di Vittorio Catani

EscherSilenzi. Talora anche interminabili, imbarazzanti. Insopportabili. Ore. Non so. E il buio. Buio, buio. Forse una finta alba. Non sapevo calcolare le interruzioni di Vas. So che riprendeva, a volte pensavo che mi parlasse nel sonno e temevo (temevo?) che svegliandomi mi sarei ritrovato nella vita normale, magari a bighellonare per strada, inconcludente.

— Eppure — seguitava imperterrito — l’autocoscienza può avere orizzonti molto più estesi, che ci muterebbero radicalmente. Già la piccola penna, una volta congiunta online con quelle di centinaia, migliaia di altri individui, creerebbe una rete mentale talmente grande e complessa che non oso immaginarne i portati. Una macro-coscienza collettiva, in cui peraltro ciascuno rimarrebbe se stesso. Potrebbe scattare una singolarità. Marshall McLuhan è stato stupefacente nella sua lungimiranza: negli anni ’60 sosteneva che il prossimo medium sarebbe stato l’estensione della coscienza. Comprendi? Computer-cellulari-penna. Io potrei godere degli input di gioia che mi giungono dalla penna d’uno sconosciuto che all’improvviso entra nella mia mente e al contempo io entro in lui, e ci conosciamo come mai avremmo potuto altrimenti. Oppure una donna piange, perché s’immedesima totalmente in una sciagura che è capitata a me. Veramente una “comunione delle menti”. Sono certo che il mondo andrebbe molto, molto meglio. Ciascuno sarebbe me e viceversa, e in genere si “vuole bene” a se stessi. — Non avevo parole. Non volevo averle. Nella piccola stanza mi trastullavo nel leggero illusorio bagliore di un’alba infinita che – insegnava Vas – “infinita” non poteva essere. A me andava benissimo. Una supercoscienza: magnifico! Ecco un “oltre” che anche per me era comprensibile.

 

— Livelli di autoconsapevolezza a gradini più ampi… Anche con aspetti molto negativi. Sono solo sensazioni le mie, ma molto intense. Mi spiace, vorrei tanto comunicare, comunicare, liberarmene. Trasferirle a te per farti comprendere, passare il testimone. Tenere tutto dentro diventa sempre meno sopportabile perché…

La voce sfumava nella notte, piano, pianissimo, come la nota finale d’un organo o di un violino. Forse dormiva. Stremato da un intero nuovo universo così vissuto e che lui s’intestardiva a penetrare. Vas, pensavo, il tuo è un gioco ambiguo. Pericoloso! Ti hanno preso al laccio: sapevano che non avresti mollato, ma stai portando acqua al loro mulino. Alla fine loro vinceranno. Resterai uno straccio sporco, da buttar via.

 

Non so dire dopo quanto tempo.

Potevano essere trascorsi anche mesi. Anni? Comunque ero lì, con Vas, nella stanzetta. Da un po’ lui era entrato in crescente contrasto con l’informedico Bohumil. Ero nel corridoio, e nonostante la porta spessa avevo udito le loro urla. Senza però comprendere le parole. A Vas non chiesi nulla: bastava la sua faccia, ora costantemente rabbuiata. Mi preoccupavo più per me che per lui: prima o poi Vas sarebbe stato sfrattato per andare non so dove, ma che fine avrei fatto io? Un nodo sempre rimandato, coinvolto emotivamente com’ero. Avevano accontentato Vas concedendo la presenza d’un amico-pupazzo con cui confidarsi distrarsi e sfogarsi. Presto sarei divenuto un ingombro.

In genere, i pupazzi usati finiscono nella pattumiera. Decisi che era l’ora di tentare la fuga. A qualunque costo.

Ne accennai a Vas.

Fu d’accordo. — Devi andar via di notte — mi disse.

— Eh?!

Già andar via di giorno mi sembrava follia.

 

— Ampliare la coscienza vuol dire tante cose.

Era buio pesto, ovviamente. I pensieri e le parole ignorano gli orari, eppoi le ore piccole invitano alle confidenze. All’apertura mentale.

