Una lettera agli autori della lettera contro il divieto di rappresentare l’uso delle sigarette nei film italiani.

di Mauro Baldrati

Tennessee-Williams-by-Irving-PennCari registi, cari scrittori,

sulla vostra lettera liberale, che io preferirei definire libertaria, la ministra Lorenzin ha detto che non intende vietare la rappresentazione del tabagismo nei film. E’ normale, i politici di professione sono altamente specializzati nel manifestare un’intenzione negandola. Quindi facciamo finta che sia vero. Poniamo che veramente il governo intenda promulgare una normativa che vieti le riprese di attori che fumano in scena.

A questo provvedimento vi opponete fieramente, in nome della libertà creativa e del rifiuto dell’intervento di uno stato etico/confessionale nei comportamenti privati degli esseri umani. Scrivete: “Al cinema e alla parola scritta, si dovrebbe chiedere ed esigere soprattutto di raccontare la gioia, il dolore, la grandezza, la pochezza ed il mistero di cui siamo fatti.” E’ un’affermazione condivisibile. Apprezzo, e ho apprezzato molto il vostro lavoro, scrivendo delle vostre opere su questo sito, qui, qui, qui, qui. Per me rappresentate una interessante ricerca italiana per un nuovo brand cinematografico che non teme il mainstream, ma lo usa, contribuendo a creare quella che Gramsci chiamava “una nuova letteratura popolare”, una sovranità culturale che finalmente possa liberarci dalla dura colonizzazione americana, dall’invasione di prodotti americani per gli americani e per i sudditi del resto del mondo. Poi però arriva il punto critico, il cuore nero, se così possiamo definirlo, della vostra missiva: “E se per fare questo al nostro meglio sentiremo la necessità di inondare lo schermo di nuvole di fumo, come di altre cose in fondo molto più disdicevoli, continueremo a farlo, perché questo è il nostro lavoro.”

Ecco, non posso credere che siate ancora legati a filo triplo a questi miti, a queste estetica stantìa: l’eroe che fuma una sigaretta dopo l’altra, avvolto da una nuvola azzurrognola resa ancora più fascinosa da giochi di luce raffinati, l’eroe trasgressivo. Il tempo passa, sovrano, e si porta dietro una serie di sovrastrutture che diventano obsolete, se riproposte sine-die. Da qualche parte nella Crocifissione in Rosa Henry Miller descrive un ambulatorio di aborti, nella città tentacolare. E’ una discesa agli inferi, nella pazzia e nel massacro. Oggi è una scena semplicemente grottesca, dopo le battaglie e l’approvazione della legge 194. Ma è una sovrastruttura del suo tempo, e lui è un uomo del suo tempo. Però la grandezza della sua arte, e il suo messaggio di libertà restano intatti, e lo saranno anche fra cento anni. Così il mito di Hemingway cacciatore di leoni e di elefanti. Improponibile e ridicolo. Gli elefanti vivono in pochi esemplari nelle riserve, e così i leoni. Ma Hemingway resta un grande scrittore, anche quando abbatte un leone a fucilate in uno dei 49 racconti.

Così io non ci credo. Non credo che voi intendiate negare che una parte di pubblico si identifica coi suoi eroi, li ammira, li ama, li ascolta, li imita, li trasfigura, li paragona coi fantasmi che si porta dentro, li usa per mantenere vivi i personaggi che una vita intera ha creato nella loro immaginazione, e la cui genesi fantasmagorica risale all’infanzia. E non credo che siate indifferenti alle ferite che il fumo del tabacco industriale provoca negli organismi ancora in formazione degli adolescenti che stanno iniziando il “vizio”. E in nome di cosa? Non siete di “quella” generazione, coi suoi miti e le sue pazzie: quella nouvelle vague francese anarco-comunista, che si pippava una gauloise senza filtro dopo l’altra, e se tossiva era “tossire è bello”. Il tempo cosa passa a fare? E le riflessioni, e le idee nuove, e la liberazione da tutte le schiavitù?

No. Io credo qualcos’altro. Credo che la vostra lettera sia reticente. Che contenga un falso movimento. A mio avviso la realtà vera, nascosta tra le righe, potrebbe essere la seguente (il condizionale è d’obbligo): l’affermazione – o la rappresentazione – di un evento, serve per scaricare l’ansia (o la tensione) – spesso antica, irrisolta – che questo evento crea, o evoca. Forse tra di voi ci sono dei fumatori che usano i personaggi per entrare a gamba tesa nella loro tensione privata. Negli eroi del secolo scorso, nei cavalieri fumatori di un’epica con le ragnatele, nei parrucconi di una trasgressione subalterna ai padroni del cancro, voi rappresentate una parte di voi stessi, cercate il vostro piacere, e persino la vostra assoluzione.

Infine, diciamola tutta. Chiamiamo in causa anche la tecnica: nella concatenazione delle storie c’è bisogno di pause, di soste, e l’atto di accendersi la sigaretta è un espediente narrativo utile, perché permette allo spettatore di fare uno stacco, di raccogliere le idee. Ed anche è una macchina seriale di distruzione di emozioni, che serve per restituire quel senso di straniamento che spesso è alla base di tanta ricerca artistica moderna. Per esempio, l’uso del tabagismo di Sorrentino è simile a quello dell’alcol in Carver: ossessivo, come se stordisse i personaggi, come se li smembrasse.

balthus-paris-1948-irving-pennE allora avanzo la seguente proposta, che non vuole affatto essere provocatoria: perché ai vostri personaggi-alter ego non fate fumare le canne? Otterreste almeno due risultati importanti: 1) la soddisfazione del bisogno di rappresentare l’urgenza e la rabbia, generando quella scarica di energia non più disallineata che alcuni di voi cercano nelle opere; 2) un’evoluzione della mitopoiesi, allineandola al vostro/nostro tempo, liberando voi e noi da quelle parrucche incipriate che resistono a dispetto delle battaglie e delle conquiste mentali. Negli anni ’60, quando sulle tematiche di liberazione si sapeva non tutto, ma molto, le droghe venivano raggruppate in due meta categorie: le stupefacenti e le psicotrope. Le prime erano reazionarie, violente, perché obbligavano l’utilizzatore a una dipendenza da padroni più o meno occulti. Comprendevano gli oppiacei, l’alcol, gli psicofarmaci, le anfetamine e le sigarette. Le seconde, se utilizzate responsabilmente (e questa è un’elaborazione del nostro tempo) erano invece liberatorie, perché stimolavano la creatività e la socialità. Di queste, la cannabis era la regina. Fumare le canne, come gesto, non è certo un obiettivo di vita, ma in quanto rito anche sociale può superare la ripetizione edipica dell’eterno poppare, e quindi favorire l’uscita dal sistema autoritario di “un edipo troppo grande”, come lo definiva Deleuze. Pippare le sigarette è il contrario, è un rifiuto dell’azione, è un rifugio nell’isolamento della dipendenza.

Inoltre a livello scenico potreste usufruire di un espediente tecnico ancora più raffinato dell’accensione della sigaretta, una pausa più complessa, più articolata, e non vi priverebbe di quelle nuvole di fumo fascinose che vi stanno così a cuore.

Quindi, per concludere: d’accordo sulla non opportunità di divieti, perché difficilmente si ottiene la liberazione col proibizionismo e con la censura, ma voi avete il dovere di uscire dai vostri fantasmi privati e di essere generosi, e di accettare il fatto che gli eroi di oggi possono essere tali anche senza succhiare dal capezzolo fasullo di un seno ormai spettrale.

[Foto di Irving Penn. In apertura: Tennessee Williams; all’interno: Balthus]