di Maurizio Vezzosi

Mozgovoy[La redazione di Carmilla è composita e, a parte alcuni temi nodali comuni a tutti, può ospitare divergenze. Una riguarda la rivolta del Donbass contro il governo dell’Ucraina. Vi sono redattori che vi leggono la mano di Mosca, rigurgiti conservatori e panrussi, tendenze di estrema destra. Altri, pur non negando mille contraddizioni, vi scorgono una lotta essenzialmente operaia e antifascista, pur con molte venature nazionaliste. Il “reportage” che segue riflette questo secondo punto di vista, di cui mi faccio personalmente carico.] (V.E.)

“Un viaggio in una base dei partigiani della Brigata “Prizrak” a pochi giorni dall’uccisione del suo comandante Alexey Mozgovoy.”

In quest’angolo di Europa i tempi che corrono sembrano quelli dell’Operazione Barbarossa.

Scuole e ospedali bombardati, villaggi in fiamme, interi centri abitati cancellati, di fatto, dalle cartine geografiche: migliaia di vite spezzate.

Niente di nuovo da queste parti, niente di diverso da quanto messo in atto da quegli “uomini in divisa dal colore dei lupi” ormai più di settant’anni or sono.

Niente di nuovo muove la furia dei battaglioni punitivi dell’operazione ATO dei golpisti di Kiev: odio razzista, anticomunismo, violenza cieca.

Niente di nuovo, niente di diverso anima la determinazione di chi vi si oppone: fermare il fascismo. E’ questo l’imperativo dei partigiani che, insorgendo, hanno proclamato la nascita delle Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk.

Una storia per certi aspetti già vista, che quasi non si dovrebbe aver bisogno di raccontare.

Sono i primi giorni di Aprile, e nevica. L’asfalto è ghiacciato, e camminare all’aperto senza scivolare è davvero difficile.

Scriviamo da Kommissarovka, nella Repubblica Popolare di Lugansk. Un piccolo villaggio a qualche chilometro dal fronte, molto vicino a Debalstevo: qui si è svolta una battaglia fondamentale dove le milizie popolari hanno piegato i battaglioni punitivi di Kiev costringendo alla resa oltre mille soldati e facendo man bassa di mezzi e armamenti.

Qui, in un vecchio carcere ex sovietico – e poi ucraino – c’è una della basi della Brigata Prizrak (in russo: fantasma) il cui comandante, Alexey Mozgovoy, è stato di recente vittima di un attentato che non gli ha lasciato scampo.

Proprio a Kommissarovka lo abbiamo incontrato per la prima volta insieme all’addetta stampa della Brigata Anna Aseeva e agli uomini della scorta, vittime a loro volta di uno dei tanti crimini che la giunta golpista di Kiev ha sul proprio conto.

Una passeggiata nei corridoi di questo complesso carcerario farebbe ricredere forse persino i più ostinati denigratori della resistenza portata avanti dalle milizie popolari.

All’ex carcere si accede attraversando la soglia di un massiccio cancello blindato e lambendo un profondo fossato utilizzato per le ispezioni dei controlli di sicurezza. Il filo spinato circoscrive il perimetro della base insieme a muri di cemento armato e torrette di avvistamento.

Il cannone di un imponente T-64 di produzione sovietica dà il benvenuto a chi varca il cancello: fissata alla sua torretta sventola una bandiera rossa con una falce e martello.

“Dobro pagialovat”, ci dicono i miliziani. Benvenuti, benvenuti nella casa dei fantasmi.

Fuori l’aria è gelida, e la nebbia fittissima ci permette a malapena di scorgere la cima di un traliccio per le trasmissioni radio, qualche metro oltre le mura della base.

Camminare nella campagna circostante non è affatto una buona idea: il rischio di urtare accidentalmente ordigni inesplosi o di innescare mine è decisamente concreto.

