Un’intervista con Vanni Santoni

santoni1[Pubblichiamo un’intervista con Vanni Santoni che a partire dalla pubblicazione del secondo volume del suo ciclo “Terra ignota” ci conduce a una riflessione sul tema del fantasy e della letteratura di genere] A.P.

di Fabrizio Foni

Che cosa potresti anticipare del secondo volume di Terra ignota, senza rovinare il gusto della lettura – e della sorpresa – a chi è intenzionato a seguire gli sviluppi dell’avventura di Ailis?

Possiamo dire che, coerentemente con lo sviluppo anagrafico della protagonista – anzi delle protagoniste visto che in Le figlie del rito Vevisa avrà un ruolo di “peso” pari a quello di Ailis, già protagonista del primo volume – questo secondo romanzo ambientato nel mondo di Terra ignota avrà un taglio più adulto e crudo. Se nel primo, con Ariosto, erano forti le influenze “shōnen”, ovvero il manga per adolescenti, oggi gli appassionati potranno trovare rimandi forti al ciclo arturiano e al “seinen” (il manga per adulti) più classico. Tutto questo, dunque, e una narrazione non più su una sola linea, ma su due binari paralleli, e destinati naturalmente a un incontro non meno che cruento.

Secondo te, alle prese con il nuovo libro, il lettore che attende Le figlie del rito resterà spiazzato oppure troverà delle conferme?

Spero entrambe le cose. Il primo Terra ignota è stato molto apprezzato per l’aver mischiato, in modo a quanto pare riuscito, suggestioni “alte” e “basse”, e questa intertestualità continua a essere una delle chiavi di volta del progetto. Allo stesso modo non è venuta meno la suggestione “action”, anzi in Terra ignota 2 ci sono forse anche più scontri, e su ben altra grandezza di scala.

Un ipotetico lettore che non avesse letto il primo volume, potrebbe cimentarsi con il secondo e, solo successivamente, leggere a mo’ di antefatto il primo? Insomma: è possibile leggere la seconda opera indipendentemente dalla prima?

Terra ignota 2 – Le figlie del rito comincia tre anni dopo gli eventi descritti nel primo volume e lo ho progettato come un libro a sé stante, autonomo e autoconclusivo. Può essere tranquillamente letto come un romanzo a sé, e credo che questo sia uno dei suoi punti di forza. Se mi piace la possibilità che dà una serie di portare avanti narrazioni più lunghe, dall’altro non ho mai avuto troppa simpatia per quelle che cercano pelosamente di appiopparti tutti gli episodi.

Le figlie del rito non è neanche un romanzo “di passaggio”, dato che il terzo volume legato alla saga di Terra ignota sarà qualcosa di completamente diverso, una sorta di prequel metafisico, con altri personaggi (più qualche inevitabile ritorno, ovviamente) e un’ambientazione dove il mondo fantastico si ibriderà col nostro. Le vicende di Ailis, Vevisa, Brigid, Lorlei e Morigan si chiudono infatti in questo volume.

Torniamo per un attimo all’HG che hai affiancato al tuo nome per questi libri fantastici, e dunque a Guido Morselli, da cui viene. Egli è senza dubbio una delle figure più sfuggenti – nonché sfortunate – del panorama editoriale italiano. Il fatto che la sua opera abbia iniziato ad essere pubblicata solamente dopo il suicidio conferisce alla vicenda un sapore tragico e beffardo. È evidente, nel caso di Morselli, che il ‘sistema editoriale’ non è stato capace di riconoscerne il talento, o per lo meno non ha ravvisato in lui alcun potenziale ‘commerciale’. Da questo esempio mi sorgono spontanee tre domande, in certa misura collegate tra loro. A tuo giudizio Morselli è un autore di letteratura ‘popolare’, ‘di nicchia’ o… entrambe le cose? Da scrittore, qual è la tua opinione in merito alla narrativa di genere? Voglio dire: alle prese con un libro, in base a quale metro lo giudicheresti eventualmente ‘di consumo’ anziché appartenente alla letteratura tout court? Terza questione: per la casa editrice Tunué dirigi una nuova collana di romanzi… secondo quali criteri viene operata la selezione dei testi, e quale dovrebbe essere pertanto il ‘denominatore comune’ dei volumi proposti?

