di Sara Meddi

IgortIgor Tuveri, in arte Igort, inizia a disegnare o, meglio, a scrivere romanzi grafici alla fine degli anni ’70. Da allora ha pubblicato fumetti su testate nazionali, scritto articoli e saggi, inciso musica, fondato riviste e il gruppo di avanguardia Valvoline. In mezzo a queste cose i suoi lavori sono stati pubblicati negli Stati Uniti, in Giappone, Francia e molti altri paesi. Ha vinto premi nazionali e internazionali. Ha vissuto in Giappone, ora vive tra Parigi e la Sardegna. Potete trovare altre informazioni qui.

Noi lo abbiamo intervistato perché conquistati dai suoi Quaderni ucraini e russi (sono da poco usciti anche i Quaderni giapponesi). Igor non fa, solo, disegni, fa narrazioni: monta storie, disegni, appunti, foto e documenti per raccontare con un occhio che ha l’ampiezza del cinema di Spielberg e la precisione della narrativa di Checov. Queste sono alcune domande e risposte.

Mi interessa parlare del fumetto come arte narrativa, anche in relazione alla letteratura. Tu quando lavori a una storia come la progetti? Lavori sulle tavole, sulle scene, su una scaletta…

Ogni storia, per me, ha una sua forma precisa. Considera che lavoro anche per altri mezzi di comunicazione… scrivo per il cinema o romanzi… e all’inizio c’è una suggestione, una serie di cose che si impigliano l’una nell’altra, e questi anelli che portano brandelli di storia ne chiamano degli altri. Allora sto all’ascolto. In genere, come dice Tarkovsky, il tempo è un attrezzo di lavoro, e le storie nascono in maniera abbastanza spontanea… cioè, germogliano in modo naturale. Ho, da quando ho iniziato a lavorare, dei taccuini dove prendo appunti sia di suggestioni, dialoghi o anche schizzi e disegni. E poi, mano a mano, faccio varie stesure fino a quando non arrivo al “parto” della storia: che per me è una cosa abbastanza brutale, come la nascita di un figlio. Lì sono costretto anche dalle scadenze a chiudere il libro che poi però continua a vivere nella mia testa. Tutti i libri che ho fatto ho continuato a disegnarli nella mia testa, ma questo fa parte del mio lavoro.

Quando lavori a una graphic novel le scene sono delimitate dalle tavole… ci sono tavole molto grandi, piccole, inframezzi di testo ecc… e queste delimitano anche il ritmo del montaggio. Tu come lavori su questa cosa? Come combini i diversi elementi?

Esistono diversi tipi di libri: libri di fiction, e libri documentari in cui la struttura del racconto è completamente diversa e anche il contenitore è completamente diverso. Nei libri di fiction non è necessario mettere dei documenti, mentre questi libri documentari sono disegnati e permettono all’autore di inserire o ricostruire altro. Quando ho fatto i Quaderni ucraini ho potuto ricostruire come era fatto un villaggio negli anni ’30: se avessi dovuto filmarlo ci sarebbe voluti i mezzi di Spielberg, perché sarebbe stato un colossal… ricostruire le case, la società, le fabbriche… tutto questo è possibile attraverso il disegno che ha una grande spinta evocativa. Io però inserisco anche delle foto che attestano la veridicità dei documenti e di quello che racconto, che sono il frutto di incontri con persone davvero esistenti, che hanno quella faccia e quella storia.

Nella costruzione di un racconto per me è fondamentale usare degli storyboard in cui mantengo una scansione visiva, dove incollo parti fotografiche o lascio appunti di testo.

Poi… l’immagine, in un racconto disegnato, ha la possibilità di sganciare e du giocare di contrappunto anche. Se un racconto è concepito semplicemente come l’illustrazione del testo secondo me funziona male, abbiamo un pessimo fumetto. La marcia in più che può avere un racconto disegnato è che ci sono elementi che accompagnano il testo, o anche che lo contrastano. È questa la bellezza di questo linguaggio, che è un linguaggio meticcio e ha la possibilità di usare di molte cose. L’impatto ovviamente è molto diverso rispetto a un libro scritto, un libro disegnato tu lo apri e stai già viaggiando dentro: ha una malia molto potente, che è quella del disegno che ti avvolge, invece per capire la potenza delle descrizioni di Checov io devo seguire parola per parola. È un atto di fruizione diverso.

