1. di Giovanni Iozzoli

– Allora, Peppì, com’a mettimm’ cu’ stu governo ‘e mmerda? E cu’ sta classe operaia? E cu’ stu cazzo ‘e Green pass?

Ti guarda, Peppino, con l’occhio stretto, la barba lunga, la stanchezza dei giorni difficili, in questa specie di presidio improvvisato davanti ai cancelli della sua fabbrica – non un presidio di quelli belli, col gazebo e le bandiere linde: un presidio da poveracci, da reietti, da autoconvocati, perchè qua nessuno più ti convoca e devi fare tutto da te. Il buio arriva già alle 5, tra la Multisala Victoria, la strada male illuminata, l’ingresso operai da cui esce ed entra poca gente – manutentori, dittarelle esterne, guardioni annoiati.

“C’è un pò di delusione – dice Peppino – eravamo partiti in tanti, adesso siamo qui, quelli che vedi; viene la gente, i solidali…ci portano da mangiare, da bere, ci fanno compagnia; però la situazione è quella che è; i colleghi non ce la fanno, non tengono la posizione.”

E qual è la posizione, Peppì? Chi ce l’ha? L’unico che pare avere una linea di coerenza di classe si chiama Mario Draghi. Quello, tiene bene la posizione. Il suo stuolo di improvvisati servetti – ministri, parlamentari, editorialisti, sindaci – lo segue senza perdere un colpo: sanno di non avere più nulla da dire, sanno che il pilota automatico è ormai irreversibilmente inserito.

Il presidio alla CNH – ex storica Fiat Trattori, il più importante stabilimento industriale cittadino – è nato all’inizio delle prime restrizioni previste dall’introduzione del Green Pass sui luoghi di lavoro; una quarantina di operai non vaccinati, o semplicemente ostili al passaporto , hanno improvvisato un’ assemblea davanti ai cancelli, alla fine del turno centrale. Letteralmente: autoconvocandosi. La prima iniziativa è stata essenzialmente un pic nic-conferenza stampa, sull’erba spelacchiata e sporca antistante al cancello: tavolini all’aperto, vino e panini, contro l’ordine di chiudere le mense per chi non aveva il GP.  In quei giorni anche Landini diceva che tenere fuori i lavoratori dalle mense non andava mica bene (una delle tante cose che Landini ha detto che non si potrebbero fare e che ineluttabilmente si realizzano, come a ribadire allegramente l’impotenza del più grande sindacato italiano e del suo segretario).

Gli operai refrattari, nel corso di queste assemblee, si chiedevano in che modo poter resistere all’oltraggio divisivo rappresentato dall’introduzione del Green Pass, in vista del fatidico 15 ottobre. Dalla sera alla mattina, grazie ad un provvedimento amministrativo, si sarebbero ritrovati abusivi e clandestini, davanti ai cancelli di uno stabilimento che avevano abitato per anni. Peppino è stato l’anima della mobilitazione, in queste settimane. Logistica, volantini, discorso politico, ci ha speso l’anima. Ha l’indolenza del siciliano vecchio – perché quello è effettivamente un popolo antico – ma lui è ancora abbastanza giovane da tirare fuori un pò di indignazione e qualche arditezza.   I portuali triestini, con il fascino discreto che tutt’ora esercita la memoria carismatica del movimento operaio, sono stati per loro un modello da imitare; purtroppo in CNH c’è poco da bloccare – anche perché il loro “porto” è un fabbricone un po’ slabbrato, che ogni tanto si blocca da solo, per carenza di materie prime.

– Ma avete chiamato il vostro funzionario sindacale, quando avete deciso di partire con il presidio?

“Il funzionario, quando ha visto il mio volantino, me lo ha restituito indignato. Un altro tizio della Fiom ha detto che veniva là se portavamo fuori il 40% dei dipendenti. Ma se io riesco a portare fuori il 40% dei dipendenti, tu, funzionario a cosa servi, perchè ti devo chiamare? Non ho più bisogno di te. Qua stiamo subendo una discriminazione, ma il sindacato non parla. Nessuno si è voluto assumere questa difesa. Il Green Pass non c’entra con la profilassi; è tutta una cosa politica, e le aziende ci sguazzano, quando c’è da poter dividere i lavoratori”.