— Tempo fa — disse — ho letto una cosa strana. Qualcuno ha pensato di usare come generatori di rumore oggetti antichi creati al tornio. C’era un piccolo solco che si attorcigliava intorno a un vaso egiziano, cilindrico, da sopra fin sotto. Evidentemente, nell’inciderlo con una punta di diamante l’operaio parlava. Le vibrazioni della sua voce si erano trasmesse al braccio, alla mano, alla punta di diamante, al solco. La puntina di un giradischi è stata in grado, quattromila anni dopo, di far parlare ancora quell’uomo.

— Davvero singolare. Incredibile, direi — risposi.

— Moltissimo di ciò che ci circonda narra del passato. Un passato che conosciamo poco e male. I rumori, le voci, restano nei solchi sottilissimi tracciati da granelli di polvere. Oppure sono volate via e poi, di rimbalzo, tornate a noi. Così come ci giunge il chiarore di galassie lontane 14 miliardi di anni luce. È la forza delle parole: si incidono sulla roccia come nelle sinapsi cerebrali. Anche il mare… l’inconscio dell’umanità, anzi del pianeta Terra. Occorre imparare a “leggere”…

 

Nel buio sussurrai: — Ciao, Vasilij Vasilijevič Konevskij. Spero di reincontrarti, un giorno. Grazie di tutto.

— Vai, e buona fortuna. Grazie a te.

Richiusi lentamente la porta.

Notte fonda.

Non vedevo assolutamente nulla. Mi posi ginocchioni sul suolo del corridoio. A destra o a sinistra? Mi sembrava indifferente, anzi lo era. Cominciai a strisciare bocconi frontalmente, tastando pavimento mura pilastri e mattonelle. Da ogni parte il pericolo poteva essere l’apertura d’un varco, l’ergersi d’un muro, una scala da salire, un dislivello improvviso. Avevo prova che di giorno il panorama visivo non coincideva con quello presumibilmente reale. Tanto valeva uscir di notte. Forse le strumentazioni di controllo erano meno severe? Vas aveva detto di sì.

Forse.

 

— Il tempo è una illusione.

Già. Una frase fatta, bella e che non diceva nulla. Ma non per Vas.

— Sì, un fenomeno psicologico — proseguì. — Di fatto, noi chiamiamo “tempo” ciò che può definirsi come semplice “movimento”. Mancando il tempo, anche la “causalità” viene meno. Forse non lo sapevi, Ludo: quasi tutti i problemi hanno soluzioni grammaticali. Cause, effetti? Se premo quel pulsante (causa), la miccia farà esplodere quella bomba (effetto): falso! Semplicemente, esiste una miscela di forme di materia che libera energia. In questa affermazione non esiste alcuna una dipendenza temporale…

 

Buio, buio e ancora buio. Proseguii a tentoni strisciando per terra cercando di intercettare ostacoli, rimestando al contempo frasi e concetti di Vas che a volte mi apparivano inconsistenti, ma poi mi suscitavano altri dubbi, talora anche risposte, in un frenetico rimescolio. Stavo cercando di fuggire: ce l’avrei fatta? Altrimenti…? Forse l’eternità era un pensiero bizzarro che scaturiva da situazioni disperate come la mia: il terrore di non trovare mai una via d’uscita. Sarei morto in quel buio.

Al momento il suolo restava, al tatto, il liscio marmo che avevo osservato alla luce del sole (se davvero luce del sole era stata; se marmo era stato). Seguitai a procedere, ore dopo ore, lentamente. Perché altro non potevo fare.

 

Difficile ricordare ciò che accadde in quel buio, perché era uguale a se stesso, ripetitivo, martellante, ossessivo. Briciole o macerie di ricordi: urtai contro uno spigolo acutissimo che per qualche attimo mi regalò una luce negli occhi: ma era solo dolore. Mi accorsi che si trattava di una colonna apparentemente marmorea sulla cui superficie era scolpito un solco elicoidale, che si attorcigliava salendo chissà dove. In alcuni punti il solco aveva rientranze. Appoggi. Forse potevo usare questa colonna come scala. Da qualche parte mi avrebbe portato. Mi aggrappai, braccia e gambe, e non so perché, tentai la salita. Faticoso, ma pareva funzionasse.

