1922 o nel 1933, la soluzione fascista avrebbe potuto essere evitata, se solo il movimento operaio e/o i democratici avessero esercitato una pressione tale da impedire ai fascisti di prendere il potere. Se, nel 1921, il Partito Socialista Italiano e il giovane Partito Comunista d’Italia si fossero alleati coi repubblicani per sbarrare la strada a Mussolini; se, all’inizio degli anni Trenta, la KPD non avesse ingaggiato con la SPD una lotta fratricida…l’Europa si sarebbe risparmiata una delle dittature più feroci della storia, la Seconda Guerra mondiale, il dominio nazista su pressoché tutto il continente, i campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei.
Al di là delle giuste considerazioni sulle classi, lo Stato e il legame tra fascismo e grande industria, questa visione ignora che il fascismo s’inscrive nel quadro di un duplice fallimento: quello dei rivoluzionari, schiacciati dalla socialdemocrazia e dalla democrazia parlamentare, all’indomani della Prima Guerra mondiale; e, nel corso degli anni Venti, quello della gestione del capitale da parte dei partiti democratici e socialdemocratici. L’ascesa del fascismo – come ancor più la sua natura – risulta incomprensibile se viene isolata dal periodo che l’ha preceduta, dalle lotte di classe che hanno caratterizzato tale periodo e dai loro limiti […] Cosa c’è alla base del fascismo, se non la tendenza all’unificazione economica e politica del capitale, generalizzatasi dopo la guerra del ’14-1817? Il fascismo non fu che un modo particolare di realizzarla, peculiare di quei Paesi (Italia e Germania) in cui, benché la rivoluzione fosse stata soffocata, lo Stato era incapace d’imporre il proprio ordine, perfino in seno alla stessa borghesia.2.

Un protagonista delle lotte e dei partiti rivoluzionari e di classe dell’epoca, Amadeo Bordiga, avrebbe rafforzato queste ipotesi ancora in un’ultima intervista rilasciata nel 19703 contenuta nella presente antologia:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.
[…]Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale.
Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nel – l’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che [il] fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici4.

Certo, il proletariato italiano, tedesco e spagnolo aveva combattuto, armi alla mano e senza esitazione, contro la reazione borghese e i suoi cani da guardia. In Italia e in Germani i soldati si erano rivoltati durante il primo conflitto mondiale e, nel secondo caso, avevano nettamente contribuito a fermarlo. Ad esitare erano stati i partiti socialisti e socialdemocratici che pur di scongiurare il conflitto di classe che, come aveva scritto in una lettera Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, se si fosse radicalizzato avrebbe travolto anche loro, avevano scelto di sostenere il conflitto mondiale nel caso tedesco oppure avevano optato, nel caso italiano, per un «né aderire né sabotare» che, nei fatti, aveva tradito le aspettative di un proletariato decisamente contrario alla guerra e, successivamente, di sostenere la Patria nell’ora del bisogno dopo Caporetto.

La difesa dell’ordine liberal-borghese aveva così finito col giustificare la repressione dei soldati in rivolta o, addirittura, di sporcarsi le amni cola sangue dei rivoltosi con la repressione dei moti berlinesi del 1919 e l’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ma ancor peggio sarebbe stato in Spagna dove a sconfiggere i moti rivoluzionari sarebbe stato il doppio apporto degli anarchici entrati nel governo repubblicano e l’opera di eliminazione delle frange intransigentemente rivoluzionarie portata avanti dai rappresentanti di Mosca e di Stalin in seno allo schieramento anti-franchista.

In Italia, in Germania e in Spagna l’avvento dei regimi fascisti non era dunque avvenuto soltanto a seguito di una sconfitta di uno schieramento rivoluzionario e proletario diviso al suo interno dall’azione delle formazioni più radicali quanto piuttosto dal freno che alla rivoluzione fu posto proprio dal non aver abbandonato del tutto le posizioni e le formazioni di carattere democratico e socialdemocratico in tempo utile.

Non a caso, però, i testi raccolti nell’antologia, mettono anche a fuoco il ruolo svolto dall’autoritarismo bolscevico-staliniano negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre e, anche, al ruolo che in tutto ciò giocarono anche certe posizioni di Trotsky sulla militarizzazione del lavoro in patria e del gioco delle alleanze sui fronti internazionali e, forse soprattutto, in Spagna.

