di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono da una parte le modalità innovative del linguaggio dei manifesti prodotti dai movimenti extraparlamentari e, dall’altro, l’influenza esercitata da tali novità sulla produzione dei manifesti della politica istituzionale. “La ricerca si è sviluppata in due direzioni: da un lato, la ricostruzione dell’attività sociale connessa alla produzione e diffusione dei manifesti, sia nel vivace magma delle migliaia di collettivi di movimento che nei grandi partiti di massa; dall’altro, l’analisi dell’iconografia e delle forme narrative assunte dai manifesti delle differenti forze politiche”. Il saggio intende indagare quanto “l’urto destabilizzante” dei movimenti abbia influenzato la comunicazione e la rappresentazione della politica istituzionale italiana.

Tra i vari aspetti trattati da Gambetta, in questa sede, si preferisce insistere sulle “modalità di recupero” dei manifesti e del linguaggio della sinistra radicale attuate, per quel che possibile, dal sistema istituzionale con il duplice fine di dotarsi di un linguaggio in grado di comunicare con i soggetti sociali che, a partire dal ’68, animano le piazze (giovani, operai, donne) e, dall’altro, di addomesticarne e depotenziarne i contenuti. Ovviamente, un conto sono le finalità che i singoli partiti istituzionali, ed i singoli manifesti, nel corso degli anni ’70, si danno, altro è il raggiungimento degli scopi. Non mancano tentativi maldestri e palesi incapacità ma è innegabile che, anche in tale ambito, il processo di riassorbimento delle lotte antisistemiche e del loro linguaggio, si è dispiegato con un potenza di fuoco impari, soprattutto se si pensa a come la controffensiva dei manifesti istituzionali sia stata supportata dalla comunicazione televisiva.

Nel saggio è presente un corposo apparato iconografico che raccoglie un’ottantina di riproduzioni dei manifesti che, nel corso del testo, vengono analizzati nel lessico, nell’iconografia, nelle caratteristiche tipografiche e compositive, nelle scelte cromatiche, nel lettering, nei contenuti più espliciti ed in quelli più profondi. “Studiare esclusivamente l’iconografia dei manifesti significa fermarsi alle soglie della loro specificità, che consiste in una più complessa articolazione tra racconto generale (il manifesto come parte di un sistema più complesso di comunicazione), sua elaborazione grafica e diffusione nella società”.
1969-operai-studenti-unitiLa prima parte del testo ricostruisce la nascita dei manifesti italiani della sinistra rivoluzionaria a partire dal ’68. La fonte d’ispirazione maggiore è costituita dalla produzione del Maggio francese che basa la comunicazione sulla “combinazione essenziale di immagini e parole, privilegiando messaggi di rottura” spesso provocatori ed aggressivi, ricorrendo al “ribaltamento di senso dei termini, simboli e modi di dire del linguaggio dominante per mostrarne incoerenze e contraddizioni (…) per far emergere concetti e significati alternativi”, rifacendosi alle pratiche di détournement di matrice situazionista. Un ruolo importante spetta anche alla cultura underground statunitense che, già prima del ’68 si diffonde negli ambienti più inquieti della società italiana, soprattutto tra gli studenti. Altre fonti d’ispirazione sono la grafica cubana, una volta emancipatasi dal realismo di matrice sovietica ed, in maniera minore, per quanto riguarda la rielaborazione grafica per manifesti pubblici, la Rivoluzione culturale cinese. L’iconografia cinese viene infatti ripresa più per la produzione di manifesti da esporre nelle sedi politiche o domestiche che non per la produzione pubblica. Sicuramente la sinistra radicale è debitrice nei confronti della rivoluzione maoista per quanto riguarda il ricorso ai ta-tse-bao, ma si tratta, in questo caso, di “linguaggio delle parole”, ben distante dalla “comunicazione iconografica ed essenziale del manifesto”. Sarebbe sbagliato enfatizzare le abilità comunicative dei manifesti, o dei giornali murali, di movimento così come non si dovrebbero stroncare i manifesti della politica istituzionale; nel corso degli anni ’70 si ha un interesse talmente diffuso per il dibattito politico che riescono ad incidere a livello comunicativo anche manifesti prolissi, maldestri e poco attraenti.

