di Gaspare De Caro

DeCaro[Il testo che proponiamo, privato delle note, costituisce il capitolo introduttivo di G. De Caro, Rifondare gli italiani? Il cinema del neorealismo, Jaca Book, Milano, 2014, pp.130, € 10,00. L’espressione “tagliente come un rasoio” è vieta, e non andrebbe usata. E’ tuttavia la migliore per definire la prosa di Gaspare De Caro, intellettuale dagli interessi multiformi e dalla vivace passione politica. Nel suo saggio passa in rassegna le diverse espressioni del cinema neorealista, dimostrando come alcune opere effettivamente innovatrici fossero soffocate, sotto un’unica etichetta ambigua, da altre tendenti invece al ristabilimento di un ordine politico e sociale già sperimentato. Ciò per mano di una critica, talora sedicente marxista, niente affatto interessata a pericolose eversioni capaci di minacciare, anche nell’immaginario, la “pacificazione” in atto nel dopoguerra.] (V.E.)

«Tra tutti gli uomini del mondo, insomma, l’italiano è il più naturaliter oboediens». Alla registrazione di questo virtuoso record naziona­le verosimilmente rinvia l’interpretazione autentica dell’idea di Prima­to, con la quale Sua Eccellenza Giuseppe Bottai negli ultimi anni del fascismo chiamò a raccolta il fiore dell’intellighenzia. Ma il naturali­smo di Bottai era di assai più larghe vedute etniche e nell’attualità Sua Eccellenza poteva testimoniare il record a doppio titolo: di eminente amministratore dello Zeitgeist in qualità di ministro dell’Educazione Nazionale e, in particolare, alla data, in qualità di promotore delle leg­gi razziali con qualche primato, appunto, sugli stessi nazisti. Non ci furono infatti a questo proposito rilevanti eccezioni all’acquiescenza degli italiani (tanto meno tra i convitati di Primato), sebbene in segui­to si adoperassero a negarla storici insigni e meno insigni. D’altra par­te la naturale inclinazione evocata dal ministro si era già prestata ad al­tre imprese del regime: la bassa macelleria africana e la crociata sanfe­dista contro il popolo spagnolo. Né si smentì poi agli eccidi di greci e slavi, in fervida emulazione con le Einsatzgruppen.

Non mancavano dunque ragioni a Bottai e al regime fascista per confidare nella natura. E vero però che la natura richiede di essere as­secondata, e questo è appunto compito dei regimi. Il fascismo non si sottrasse a tale consegna e sempre più volentieri la scienza storica glie­ne dà atto, riassumendo il proprio consenso nel benevolo epiteto clas­sificatorio di «totalitarismo imperfetto»: un regime, cioè, che, a diffe­renza di altri totalitarismi, non assorbe senza residui la società civile nello Stato; detto altrimenti, non si preoccupa di ridurre formalmente le opinioni delle classi, dei ceti e degli individui a quella dell’Ammini­strazione. Il dibattito su questa imperfezione totalitaria è ampio. Si ri­cordano la composita origine politica del ceto dirigente del regime e la varietà di culture affannosamente confluite nella necessità di resti­tuire ordine alle plebi irrequiete. Si adduce anche l’indeterminatezza di una dottrina che non riuscì a consolidarsi nel dogma, nonostante la buona volontà dei filosofi: sicché, se i fascisti non bruciarono libri come i nazisti fu perché, suggerisce Mario Luzi, «non avrebbero sa­puto quali bruciare». Tuttavia il naturalismo di Bottai rinvia a una spiegazione più generale, avvalorando nella peculiare imperfezione totalitaria del regime la saggia conformità alla peculiare natura del problema.

Nelle sue due specie, cumulativa ed elitaria, la naturalis oboedientia etnica si offrì al fascismo già secolarmente assecondata e confer­mata dall’arte. Secondo tradizione basta alla conformità dell’italiano moltitudinario l’antica ricetta di panem et circenses, inclusa tra questi ultimi, a ravvivare di entusiasmo il quotidiano grigiore della mansue­tudine, ma anche a fuorviare e reprimere le accidentali tentazioni del­la disobbedienza, l’estemporanea invenzione di sante crociate. Altret­tanto coltivata dalla tradizione la seconda specie, la naturale obbe­dienza dei chierici, categoria elitaria questa, sebbene sempre in so­prannumero, utile comunque a lubrificare la macchina della Necessi­tà Sociale. Il chierico è persuaso che una tale funzione, volentieri interpretata come sacra, consenta all’obbedienza un margine di deontologica autonomia. Talora tale persuasione traboccò in eresia e dissenso, meritando esemplari autodafé: però non fu questo il caso del chierico fascista, che attingendo a più favorevole variante della tradizione nazionale seppe onestamente dissimulare in interiore homine le individuali differenze, riservando a una scrupolosa esteriorità rituale le richieste esibizioni devote. Non quindi per sua scarsa virtù, ma per latitanza di ragion sufficiente, il totalitarismo fascista si astenne dalla perfezione.

Su questo confortevole sfondo naturale e storico il fascismo si aprì alla modernità in molti ambiti amministrativi, dalle bonifiche territo­riali alla promozione industriale, all’arte della guerra, alle riforme istituzionali, alle comunicazioni di massa: talora, nel sapiente impasto di etnologia, innovazione tecnologica e provvidenze politiche e culturali, con evidenti anticipazioni di domande e risposte di amministrazioni future per definizione non totalitarie. Il tema della continuità, un tempo sdegnosamente eluso pro bono pacis di molti, è pertanto oggi largamente coltivato dal revisionismo storiografico, sebbene il censimento delle affinità non ne dica abbastanza le ragioni ultime.

