di Franco Ricciardiello

TeatroDelleAlbeFestival delle Colline torinesi, alle Fonderie Limone di Moncalieri (Torino). Il palcoscenico è immerso nell’oscurità, Ermanna Montanari arriva senza fare rumore, a piccoli passi come le donne del sudest asiatico. Tre militari si materializzano accanto a lei dal buio e cominciano a interrogarla: lei è comunista? Aung San Suu Kyi si stupisce ma non cancella il sorriso con cui affronta l’interrogatorio e il pubblico del teatro. Le domande dei militari sono paradossali, ridondanti, contengono già la risposta che vogliono sentire. Lei è comunista?

In scena su una sedia c’è un ritratto di Suu accanto a padre in divisa. Il generale Aung San ha guidato la guerra di liberazione contro i giapponesi e poi contro i colonizzatori inglesi, ma nel 1947, incaricato Presidente di una Birmania che vorrebbe pluralista e democratica, viene assassinato. Inizia una dittatura militare che dura 63 anni, e ancora oggi i generali tirano i fili da dietro le quinte.

Lo spettacolo procede serrato, attraversa decenni di storia della Birmania, dal sanguinoso 1988 fino a oggi. A 43 anni Suu torna a casa per assistere l’anziana madre inferma, proprio durante imponenti manifestazioni per la democrazia e la libertà. La giunta militare, che si intesta il merito della “Via birmana al socialismo”, manda in piazza l’esercito e le squadre della morte. Le strade si riempiono di sangue, gli attivisti portano sulle picche le teste mozzate degli studenti.

Ciò che Suu ha sempre temuto, e forse desiderato, accade: tornata per stare a fianco della madre al tramonto, non si muoverà mai più dalla Birmania. Il marito e i figli rimangono a Oxford, a condurre una tranquilla vita nella città universitaria, lei si unisce agli attivisti per i diritti umani, all’opposizione contro i militari. Il motore della storia si prende Suu.

Agli arresti domiciliari nella splendida casa di famiglia, senza domestici né telefono, Suu è circondata dai nat, gli spiriti dalle orrende fattezze scolpiti sui bassorilievi di tutti i luoghi religiosi. Teste ghignanti escono dall’ombra del palco, rivelate da una striscia di luce, conducono un dialogo che sembra fatto per confonderla. Sono i fantasmi della sua coscienza. Gli anni corrono, le scene si susseguono imprevedibili. Suu si rivolge ai generali, cimiteri di medaglie sulla divisa, occhiali da sole neri sotto la visiera del berretto. Il generale Ne Win. Perché è venuta a turbare la Via birmana al socialismo? Nessuno sa chi abbia trucidato il generale Aung San quasi mezzo secolo prima. Perché la figlia solleva il popolo contro i generali? Lei non fa nulla per incendiare gli animi.

I generali si susseguono. Colpo di stato del generale Saw Maung, tramonta la Via birmana al socialismo, sostituita dallo SLORC, Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine: stessi occhi nascosti dietro lenti scure, stesse divisa zeppe di medaglie. La repressione tranquillizza i generali, che si sentono sicuri da permettere le elezioni. Aung San Suu Kyi si candida, il suo partito, la Lega per la democrazia, prende l’80% dei suffragi. Colpo di stato, nuovo giro di vite, i dirigenti dell’opposizione finiscono nelle carceri, nelle camere di tortura, nelle fosse comuni, le teste infilzate sulle picche.

Suu non cessa di sorridere. I generali non la capiscono. Si intendono meglio con la guerriglia armata che con l’opposizione disarmata. Non riuscendo a cambiare la testa dei cittadini, cambiano il nome al paese: non più Birmania ma Myanmar. Cambiano il nome alla capitale, non più Rangoon ma Yangon. Suu viene rimessa in libertà, poi di nuovo arrestata. Lei è comunista? Non ha vergogna a paragonarsi al mahatma Gandhi? Che madre è, ha abbandonato i figli e il marito dall’altra parte del globo! La Birmania è lontana. Lontana dall’Inghilterra, lontana dalla democrazia. Michael, il marito di Suu, si ammala di cancro e muore senza che la moglie possa tornare a trovarlo. Non la lascerebbero mai più rientrare in Birmania. Suu è dilaniata. I nat ritornano a tormentarla, appena rivelati da strisce di luce che tagliano l’oscurità. Teste enormi, denti snudati, è la sua stessa coscienza che azzanna selvaggiamente.

La musica spezza la sintassi del racconto, separa le scene e le unisce. Rap birmano, campane tibetane. Sulle quinte si proiettano filmati, fotografie, che squarciano il buio in cui si muove Aung San Suu Kyi con il suo sorriso inossidabile, che si incrina invece quando è sola con i suoi nat, con la nostalgia dei figli, con il vuoto lasciato dal marito Michael Aris. Lo spettacolo è così brechtiano che a un certo punto Bertolt Brecht stesso si materializza sul palco, mima passi di danza con Suu.

Il nome di Aung San Suu Kyi finisce su tutti i media, la pressione internazionale aumenta. Una giornalista di Vanity Fair arriva per un’intervista a una delle donne più famose del globo, un simbolo positivo, Suu sopporta con pazienza le domande frivole, cercando di riportare la conversazione sul tema politico.

I generali cadono, i generali arrivano; saltano da una parte all’altra del palco, snodati, gommosi, parlano al microfono con vece rauca. L’imponente generale Than Shwe, nuovo capo della giunta, vieta una manifestazione pacifica.

L’isolamento si allenta, si irrigidisce, si allenta. A casa di Suu arriva Myat Thu, una giovane la cui famiglia è riconoscente a quella di Aung San. Lei è l’unico contatto con l’esterno, ma è condannata a vivere in isolamento. Lei porta a casa i pettegolezzi uditi al mercato, il fastoso matrimonio dal milioni di dollari della figlia del generale Than Shwe, uno schiaffo in faccia a milioni di poveri. Lei introduce il plenipotenziario Onu giunto per porre fine alla discriminazione che indigna l’opinione pubblica di tutto il mondo, e che finisce insabbiato nelle sabbie mobili della politica birmana.

I monaci scendono in piazza indignati, i governi protestano, i generali vacillano, ma la Birmania è lontana. La giunta militare cade, si annunciano riforme e elezioni democratiche, però la costituzione viene emendata in senso kafkiano: nessun birmano che abbia sposato uno straniero può diventare Presidente. La musica cancella una scena e ne trascina un’altra, tutto lo spettacolo è cucito come un lungo videclip supportato da suoni e immagini, una macchina ben oliata. Arrivano i Moustache Brothers, i comici di successo che fanno battute sul regime militare e sullo stato della democrazia in Birmania. Fanno sorridere, talvolta ridere, ma per i generali sono traditori. Sette anni di carcere a testa.

2010, gli arresti domiciliari vengono revocati, Suu può incontrare i monaci, i cittadini, può girare il paese. Per adesso le tenebre sembrano squarciate, ma mentre Ermanna Montanari e gli altri attori salutano il pubblico in un’ovazione di applausi, l’impressione è che i generali siano nascosti da qualche parte là dietro, le medaglie che tintinnano nel buio, accanto ai nat con i denti snudati per sbranare appena l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sarà puntata da un’altra parte.

Perché la Birmania, è vero, è lontana.

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, di Marco Martinelli, con Ermanna Montanari, Massimiliano Rassu, Alice Protto e Roberto Magnani. Al festival di Santarcangelo di Romagna (santarcangelofestival.com) dal 16 al 18 luglio.