tesseramento pci 1979__1980Dall’indagine sviluppata dall’autore emerge come la propaganda politica istituzionale di fine anni ’60 risulti decisamente arretrata tanto rispetto alle tecniche della promozione commerciale, quanto alle strategie comunicative dei movimenti antagonisti ma, tale ritardo, deve essere imputato anche ad una sostanziale inadeguatezza politica nei confronti delle figure sociali emergenti. Il sistema politico ufficiale si dimostra, insomma, in forte ritardo nel comprendere la trasformazione in corso tanto nella società italiana, quanto internazionale, ed il ritardo nella comunicazione politica è legato sia al permanere di un’immagine del paese che ormai non esiste più, che ad una difficoltà di dare risposte a domande che si sono fatte radicali e che, probabilmente, non possono ottenere risposte istituzionali. Insomma, dopotutto ad essere messo in discussione è il sistema capitalistico; difficile dare risposte a chi intende promuovere una rivoluzione radicale.
L’autore segnala come il Pri sia la prima forza politica che, sin dall’inizio degli anni ’60, ricorre ad un art director per rinnovare l’immagine del partito di Ugo La Malfa: viene abbandonata la tradizionale comunicazione realista in favore di uno stile razionalista derivato dalle nuove strategie di promozione commerciale. Con un decennio di ritardo rispetto all’esperienza dei repubblicani, anche il Partito socialista inizia a ricorrere a qualche designer professionista al fine di riformulare la propria immagine. In questo caso vengono mantenuti alcuni simboli tradizionali seppur rinnovati stilisticamente anticipando quella che sarà la sostanziale trasformazione del partito che si compie con l’avvento di Bettino Craxi ed il riposizionamento della forza politica quando, una volta messa in secondo piano la tradizionale base operaia, decide di concentrarsi sui ceti medi.
Nel corso degli anni ’70 sono diversi i grafici, i pittori ed i fumettisti che si prestano alle strategie comunicative dei partiti istituzionali o dei movimenti. Ricorso a professionisti della comunicazione o meno, l’intero panorama politico istituzionale, nel corso degli anni ’70, si trova a fare i conti con la rappresentazione dei soggetti sociali che animano la scena: giovani, operai e donne.

psi 1972Il mondo giovanile, sostiene Gambetta, è il primo soggetto ad essere ridefinito graficamente nei manifesti e nell’immaginario iconico dei partiti istituzionali di fine anni ’60. Il divario tra l’immagine dei giovani offerta dai partiti e la loro autorappresentazione appare decisamente incolmabile anche dal punto di vista grafico. Sin dalle elezioni del maggio 1968 i partiti si trovano a doverli rappresentare nei manifesti ed optano per una descrizione composta e misurata attraverso immagini di rassicuranti “volti acqua e sapone”. Successivamente il Partito comunista tenta di collegarsi maggiormente con il mondo reale ricorrendo a fotografie di manifestazioni studentesche accostate però, in maniera stridente, a testi tradizionali tesi a “normalizzare” le immagini (es. “innovazione nella continuità”). I partiti istituzionali di sinistra (Pci, Psi, Psiup) iniziano pian piano ad utilizzare immagini di giovani in corteo, spettinati e con tanto di pugni chiusi ma, tale rappresentazione dei partiti, attraverso l’immagine del giovane maschio risulta piuttosto una metafora di “vitalità, e vigore, nonché di virilità” tesa ad esaltare la potenza rigeneratrice delle organizzazioni. Nei partiti di sinistra, in sostanza, le immagini dei giovani servono per rappresentare le qualità giovanili dei partiti. In alcuni casi la medesima immagine viene utilizzata con finalità opposte. Fgci1977_tesseraGambetta propone a tal proposito l’esempio della celebre foto di Uliano Lucas di Piazzale Accursio a Milano nel 1971, utilizzata dalla Fgci nel 1977 con lo slogan “Unità dei giovani per salvare l’Italia” e, qualche anno dopo, dall’area dell’autonomia romana per ricordare Valerio Verbano. I partiti più moderati, invece, ricorrono alle immagini dei giovani sopratutto “per comunicare con quello specifico target sociale, rifiutando cioè l’idea di autorappresentarsi attraverso il volto dei giovani”. La Democrazia cristiana, ad esempio, attraverso le immagini dei giovani inseriti nei manifesti vuole sottolineare l’interesse e la fiducia in essi ma non intende associare il partito alla giovinezza.

