di Danilo Arona

IlDiavoloProbabilmenteAvevo un amico un po’ di anni fa ad Alessandria. Amico di tanti, si chiamava Pietro Cammarata. Un uomo raro che non è più, strappato via anzitempo dal solito morbo dal nome impronunciabile che in una città dall’ambiente martoriato picchia durissimo da troppi anni. In una fredda mattina di febbraio del 1995 Pietro mi venne a trovare in compagnia di un signore sulla cinquantina, muscoloso e dall’aria un po’ truce.

Pietro, dotato di un senso dello humour superiore al mio – e vi garantisco che sono numeri! – esibiva una stramba espressione, una giusta percentuale tra l’imbarazzato e il divertito. Ma sull’imbarazzato fingeva, lo giuro.

E così attaccò:

«Questo mio cliente ti vorrebbe parlare – (Pietro faceva l’assicuratore) – ti andrebbe di fare un salto con noi in ufficio?»

Non esisteva alcun problema e li seguii. L’ufficio di Pietro stava a pochi metri da via Legnano dove tuttora lavoro e, quando posso, scrivo. Però l’amico stranamente taceva e il tizio ogni tanto mi guardava storto come se volesse tirarmi il collo lì, sulla pubblica via. Le mani dell’uomo parevano poi due tronchetti dell’infelicità.

Finalmente in ufficio si scoprirono le carte. Sulla scrivania di Pietro vidi la copia del giornale locale “Il Piccolo” appena uscita quella mattina (10 febbraio) con la pagina aperta su uno dei miei settimanali “Misteri di provincia”. Rubrica splendida, oggi defunta pure lei. Titolo: Demonio a Spinetta.

Non capivo ancora. Ma il cliente di Pietro mi svelò l’arcano in pochi secondi:

«Per colpa sua mi è andato a monte l’affare. Nessuno vuole più comprare casa mia!»

Forse sarebbe gradito a questo punto un chiarimento. Siccome quel pezzo lo pubblicherò integralmente tra qualche riga, al momento mi limito a una rapida sinossi.

Si trattava di un apparente caso d’infestazione (diabolica, spiritica o mentale – sull’interpretazione è pure corretto svisare…) accaduto mesi prima, nell’agosto del ’94, in una casa di Spinetta Marengo, ameno sobborgo alessandrino che ospita la Solvay Speciality Polymers e forse ha qualche problema di ambiente poco salubre. Era il classico articolo “ripreso” (perché pubblicato mentre stavo in vacanza) e poi da me approfondito senza fretta, soprattutto con testimonianze di prima mano e inedite rispetto alla cronaca in questione, ampiamente divulgata tanto da “La Stampa” che da “Il Piccolo”. Ben conoscendo i risvolti deontologici di certe faccende, avevo saltato a piè pari sui dati anagrafici dei protagonisti e sul numero civico dell’abitazione interessata agli eventi. Il nome della via l’avevo però trascritto perché era già stato menzionato in diversi articoli. Si trattava di via Levata, peraltro una strada molto lunga e densamente abitata.

L’affare in questione, quello “andato a monte”, riguardava la vendita – non avvenuta – della casa “infestata”. Il proprietario, fumante rabbia davanti a me dentro l’ufficio di Pietro, attribuiva il mancato introito all’uscita, da lui giudicata funesta e inopportuna, del pezzo Demonio a Spinetta.

Siccome mi trovavo su un terreno altrui, adottai per educazione – e un po’ per prudenza – un “basso profilo”, tentando di convincere con ironico garbo il tipo che io non c’entravo affatto in quanto il mio pezzo faceva riferimento, con tanto di fonti e di date, ad altri articoli apparsi l’anno prima sui fogli locali. E poi, comunque, mica raccontavo bubbole: in via Levata tutti quelli con cui avevo parlato sostenevano che in quella casa erano accadute cose strane. Una magione peraltro impossibile da identificare tramite gli elementi del mio articolo. Oltre al nome della via, io non avevo riportato altro.

Ma l’uomo – sempre sotto lo sguardo impassibilmente ironico di Pietro – mi inchiodò con un ragionamento francamente difficile da smontare:

«Sì, ma in via Levata non è che ci stanno venti case abitate dal diavolo! C’è solo la mia! E se uno lo scrive sul giornale, tutti a Spinetta capiscono al volo di quale casa si tratta!»

Riportata così, suonava ineccepibile. Allora tentai di raddrizzare l’argomento a mio favore: «Ma allora è vero che a casa sua ci sta il diavolo, o comunque qualcosa di strano?»

E lui: «Certo, perché crede che l’abbia messa in vendita?»

