di Gioacchino Toni

molinariAlberto Molinari, Il tempo del cambiamento. Movimenti sociali e culture politiche a Modena negli anni Sessanta, Editrice Socialmente, 2014, pp. 363, € 18,00

Il corposo saggio di Alberto Molinari analizza gli anni Sessanta modenesi ricostruendo i movimenti sociali e le culture politiche che hanno attraversato l’intero decennio. Ad essere passato in rassegna non è pertanto il solo biennio ’68/’69, ma un arco temporale più lungo che consente di seguire le trasformazioni che hanno coinvolto il mondo giovanile, studentesco ma non solo, il movimento operaio e quell’area del cattolicesimo progressista che ha avuto una certa rilevanza anche a livello regionale e nazionale. La ricerca, pur contestualizzando sempre gli eventi sullo sfondo del panorama nazionale, indaga un caso locale, una piccola città, periferica rispetto ai grandi centri ed alla ribalta nazionale, ma di un certo interesse sia per la rilevanza che per le peculiarità del sistema produttivo modenese, contraddistinto da una forte diffusione del lavoro a domicilio nel comparto tessile-abbigliamento e dalla notevole frammentazione in piccole o piccolissime unità produttive, veri e propri reparti fuori fabbrica, per quanto riguarda la produzione meccanica.

Tra i pregi di tale ricerca, oltre alla scelta di analizzare un ambito locale fino ad ora non indagato in maniera sistematica, sicuramente rientra la ricostruzione “del mondo prima”, cioè della cultura e delle consuetudini che strutturano la realtà locale, e non solo, di quel mondo messo in discussione ed, in parte, cambiato nel corso degli anni Sessanta. Ciò risulta particolarmente utile a comprendere l’urgenza e la determinazione delle lotte che attraversano l’intero decennio fino al biennio ’68/’69.

La prima parte del testo ricostruisce il mondo giovanile modenese nel corso degli anni Sessanta. Si parte dal fenomeno migratorio che ha visto tanti giovani abbandonare l’appennino e le zone rurali della provincia per approdare nei centri urbani ove maggiore è l’opportunità di lavoro e l’accesso al consumo. Tale ondata di nuova forza lavoro giovanile, scontratasi con una realtà ben diversa da quella immaginata, si rivela meno passiva del previsto, tanto che la forte adesione giovanile agli scioperi, sin dal finire degli anni Cinquanta, coglie alla sprovvista anche il sindacato. Come a livello nazionale, anche a Modena si palesa, inoltre, l’incapacità dei partiti di sinistra di comprendere il mondo giovanile, soprattutto nelle sue forme di ribellismo meno convenzionali che determinano fenomeni di politicizzazione al di fuori dei canali tradizionali.
Nel testo vengono riportate riflessioni di alcuni giovani studenti-lavoratori consapevoli di come l’abbandono scolastico sia in larga parte dovuto all’ostilità che l’ambiente esercita nei confronti degli studenti provenienti da famiglie più disagiate ed è ben presente la percezione, tra i figli degli operai, che la scuola è strutturata in modo da mantenerli in stato di inferiorità rispetto ai coetanei figli di professionisti; il sistema scolastico sembra finalizzato al mantenimento delle differenze sociali.
L’esplosione delle proteste studentesche modenesi si deve al rifiuto dell’autoritarismo della scuola-caserma ed alla richiesta di maggior democrazia. La ricerca ricostruisce anche la risposta repressiva da parte delle autorità scolastiche, degli apparati polizieschi e della stampa locale, che non manca di dar vita ad una vera e propria campagna di criminalizzazione nei confronti di tutto ciò che tra i giovani si muove. Vengono riportati stralci di documenti redatti dagli studenti sia liceali che degli istituti tecnico-professionali e viene passato in rassegna il mondo delle scuole secondarie ed universitario modenese, le battaglie volte alla conquista di nuove forme di protagonismo e di rinnovamento del mondo dell’istruzione, fino all’incontro col mondo operaio, inizialmente limitato a forme di reciproca solidarietà, poi caratterizzato da forme di confronto e scambio più dirette. Interessante anche la ricostruzione della cultura giovanile antifascista modenese costretta a confrontarsi con l’ingombrante presenza cittadina dell’estrema destra greca di “Focolare ellenico”, nutrito gruppo di studenti greci controllato direttamente dai servizi segreti dei colonnelli e dalla Cia.