 

— Pensa un po’, Ludo: pensa a una penna perfezionata e a una comunione globale di tutte le coscienze del pianeta. L’uomo non sarebbe più uomo e sarebbe qualcosa più d’un superuomo. L’idea mi esalta ma anche fa tremare, non siamo pronti per un balzo o meglio per un volo del genere. Rousseau scrisse che il paradiso è la trasparenza reciproca delle coscienze. L’uomo esploderà. Io sostengo che questo paradiso potrebbe trasformarsi nel peggiore degli inferni…

 

Dovevo essere giunto a un livello superiore, perché d’un tratto abbandonai ricordi e riflessioni accorgendomi d’essere su un esteso ripiano. Ora il suolo rivelava al tatto piccolissime ondulazioni, come se fosse leggermente scolpito. Feci l’unica cosa che potevo fare: ginocchioni, esitante, continuai ad avanzare.

Ricordo vagamente che dopo mi imbattei in una scala in discesa che conduceva a uno snodo di dozzine – forse migliaia – di scalinate diramate in ogni direzione. Pensai che dovevo scendere, perché la cameretta di Vas era in alto (se così davvero era). Non potevo che adeguarmi a quel gioco, che immaginai mortale: imboccai lentamente la prima scala in discesa che mi capitò di tastare.

 

— Sento che la consapevolezza umana — disse Vas nelle ultime ore — scoprirà come dominare il concetto “tempo”, farne ciò che vuole. Ma potrà anche comprendere come manipolare la materia: significherebbe far divenire le leggi dell’universo un gioco accessibile. Ho motivi per credere che gli organi biologici possano trasformare elementi chimici in altri elementi, grazie al metabolismo. L’organismo umano è il più perfetto laboratorio biologico e chimico esistente. Per le teorie classiche della fisica questa è una favola: trasformazioni del genere richiederebbero energie enormi. Ma credo sia verificabile, in un mondo di consapevolezze connesse, l’idea di “trasmutazioni biologiche a debole energia”.

 

Sembrava che la scalinata, piegata ad angolo retto ogni dozzina di scalini, non dovesse mai terminare. A tratti credevo di intravvedere chiarori, ma ogni volta dovevo maledire i miei occhi. Ero esausto, affannato. Certo mi addormentai più volte, perché ho vuoti di memoria. Mi ritrovai con le mani serrate su una ringhiera metallica e ripresi faticosamente la discesa.

 

— Una “comunione delle menti” potrebbe divenire il più potente calcolatore quantico dell’universo. Pensa, Ludo: sarebbe interessante sapere se esiste la possibilità di applicare al macrocosmo alcune proprietà del mondo dei quanti, bizzarre e controintuitive, come il fenomeno dell’entanglement, o la compenetrazione dei corpi solidi. Ogni microparticella di materia si comporta anche come “onda”, e ogni corpo ha una sua lunghezza d’onda. Più cresce la dimensione, minore è la lunghezza d’onda. Ma giungerà il momento in cui queste forze si potranno controllare, e lo stesso corpo umano potrà scegliere se essere materia o trasformarsi in un fascio di onde elettromagnetiche. Inoltre penso che sarebbe molto interessante rimescolare i componenti della biosfera (creature viventi, flora) con il mondo minerale. Tornare a una sorta di “unità” primigenia. Noi pianteremo pietre e vedremo fiorire farfalle…

 

Sostavo su un ripiano e sentivo di essere ai limiti della resistenza. Con le poche forze residue ebbi uno scatto di rabbia, di ribellione. Ero stato un ingenuo, un cretino! Avevo sbagliato a tentare la fuga, andava oltre ogni mia possibilità. Alla malora tutto! Vas doveva avermi stregato. Questo buio perenne era qualcosa di infernale. Anche Vas, con la sua super-intelligenza, non aveva capito un tubo: non poteva mai nascere una sorta di “uomo nuovo” innocente – quello cui alludevano i suoi discorsi – se per arrivarci occorreva sequestrare una cavia, sfruttarla, e trattare con diavolerie tecnologiche un ospite. Come potevo non essermi subito accorto della mia realtà, forse più modesta ma inevitabile? Mi rialzai imbestialito, presi a urlare, incurante avanzai per un paio di passi.