Quando inizi a lavorare sulla storia hai già un’idea di come questa storia dovrà essere alla fine? Hai quindi già un’idea di montaggio o lavori tavola per tavola?

C’è qualcosa che ti spinge a fare e non è una visione compiuta… il montaggio cresce e a un certo punto ci sono moltissimi materiali, e tanti di questi materiali vanno tagliati. Per fare un libri ci metto almeno due anni, e questo lavoro del montaggio finale per me è quello più lungo, non tanto quello del disegno. Perché devo capire il respiro del racconto, ed è il racconto che a un certo punto detta legge, che esclude delle scene e che ne chiede delle altre. Per me è una questione di “cucina narrativa”, è come quando stati cucinando: hai un’idea di quello che vuoi fare ma correggi mano a mano. Per me fare un libro è sempre un’esperienza, e non a caso ho diversi filoni che percorro nel tempo.

Tu hai fatto sia graphic novel di fiction che di reportage. Lavori diversamente su queste cose? Pensi che sia più facile fare un’opera di sola immaginazione rispetto a un’altra che richiede ampia documentazione?

Non mi sono mai posto il problema di cosa è più faticoso. Per me esiste soltanto un livello di verità intima del libro, una necessità che io spero di condividere con i miei lettori.

L’approccio è radicalmente diverso. I documentari disegnati li faccio viaggiando: ho vissuto quasi due anni tra Ucraina, Russia e Siberia, sono stato ventidue volte in Giappone e ci ho abitato… e quindi racconto cose che credo di conoscere. Io non voglio fare giornalismo, non mi interessa, la mia sfida è narrativa, quello che mi interessa è la vita nel racconto: i miei racconti si nutrono di vita e cerco di riportarla. Poi, quando fai un documentario disegnato non hai il diritto all’invenzione, se stai raccontato quello che vedi non puoi mentire: se hai visto un triciclo non puoi inventarti che hai visto venti carriarmati, perché questo è tradire il patto con il lettore. Se tu scrivi “questa è una storia vera” vuol dire che stai raccontando una storia vera. E lì si tratta di aspettare. Mi ricordo che quando ho finito i Quaderni ucraini sentivo che mancava qualcosa nel finale, però non potevo a mettermi quello che fai quando scrivi fiction, ovvero scrivere… quindi passavo giorni ad aspettare, e a un certo punto la Repubblica ha pubblicato un articolo in cui diceva che erano state nuovamente affisse nella piazza Rossa di Mosca le gigantografie di Stalin, che erano state tolte molto tempo prima… e questo mi è sembrato il finale giusto.

Ugualmente si deve trovare un modo giusto di raccontare. Quando scrivevo della guerra in Cecenia mi rendevo conto che c’era una potenza di dolore, di miseria umana, di voglia di sopravvivere che andava raccontata nel modo giusto. E questa cosa la sentivo nella voce delle persone con cui avevo parlato: la sentivo e dovevo trovare un modo per raccontarlo. Quindi ho fatto molto fotografie, ho guardato film, ho guardato i dipinti di Giotto… anche cose che apparentemente sono molto distanti possono aiutare a raccontare quella cosa che senti. Se c’è verità nel libro il lettore lo avverte, e quindi ama il libri. In questo senso è vero che i libri sono oggetti magici. Siamo grati a chi scrive un libro che ci piace perché c’è qualcosa di invisibile che passa e che ci colpisce, che ci illumina e che ci fa capire meglio anche come la pensiamo noi stessi. Per me il lavoro è questo.

Io lavoro come un fornaio, mi metto la mattina presto al tavolo e cerco di usare gli ingredienti giusti per fare il mio pane, e il mio pane deve essere un pane buono, perché io ho rispetto di chi legge.