La seconda parte del saggio passa in rassegna il mondo del lavoro locale ricostruendone le specificità che vedono una realtà contraddistinta da un’egemonia politica e culturale della sinistra con un sindacato che si pone come soggetto politico territoriale. A risultare particolarmente interessante è sia la ricostruzione del tessuto produttivo modenese, contraddistinto dalla diffusione della medio-piccola impresa, che, in linea col resto del paese, la disomogeneità, tra i lavoratori, del “peso contrattuale”; maggiore nelle componenti operaie più professionalizzate, caratterizzate dalla cultura del lavoro, decisamente debole tra gli operai comuni. Rispetto al quadro nazionale, o meglio, rispetto ad alcune zone del paese, nel modenese la tensione tra movimenti spontanei ed organizzazioni tradizionali del movimento operaio, nel corso degli anni ’60, non è particolarmente dirompente, tanto che, anche i momenti di contrasto più forti, risultano sostanzialmente assorbiti.
Diversi passaggi nel testo descrivono le condizioni di lavoro e di vita operaie, alcune di queste descrizioni potrebbero benissimo essere utilizzate per raccontare situazioni contemporanee, soprattutto per quanto riguarda il lavoro immigrato: “Sono giunti a Modena, alcuni di essi, in seguito a reclutamento che Valdevit o il suo ingegnere hanno fatto nei paesi del meridione o dalle isole. Sono andati nei paesi di emigrazione, promettendo lavoro, vitto e alloggio. Hanno poi, invece, dato agli operai alcuni cameroni in cui vivere in modo indecente, un lavoro massacrante e una paga bassissima. E, inoltre, la minaccia continua del licenziamento nel caso di una qualsiasi agitazione sindacale”. (p. 181 – citato da “L’Unità” del 23 novembre 1968).

La ricerca racconta di come, soprattutto nel comprensorio ceramico sassolese, le assunzioni risultino spesso pilotate attraverso la chiamata diretta. Non manca l’invio di reclutatori di mano d’opera nelle regioni più povere che fanno affluire migliaia di immigrati incuranti delle condizioni di vita a cui sarebbero stati costretti: centinaia di famiglie ridotte a vivere in scantinati, sottotetti e case dichiarate inabitabili, spesso senza poter contare sulla presenza di asili e scuole materne per la custodia dei bambini durante il lavoro.
Come altrove nel paese, anche nel modenese le realtà meno sindacalizzate dimostrano presto un’inattesa propensione alla lotta e soprattutto le nuove leve operaie, giovani ed immigrati meridionali, partecipano attivamente alle mobilitazioni. Il ciclo di lotte iniziato nel 1968 si è presto preoccupato della conquista di maggior democrazia all’interno dei luoghi di lavoro e del miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza tanto nelle aziende quanto nel lavoro a domicilio, ove si diffondono più facilmente patologie legate alle condizioni malsane e si assiste all’incremento, soprattutto tra le lavoratrici madri, di stati d’ansia e problematiche legate ai figli incustoditi. Esistono poi alcune peculiarità relative al settore ceramico, ove si riscontrano altissime percentuali di aborti e nascite premature, esempi evidenti di quanto il lavoro plasmi la vita ed il corpo soprattutto delle lavoratrici.