Abbasso la testa, guardo il parcheggio del cinema mezzo vuoto, il fondo della strada che incrocia la ferrovia, le striature violacee della prima sera che si allungano su quell’angolo scuro e malinconico di città: da una parte la vecchia grande fabbrica di trattori, dall’altro lato della strada la supermoderna Multisala , che però nel frattempo è già invecchiata pure lei, come se andare a lavorare o andare al cinema fossero entrambi gesti desueti, di un’altra epoca. Sommessamente mi vergogno e allargo le braccia. Ha ragione, Peppino. Ho visto tutto, fin dalla prima assemblea. Sono passati in molti, là, al presidio ma sono scappati via tutti, da via Parenti; nessuno ha voluto metterci le mani, in questo impasto complicato di rivendicazioni e rancori: la Fiom, i sindacati di base, la compagneria mista, tutti si sono defilati (alcuni certificando solo la propria conclamata inutilità).

“Loro non hanno capito che qua stiamo difendendo la Costituzione, mica solo un nostro diritto. Io i confederali non li considero più. Neanche gli altri. Anche i nuovi sindacati, cercano solo tessere. Non hanno capito che significa essere communista“. E dice la parola rimarcando le consonanti. E io ( che, naturalmente, non ne so più di lui, circa la parola comunista) mi chiedo cosa diavolo ne pensi lui, del comunismo, della lotta di classe, di tutto il menu della nostra complicata storia collettiva.

Una cosa è certa: mentre il Garante della Costituzione, il solenne Mattarella, rivendica ed esalta l’escamotage anticostituzionale, attraverso cui si è imposto un trattamento sanitario obbligatorio all’85% della popolazione, Peppino, dalla sua sediolina da campeggio, si preoccupa niente meno che della tenuta della nostra carta costituzionale. In tempi di guerra non sai mai dove spunterà la trincea giusta. Magari questa dell’entrata operai in via Parenti è decisiva e passerà alla storia. Ma chi glielo fa fare, a questo metalmeccanico testardo, di preoccuparsi della Costituzione antifascista, mentre tutto il quadro politico ci sta pisciando sopra? Peppino, con sano istinto di classe, ha capito che la violazione fragrante, sfacciata ed esibita della Costituzione – la sovversione dall’alto – potrebbe ormai diventare prassi di governo. E che le tesserine di fedeltà che consentono l’accesso al welfare, al lavoro, alla socialità, potrebbero moltiplicarsi. E che c’è sempre una nuova emergenza dietro l’angolo che può giustificare l’ingiustificabile. E sa che tutto questo ricadrà innanzi tutto sulla sua testa e sulle teste di quelli come lui. Ecco perchè si ostina a stare davanti a quel cancello. Senza prospettive, senza illusioni, senza direzione politica. Nel colpevole abbandono di quelli che dovrebbero stargli vicino.

Communista vuol dire che  ci devi stare dentro”. Certo, buona sintesi. Ci devi stare dentro.  Perchè prima di qualsiasi elegante sequenza prassi-teoria-prassi, ci sei tu, nel gorgo fetido e contraddittorio delle cose; un fluire che non somiglia mai una cascatella limpida, ricorda semmai lo scarico vorticoso di un lavandino che si stura, con tutti i rimasugli di cibo che girano e le loro puzze mischiate. Sentirgli rivendicare il suo essere comunista è già un mezzo miracolo.

Davanti al Green Pass, la sinistra “di classe” si è divisa in un ventaglio nevrotico e intorcinato di posizioni. C’è chi è “contro”, ma solo nei comunicati, perché organizzare quella gente, signora mia, è dura; chi è a favore della vaccinazione a vita per tutti, dai neonati ai morituri, ma è costretto a prendere posizioni diverse sui posti di lavoro, quando i “suoi” iscritti si incazzano; chi snobba tutto all’insegna del “dura menga”; chi sente troppa puzza di fascisti, chi di no vax, chi di populismo; chi dice che si tratta di vezzi piccolo-borghesi; chi non è nè a favore nè contro, ma aspetta solo con sofferenza che passi presto il caos disarmonico che smonta le certezze e distrae dai propri rituali quotidiani, le riunioncine, le assemblee per pochi intimi, la scrittura di giornaletti che nessuno legge più. Le cariche a Trieste , contro portuali e popolo; la piazza milanese, che non veniva attraversata con questa anomala frequenza dal 1977; la movimentazione in ogni territorio d’Italia: tutto ciò rende la “compagneria” nevrotica e indecisa.