1968_fabbrica_pciGli operai rappresentano il secondo soggetto a trovare spazio sui manifesti dei partiti politici istituzionali. Le formazioni conservatrici tendono ad evitare di rappresentare il mondo del lavoro attraverso una specifica categoria professionale, soprattutto operaia, preferendo puntare sull’idea di cittadinanza: ogni lavoratore diventa più genericamente un cittadino. Nei casi in cui tale cittadino venga ritratto, esso si presenta come maschio, adulto ed appartenente alla piccola o media borghesia. Nelle rappresentazioni dei partiti della sinistra parlamentare si riprende l’iconografica ottocentesca che prevede un lavoratore maschio, muscoloso e virile, non di rado a torso nudo con gli attrezzi da lavoro e lo sguardo rivolto al futuro. Tale rappresentazione, però, abbandona l’iconografia cara al realismo socialista; viene scemando la raffigurazione dell’operaio in marcia al fianco di contadini ed intellettuali con bandiere rosse e nazionali. Se prima del ’68 l’operaio viene presentato, nei manifesti dei partiti di sinistra istituzionale, come uomo maturo, esperto ed orgoglioso della sua professionalità, soprattutto dopo le vertenze dell’Autunno caldo ’69 l’operaio si trasforma in giovane combattivo ritratto in situazione di conflitto. La marcia orgogliosa verso il “sol dell’avvenire” lascia il posto al corteo conflittuale ed allo sciopero.
Tanto negli ambienti radicali, quanto in quelli istituzionali si ricorre anche a personaggi di fantasia disegnati in maniera caricaturale con una notevole dose ironica e dissacrante. Se in un primo tempo la caricatura nasce per irridere la controparte, sull’onda della grafica politica radicale nordamericana, ora questa viene utilizzata per l’autorappresentazione di una classe perennemente in lotta.

manifesto_dcLa donna è il terzo soggetto che, irrompendo sulla scena, obbliga il sistema politico a ripensare e ridefinire la comunicazione tramite manifesto. Si tratta di una rincorsa, spesso maldestra, frequentemente di facciata, funzionale da una parte a conquistare il foto femminile, non più scontato, e dall’altra a depotenziare la portata eversiva dei movimenti femministi. Se sin dai tempi antichi la figura femminile viene utilizzata soprattutto per incarnare un ideale, raffigurare un mito, tra il XIX ed il XX secolo le donne borghesi diventano consumatrici di merci ed iniziano a perde l’astrattezza simbolica in un processo di “riduzione alla fisicità”. Ben presto l’immagine femminile viene costruita dall’immaginario maschile e dal sistema commerciale come veicolo per vendere merci. Le formazioni moderate e conservatrici, non di rado, continuano a rifarsi all’immaginario di matrice religiosa ove la donna è prima di tutto, quando non esclusivamente, madre. In generale la donna è mostrata come madre e moglie nell’ambito domestico, tanto che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, molti manifesti politici ripropongono la tradizionale associazione “donna/madre/famiglia”. Con l’avvento dei collettivi femministi vengono contestati radicalmente sia i ruoli tradizionali assegnati alle donne, che il consumismo, imponendo tanto alla sinistra rivoluzionaria, quanto al mondo politico istituzionale, la “necessità di parlare delle donne e alle donne e di tener conto delle loro aspirazioni”. I manifesti prodotti dall’area femminista risultano piuttosto in linea con la “presa di parola”, con la necessità di raccontarsi autonomamente. “I titoli e i testi colloquiali ed evocativi, i simboli femministi disegnati e rielaborati in mille modi, l’impiego dominante e originale di colori come il viola, il rosa, l’azzurro, i caratteri tipografici più dinamici e spesso tratteggiati a mano, l’ampio utilizzo di fumetti, caricature e fotografie inconsuete – soprattutto in funzione autoironica, più raramente autocelebrativa – furono i segni di questa nuova narrazione tra donne”. Alla fine degli anni ’70 tutte le formazioni politiche si trovano costrette a divulgare una nuova immagine della donna. Nell’ambito della politica istituzionale, il Partito radicale, per certi versi partito maggiormente di frontiera tra istituzioni e movimenti, è tra i primi ad inserire una rinnovata immagine femminile: o come “denuncia della propria oppressione” o come “protagonista della propria liberazione”.