Nella terza parte del saggio, vengono ricostruiti gli anni Sessanta del cattolicesimo del dissenso modenese seguendo le esperienze di alcuni gruppi e riviste culturali come il circolo Vanoni, nato dalla sinistra democratico-cristiana locale, poi trasformatosi nell’Associazione di studi e di iniziativa culturale “Il Portico”, aprendosi a contributi di diversa provenienza culturale ed ideologica. La rivista “Note e rassegne” rappresenta sicuramente lo strumento principale di comunicazione e di dibattito del cattolicesimo del dissenso modenese.
L’esperienza locale si inserisce nell’ambito delle grandi trasformazioni che negli anni Sessanta attraversano il mondo cattolico sospeso tra istanze conservatrici e di rinnovamento, in un’epoca segnata dall’involuzione dell’esperienza del centrosinistra, dal Concilio Vaticano II e dal fenomeno dei cattolici di base, dai conflitti internazionali e dalle contraddizioni interne all’Est europeo. Nell’ambito di tale contesto si sviluppa una crescente volontà di mettere in discussione la struttura gerarchica della chiesa al fine di vivere un’esperienza di “chiesa partecipata” e, per certi versi, conseguentemente, si avverte la necessità di confrontarsi con il movimento operaio, con l’emarginazione ed il Terzo mondo.
Il dissenso cattolico modenese veicolato da “Note e rassegne” è contraddistinto dal rifiuto dell’integralismo tanto cattolico (la rottura con la Dc si consuma a causa della non accettazione del “dogma” dell’unità dei cattolici in politica), quanto comunista (al Pci viene contestato il dogmatismo antipluralista). L’esperienza modenese ha un ruolo tutt’altro che secondario nella ricerca di nuove forme di partecipazione politica rispetto a quelle partitiche tradizionali, prendendo attivamente parte all’esperienza dei cosiddetti “Gruppi spontanei”, realtà provenienti soprattutto dal mondo cattolico, ma anche dalla sinistra comunista in dissenso nei confronti dei partiti di sinistra. Con la fine degli anni Sessanta si spegne l’esperienza delle assemblee nazionali dei gruppi spontanei che confluiscono o nei gruppi “alla sinistra” del Pci (come Il Manifesto e Lotta Continua) o nel movimento maggiormente attento al versante religioso delle “Comunità di base”. “Note e rassegne” finisce col confluire nelle esperienze dalla “nuova sinistra”.

INTERVISTA

1) Relativamente agli anni Sessanta modenesi non mi risulta esistano altri studi sistematici, immagino che tra i primi problemi che hai dovuto affrontare ci sia stato quello delle fonti. Quali sono state le fonti privilegiate nella ricerca?