Davanti agli operai della CNH, ai loro dubbi esistenziali sul tampone, al loro malessere inacidito, la sensazione strisciante è quella di una conferma storica: la sinistra dei rivoluzionari è drammaticamente distante dal proletario maschio-bianco-eterosessuale-over 40.  Questo soggetto collettivo, oggi è ovunque terreno di caccia delle destre – da Trump a Meloni. Loro sanno lisciargli il pelo dalla parte giusta. Il PMBEO40 ( per l’ acronimo vedi sopra, l’ho coniato io e adesso, chi vuole usarlo, deve versare le royalty a Peppino), con tutte le sue pesantezze, la sua confusione, le delusioni accumulate nel tempo, è un osso troppo duro per chi ha denti fragili, abituati ai pasti delicati delle nicchie sociali e delle minoranze indifese. Per avere a che fare con Peppino e i suoi colleghi ci vogliono zanne carnivore e fame arretrata.

Nelle ore in cui Peppino contemplava il suo caparbio isolamento davanti ai cancelli della sua fabbrica, la ex ministra ed ex sindacalista Valeria Fedeli ha pianto in diretta, alla radio, perchè il ddl Zan non è passato. Piangeva come Dolores Ibarruri alla caduta di Barcellona, povera Valeria. La cosa mi ha colpito e incuriosito. Non potevo smettere di pensare al pianto della ex ministra progressista. Mi chiedevo: quante altre volte avrà pianto, Valeria Fedeli, nel corso dei molti snodi critici che avrà dovuto attraversare, lungo la sua carriera sindacale e politica? Piangeva, quando contribuiva al rinnovo dei contratti collettivi di certe categorie (la mitica FILCTEM) che hanno messo nero su bianco, per venticinque anni, lo scandalo dei salari più bassi d’Europa? E nel corso della sua attività di governo e sottogoverno, quando si falcidiavano sanità, diritti e spesa sociale: ha pianto spesso? Cosa rappresenta, per questa gente, l’ideologia dei “diritti civili”: un alibi, un rifugio, un vago rimando ideale che testimoni una sia pur minima differenza dalle destre? Sono meglio gli applausi sinceramente sguaiati e fascistoidi dell’emiciclo destro, o le lacrime della ex ministra, che sporcano ogni causa, anche la più nobile?

L’Officina Costruzioni Industriali Fiat Trattori inaugura la sua sede a Modena nel 1928, un anno prima della grande crisi. Giovanni Agnelli sr. sposta qua, a Modena, il grosso della produzione dei veicoli agricoli; in questo sito verrà prodotto il primo trattore a cingoli europeo. Generazioni di modenesi – e poi di immigrati campani, pugliesi e siciliani – hanno mandato avanti lo stabilimento tra boom, crisi e riprese. Fino ai primi anni ’70, gli operai più meritevoli che andavano in pensione, potevano essere selezionati per partecipare ad una cerimonia torinese, solennemente paternalista, in cui ricevevano una targa o un orologio, direttamente dalle nobili mani dell’Avvocato Agnelli. Tanti altri lavoratori, invece, nel corso dei decenni, avevano conosciuto i licenziamenti politici e la gogna dei reparti punitivi. L’insediamento industriale si è allargato, nel tempo, ma è rimasto più o meno dov’era, in un’area un tempo di prima periferia, oggi praticamente inglobata al centro città. Una manifestazione operaia – da qui o dalla vicina Maserati – può raggiungere il municipio a piedi in venti minuti. Se se ne facessero ancora. Le ultime mobilitazioni importanti nel polo Fiat modenese, risalgono a prima della grande crisi del 2008 e alla guerra dichiarata (e sostanzialmente vinta) da Marchionne contro la Fiom, nel 2010. Da allora, anche qui, alla ex Fiat Trattori, oggi CNH, è stato un lento sfilacciamento di rapporti tra operai e sindacato, tra politica e classe. Oggi siamo al punto più basso di quella storia.