Riassumere qui, in poche righe e in poche pagine, le battaglie di allora e i dibattiti teorico-politici che le accompagnarono e ne discussero le sconfitte e le successive conseguenze è quasi impossibile, ma può ancora essere utile trarre qualche elemento dai testi contenuti in Quando muoiono le insurrezioni. Ad esempio un testo prodotto dai militanti della Frazione italiana della Sinistra Comunista e pubblicato sul periodico internazionalista «Bilan»5, in occasione della repressione dei rivoluzionari nelle strade di Barcellona nel maggio del 1937.

Il 19 luglio6 i proletari di Barcellona, a mani nude, schiacciarono l’attacco dei battaglioni di Franco, armati fino ai denti.
Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, muniti di armi, lasciano sul selciato molti più morti che non a luglio, quando dovettero respingere Franco. Oggi a scatenare la marmaglia delle forze repressive contro gli operai è il governo antifascista, che include gli anarchici e gode dell’indiretto sostegno da parte del POUM.
Il 19 luglio, i proletari di Barcellona sono una forza invincibile. La loro lotta di classe, sciolta dai legami con lo Stato borghese, si ripercuote all’interno dei reggimenti di Franco, li disgrega e risveglia l’istinto di classe dei soldati: è lo sciopero a bloccare i fucili e i cannoni di Franco, spezzandone l’offensiva.
[…] La milizia operaia del 19 luglio è un organismo proletario. La «milizia proletaria» della settimana seguente è un organismo capitalista appropriato alla situazione del momento. Per realizzare il suo piano controrivoluzionario, la Borghesia può fare appello ai Centristi, ai Socialisti, alla CNT, alla FAI, al POUM che, tutti, fanno credere agli operai che lo Stato cambi natura quando i suoi funzionari mutano di colore. Dissimulato fra le pieghe della bandiera rossa, il Capitalismo affila pazientemente la spada per la repressione del 4 maggio [1937], preparata da tutte le forze che, il 19 luglio, avevano spezzato la spina dorsale classista del proletariato.
Il figlio di Noske e della Costituzione di Weimar è Hitler; il figlio di Giolitti e del «controllo della produzione» è Mussolini; il figlio del fronte antifascista spagnolo, delle «socializzazioni», delle «milizie proletarie» è il massacro di Barcellona del 4 maggio 1937.
[…] È al riparo di un governo di Frente Popular che Franco ha potuto preparare il suo attacco. È sulla via della conciliazione che Barrio ha provato, il 19 luglio, a formare un ministero unico che fosse in grado di realizzare l’insieme del programma del Capitalismo spagnolo, sia sotto la direzione di Franco sia sotto la direzione mista della destra e della sinistra fraternamente unite. Ma la rivolta operaia di Barcellona, di Madrid e delle Asturie obbliga il Capitalismo a sdoppiare il suo ministero, a ripartirne le funzioni tra l’agente repubblicano e l’agente militare, legati da un’indissolubile solidarietà di classe.
Laddove Franco non è riuscito a vincere subito, il Capitalismo chiama a sé gli operai per «sconfiggere il fascismo». Sanguinoso tranello pagato con migliaia di cadaveri di operai per aver creduto di potere, sotto la direzione del governo repubblicano, annientare il figlio legittimo del Capitalismo: il fascismo. E sono partiti per le colline di Aragona, per la Sierra de Guadarrama, per le montagne delle Asturie, per la vittoria della guerra antifascista.
Ancora una volta, come nel 1914, è con l’ecatombe del proletariato che la Storia sottolinea sanguinosamente l’irriducibile contrapposizione tra Borghesia e Proletariato.
I fronti militari: una necessità imposta dalla situazione? No! Una necessità del Capitalismo per accerchiare gli operai e annientarli! Il 4 maggio 1937 dimostra chiaramente che dopo il 19 luglio il proletariato avrebbe dovuto combattere tanto contro Companys e Giral quanto contro Franco. I fronti militari non potevano che scavare la fossa agli operai perché rappresentavano il fronte della guerra del Capitalismo contro il Proletariato. A questa guerra i proletari spagnoli – sull’esempio
dei loro fratelli russi del 1917 – potevano rispondere solo sviluppando il disfattismo rivoluzionario in entrambi i campi della Borghesia – sia repubblicano che «fascista» – e trasformando la guerra capitalista in guerra civile per la totale distruzione dello Stato borghese7.

Ora non potendo citare tutta l’enorme mole di documenti riportati nell’Appendice, vale la pena di citare ancora un testo prodotto negli anni Settanta su «Puzz» nel 19758.