La ricerca è iniziata sette anni fa quando ho proposto all’Istituto storico di Modena di fare una prima ricognizione sulle fonti archivistiche relative ai movimenti degli anni Sessanta e Settanta nella realtà modenese. Nessuno aveva lavorato prima su questi temi, quindi non sapevamo se il materiale archivistico sarebbe stato sufficiente per avviare una ricerca. Ho iniziato a saggiare due archivi locali (quello dell’Istituto storico e del Centro Ferrari) e nello stesso tempo a raccogliere testimonianze orali su quegli anni.
Mi sono reso conto, e non me l’aspettavo, che il materiale documentario era ricchissimo.
Per quanto riguarda gli archivi locali, ho potuto studiare fonti diverse, per origine, organizzazione e finalità della conservazione.
Ci sono raccolte documentarie, “fondi personali”, che rientrano nella categoria degli “archivi dei movimenti”: carte di vario tipo (volantini, documenti, manifesti, fotografie, verbali di riunioni, programmi di iniziative ecc.) raccolte da persone che avevano vissuto quella stagione come protagonisti, come militanti di organizzazioni. Queste persone hanno donato la documentazione agli istituti modenesi per sottrarla alla dispersione con un approccio alla conservazione che si può definire “militante”, intesa cioè principalmente come difesa di una memoria, senza preoccupazioni di tipo archivistico, in senso scientifico. E’ un primo lavoro di raccolta che ha svolto una funzione fondamentale, perché ha salvato un patrimonio documentario senza nessun aiuto finanziario, istituzionale ecc., solo sulla base della passione. Queste carte sono state poi state riordinate una decina di anni fa, sono stati creati strumenti per facilitarne la consultazione, altri fondi personali più recenti sono in corso di riordino.
Altri fondi sono invece “istituzionali” come quelli del Pci e della Cgil.
Fondamentale è l’archivio del Pci che, nel caso modenese, è straordinario, dal punto di vista della quantità e della qualità dei documenti conservati dal secondo dopoguerra agli anni Settanta. Nell’archivio del Pci si trovano non solo le carte che documentano tutte le attività del partito, il dibattito interno ecc. Governando la città, avendo costruito una struttura capillare sul territorio e svolgendo di fatto un lavoro di controllo sociale, il Pci raccoglieva informazioni su tutto ciò che accadeva in città. Nell’archivio si trovano quindi raccolte molto dettagliate anche sui documenti prodotti dai movimenti che si muovevano fuori dal partito e alla sua sinistra, dal movimento studentesco a Potere operaio, il Manifesto ecc., in alcuni casi dei dossier tematici. Su questi aspetti sono molto interessanti anche i verbali della Commissione di controllo del Pci. Un discorso analogo vale per l’archivio della Cgil, ovviamente in particolare per il movimento operaio.
Nel corso della ricerca ho poi consultato altre fonti scritte, la stampa locale e nazionale e i documenti del Gabinetto della Prefettura di Modena conservati all’Archivio di Stato di Roma. I documenti della Prefettura sono evidentemente importantissimi perché ci possono offrire un quadro dell’interpretazione che lo Stato dava delle lotte, dei movimenti, di quello che avveniva, delle pratiche di controllo e repressione messe in atto ecc. Sono fonti che, come tutte le fonti, parlano anzitutto di chi le produce piuttosto che del fenomeno che osservano, più dei sorveglianti che dei sorvegliati…
Ma al di là di questo aspetto, sul piano delle informazioni nell’Archivio di Stato devo dire che non ho trovato molto di più di quanto avevo già visto nell’archivio del Pci. Si potrebbe dire che il Pci lavorava meglio della Prefettura….
Non sono riuscito invece a consultare l’Archivio di Stato di Modena (Questura e Prefettura) perché il riordino è terminato da poco, penso di utilizzarlo per la prosecuzione della ricerca verso gli anni Settanta, stiamo costruendo un “laboratorio” su questo tema…

2) L’analisi dei movimenti sociali e delle culture politiche modenesi proposta dal saggio è suddivisa in tre parti, pur inevitabilmente intrecciate tra loro: il mondo studentesco, il movimento operaio e l’area del cattolicesimo progressita. Nell’analizzare il mondo studentesco e l’esperienza dei cattolici del dissenso si può contare su una corposa produzione scritta (volantini, riviste, resoconti ecc.) stesa direttamente dai soggetti stessi analizzati, mentre la ricerca sulle mobilitazioni nel mondo del lavoro è basata, in buona parte, sui documenti ufficiali sindacali ed istituzionali. Manca, forse, una vera e propria “produzione scritta di base”. Il ricorso alle fonti orali è stato particolarmente d’aiuto al fine di ridare in maniera più diretta la parola alle componenti operaie artefici delle lotte?