manifesto_psi_00Il Partito socialista nelle campagne referendarie per il divorzio e, successivamente, per l’aborto inizia a rappresentare il mondo femminile non solo tramite l’icona della donna autonoma e consapevole ma con l’aspetto e il volto delle donne che protestano in piazza: il manifesto del Psi del 1977 per l’8 marzo ricorre ad un volto di donna urlante associato alla scritta. “No a una giornata celebrativa – Le donne in lotta per l’alternativa”. Ancora nel 1979, quando ormai può dirsi iniziato il processo di trasformazione del Psi in forza politica sempre meno di lotta e sempre più riformista, il partito continua a mantenere un certo protagonismo femminile nei manifesti: il tentativo diviene quello di “mitizzare quella battaglia, di strapparla dal fermento vivo del conflitto per renderla narrazione epica”.
Gambetta sintetizza, attraverso l’analisi di due manifesti ravvicinati di metà anni ’70, la trasformazione in corso nell’immagine femminile del Pci.

pci 1975 donna_jpgIn un manifesto del 1975 il ritratto femminile “è accompagnato da un invito esterno”: “Donne siete più forti – Con il vostro voto cambiate la società”. Nel manifesto del 1976 all’immagine femminile viene associata la scritta: “Voto comunista perché il domani sia anche mio”. Si è passati dall’immagine di una donna come “soggetto da esortare” ad una donna che si fa protagonista del suo slogan. Qualcosa di analogo, tenuto conto del diverso orizzonte politico, accade anche nella Dc. In un manifesto del 1972 all’immagine di una giovanissima donna dall’aria incerta viene associata la frase: “Tu voti per la prima volta – Attenta che non sia anche l’ultima”. In un manifesto di qualche anno dopo, del 1976, l’immagine mostra un gruppetto di donne che parlano tra loro in pubblico, una di loro fuma una sigaretta ed a tale scena è associato lo slogan. “Vieni con noi” (da intendersi nella doppia accezione con noi donne / con noi Dc). Anche in questo caso si passa dalla donna come soggetto a cui suggerire ciò che è meglio per lei, ad una donna che, agendo in prima persona, invita altre donne a partecipare.
La radicalità del messaggio femminista e dell’autorappresentazione data dalle stesse militanti attraverso i manifesti risulta difficilmente riassorbibile dalla politica istituzionale (e dalla cultura maschilista del paese): a parte l’area politica istituzionale più vicina ai movimenti (nuova sinistra e radicali) nessun partito si sente di “superare alcuni limiti, scardinati invece nei manifesti femministi come, ad esempio, la denuncia dei rapporti patriarcali interni alla famiglia o le disparità sessuali nelle gerarchie di lavoro”, così come nessun partito decide di affrontare “esplicitamente i temi legati alla sessualità e al corpo femminile”.