Con l’enorme slancio produttivo ricevuto dalla Prima Guerra mondiale, la società capitalistica si avviava a sostituire in maniera definitiva i propri presupposti (verso la realizzazione del dominio reale del capitale): passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo; trasformazione della legge del valore nella legge dei prezzi di produzione; concentrazione e centralizzazione dei capitali delle aziende; sviluppo del capitale monetario e fittizio, e generalizzazione del sistema del credito; predominio del lavoro morto sul lavoro vivo in tutti gli aspetti della vita associata e all’interno dell’individuo stesso; antropomorfosi del capitale; mistificazione del proletariato nelle classi medie; distruzione delle antiche classi medie e produzione delle nuove; evoluzione dello Stato da semplice «comitato d’affari della classe dominante» a impresa capitalistica
[…] A questo punto, la prima forma di democrazia rappresentativa, modo specifico di gestione nel periodo di dominio formale, e la sua politica, che mediava il conflitto costitutivo della società borghese tra interessi individuali e interessi generali, diventano inadeguate. Ora è il capitale stesso che direttamente unifica gli uomini per sottoporli al suo dominio; la politica, da suo strumento per affermarsi contro il modo di produzione precedente (e proprio in questa lotta, era ancora possibile, nel quadro della democrazia, un qualche intervento autonomo della classe oppressa), diviene suo prodotto immediato per la mistificazione e l’oppressione diretta. La comunità popolare nazi-fascista, orrendo sostituto della Gemeinwesen, realizzò, attraverso il corporativismo e l’apologia del lavoro, in quanto accessorio del capitale (unità armonica capitale-lavoro), la mistificazione democratica (democrazia = potere del popolo). Se nel fascismo il principio democratico sembra annullarsi, è perché in realtà esso si invera.
[…] Il potere al fascismo implicava però l’assorbimento totalitario di tutte le rappresentazioni politiche nello specchio deformante del capitale, ed escluse quindi i politicanti borghesi, liberali, cattolici e socialdemocratici. Dopo il conflitto del ’39-45, l’araba fenice della «nuova democrazia» saprà a sua volta far proprie le tecniche dell’organizzazione, propaganda e pubblicità fasciste, dello spettacolo sociale e politico, ma alla fragile rigidità dell’unico specchio (o con me o contro di me), riuscirà a sostituire un «libero» sistema labirintico di identificazioni prestabilite (o con me o «contro di me», ma sempre con me)9.

E questo è solo un assaggio di un testo antologico ricco, stimolante e, davvero, imperdibile per chiunque voglia iniziare a riorientarsi in mezzo alle chimere mediatiche e politiche che oggi tentano ancora, purtroppo riuscendoci troppo spesso, di irretire le coscienze e il desiderio di lotta e ribellione che anima le giovani generazioni e i lavoratori e le lavoratrici disorientati davanti ad un modo di produzione spietato, il cui unico destino non è quello di esser migliorato e, allo stesso tempo, salvaguardato nelle sue forme più moderne, ma soltanto quello di essere distrutto dall’insurrezione proletaria che non farà sconti a nessuno dei suoi funzionari e portavoce.
Né di destra né, tanto meno, di sinistra.


  1. Titolo originale: Quand meurent les insurrections (1999), La Petite Bibliothèque PDF de la Matérielle, ADEL c/o Échanges, BP 2475866 Paris Cedex 18, 2005. Si tratta di una versione interamente riveduta della “Présentation” a «Bilan». Contre-révolution en Espagne. 1936-1939, UGE 10/18, Paris, 1979.  

  2. G. Dauvé, Quando muoiono le insurrezioni, ora in Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 13-14.  

  3. Una intervista ad Amadeo Bordiga, Raccolta da Edek Osser, giugno 1970, in «Rivista di storia contemporanea», n. 3, settembre 1973.  

  4. Un intervista ad Amadeo Bordiga (1970) ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 112-113.  

  5. Plomb, Mitraille, Prison: Ainsi répond le Front Populaire aux ouvriers de Barcelone osant résister à l’attaque capitaliste, in «Bilan», Bulletin théorique mensuel de la Fraction italienne de la Gauche communiste, Paris, n. 41, maggio-giugno 1937, pp. 1333-1337.  

  6. Si tratta del luglio 1936, data di inizio del golpe franchista e della massiccia e inequivocabile risposta allo stesso da parte del proletariato barcellonese.  

  7. Piombo, mitraglia, prigione: così risponde il Fronte Popolare agli operai di Barcellona che osano resistere all’attacco capitalista, ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 213-215.  

  8. Francesco Santini – Joe Fallisi, La controrivoluzione «antifascista»…, in «Puzz», n. 19 – «Gatti selvaggi», n. 3, Edizione speciale, aprile-maggio 1975, pp. 17-20.  

  9. F. Santini – J. Fallisi, La controrivoluzione «antifascista», ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 335- 339.  

]]>