Vorrei prima sottolineare un aspetto della questione fonti in generale, per questo tipo di ricerca. Il quadro che ti ho descritto mi sembra che smentisca un luogo comune, circolato per molto tempo in alcuni ambiti della storiografia, secondo il quale sarebbe impossibile fare una storia rigorosa dei movimenti tra il ’68 e gli anni Settanta. Si diceva, e qualcuno ancora lo sostiene, che mancano le fonti, perché i movimenti sono realtà informali, non strutturate ecc… Ora, questo è sicuramente vero, nel senso che non esiste una ‘memoria ufficiale’ dei movimenti, i movimenti di base, a differenza dei partiti o dei sindacati, non si pongono il problema di conservare la memoria del proprio agire, di ciò che producono. Ma se si scava negli archivi si possono trovare molti elementi che consentono di fare ricostruzioni puntuali. Ti faccio un esempio: nel fondo del Gabinetto della Prefettura in Archivio di Stato ci sono buste molto corpose che raccolgono la documentazione prodotta da Lotta continua, città per città… volendo si potrebbe fare una storia di Lotta continua basata non solo sulla memorialistica…. la stesso discorso vale per il movimento studentesco e per alcune realtà operaie di base ecc. Tra l’altro a Roma non pongono problemi per la consultazione, almeno sino ai primi anni Settanta.
Come ti dicevo, l’altro aspetto del mio lavoro sulle fonti è stato la raccolta di testimonianze. In realtà questo lavoro è ancora in corso, non sono riuscito a intervistare tutte le persone che sono disponibili a parlare della loro esperienza tra gli anni Sessanta e Settanta.
Rispetto alla tua domanda, hai ragione, la “produzione scritta di base” operaia nella realtà modenese non è ricca come quella del movimento studentesco o dei cattolici del “dissenso”. Tieni conto che a Modena nelle fabbriche non si sono formati gruppi operai autonomi, alternativi al sindacato, come a Marghera, a Torino, a Milano… C’è stata una dialettica, a volte anche aspra, tra base e vertici sindacali, ma in una città ‘rossa’ come Modena il sindacato ha condizionato notevolmente gli orientamenti delle lotte operaie.
Qualche esperienza significativa al di fuori del sindacato comunque c’è stata. Oltre all’intervento di Potere operaio, ad esempio nel ’69 a Modena nasce un comitato di studenti e operai che organizza in piazza Mazzini una ‘tenda’ permanente di sostegno alla lotta alla Fiat trattori di Modena, una lotta molto lunga che parte nell’estate del ‘69 e attraversa tutto l’autunno caldo, sino alla primavera del ’70. E’ la lotta simbolo del conflitto operaio a Modena in quegli anni, i volantini prodotti dalla ‘tenda’ insistono sull’importanza di intaccare il “mito Fiat”, esaltano le forme di lotta più radicali, il nuovo protagonismo e la combattività dei giovani operai, la presenza di istanze egualitarie e di partecipazione analoghe a quelle sostenute dal movimento studentesco.
Sia i volantini della tenda che quelli di Potere operaio rispecchiano da vicino i bisogni e le istanze della base operaia… in un suo scritto, conservato nel fondo a lui intitolato, Paolo Pompei, allora dirigente di Potop, dice che i volantini erano “dettati direttamente dagli operai”… questo era tipico di Potop, poi c’era anche un filtro, naturalmente…
Comunque, come dicevi, le interviste in questo caso sono fondamentali. Ad esempio ho raccolto la testimonianza di uno dei promotori della “tenda”, sono venuti fuori molti aspetti che ovviamente non emergevano dai volantini, chi erano gli operai che frequentavano la “tenda”, come veniva organizzato l’intervento in fabbrica… oppure il dibattito interno tra le diverse componenti del gruppo, l’intervento della Fiom che tenta di frenare l’iniziativa…. Un altro esempio è quello dei delegati, abbiamo iniziato a raccogliere testimonianze sulle prime esperienze dei Consigli di fabbrica…
Aggiungo che sui delegati e sulla soggettività operaia tra gli anni Settanta e Ottanta a Modena c’è una ricerca di Vittorio Rieser, pubblicata nel 1984 con il titolo Esperienza e cultura dei delegati: un’indagine nella realtà metalmeccanica modenese. E’ un’inchiesta importante, Rieser, insieme a Mauro Franchi, aveva intervistato delegati protagonisti del conflitto a Modena, penso che ripartiremo anche da lì per una parte del lavoro sugli anni Settanta che è in cantiere….
Comunque quello che emerge dalle interviste è la pluralità di voci di una stagione che non è riducibile a una semplice sintesi… detto altrimenti, il biennio ‘68/’69 andrebbe declinato al plurale, ci sono esperienze molto varie… da questo punto di vista l’analisi dei casi locali può contribuire ad arricchire il quadro interpretativo di quella stagione, spesso eccessivamente schiacciato sulle dinamiche a forte impatto anche simbolico delle grandi città.

