di Danilo Arona 

SpilliLa storia risale agli anni Sessanta. La casupola in cui si svolge è situata nelle campagne piemontesi, a metà strada tra Vercelli e Novara, in una pianura depressa e nebbiosa. Il padre del bambino di cui ci occupiamo è un piccolo e sfigato truffatore, sempre fuori e dentro la prigione. La madre una prostituta abbruttita dall’alcol e dalle avversità. Nella casa comanda e gestisce la vita del ragazzino una terribile nonna di una cinquantina d’anni che, come dicono tutti nella zona, “batte la fisica”. La nonna ha un altro figlio che, a differenza del primo, tenta di guadagnarsi la vita onestamente facendo il calzolaio. Pure lui è sfortunato, perché forse, come si racconta sin dal Medio Eco, i figli delle streghe sono costretti a patire le conseguenze dei “colpi di rimando”. Così dapprima il calzolaio perde la casa. Poi il lavoro diminuisce. Infine, dopo mesi di batoste, il figlio onesto si ammala di tubercolosi. Il bambino è testimone impotente di un mondo che attorno a lui sembra imputridire: una nonna che gli fa paura, i suoi figli che sono per un verso o per l’altro dei disgraziati, la mamma che esce la notte.

Ma adesso succede qualcosa di nuovo e di peggiore. La nonna arriva a casa un giorno dall’ospedale in cui è ricoverato lo zio tisico e dice al bambino che dovrà fargli qualcosa di leggermente doloroso per migliorare il suo stato di salute e far sì che non si ammali come lo zio. Il ragazzino, più impaurito che convinto, annuisce e la nonna gli conficca un discreto numero di aghi e di spilli nelle gambe, nelle braccia e nella schiena, persino sotto la pianta dei piedi. Lui urla e lei gli raccomanda di tacere, perché le grida annullano l’effetto.

Ogni giorno si ripete il rituale, un travaglio doloroso e inspiegabile che il ragazzino non capisce e aborrisce. Ma cosa sta facendo la nonna-strega? Quella che si chiama in gergo una “fattura a trasferimento”, per togliere la malattia a una persona e trasferirla a un’altra. Così lei ogni mattina prende aghi e spilli nuovi, si reca in ospedale e li intinge nella saliva dello zio malato. A mezzogiorno torna a casa e gli stessi spilli li conficca nelle carni del bambino, perché possa essere lui il malato tisico e non l’unico figlio onesto e lavoratore della nonna-strega.

Ma il bambino grida, si lamenta per il dolore. Addirittura dalla strada lo vedono trascinarsi sul sedere sopra l’erba del prato antistante la casa. Si sposta in quel modo strano perché gambe e piedi sono una trafittura di spilli. Qualcuno chiama i carabinieri. Dopo un appostamento, vanno di mattina a vedere il bambino in compagnia di un dottore. Costui, perplesso, gli fa una visita e vede con sgomento numerosi segni arrossati, ovunque sulla pelle del poverino. Ma poi scopre anche spilloni e forcine piantati in profondità nelle braccia del piccolo.

Le manette scattano attorno ai polsi della nonna, e pure a quelli della madre per tacita complicità. Una successiva radiografia accerta che decine di aghi e spilli si sono sparpagliati all’interno di tutto il corpo del bambino, spostandosi attraverso i fasci muscolari. Qualcuno ha sfiorato il cuore, il fegato, i reni. Ma mai alcun organo vitale è stato intaccato. La strega è stata molto abile.

Il processo che si tiene da lì a poco accerta che nello spazio di tre mesi nel corpo del ragazzino sono stati piantati qualcosa come quattrocento pungiglioni di metallo, delle tipologie più diverse (aghi, forcine, spilli, piccoli chiodi). Ne segue una condanna esemplare, ma nessuno certamente potrà ridare l’infantile e gaia serenità, tipica dei ragazzini tra gli otto e i dieci anni, a quel bambino divenuto, suo malgrado, l’orrendo strumento di una pratica arcaica e crudele.

