di Marilù Oliva

ferociaNicola Lagioia, La ferocia, Einaudi, 2014, pp. 418, € 19,50

La ferocia di Nicola Lagioia, uscito per Einaudi l’estate scorsa, nella collana Supercoralli, ha ricevuto innumerevoli recensioni, le più significative rintracciabili anche sul web. Ragion per cui ho deciso di non cimentarmi in un’ennesima prova critica, ma ho preferito divagare sulla forma letteraria e divertirmi con una sorta di analisi del testo. Quest’opera è stata oggetto di sei ristampe, segnalazioni a premi letterari – ricordo, per dirne uno, la finale allo Scerbanenco – amori e odi e speculazioni non sempre sensate. Io ho letto il libro e mi è piaciuto, l’ho trovato importante, non immediato – e per fortuna, in un’epoca in cui anche le arti devono inchinarsi alla dea Facilità, senza dubbio inedito nel panorama del genere noir, in cui alcuni critici l’hanno voluto – secondo me anche forzatamente – inquadrare. Ma al di là di questo, ho apprezzato soprattutto la densità stilistica del narrato, la sua forza, la sua eleganza e lì ha puntato la mia analisi, cercando di scovare il notevole lavoro da orafo che vi si cela dietro.

Il brano approfondito è a pagina 7, quando Clara appare, dopo una suggestiva tempesta di falene. Mezzanotte è trascorsa da due ore e una luna di tre quarti illumina la statale deserta Taranto-Bari. Ma lei deve ancora arrivarci:

«Fu sullo sfondo dell’impalpabile nuvolaglia grigio-verde che la ragazza fece il suo ingresso nel giardino. Era nuda, e pallida, e ricoperta di sangue. Aveva le unghie dei piedi laccate di rosso, belle caviglie dalle quali partiva un paio di gambe slanciate ma non secche. Fianchi morbidi. Un seno dritto e pieno. Avanzava un passo dietro l’altro – lenta, barcollante, tagliando il prato in due.

Non era molto oltre la trentina, ma non poteva avere meno di venticinque anni a causa dell’intangibile rilasciamento dei tessuti che trasforma la sveltezza di certe adolescenti in qualcosa di perfetto. La carnagione chiara metteva in evidenza le strisciate lungo le gambe, mentre le ecchimosi su fianchi e braccia e fondoschiena, simili a macchie di Rorschach, sembravano raccontare tutta una vita interiore attraverso la superficie. Il volto gonfio, le labbra solcate da un profondo taglio verticale.

Era normale che gli animali si fossero messi in allerta. Molto piú strano che non l’avessero mantenuta. L’aspide ripiombò sulla sua preda. I grilli frinivano di nuovo. La ragazza aveva cessato di preoccuparli. Piú che l’innocuità, sembravano avvertirne il conclusivo trascinarsi verso il punto che fa crollare le differenze di specie. La ragazza calpestò la superficie erbosa circondata da questa sorta di indifferenza atavica. Venne percorsa dal manto sfavillante col quale la piscina si rifletteva sui muri della villa. Superò la bici abbandonata nel vialetto. Poi, come era apparsa in quel piccolo angolo di mondo, ne venne fuori. Attraversò la siepe sul lato opposto. Iniziò a perdersi nella sterpaglia».

Preludio è una rassegna di creature: allocchi e falene in volo, poi grilli, gatti, perfino un aspide, interrotto nell’atto di ingoiare un topo vivo. Alcune hanno allertato i sensi, perché sta per succedere qualcosa, annunciato dal frusciare di una siepe che viene scossa. Sulla loro sospensione parte lo zoom di una telecamera, l’autore restringe il campo dal cielo – orizzonte quasi dilatato – al corpo nudo, fino al particolare delle unghie che, col rosso laccato, chiudono la parentesi cromatica verdegrigia pennellata tra le nuvole.

Lagioia sorvola sulle banalità delle sequenze descrittive e passa direttamente all’immagine, il risultato è quello voluto: il lettore non può vedere nitidamente la ragazza, perché il tutto è avvolto dall’incertezza della notte, le nubi sono “nuvolaglia” che aumenta la foschia e confonde le percezioni, il buio imbroglia i dettagli e quello che traspare viene affidato all’unica cosa che può emergere nell’oscurità: il chiarore e il suo movimento. Sui “fianchi morbidi” l’inquadratura si riapre, sale al seno e il corpo riappare in tutta la sua fisicità. Il soggetto deambula a fatica, al centro del prato, affidato a una frase geometrica, spaccata in due da quel trattino alto, esattamente come lo spazio che ci restituisce:

«Avanzava un passo dietro l’altro – lenta, barcollante, tagliando il prato in due».