Peppino, se gli metti una giacchetta di velluto e un pullover girocollo, potrebbe sembrare un professorino del Dams. Il fatto che le facce di borghesi e proletari cominciassero a confondersi, era una delle cose che rattristava di più Pasolini: lui, da artista, leggeva somaticamente, prima che sociologicamente, l’ineluttabile imborghesimento operaio e contadino – nelle facce, nei corpi, nei modi, nell’estetica, nel linguaggio. Oggi, con l’intellettuale massa pienamente dispiegato al lavoro, dovremmo cogliere anche il movimento in senso inverso – la proletarizzazione dei ceti intellettuali, sempre meno distinguibili dai coetanei operai. I segni più marcati di tale proletarizzazione, si colgono nelle redazioni dei giornali: una lumpen-borghesia, ignorantella e iper precaria, che scrive qualsiasi cosa, a comando, gli venga chiesto di scrivere; per la verità non hanno neanche bisogno di veline: sono veline viventi, che fiutano l’aria e si adattano come delicate piante rampicanti, a qualsiasi superficie. E questa è anche la storia, in corso d’opera, del rapporto tra movimenti no Green Pass e “operatori dell’informazione”. Guardare la sottomissione – più schiavistica che proletaria – dei precari delle redazioni, spiega molto, dei tempi moderni e e dei dispositivi narrativi che li stanno raccontando.

Il nostro Peppino, bandolero triste ai cancelli della Fiat Trattori, è il testimone vivente di diverse sconfitte e una scissione. Con la sua busta paga falcidiata dai debiti, la sua precarietà economica ed esistenziale, testimonia la fragilità dell’impetuoso ciclo migratorio interno che ha accompagnato il decennio tra metà anni 90 e metà 2000. Con la sua storia di sindacalizzazione – senza uno straccio di organizzazione che incroci la sua strada –, testimonia la crisi complessiva dell’agire sindacale oggi. Con la sua ostilità conclamata verso le sinistre tutte, testimonia la rottura definitiva di una storia lunga e antica. Quelli come lui hanno in odio tutti i partiti e i sindacati che provengono, indegnamente, dall’alveo del movimento operaio italiano. Lui e quelli come lui non saranno più “recuperabiili”. Peppino ha chiuso e amen.

Fortunatamente, c’è un’altra storia e un altra vita che scorre, anche in mezzo ai miasmi della palude italiana. Peppino il 18 settembre, insieme a qualche altro collega, ha partecipato alla “marcia dei 40.000” della GKN. “Mi sono trovato in mezzo a migliaia di operai come me, organizzati, compatti, ho sentito la forza collettiva, mi sono rianimato, commosso. Anche quelli del collettivo GKN mi hanno detto che la strada dell’organizzazione in fabbrica è lunga, difficile; anche loro, prima di arrivare al collettivo, hanno dovuto faticare parecchio. Ecco, a me piacerebbe tornare dentro e organizzare un collettivo in CNH, una cosa nuova, che non c’è mai stata”. A Peppino obietto che per tornare bisogna inventarsi un percorso di rientro, farsi almeno i tamponi; se resta là fuori, al freddo è solo un “assente ingiustificato” e il collettivo dei lavoratori CNH non nascerà mai. Nessuno esige il suo martirio e la coerenza non può essere autodistruzione. “Non lo so. Mò vediamo. Stiamo andando avanti giorno per giorno”.

Si naviga a vista, nonostante la famosa nebbia padana, ormai a Modena non cali più da anni. Ma qui, davanti alla Fiat Trattori, è come se una cortina umida e densa, stesse avvolgendo i destini di donne e uomini “troppo poco allineati”. Un pezzo di città in ombra, i contorni sfocati di facce nostre, che non riconosciamo.

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