Non credo che la figura di Morselli possa essere considerata paradigmatica. Essa è – e aggiungerei per fortuna – un’eccezione. Dall’esterno, il sistema editoriale può essere visto come cieco e sordo, ma si tratta per lo più di un pregiudizio: sebbene per pure ragioni strutturali è normale che qualunque scrittore, prima di trovare la strada della pubblicazione, rimedi una bella scarica di rifiuti e porte in faccia, è anche vero che difficilmente un eventuale capolavoro rimarrebbe inedito. Trovo molto centrata una similitudine usata da Nicola Lagioia in un’intervista di qualche anno fa, nel quale paragonava ogni casa editrice a una rete: reti lasse e piene di buchi, certo, però il mondo editoriale è composto da tutte queste reti, messe una sotto l’altra; sebbene l’industrializzazione dell’editoria abbia anche portato molti editori di qualità a pubblicare anche molti libri mediocri o scadenti in base a meri criteri di commerciabilità, è vero pure che praticamente chiunque diriga una casa editrice o una collana sogna sempre di trovarsi un vero capolavoro all’apertura dell’ennesimo plico o allegato, e anche le case editrici più votate al business dedicano sempre una percentuale del proprio pubblicato a opere di buona qualità letteraria, a prescindere dalle considerazioni di mercato. Dunque alla fine è difficile che un vero capolavoro, o anche solo un libro eccellente, oggi resti inedito. Ugualmente è difficile che un buon autore resti fuori dal campo editoriale: se è davvero un buon autore egli avrà molte idee, ci crederà e persevererà senza farsi scoraggiare dai rifiuti, e prima o poi giungerà alla pubblicazione.

Per rispondere alle tue domande: reputo Morselli un grande scrittore, e tale definizione evidentemente trascende qualunque sottocategoria. Per prendere uno anche più grande di lui, come definire, poniamo, Lovecraft? Per formazione e pratica in vita, è senza dubbio un autore ‘popolare’, e il suo genere, l’horror cosmico, sarebbe  senz’altro da definire ‘di nicchia’, ma la sua potenza fa sì che tali definizioni gli stiano strette, anzi divengano sostanzialmente insensate. Sulla letteratura ‘di genere’: non mi piacciono le divisioni manichee, conta soltanto la qualità letteraria. Vogliamo buttare Ellroy o Tolkien o Dick in quanto ‘di genere’? Poi è chiaro che si possono fare considerazioni di marketing in base al tema di un libro, a come si inserisce in determinati dibattiti, alle caratteristiche del suo autore, a cosa sta funzionando in un dato momento, ma sono questioni che non c’entrano molto con la letteratura.

Per quanto riguarda Tunué, il primo parametro che applico è quello della qualità della prosa. Devono essere libri scritti bene, per dirla nel modo più semplice. È vero poi che una collana prende la propria identità, ancor più che dalle scelte del suo direttore, dai primi libri che pubblica. A maggio abbiamo debuttato in libreria con due testi molto diversi tra loro, Stalin+Bianca di Iacopo Barison e Dettato di Sergio Peter, che hanno però in comune il fatto di essere scritti da esordienti molto giovani e di avere una forte impronta letteraria: ciò suggerisce che «Romanzi» di Tunué sarà anche in futuro una collana decisamente orientata alla ricerca di nuove voci, che si rivolge a lettori forti e punta anzitutto sulla buona scrittura – e infatti anche i libri che usciranno nei prossimi due mesi, Lo Scuru di Orazio Labbate e Tutti gli altri di Francesca Matteoni vanno in questa direzione.

Andiamo dunque ai due Terra ignota. Sono romanzi fantasy e pertanto, benché l’autore abbia libero campo nell’inventare il proprio universo finzionale, deve comunque attenersi a una serie di regole per non deludere le aspettative del lettore (così come avviene, naturalmente, per ogni altro ‘ramo’ della letteratura popolare). Benché in copertina o sul frontespizio l’etichetta «fantasy» sia assente, basta dare un’occhiata al sito della collana, «Chrysalide», e la definizione si fa esplicita. Si tratta, inoltre, di una collana ampiamente dedicata alla narrativa di genere, dal catalogo suddiviso secondo filoni diversi (anche visivamente, tramite vari colori: verde per il fantasy, grigio per la fantascienza e così via). Perché uno scrittore come te, estremamente versatile, ha preso la decisione di ‘adeguarsi’ a un genere ben preciso e, tutto sommato, ben codificato quale è appunto il fantasy? Un’eccessiva ripartizione in sottocategorie che, almeno nella ‘confezione’, sembrano sempre più basarsi sull’iperspecializzazione (penso ad esempio al cosiddetto paranormal romance), non rischia di ghettizzare maggiormente la letteratura di genere, in particolar modo agli occhi di quella critica che, ‘storicamente’, si è mostrata sospettosa o sprezzante nei confronti dei prodotti della cultura popolare in generale?