Questa è una storia che circola in forme e in tempi diversi in più di una regione italiana. Sempre si citano fonti ufficiali a suo sostegno ma a qualcuno potrà essere capitato di ascoltarla nottetempo in qualche casolare di campagna di fronte al camino acceso. Dino Buzzati, ad esempio, ne fornisce una simile versione ambientata nella provincia pescarese nella sua famosa raccolta I misteri d’Italia. Un notevole libro di Pier Paolo Giannubilo, uscito nel 2008 per Il Maestrale, Corpi estranei, amplia con intelligenza e intensità narrativa il mitologema, ambientando la vicenda nella stessa terra d’Abruzzo, alimentando da un lato il giornalistico sospetto che sul serio si tratti di una storia vera (come riporta il sottotitolo del libro), iniziata in un tardo pomeriggio di settembre del 1937, quando il piccolo Michele Sertorio arrivò in fin di vita all’Ospedale Civile di Regenta, svelando alle radiografie un centinaio di corpi estranei conficcati all’interno del corpo con la consumata abilità di minacciare organi vitali senza comprometterli. A differenza della versione piemontese, il “beneficiario” del rito da parte della nonna, magara pervertita, è lo zio di Michele, una sorta di maniaco sessuale, un orco selvaggio il cui corpo ormai logoro per l’età avanzante richiede nuova energia “di trasferimento” da parte di un corpo sano e giovane, quello appunto nel nipote, nel paradigma magico applicato con crudeltà dalla vecchia strega. Ma la versione piemontese ha un finale, amarissimo, in più: qualcuno, dopo molti anni, tenterà di rimettersi in contatto con il ragazzino, ormai adulto, per farsi raccontare la tremenda storia del bambino-feticcio. Con non poca fatica, l’uomo sarà rintracciato in un sanatorio: gracile e immunodepresso, si è ammalato di tubercolosi. Anzi, all’esterrefatto cronista, dichiarerà che il mondo delle ombre gli ha trasmesso la grave malattia, senza neppure aver mai sfiorato in modo tattile la persona ammalata e portatrice del contagio. Sono bastati soltanto quattrocento spilloni.

Come scrisse Severino Cesari sul giornale “La Stampa” un bel po’ di anni fa (il 25 agosto del 2002), a proposito del serial di Chris Carter X Files, l’Orrore sul pianeta Terra siamo noi: «Qual è la ragione di quell’eterno indugiare, esitare, di quella lentezza da obitorio, da installazione, da performer, di quelle luci da ospedale, di quelle accensioni improvvise nel buio che sono, nel ricordo, gli X Files? Certo, ragioni produttive: set non troppo costosi, non troppo illuminati, lentezze televisive. Nessuna astronave rutilante nel cielo, nessuna melmosa, schifosa città dell’orrore. Ma non è l’unica ragione. Le astronavi e le città misteriose servono poco all’orrore. No. A ben guardare Scully e Mulder nelle loro eterne puntate di una sola cosa hanno parlato, una sola cosa ci hanno fatto vedere, un unico lentissimo orrore ci hanno trasmesso, quello legato non alla forma degli altri, degli alieni, alla loro presenza non antropomorfa, ma quello legato al mutare sempre più percettibile del nostro unico corpo, insieme alla sempre più evanescente sensazione di una Sua – del nostro corpo – presenza. Paradigma antropomorfo addio. Invasi, penetrati, mutati: ma da quante cose e fin nel DNA, fino nell´animo, certo che non sappiamo più riconoscerci. Nell´immenso archivio degli X-Files le pratiche archiviate sotto le più diverse voci, i più bizzarri casi, sono solo figure che cercano di fissare le immagini del nostro corpo in mutazione. Corpo elettrico, chimico, telefonico, mediatico, biologico.»

E non può che emergere alla fine di queste note abbozzate il nome di David Cronenberg, il poeta cinematografico – e da poco anche letterario – dei corpi in trasformazione. Chi vuole può approfondire il discorso, raggiungendo Lucca per gustarsi la mostra Evolution dove sono esposti sino al 3 maggio i “corpi estranei” del cinema del maestro canadese: gli strumenti chirurgici del ginecologo di Inseparabili, la macchina per il teletrasporto ne La mosca, l’elmetto del programma Videodrome, il Mugwump de Il pasto nudo. L’organico e il metallo fusi assieme, come nell’incredibile storia del bambino-feticcio.