Per me è importante il rapporto con il lettore, io cerco di essere nudo quando parlo con loro, il più onesto possibile.

Tu hai iniziato a lavorare piuttosto presto. Cosa è stato importante per te, nella tua formazione?

Il lavoro di un autore è quello di scoprire la propria voce, e la propria voce è il risultato di tutte le cose che ci piacciono. Battiato dice che, quando ci piace qualcosa, in realtà questo qualcosa ci parla di noi. Ho iniziato a lavorare così. All’età di sei anni guardavo i fumetti per bambini, ma ero già colpito dalle forme… ed è dall’età di sei anni che ho capito che volevo fare questo. Poi, all’inizio della mia formazione sono stati importati i disegnatori americani, da Eisner a quelli dei supereroi che arrivano in edicola, all’inizio degli anni ’70. Quindi mi piacevano Steve Ditko, Mike Kaluta, Bernie Wrightson… erano tanti i disegnatori che mi piacevano… dopo, mano a mano che crescevo c’è stato il fumetto underground americano… ma già a quattordici anni parlavo con Crepax, lo chiamavo a casa… per me era un genio. Ammiravo i disegnatori italiani, Pratt, Battaglia… sono tantissimi i disegnatori che mi piacciono. Quando sono andato in Giappone ho scoperto il mondo dei manga e ho cominciato a lavorare con i loro disegnatori, che molto carinamente non mi imponevano di diventare giapponese… e lì ho capito che io ero un po’ un uomo di frontiera, la mia formazione era passata attraverso gli Stati Uniti, la Francia, l’Europa, l’Asia… e tutto questo confluiva dentro di me. Stando in Giappone era tutto più fattibile, perché stai lontano e riesci a guardare te stesso come se fossi un oggetto estraneo. Secondo me un disegnatore è un po’ il risultato di quello che lo attraversa. Io sono molto influenzato, mentre disegno, anche dal ritmo della musica che ascolto, oppure dal ritmo della scrittura che ho in mente… mentre leggevo Philip Roth ho scritto Il letargo dei sentimenti, che è la storia di una specie di Batman comunista…

Quello che ha portato di nuovo il gruppo Valvoline, questa avanguardia nata all’inizio degli anni ’80, di cui facevo parte, è stato proprio dire che il fumetto non deve guardare solo al fumetto, si deve guardare intorno. Io ho moltissimi libri di architettura, di letteratura, fotografia, di cinema… non mi sono mai posto un limite in cosa leggere e cosa non leggere.

Tu ti occupi anche di editoria, della Coconino Press, quindi devi prendere anche delle scelte su cose che non riguardano solo te, ma che riguardano il lavoro di altre persone. Tu come lavori alla selezione delle opere che poi entreranno nel vostro catalogo?

In modo molto semplice. Leggo moltissimo anche mentre le opere sono in lavorazione, e se non dormo la notte in genere vuol dire che è un buon libro. Io sono il primo lettore e il primo fan dei miei colleghi. Ho iniziato a fare questo grazie alla Feltrinelli, che mi chiamò per chiedermi se avevo voglia di fare un libro per loro e anche di suggerire delle cose… ho portato dei libri, loro erano interessati ma dopo tre anni ancora non era successo niente, intanto avevo incontrato Carlo Barbieri… un uomo davvero illuminato, coltissimo… e con lui abbiamo detto “Perché non lo facciamo noi?”, e abbiamo fatto la casa editrice. Abbiamo pubblicato più di cinquecento libri e le cose stanno fiorendo, e adesso il romanzo grafico è una realtà in Italia. L’Italia è un paese che ha una grandissima tradizione nel fumetto ma spesso da edicola, seriale… quindi non c’era l’idea di fare un libro senza un eroe che potesse andare avanti con le sue avventure mese dopo mese. Questo è il perché è nata la Cocconino Press. Siamo in una fase pioneristica, e questo per me è molto affascinante: credo che il fumetto vada ancora completamente inventato.