3) Sul finire degli anni Sessanta gli imprenditori hanno dovuto pianificare un processo di ristrutturazione volto a contenere e, successivamente, a stroncare l’offensiva operaia. Tale processo di ristrutturazione tecnologica e di decentramento produttivo inizierà ad essere attuato sin dagli inizi del decennio successivo con quel processo di espulsione di manodopera dalle grandi fabbriche in favore di unità produttive più contenute e controllabili. Tale inedita atomizzazione produttiva, ed operaia, ha posto il mondo sindacale e politico di fronte alla necessità di interpretare il ruolo del piccolo imprenditore e delle unità artigianali. Il saggio ricostruisce, a tal proposito, il dibattito che si è sviluppato e che, per certi versi, è parte di quel processo di trasformazione subito dal mondo politico e sindacale di sinistra. Viste le caratteristiche del sistema produttivo modenese, ti chiedo se dalla tua analisi sono emerse “peculiarità modenesi” rispetto al dibattito nazionale in seno alla sinistra.

Intanto c’è una cosa interessante, e credo poco nota, che vale la pena di mettere in rilievo. I primi a fare un’analisi della “fabbrica diffusa”, del decentramento produttivo ecc. a Modena, con strumenti interpretativi e proposte di intervento originali, sono gli operaisti. Attraverso un lavoro di inchiesta, il gruppo modenese legato a “Potere operaio veneto-emiliano” pone il problema della specificità della struttura produttiva locale e della composizione della classe operaia. C’è un documento in particolare, che risale al 1966, non firmato ma penso opera di Pompei, nel quale, dati alla mano, si demistifica la strategia del Pci e del sindacato delle alleanze con le piccole imprese in funzione anti-monopolistica. Poco dopo questa lettura viene riproposta per la Fiat trattori, c’è l’analisi del “ciclo Fiat” con l’azienda che aveva integrato nel processo produttivo le “boite”. Da qui una proposta di intervento basata sull’idea di considerare i capannoni lungo la via Emilia come un’unica grande fabbrica, e quindi l’idea di unificare politicamente la lotta della classe operaia modenese. Su questo tipo di analisi il gruppo modenese si confrontava con Bianchini di Ferrara, una delle figure più importanti del potere operaio veneto-emiliano.
Poi c’è un convegno regionale del 1971 sulle piccole e medie aziende, si tiene a Bologna, promosso dai sindacati metalmeccanici, era stato preceduto da un’inchiesta sull’industria metalmeccanica emiliana realizzata in collaborazione con Sebastiano Brusco, che insegnava alla Facoltà di Economia e commercio di Modena e qui è interessante vedere come in sostanza vengono riprese le analisi che ti ho citato, si dice chiaramente che nel sistema produttivo emiliano si legano in un processo “a cascata” le grandi aziende alle medie, le medie alle piccole con un rapporto di subordinazione crescente. Le imprese artigiane e le piccole-medie industriali erano quindi veri e propri “reparti distaccati” delle grandi fabbriche che programmavano tempi, costi, qualità della produzione e approfittavano delle condizioni di sottosalario e di sfruttamento tipiche delle imprese di piccole dimensioni. Da queste analisi nel convegno scaturiva un ripensamento critico dei contenuti e delle forme dell’agire sindacale… Ma la Fiom modenese non ci sta, elabora un documento nel quale rifiuta la visione di una piccola impresa organicamente subalterna alla grande industria, e ribadisce la tradizionale politica di alleanze con i ceti medi produttivi che era considerata strategicamente fondamentale.
D’altronde non poche officine artigianali erano gestite da ex operai comunisti espulsi dalle fabbriche negli anni Cinquanta… il Pci aveva lavorato molto su questo, pensa alla creazione dei Villaggi artigiani… era una parte importante del suo blocco sociale e del tessuto economico locale. Lo stesso Brusco, ritornando molti anni dopo su questo passaggio, ricordava che le sue riflessioni avevano avuto una pessima accoglienza negli ambienti di sinistra. C’era un ritardo di analisi, le posizioni del gruppo dirigente del Pci non furono modificate…
Tutto questo sta “dietro” al celebrato “modello emiliano”, che certamente ha pagato in termini di consenso per il Pci in quegli anni, e ha definito il profilo economico della provincia… Poi occorrerebbe analizzare la questione tra gli anni Settanta e Ottanta, è in questo passaggio che si possono trovare altri elementi fondamentali per comprendere la peculiarità dello scenario modenese e emiliano…