1975_violenza_jpgParlando del decennio post ’68, è inevitabile per i manifesti affrontare la questione della violenza politica. Gambetta sottolinea come l’etichetta di “anni di piombo”, applicata al decennio, riconduca tutte le pratiche in cui vi è ricorso ad una forma di violenza, all’interno di un insieme indistinto: scontri tra opposte fazioni o con la polizia, bombe stragiste, azioni di fuoco di gruppi armati ecc., tutto diviene parte di una nebulosa indistinta. Dalla ricerca dell’autore emergono tre schemi comunicativi principali: l’esaltazione della forza del popolo o del partito al fine di piegare la violenza negativa dei nemici, la denuncia della violenza di Stato e l’appello alla concordia istituzionale contro un nemico estraneo alla vita democratica del paese.
La forza del popolo tendenzialmente viene celebrata tanto dai manifesti dei movimenti radicali, quanto dalla sinistra istituzionale. Nel primo caso l’accento è spesso posto sul legame tra le lotte popolari internazionali e la lotta anticapitalista portata avanti all’interno del paese. Il ricorso alla violenza, anche armata, non solo è condivisibile nei confronti delle lotte di popolo in atto (es. Vietnam), ma non è da escludere nemmeno sul fronte interno. Molti sono i manifesti in cui al pugno chiuso inizia ad essere associata l’icona dell’Ak 47. Nella sinistra istituzionale, invece, il riferimento alle armi si limita o alla celebrazione della Resistenza italiana al nazifascismo o alle guerre popolari di liberazione nel sud del mondo. Dal punto di vista “interno”, nazionale, la forza “delle masse” viene tradotta graficamente dalla sinistra parlamentare dalle immagini di un popolo che si mobilita riempiendo le piazze, “nei volti severi ma scoperti dei manifestanti e nelle bandiere”.
dc_76_violenzaMolti manifesti nel corso del “lungo Sessantotto”, adottano un sistema dicotomico ove una violenza “legittima e necessaria” si scontra con una violenza “immorale e arbitraria”: partiti costituzionali vs. “opposti estremismi”, sinistra rivoluzionaria vs. neofascisti e/o Stato borghese e/o capitalismo ecc. Non è infrequente che nei manifesti di tutte le forze politiche, istituzionali e non, il nemico venga mostrato come entità anonima, col volto celato (passamontagna o casco d’ordinanza, in base allo schieramento della forza politica), incline alla violenza cieca ed indiscriminata. Il nemico violento viene raffigurato come automa senza volto, mero simbolo o marionetta guidata da dietro le quinte. Le forze politiche istituzionali, al fine di negare legittimità agli avversari, tendono a denunciare la violenza armata o “attraverso immagini verosimili, ideate appositamente”, o “modificando profondamente le fotografie originali” al fine da enfatizzare l’impatto emotivo. Alla condanna del terrorismo (termine che ben presto diviene quasi onnicomprensivo di qualsiasi ricorso a forme di violenza), i manifesti istituzionali associano spesso l’indicazione di come sconfiggerlo. La comune “battaglia per la difesa della democrazia” nei manifesti Dc diviene “difesa delle istituzioni e della sua classe dirigente”, mentre nella produzione del Pci la risposta viene dalla “mobilitazione popolare”, dalla massa di lavoratori che scende in piazza e partecipa alla vita democratica del paese. Allo schema più diffuso, basato sulla semplificazione “bene vs. male”, si sottraggono le formazioni della nuova sinistra ed i radicali. La campagna referendaria (un quesito riarda l’abolizione della Legge Reale) di questi ultimi, in pieno 1977, ne è un esempio emblematico. Vengono affissi due manifesti del tutto uguali in termini di slogan (“Disarmiamoli con la non violenza firmando gli 8 referendum”) e di grafica recanti in un caso la celebre foto del militante che spara in via De Amicis a Milano e, nell’altro, l’altrettanto celebre immagine del poliziotto travestito da manifestante che, dopo aver sparato, pistola in pugno, si ritira tra le fila delle forze dell’ordine. In questo caso di duplice manifesto, il messaggio radicale è chiaro: condannare tanto la violenza armata di piazza, quanto la violenza armata repressiva. La nuova sinistra, volendo problematizzare il ricorso alla violenza nelle sue svariate manifestazioni, fatica a ricorrere ad un mezzo sintetico come il manifesto necessitando di argomentazioni articolate inadatte ad una comunicazione così “drastica”.

In conclusione Gambetta segnala come, a partire dai primi anni ’80, con l’affievolirsi dei movimenti e della conflittualità sociale, il linguaggio dei manifesti subisca una sorta di “ritorno all’ordine”. La comunicazione politica si avvicina sempre più a quella commerciale ed il ruolo della televisione diviene sempre più determinante tanto che, gli stessi manifesti vengono ad avere la funzione di “richiamare messaggi ascoltati altrove, promossi e diffusi attraverso altri canali, nei talk show o negli spot televisivi”.

 

 

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Copertina: W. Gambetta, I muri del lungo ’68…, Derive Approdi (2014)
– Manifesto: Operai-studenti…, Movim. studentesco di Bologna (1968)
– Manifesto: Per uscire dalla crisi…, Pci (1979)
– Manifesto: Lotta col voto…, Psi (1972)
– Tessera: Unità dei giovani…, Fcgi (1977)
– Manifesto: Assemblea operaia…, Pci (1968)
– Manifesto: Tu voti per la prima volta…, Dc (1972)
– Manifesto: No a una giornata celebrativa…, Psi (1977)
– Manifesto: Voto comunista perchè…, Pci (1976)
– Manifesto: No alla violenza…, Pci (1975)
– Manifesto: La violenza distrugge la libertà…, Dc (1976)