di Franco Pezzini

cSBMarco Gobetti, Un carnevale per Sole e Baleno, Postfazione di Valentina Cabiale, SEB27, Torino 2015.

“E io gli ho detto che l’aveva fatto senza motivo, ma loro non mi credevano. «Impossibile!» dicevano – e insistevano a chiedermi perché.”
Due ragazzi, seduti a un tavolo, con maschere addosso. Lui ne indossa una che richiama il muso di un maiale; quella di lei imita il capino di un grillo. Scelte un po’ strane, ma evocano sogni che rispettivamente hanno fatto: per lui una storia di violenza poliziottesca e sospetto mediatizzato in cui entrava un uomo (insieme agente della Digos e giornalista) appunto dalla testa suina; per lei la vicenda onirica di un incontro – alla Alice, diciamo – con un grillo che parla e offre caffè. Scherzano tra loro, si rimbrottano, decidono di non andare alla sfilata in maschera, per un carnevale “senza la folla e i rumori”: hanno gettato via i propri documenti, parlano d’amore e coniugano verbi echeggianti dolore e desiderio di non farsene schiacciare. Poi accade qualcosa, ed è buio. L’Epilogo riporta una storia di terra espropriata:
“Ti racconterò quello che so del treno velocissimo.
Ti racconto la storia.
Perché tu possa raccontarla ad altri”.
In effetti ci sono storie che vanno raccontate, e raccontate ancora: che vanno ricordate a dispetto del corso limaccioso di banalizzazioni e travisamenti, di accantonamenti pelosi e di facili acquiescenze. È ciò che fa Marco Gobetti – attore, regista e autore teatrale (cfr. il recente La tragedia della libertà, 2014, SEB27), inventore del Teatro Stabile di Strada, collaboratore dello storico Leonardo Casalino in progetti di racconto orale della Storia (Lezioni recitabili, 2012 e Raccontare la Repubblica, 2014, entrambi ancora SEB27), voce di grande intensità e umanità – scegliendo in effetti un registro molto particolare per rievocare in chiave drammaturgica una delle pagine più tristi della saga TAV: la morte in carcere nel 1998 per scelta anticonservativa di due giovani anarchici accusati di ecoterrorismo, Edoardo Massari detto Baleno e l’argentina Maria Soledad Rosas detta Sole. Una storia che, nonostante le già non tranquillizzanti risultanze giudiziarie (che li “assolvevano”, post mortem, quali vittime di una montatura), gronda però ancora domande. Per chi desiderasse approfondire, ne parlano esaurientemente Andrea De Benedetti e Luca Rastello in Binario morto (pp. 115-125) e Tobia Imperato in Le scarpe dei suicidi.
Come rileva nella densa Postfazione Valentina Cabiale, a Gobetti non interessa richiamare i dati storici su Sole e Baleno – che comunque restano sullo sfondo, evocati nell’Epilogo:

Basterebbe già l’atmosfera onirica e la limpidezza quasi insensata delle loro parole, ad avvertirci che non è la realtà della cronaca quella che stiamo leggendo. La finzione è resa dalle maschere e dal racconto dei sogni, due livelli di moltiplicazione e dislocazione del reale, ai quali si aggiunge un terzo elemento di camuffamento: le maschere sono di esseri non umani ma animali. In questo gioco di sovrapposizioni le simbologie possibili si accumulano e si incrociano, non si seguono più. È inutile tentare di controllarle o progettarle a tavolino. Bene sembra saperlo l’autore il cui intento, nella prima parte, pare soprattutto quello di far esplodere suggestioni.

Così, sul set simbolico di quell’ultima sera di carnevale, i due scoprono di non poter raggiungere gli altri amici camuffati (tutti ispirandosi, come proposto, a immagini di fantasie notturne). Raggiungere il carro della festa e far finta di niente, ignorare quell’urgenza di comunicarsi – parole, scherzi, gioco, amore – e di passare tempo assieme non pare possibile. Forse anche per la sensazione che il tempo sia breve, come in effetti sarà.
Nel dialogo apparentemente stralunato – quasi a sovvertire le strutture comunicative del mondo “controllato”, spingendo il lettore/spettatore a uscirsene con la propria testa e le proprie domande – particolarmente efficace è appunto la citata scena dei verbi: coniugati via via dalle persone singolari alle plurali, finiscono con lo svelare orizzonti diversi, a recuperare latitudine anche politica.
Ma sono le maschere animali a spiazzare di più, evocando una storia di possessioni e parassitismi che invadono lo spazio comunitario e personale, restringendolo e vampirizzandolo. Come in eco del misterioso passo evangelico del branco di maiali che invasati si annegano nel lago, o nel caso (reale, ma non meno gravido di suggestioni) del pestifero parassita Paragordius varius che, insediatosi e cresciuto nel corpo di piccoli animali come grilli o coleotteri, spinge infine l’ospite a morire nell’acqua. “È difficile stabilire se si siano suicidati o siano stati uccisi”, considera Cabiale. E continua:

[…] quando i demoni, i parassiti, la violenza altrui si insinuano dentro di noi, restringono il nostro spazio, ci indeboliscono (senza che ce ne accorgiamo, per errore nostro o di altri o per caso), quante e quali sono le possibilità di libertà? Tra cosa si può scegliere? Fino a che punto si desidera lottare? Cosa che ne facciamo della rabbia?

Dove la stilizzazione teatrale permette di evocare implicazioni più ampie, di traghettare a un tessuto di suggestioni anche meno prevedibili, di attivare quella “macchine per pensare” in netta controtendenza a quanto proposto – o piuttosto imposto – dal gran circo all’intorno.
Una prima, più ridotta stesura del testo di Gobetti ha vinto l’edizione 2014 del premio NdN (Network drammaturgia Nuova) incentrata sui nessi tra grande storia e storie individuali: come appunto quelle di due ragazzi che, a livello collettivo, si ha troppa fretta di dimenticare.

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