Caddi nel vuoto. Solo un attimo, poi percepii l’urto violento. Un tuono fragoroso negli orecchi, luce accecante.

Più nulla.

 

Seduto su un vecchio muretto di tufi.

Doveva essere pomeriggio inoltrato. Non capivo. Non conoscevo quel luogo. Stavo male. Non capivo, non sapevo.

Mi prese un tremito. Scesi dai tufi. Dinanzi c’era un vasto spiazzo di terreno battuto, lievemente ondulato. Tutt’intorno, ai lati, alcuni alberi con grosse pietre ed erbacce. Di fronte, sagome di alti palazzi già in ombra.

Avanzai di alcuni passi. Rifiutai quel panorama.

Avevo ancora nella testa il rimbombo dell’esplosione, il fuoco, il buio interminabile, il mal di testa. Ma dov’ero, cos’altro dovevo sopportare, adesso…

Azzardai un passo più spedito. Cominciai a correre. Girai attorno allo spiazzo di terreno battuto.

Capii.

Non so perché, ebbi un accesso di pianto, anche se durò mezzo secondo. Conoscevo bene quel luogo.

Per puro caso (forse) non l’avevo mai osservato dal punto di visuale in cui mi ritrovavo, lì sui tufi. Ma sì, il campetto! Il vecchio campetto dove anni prima con gli amici, con… Stentavo a richiamare quel nome. Con Vas, sissignore. Con Vas e altri, avevamo giocato centinaia di partite di calcetto. Era stato una sorta di luogo sacro per noi. Non tanto per il calcio in sé ma perché lì, adolescenti, ci fermavamo sempre dopo la partita, a ridere e scherzare, e arrivavano anche le ragazze, a ragionare e fantasticare su cosa sarebbe stato bello fare e sul nostro futuro.

“Vas, dove sei ora”, mi domandai. O chiamai.

 

È trascorso un po’ di tempo.

Del vecchio amico non ho saputo più nulla.

Non sono stato in grado di compiere alcuna ricerca circa la sua persona, anche se difficilmente mi arrendo quando mi propongo qualcosa.

Ma ho dedotto dell’altro. Sono certo che Vas sapeva (vedeva) di più. Forse non avemmo il tempo per parlarne, o lui non volle: le sue intuizioni andavano al di là di quanto sospettassero o potessero concepire Bohumil, le orecchie delle mura. Una sua convinzione mi aveva colpito in una delle ultime notti e più o meno suonava così:

“Non è vero che l’umanità stia perdendo la facoltà inventiva, che sia incappata in uno stallo di creatività scientifica. Sta invece lavorando ad enormi passi ma noi non vogliamo aver occhi per vederli… l’uomo postmoderno deve rifondare statuti e regole, con l’impegno, di indicare dei principi di realtà in un’epoca che ha fatto fuori il reale…”

 

Ora mi è chiaro che l’unico motivo che inchiodava Vas lì – dovunque questo “lì” fosse – riguardava la capacità neuronale della penna mentale, alimentata da Bohumil gradualmente. Vas voleva attendere che raggiungesse il top. Poi avrebbe agito.

Mi piacerebbe, nonostante tutto, ringraziare colui che mi ha salvato, in quali modi non so, forse non saprò mai… né perché.

Ora davvero mi sembra tutto un sogno.

Ma ho una certezza. Accadranno eventi straordinari. Alcuni d’essi li immagino un tantino.

Paradisi e inferni d’una inattesa “singolarità”.