È vero che, per quanto riguarda l’organizzazione del catalogo di una grande casa editrice come Mondadori, si va verso il narrowcasting; dall’altro lato è vero anche che ogni libro, a prescindere dalla qualità, fa storia a sé, e tali sottocategorie servono a orientare il lettore occasionale, e non a fare critica letteraria. Terra ignota è stato definito da diversi recensori “fantasy classico”, “action fantasy”, “shōnen”, “fantasy postmoderno”: mi sembrano tutte definizioni corrette. È corretta la prima perché vi è una forte componente magica e paranormale, ed è un tipo di romanzo che affonda in modo radicale nella fiaba e nel mito, sia per quanto riguarda la struttura narrativa che i singoli elementi; sono corrette la seconda e la terza perché è un libro pieno di scontri, in cui l’estetica della lotta è componente importante, e che deve molto al manga d’azione sotto questo aspetto; è corretta la quarta perché Terra ignota è anche un pastiche, un gioco di riferimenti, citazioni e incroci tra canone alto e canone basso.

Per quanto riguarda la scelta di ‘giocare secondo le regole’, una volta realizzato che il fantastico era qualcosa con cui dovevo fare i conti come scrittore, dato che una parte importante della mia formazione adolescenziale – penso al D&D e alle mie prime letture, dove il Calvino dei Nostri antenati e delle Città invisibili aveva un ruolo di primo piano, ma anche alle grandi saghe videoludiche come Ultima, Might and Magic o Baldur’s Gate, al cinema fantastico degli anni Ottanta, a quei veri e propri feuilleton fantastici che erano cartoni animati come Ken il guerriero o I cavalieri dello zodiaco – aveva a che fare col fantasy. Dunque, si poteva fare in due modi: o scrivere un libro breve, metaletterario, una cosa come quello che è La breve favolosa vita di Oscar Wao di Diaz per la cultura nerd o Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Chabon per i fumetti, oppure giocare secondo le regole del genere. Mi sembrava più interessante la seconda strada, considerando anche che non volevo ibridare il fantastico con il mio percorso letterario ‘realistico’, ma aprire proprio un diverso e parallelo filone. Se avessi scelto la prima ci sarebbero state forse più attenzioni da parte di quella parte di ‘critica colta’ che ancora segue logiche pregiudiziali, ma Terra ignota sta comunque ricevendo un’attenzione critica e accademica che forse nessun fantasy italiano contemporaneo ha avuto, quindi va bene così. Detto questo, come giustamente dici tu, il fantasy è, tra i generi, uno di quello coi parametri più rigidi da rispettare (o anche da rompere, ma sempre nella consapevolezza della loro esistenza): cioè deriva dal suo essere il figlio modernista del mito e della fiaba, e tanto i miti quanto le fiabe affondano le loro radici nella coscienza collettiva e fanno largo uso dei suoi archetipi, sia a livello di immagini e figure che a livello di struttura narrativa. Ripartire da lì era interessante anche per affrontare la sfida del portare il fantasy alla postmodernità (invece che alla mera ‘derivatività’ da opere moderniste), e inoltre mi permetteva di sperimentare col pastiche in un ambiente che si potrebbe definire, rispetto alla literary fiction, ‘di sicurezza’, in quanto nato proprio dalla prima forma di esso.

santoni2Come mi hai appena detto il retroterra di Terra ignota (perdona il bisticcio) intreccia tra le varie giochi di ruolo, videogiochi, il Calvino più ‘fantastico’, cartoni animati… Qual è la tua personale concezione di fantastico o, meglio, visto che di teorie in materia – sia illustri che controverse (due nomi su tutti: Tzvetan Todorov e Roger Caillois) – ce ne sono a bizzeffe, quali sono quelle che più si avvicinano al tuo ‘sentire’, come lettore e come scrittore? Alle prese con l’immaginario fantastico, tendi a distinguere tra letteratura, cinema, fumetto ecc., tra generi e sottogeneri, oppure adotti piuttosto una visione d’insieme… ‘multicomprensiva’?