Varcando il cancello e la spessa coltre di nebbia spostata dal vento finiamo per essere inghiottiti da un’ acre nube di fumo. A ridosso di una delle tante mura di recinzione di questo ex carcere un miliziano è alle prese con un fuoco alimentato da legna zuppa e da vecchi mobili fatti a pezzi alla meglio. Da un lato una pila di fascicoli di carta fradicia: un via vai di gente giovane, e meno giovane, si dà da fare per prendere nei vecchi uffici devastati dai combattimenti le carte della polizia ucraina in modo da dare animo alle fiamme. Cani e gatti, che hanno trovato riparo in questa vecchia prigione, osservano sotto una tettoia.

L’umidità della legna, ma anche il metodo – non esattamente scientifico – utilizzato per alimentare il fuoco appestano l’aria che respiriamo. Sono le dieci, ma già un pentolone, annerito come le rughe dei più indaffarati, bolle sul fuoco per cuocere il pranzo della brigata.

Dopo quattro, cinque rampe di scale percorriamo alcuni corridoi interminabili e angusti, verniciati dalla polizia ucraina con un fastidioso smalto celeste. A terra ancora i segni dei feroci combattimenti   a cui le milizie sono state costrette per liberare il complesso dai battaglioni punitivi: attraversiamo una stanza dove venivano fatti i colloqui tra detenuti e familiari. Gli scarponi dei miliziani spezzano il tappeto di bossoli e di vetri che circoscrivevano gli spazi di detenzione.

Poco più in là c’è una stanzetta, nel centro di un altro corridoio che quasi non riceve luce naturale. In alto disegni di cani, gatti e fantasiose creature ci fanno intuire che quello spazio dovesse essere destinato agli incontri tra genitori detenuti e figli. Ma un gran trambusto non permette di rifletterci molto. Alcuni pentoloni ammaccati e fumanti vengono rapidamente disposti in un angolo della stanzetta e in un baleno compare di fianco al muro una fila di miliziani che attendono di buon grado il proprio turno.

Il posto a sedere per tutti non c’è, e di conseguenza qualcuno mangia in piedi, qualcun altro sposta il fucile per fare spazio al proprio compagno. Ci si stringe. Chi ha finito si alza e fa sedere gli altri. Nelle scodelle dei miliziani ci sono sempre – più o meno – le stesse cose: pasta cotta fino a farla diventare un’ indistinta poltiglia, un brodo da versarci sopra, con qualche pezzo di carne. Tre fette di pane. E una tazza di tè. Ma a volte ci sono anche marmellata, burro e sottaceti, ci assicurano.

Anche questa è la guerra. Diamo il buon appetito a tutta la compagnia. Qualcuno rimane indifferente, altri ricambiano rispondendo in italiano, altri – forse i più sinceri – sgranano gli occhi e alzando i sopraccigli ridimensionano il nostro zelo.

I più disinvolti vengono da noi e si meravigliano, anche con una certa insistenza, del fatto che degli italiani accettino di mangiare – persino sorridendo – qualcosa che, lontano dalla guerra, si guarderebbero bene di avvicinare alla bocca. “Korrispondent” ci chiamano, ma non passa qualche ora che siamo già diventati “gli italiani”, i compagni italiani.

Su indicazione del comandante alcuni miliziani ci mostrano quella che per alcuni giorni sarà la nostra sistemazione: una stanzetta a cui si arriva facendosi largo tra vetri in frantumi, vecchi mobili, polvere e spazzatura. A parte due vecchie brande sradicate dalle celle, nella stanza non c’è nient’altro. Una stufetta elettrica non ha la meglio sul freddo che nei corridoi soffia come soffia nella campagna circostante. Come chiunque abbia dormito qui per qualche giorno, siamo costretti ad arrangiarci andando alla ricerca di quello che ci serve, a volte chiedendolo ai miliziani, a volte rovistando tra i cumuli di spazzatura e cianfrusaglie a cui sono ridotte le stanze dell’edificio.

Diamo una mano a spaccare la legna per il fuoco, e il nostro impegno viene apprezzato molto.