Nonostante le ferite, nonostante la pelle segnata, lo scrittore barese ci parla di una ragazza che non è più una fanciulla, un’età tra i venticinque e i trenta e qualcosa – anche quest’indeterminatezza contribuisce all’indefinito imposto alla scena, perché niente di esatto si deve ancora scorgere o sapere – e ci racconta la sua bellezza, la sua sensualità, senza svelarcela direttamente, ma facendola confluire in quella chiusura quasi lirica che assorbe ogni cedimento del tempo e, anzi, lo fa assurgere a compiutezza:

«Non era molto oltre la trentina, ma non poteva avere meno di venticinque anni a causa dell’intangibile rilasciamento dei tessuti che trasforma la sveltezza di certe adolescenti in qualcosa di perfetto».

Questa sequenza si chiude con il “taglio verticale”: è la seconda volta che compare un lessema riconducibile all’idea di interruzione, la terza, se si include la cesura insita nel trattino: a sottolineare la spaccatura profonda che l’evento comporterà. E le separazioni, anche, che qui non sono solo semantiche.

Il blocco narrativo successivo sposta l’attenzione sulla fauna. Da spettatori sull’attenti durante il passaggio della ragazza, gli animali tornano alle loro attività e il tutto accade velocemente, ecco perché il brano procede con uno stile paratattico e ritmato. Quel microcosmo si fa rumore, Lagioia spalanca l’orchestra della notte grazie a un accostamento di termini che, con una successione di fricative, sibilanti e occlusive, rendono queste due frasi quasi un’unica onomatopea:

«L’aspide ripiombò sulla sua preda. I grilli frinivano di nuovo».

Le frasi si succedono snelle, il regno animale e quello umano si equiparano di fronte alla natura e gli istinti primordiali – divorare e cantare – vengono placati da una nuova acquisizione, quella che accosta tutte le creature, nei momenti estremi, sotto la grande ala della natura, una natura che non è necessariamente benevola o maligna, ma solo pregna della sua antichità, denunciata dall’aggettivo “atavica” ed espressa scansando le formule più prevedibili:

«Piú che l’innocuità, sembravano avvertirne il conclusivo trascinarsi verso il punto che fa crollare le differenze di specie».

La vicinanza di “differenze/indifferenza” in due frasi contigue produce una paronomasia che non è solo effetto fonico, ma anche anticipazione dello straniamento che sta per giungere, appena Clara verrà fagocitata dal mondo-altro, quello artificiale fatto di asfalto e lampioni e insegne. Spartiacque è la piscina, fabbricazione ibrida – acqua e cemento – che col suo “manto sfavillante” ricorda l’incresparsi delle onde del mare: peccato che sia solo un’illusione. Ancora una volta la materia comunica attraverso il movimento e la luce, in questo caso riflessa.

Per distaccarsi da “quel piccolo angolo” non ancora pienamente occupato dalla modernità, occorre un prestito sciamanico. Siamo ai confini di un mondo verso un altro e il passaggio reca in sé il valore simbolico della transizione, con le uscite, gli attraversamenti e i pericoli annessi. Emblematico, in particolare, per i suoi significati, l’ultimo verbo:

«…ne venne fuori. Attraversò la siepe sul lato opposto. Iniziò a perdersi nella sterpaglia».

La sintassi si adatta al momento o alla frazione di vita di cui è portavoce, senza l’ossessione di dover stupire a tutti i costi, il lessico alterna espressioni d’uso comune – le parti anatomiche, ad esempio – a preziosismi – “innocuità” “sveltezza” “atavica”– a termini rubati al gergo professionale, in questo caso psicometrico – “macchie di Rorschach”.

L’utilizzo ripetuto – e non solo in apertura – del verbo essere toglie pretenziosità al narrato. Nel complesso si può inquadrare come alto lo stile di un romanzo che, tra i suoi pregi, può senza dubbio elencare la variabilità e un incastro ben studiato dei piani narrativi. Se il brano proposto lo dimostra, l’intera lettura dell’opera, a mio avviso, lo conferma.