La revisione investe a giusto motivo anche la storia del cinema nazionale, fervidamente promosso dal regime fascista nella persuasione che esso fosse singolarmente propizio, «l’arma più forte», a governare entrambe le specie di obbedienza. La varietà di temi e modalità che il fascismo consentì al suo cinema, a conferma dell’imperfezione totali­taria, e la registrazione delle eredità di questa stagione nel cinema della stagione successiva sono temi assai coltivati della revisione storiografica. Non c’è effettivamente dubbio sulla continuità tra le due fasi, empiricamente evidente già nell’identità di molti protagonisti, così nel cinema come, con conseguenze anche meno commendevoli, in molti altri aspetti della vita nazionale. Tuttavia, almeno per quanto riguarda il cinema, non è possibile definire il senso ultimo della continuità se non si affronta criticamente il nodo della transizione, ben lontano dal­l’essere storiograficamente dipanato. All’origine il passaggio dal cine­ma del fascismo al cinema della democrazia – diversamente da ciò che avvenne per esempio nella magistratura – non fu affatto una tranquil­la transizione ereditaria; fu una inopinata, severa cesura nel modo di vedere il mondo e lo stesso ruolo del cinema. E’ vero che l’episodio fu breve e rari i suoi protagonisti, assai più rari di quanto credano la sto­riografia e una communis opinio, di cui pure occorre darsi ragione. Tuttavia i pochi film di imbarazzante iniziativa individuale che cerca­rono di guardare davvero a fondo nella tragedia nazionale, di fare sin­ceramente il punto della situazione, incluse le responsabilità persona­li e collettive, di cambiare qualcosa dell’identità nazionale, indussero effettivi, preoccupanti elementi di disturbo del metabolismo storico, sfidando la resistenza della natura, l’ansia nazionale di un ritorno sen­za introspezioni e confessioni traumatiche alle condizioni normali del­la duplice obbedienza, così nel cinema come nel resto. Fu questo con­flitto, circoscritto ma appunto non limitato al solo cinema, che diede alla transizione la sua peculiare curvatura, imponendole una laboriosa opera di contenimento dei fenomeni contro natura. Il cinema anoma­lo della transizione subì lo stesso destino correttivo di ogni altra ano­malia e discontinuità dell’eccezionale momento, il nuovo regime aste­nendosi anch’esso da radicalismi totalitari: fu santificato e rimosso, iscritto e risolto nella tradizione, demandato alla falsificazione di epi­goni ed eversori, mortificato dal marchio inflazionistico di «neoreali­smo». A queste condizioni, tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni ’60 (largamente surrogato poi dalla TV), il cinema del nuo­vo regime assunse senza più importune obiezioni – o piuttosto rias­sunse – un ruolo privilegiato di ordinatore del Sentire Comune.

Il processo correttivo comunque non fu lineare, attardato da esita­zioni, incomprensioni, contorsioni: come la prolungata sospensione di temi della recente e meno recente storia patria, fino a che una più at­tenta riflessione non riconobbe irrinunciabile e urgente anche un condiviso sentire storico, a conforto della naturale omogeneità. Invece, sin dall’inizio della restaurazione e poi con incalzante assiduità pro­duttiva, il cinema accreditò una lettura futile e ilare della vita comune, esclusiva di ogni eccesso di drammatizzazione dei destini collettivi, ri­sultata poi tanto più opportuna nel tempo tragico della cancellazione dell’Italia contadina e del grande esodo. Nel ventennio successivo alla mutazione di regime fu soprattutto in questi termini che il cinema – «tra i mezzi di rasserenamento degli animi forse il più efficace» – in­terpretò il ruolo di eminente persuasore pubblico, connotando in pro­fondità l’ethos nazionale, fornendolo anche, per le eventuali necessità dei lungo periodo, di omertosa estraneità agli affanni di nuove guerre e nuovi esodi. Bisogna pertanto riconoscere alla Commedia all’italiana, protagonista eponima del nostro cinema – essa, non certamente i film tragici e problematici della transizione -, qualche titolo di espres­sione massima dello spirito del tempo. Ed è soprattutto in riferimento a questo ruolo del comico, piuttosto che alle varianti ortografiche del neorealismo e ai suoi precedenti, di cui la Commedia all’italiana fu certamente debitrice, che ha senso porsi il problema della continuità con il cinema fascista. Giacché è evidente da questo punto di vista l’analogia della Commedia democratica con il cinema dei telefoni bianchi, termometri attendibili entrambi della temperatura etica costante di autori e pubblico, di chierici e moltitudini.

Qui di seguito tuttavia ci si limiterà a rileggere il primo, prelimina­re momento di questo processo restaurativo, il tempo in cui, sommi­nistrato da molti e vari e carismatici dulcamara, l’elisir della rimozio­ne medicò le piaghe e le fratture del comune sentire, placò le febbrili attese di cambiamento, gli inconsulti conati di deviazione dalla legge di natura, a un paziente del resto naturaliter ansioso di guarigione. Sebbene storiograficamente non abbastanza riconosciuto, il contributo del neorealismo cinematografico a questa terapeutica rifondazione degli italiani fu certamente rilevante, identitario anzi. Nella sua più larga e autorizzata definizione, un cinema della rimozione, una scuola di oboedientia