Qualcuno ci offre delle caramelle. Altri del latte condensato. Qualcuno ci porta un’altra stufa elettrica, o del tè, che molti ci invitano a consumare nelle loro camerate dove, seduti sulle brande, si cerca di combattere il freddo: avvolgendo con le mani una tazza d’alluminio rovente, ascoltiamo i racconti della vita di questi ragazzi venuti a combattere qua da ogni angolo dell’ex Unione Sovietica. Dalla Moldova alla Kamchatka. Spesso fanno lavori semplici, semplici come il loro modo di fare, che a volte può sembrare scontroso. Ma ci si rende conto ben presto che il fare brusco, senza fronzoli, non è che l’irruenza della sincerità di cui è impregnato ogni loro singolo sguardo.

Molti sono convintamente comunisti: alcuni in modo riservato, senza far rumore, altri rivendicandolo a piena voce e sfoggiando orgogliosamente cimeli sovietici nelle loro camerate e nelle loro uniformi, che spesso di uniforme hanno ben poco.

Nella sua stanza il comandante, un quarantenne ucraino dagli occhi di ghiaccio, ha disposto con cura bandiere rosse e un gagliardetto con il volto di Lenin.

Altri, comunisti non sono, e non lo so mai stati. Ed anzi, prima di questa guerra per i comunisti non provavano nessuna simpatia, ci assicurano, mentre adesso i comunisti sono rispettati anche dai loro naturali nemici. Almeno per il momento.

Riflettiamo, passeggiando nei sotterranei dell’ex carcere. Qui oltre alle docce, un deposito di armi e munizioni, un magazzino di medicinali e varie officine per la manutenzione, ci sono delle stanze con una porta blindata e un piccolo oblò in vetro, che quasi ricorda quello delle porte stagne delle imbarcazioni: sono le vecchie celle del regime di detenzione duro, riservate a chi infrangeva la disciplina carceraria o era sottoposto a una sorveglianza speciale.

Una finestra di pochi centimetri quadrati, due brande attaccate al muro. Un’umidità impressionante che rende l’ambiente malsano e maleodorante. Chiunque dorma qui si ammala, ci assicurano Xavi ed Eloy, due medici spagnoli che offrono servizio d’assistenza sanitaria alla brigata: febbre, bronchiti, problemi respiratori.

Ma i ragazzi che dormono qui non si fanno grossi problemi: durante i bombardamenti l’intera brigata era ammassata nei sotterranei dopo l’evacuazione dei piani superiori.

Passeggiando a qualche centinaio di metri dalla base, davanti a uno dei chioschi del villaggio un ragazzetto ci si fa incontro con il fare di uno che ha voglia di parlare. Gli spieghiamo chi siamo ed il perchè ci troviamo in Donbass. “Guardate che fanno i fascisti” dice alzandosi la maglietta e mostrandoci lo squarcio di una cicatrice che gli attraversa il busto.

“Voinà”, si sente ripetere tra la gente e anche i meno attenti finiscono ben presto per comprendere il significato di questa parola.

Poco dopo ci ritroviamo a camminare nello stesso corridoio dove qualche ora prima i miliziani attendevano il proprio pasto, mentre il sole sta tramontando.

Una foto attaccata al muro richiama la nostra attenzione: è la foto di un nostro amico, un volontario bielorusso. Si fa chiamare Variak. Sotto il suo volto la sua data di nascita, del 1975, e quella del giorno che ci stiamo lasciando alle spalle.

E’ morto.

Nei pressi del posto di blocco dov’era di stanza ha urtato un ordigno inesploso, che non gli ha lasciato scampo. Ci si annoda lo stomaco: sconforto, rabbia, odio.

Trangugiamo, quasi senza accorgerci di farlo, qualche fetta di pane affogata nel brodo. Serrati, nella morsa della guerra, i nostri occhi si fissano sulla patina d’olio che ricopre la zuppa e lambisce l’acciaio della scodella. Nella morsa di una guerra.

Nella morsa di una guerra che non fa sconti a chi avuto il coraggio di guardarla in faccia, senza curarsi di dare tutto per un domani migliore.