di Diego Leandro Genna

MuroSulMareLi chiamano “oltrepassati”. Quei pochi, pochissimi, che riescono nell’impresa di passare da questa parte del mondo li chiamano così. Niey è un oltrepassato.

Sono anni ormai che nessuno protesta più, anni che non se ne parla sui giornali, è passato troppo tempo, quella che era stata a lungo una ferita aperta nella funesta storia della modernità adesso è solo una cicatrice di cemento al largo delle coscienze.

Sospeso su enormi mezze lune pneumatiche che sembrano ricavate dalle gomme della betoniera Storia, e schiacciato dallo sguardo volubile del cielo, fluttua indolente il muro sul mare.

Esperimento riuscito, separazione ottenuta, solo qualche piccola sbavatura, insignificanti infiltrazioni.

La muraglia marittima ha retto e continua il suo inesorabile rollio in silenzio, paziente alle maree, impavida di fronte le tempeste. Sembra quasi che abbia messo fine, creando una sorta di barriera sonora, alle urla di aiuto e agli echi delle bombe che arrivavano da laggiù. Depredati, sfruttati, sottomessi, impoveriti in ogni modo e infine abbandonati.

Per arginare l’esodo dei dannati della terra, dei poveri del mondo che scappavano dalle guerre e dalle carestie, dai disastri ambientali, dai campi tossici e le piogge acide, dai virus e le epidemie, per separarli e tenerli lontano fu progettato il muro. Per frenare l’onda di disperazione. Non un’onda anomala dato che era evidente e c’era da aspettarselo. Se per caso o per fortuna si avesse la possibilità di mettere in salvo la propria vita semplicemente muovendosi, in pochi resterebbero fermi, ché per scappare dalla fame e dalla sete si fa presto a muovere un passo, a correre e percorrere, fuggire, arrampicarsi e nuotare, e per forza di cose, coma ha sempre fatto, il mare avrebbe collegato, congiunto, unito. E così perché non provarci? Che volete che siano i deserti e i mari di fronte alla speranza delle persone? Quanto meno provarci. Niey è uno di quelli che hanno scelto di mettersi in viaggio. Ha scelto di provarci.

E già in tanti, prima che chiudessero il mare, avevano raggiunto le coste e le spiagge, le isole e le penisole, le città e le metropoli da questa parte del mondo, con i cosiddetti “viaggi della speranza”, a bordo di qualsiasi mezzo che li portasse da una costa all’altra. Li chiamavano “clandestini” e il più delle volte andavano a finire in dei luoghi che erano una via di mezzo tra le carceri e i campi di concentramento, spesso per lunghi periodi, per poi essere rispediti indietro, dall’altra parte del mare. In tanti morirono in quei viaggi. Se il mare potesse raccontare…

La situazione dei flussi migratori a quei tempi si era aggravata e alla fuga di massa rispondemmo con un inasprimento dei controlli, con drastiche misure di sicurezza e quindi, ovviamente, con il consueto ricorso alla forza, militarizzando le zone di confine terrestre e il mare stesso, armi puntate e filo spinato, navi e motovedette schierate, fino a giungere alla totale chiusura. La chiusura del mare. Un muro lungo tutto il mare.

I primi tempi sembrò una follia ma poi il progetto cominciò a essere preso sul serio. Fu la paura di perdere la controllata e sedata pace sociale, effetto più della propaganda che del reale numero degli arrivi. Fu la proiezione della paura, paura che tolse ragionevolezza alle scelte politiche per trovare delle soluzioni, “orde deturperanno il nostro paradiso recintato, le nostre oasi di centri commerciali, infrangeranno l’ordine del divano e del televisore…” Meglio non affrontare il problema, meglio innalzare un muro. La solita, indotta, paura dell’altro. E la paura creò le basi per tale follia. Basi di una vergogna blu tenebra, profonda quanto un abisso. Il muro stesso, infatti, non poggia su nulla, non ha base, per motivi logici non ha un qualcosa che lo tiene fissato al fondo ma sta semplicemente sospeso, galleggia. Monolitici blocchi di cemento poggiati su mastodontiche piattaforme di gomma inaffondabile. Una lunga distesa di silenzio per nascondere la grigia ignoranza.

Andare a fermare le ruspe che buttano giù un bosco era già un’impresa non facile, ma fissare una delle più grandi (e goffe) costruzioni dell’uomo in mare aperto lo fu molto meno. Il muro venne tirato su, o meglio messo su, e la cosa funzionò maledettamente. Da allora gli approdi si arrestarono, nessuno poteva sorvolare l’intera area senza la previa autorizzazione delle autorità militari, nessuno poteva oltrepassare il muro dall’alto, nessuno più arrivava. Il mare d’un tratto era diventato muto. Soltanto immergere la speranza per farla riemergere oltre il muro restava l’unica soluzione praticabile, e furono in pochi, negli anni, a riuscire nell’impresa. Niey è uno di loro.

Furono utilizzati sommergibili fai-da-te, organizzati corsi di subacquea istantanea nel tragitto stesso dalla costa al muro, si sperimentarono catapulte con scialuppe che si auto-gonfiavano in volo. Tanti furono beccati e rispediti indietro. Tanti morirono. Le speranze dei migranti non affondarono più tra le onde del mare ma si schiantarono contro il muro. Fino a spirare. Ma qualcuno ce l’ha fatta e Niey è uno di loro.

Un giorno forse l’uomo sarà capace di costruire muri nel cielo, mettere i cancelli al cielo per frenare l’ira divina, ma quando le rabbiose ruspe dell’Eterno demoliranno le città, tutta la natura sarà lì a godersi lo spettacolo. E nessuno di noi avrà il coraggio di guardare.

Io invece sono qui, adesso, a guardare il patibolo del mio uomo, con fierezza, in mezzo ad una folla di cani frustrati che sbava moralismi e ringhia precetti, che mostra gioielli e artigli, che sfoggia sentenze e pellicce e si gode lo spettacolo di un condannato a morte pubblica. Questo è quello che fanno a chi viene scoperto da questa parte del mondo senza permesso. Questa è la sorte degli oltrepassati. E oggi è il turno di Niey.

Ma non temo la loro patetica giustizia, non piango per il mio amore, non me la prendo con l’indifferenza del Creatore, non sono qui per lamentare il mio dolore. Sono qui affinché tutti credano che io non sia la sua amante.

Per dissimulare la mia complicità.

Potrebbero prendersela con te, immenso tesoro che porto in grembo.