E’ difficile a questo punto rendere l’immediato cambiamento di registro – dal presunto tragico “minaccioso” al comico goliardico – che si verificò nell’ufficio. Perché Pietro esplose, alla lettera, in una risata incontenibile, di quelle spontanee e contagiose che altro non possono fare che coinvolgere il prossimo e gli astanti.

Mi unii anch’io e, nel giro di pochi secondi – un po’ paonazzo perché in preda a un evidente conflitto interiore che continuava a suggerirgli di tirarmi il collo -, partecipò alla ghignata collettiva anche il corpulento cliente di Pietro.

Poi partì quest’ultimo, fino a quel momento in prudente e silenziosa posizione tattica. Con un rovesciamento di fronte culturalmente ineccepibile, quell’insostituibile personaggio che era Pietro Cammarata convinse l’uomo dell’incredibile e rara fortuna che lui (ma non tanto lui, quanto un membro della sua famiglia) aveva avuto nell’incontrare un frammento di “Altro Mondo”, ricavandone così la certezza – o quasi – che non siamo soli in tanto squallido universo materialista. Pietro ci mise molto del suo, perché era un sincero appassionato di storie e di eventi “borderline”; ma l’abilità retorica con cui riuscì a sedare il risentito cliente, quella sì mi parve veramente “diabolica”.

Poco ci mancò infatti che, dopo l’arringa di Pietro, il tipo non si commuovesse e non c’invitasse a pranzo. Quando poi l’uomo abbandonò l’ufficio e io restai da solo con l’amico, lui mi disse con la sua consueta e serafica saggezza:

«Mi sa che era l’unica via d’uscita».

Già, questo era Pietro. Ma la casa si trova ancora lì, dopo tutti questi anni. E a naso qualcuno ci vive. Ma la storia battezzata “Diavolo a Spinetta”?

Eccola. I fatti iniziarono la sera. Il mese, quello vacanziero per definizione, Agosto. L’anno, il ’94. Intorno alle 21 in via Levata molte persone lì abitanti sentirono di colpo urla disumane e gutturali provenire da una villetta abitata da una coppia sulla quarantina. Quasi tutti per il caldo tenevano le finestre aperte e in tanti se ne stavano fuori a parlottare.

Via Levata, lo testimonia anche il nostro grande studioso Franco Castelli, è quel che resta di un’antica strada che da Tortona conduceva a Spinetta e che nei secoli addietro veniva denominata la “strà du diau”, date le continue nonché presunte manifestazioni del dio cornuto sul percorso in questione. Coincidenza che non significherà nulla, ma i carabinieri prontamente chiamati dagli allarmati spinettesi, quando giunsero all’indirizzo incriminato si trovarono di fronte a una scena degna di qualche notissimo film horror: una donna, in preda a un’apparente crisi da qualche commentatore definita “mistica”, stava urlando con voce alterata frasi sconnesse, brandendo nel contempo una statuetta della Madonna con la quale pareva difendersi da un invisibile nemico. Né il consorte né amici accorsi da fuori riuscivano ad avere ragione di tanta furia. Inoltre le parole della donna, quando suonavano comprensibili, parevano riferirsi alla presenza del demonio (o di un demonio) fra le mura domestiche e anche in una roccaforte ex templare come Spinetta Marengo il diavolo faceva ancora, negli anni Novanta, il suo effetto.

Comunque un medico riuscì a praticare alla signora due iniezioni di tranquillante e i volontari del soccorso pubblico la bloccarono con robuste cinghie di costrizione per evitare soprattutto che si causasse qualche danno. Tutto sembrava finito, ma – come nel più classico dei falsi “finali” thriller – la donna si risvegliò di colpo e, ricominciando le escandescenze con la stessa voce cavernosa di prima, si liberò dalle cinghie mostrando una forza non comune. Per risolvere temporaneamente la questione furono necessarie ancora quattro dosi di Valium e, dopo una serie di urla e imprecazioni che trattennero all’esterno di via Levata decine di curiosi, il tutto si risolse con un ricovero coatto in ospedale per un salutare periodo di riposo.

Sin qui la vicenda nuda e cruda, come fu riportata anche dalle pagine locali della “Stampa”. Poi si verificarono risvolti che non apparvero sui giornali e dei quali io venni a conoscenza, avendo parecchi amici in via Levata, non ultimi i miei suoceri: risvolti che finirono in modo alquanto soft nell’articolo pubblicato su “Il Piccolo” nel febbraio del ’95 e che provocarono il piccolo dramma risolto da par suo dall’amico Pietro.

A farla breve, dopo alcuni mesi dall’accaduto, la villetta fu posta in vendita. E a quel punto cominciarono i “rumors”- le voci, i “si dice”…- sulle ragioni di tanta fretta. Qualcuno mi raccontò che nella vicenda era entrata una non meglio identificata “sensitiva”, forse chiamata in causa dagli stessi proprietari oppure da qualche cliente uso a servirsi di medium e affini nelle trattative immobiliari. La tipa, pare nata di sette mesi, come pose piede nella casa iniziò ad accusare sensazioni di disagio, difficoltà di respirazione e proclamò senza mezzi termini che “il male abitava lì”. Quindi, individuata una stanza al pianterreno, o forse in cantina, chiese al suo allibito accompagnatore di spostare una certa cassapanca sotto la quale faceva bella mostra di sé un grande buco circolare, scavato bizzarramente dentro il pavimento. La medium consigliò l’intermediario di spostarsi e si accostò tremante a quella specie di “pozzo” fuori luogo. Vi guardò dentro, avvicinando il volto al foro, sgranò gli occhi e lanciò un urlo terrificante. Dopo di che, fuggi fuggi generale. Tutti, persino i gatti.

Questi i fatti. Li raccontarono per un sacco di tempo lì attorno. Forse erano solo storielle. E la casa, appunto, sta ancora lì. Ogni tanto ci passo davanti e tutto pare tranquillo. Speriamo che sia così. Anche se di tanto in tanto qualcuno da Spinetta mi telefona e mi dice: «Ci sono storie, sai… Ci sono storie», ma poi la ben nota ritrosia alessandrina blocca tutto sul nascere.

Pietro Cammarata ci lasciò qualche anno dopo. Fu una perdita pesante per tanti. L’ultima volta che lo vidi – non so dire se fosse o meno già malato – mi disse con il suo sorriso enigmatico: «Sai, con ‘sto cazzo di diavolo che poi non esiste alla fine però ci devi fare i conti.» Sì, sono d’accordo, lui lo sapeva.

Pietro ci lasciò anche un romanzo postumo. Denso, sofferto, generazionale, intitolato La moglie di legno. Mi piacerebbe concludere questo pezzo sul “diavolo che non esiste” con un frammento dell’incipit del suo libro – Pietro è d’accordo, ne sono più che certo:

Mi chiamavano Nuvolari perché sapevo andare forte in automobile. La sera che Luca si ammazzò eravamo al Circolo della Soms sui navigli quando arrivò la notizia dell’incidente.

Luca si era schiantato con la sua Benelli, contro un albero di Viale Abruzzi. Luca, il povero Luca, che sapeva dipingere solo quadri grigi, ormai non avrebbe più fatto niente, neanche mediocremente, come diceva lui, l’amore. L’America cominciava a bruciare nei suoi campus e il futuro si schiudeva, dall’altra parte del mondo, foriero di avvenimenti la cui onda lunga ci raggiungeva con i romanzi di Kerouac, le poesie di Ginsberg e Ferlinghetti, il Vietnam, oltre i confini del cielo, trasportato dalla musica di Dylan, anche se allora soltanto Chiara aveva intuito che la vita per noi era stata semplice fino a quel punto, quasi elegante, da studenti della piccola borghesia quali eravamo, trasferiti dalla provincia a Milano… Come in un muto accordo evitavamo di guardare il suo posto vuoto al nostro tavolo ben sapendo, nel cuore e nel cervello, che la prossima pioggia non l’avrebbe più bagnato, sotto due metri di terra, ma solo imputridito. Parlavamo di Luca, nelle stanze del circolo degli operai, tra bottiglie di vino e vecchi che giocavano a tressette e il battere per loro le carte sul tavolo, nell’accusare il punto, equivaleva al dare uno schiaffo all’esistenza, quasi fosse la rivincita di una partita con la vita ormai persa. Dalle pareti le foto di Di Vittorio e Lenin guardavano in giro severe come a cercare ancora il volto di Luca in mezzo ai nostri… e il fiume che scorreva lento pochi metri là fuori, lungo la Ripa di Porta Ticinese, sembrava aspettarlo lì con il suo cavalletto, la tela e i pennelli secchi del grigio di una Milano non ancora da bere. La consapevolezza della sua morte era vissuta, in quella stanza ancora piena di lui, come un insetto fastidioso che ti corre sul braccio e che mandi via con un gesto secco della mano… Povero Luca, doveva nascere almeno a Detroit per sentirsi “on the road” e la cicogna forse era bevuta quando lo scaricò a Lorenteggio. Se fosse vissuto a Canicattì, Luca non sarebbe morto così…

E non avrebbe incontrato un diavolo inesistente, potremmo aggiungere.