Il fantastico, e più specificamente il fantasy, è senz’altro, tra i generi, quello più transmediale: l’immaginario fantastico contemporaneo nel suo complesso è oggi fortemente influenzato, in alcuni casi anche più che dalla letteratura, dal cinema, dal gioco di ruolo, dal videogame, dal cartone animato, dal fumetto, addirittura dai giochi di carte collezionabili e dai wargame. Ciò è qualcosa di cui chi scrive un fantasy deve assolutamente avere coscienza, dato che porta con sé questioni squisitamente estetiche sulle quali bisogna fare delle scelte (esempio: descrivere gli scontri nel dettaglio, con dovizia di particolari sulle “mosse” usate, o stare più vaghi, come fa ad esempio Tolkien? Dotarsi di un sistema magico ‘coerente’, arrivare magari a codificarlo, o lasciare che la magia sia una forza occulta e inconoscibile? È chiaro che domande come queste sono diventate rilevanti a causa dell’influenza di determinati medium sulla percezione di alcuni degli elementi chiave del genere). Par quanto mi riguarda, penso al fantasy come a qualcosa che ha un piede nel mito e uno nella fiaba, quindi se vogliamo la concezione è assai tradizionale, anche se poi per quanto riguarda le modalità espressive sono un convinto fautore dell’ibridazione postmoderna; è per questo che in Terra ignota troverai sia un prologo che riprende la sintassi e le forme espressive del Gilgamesh che dialoghi che arrivano diretti da Dragon Ball, sia scontri descritti minuziosamente come in un videogioco o in un film di arti marziali di Hong Kong che racconti di viaggio ricalcati su certi passi del Milione.

Vorrei conoscere però la tua disposizione nei confronti del gotico, del fantastico più macabro e terrorizzante, che sconfina nell’horror o arriva a coincidere con esso. Roger Caillois, cui accennavo nella precedente domanda, si interroga sui rapporti tra fiaba, fantastico e fantascienza. Lasciamo da parte la SF (la questione ci porterebbe troppo lontano). Caillois afferma che la fiaba, un po’ come il fantasy, «si svolge in un mondo in cui l’incantesimo va da sé e la magia è la regola. Il soprannaturale non è spaventoso, e neppure sorprendente, perché costituisce la sostanza stessa di questo universo, la sua legge, il suo clima. Non viola nessuna forma: fa parte delle cose, è l’ordine – o piuttosto l’assenza di ordine – delle cose». Nel fantastico invece, sempre secondo Caillois, «il soprannaturale appare come una rottura della coerenza universale. Il prodigio diventa un’aggressione proibita, minacciosa, che infrange la stabilità di un mondo le cui leggi, fino ad allora, apparivano rigorose e immutabili. È l’Impossibile, che sopraggiunge all’improvviso in un mondo da cui l’impossibile è bandito per definizione». Non trovi dunque che il fantasy, legittimizzando ‘per convenzione’ il soprannaturale, possa smorzarne la carica paurosa e trasgressiva, ridimensionandolo anzi ad un elemento ordinario e rassicurante?

Quello della giusta misura nell’uso di elementi magici e soprannaturali è un problema cruciale per chiunque scriva fantastico, e fantasy in particolare: troppa magia porta a una sua banalizzazione. Quale avventuriero di Dungeons & Dragons non sbadiglia di fronte all’ennesimo «dardo incantato» o gruppo di orchi da fare a pezzi?

Ma il discorso in realtà è più ampio: si può benissimo pensare un mondo fantasy dove ci sono elementi che sarebbero soprannaturali nel nostro, ma lì sono completamente ‘normalizzati’; l’importante è che la loro normalizzazione sia coerente. Ad esempio, in un universo con molti maghi, probabilmente questi occuperebbero posizioni di potere, o si troverebbero perseguitati sistematicamente, ecc. L’importante è porsi i problemi: se esiste l’invisibilità, come si difendono i regnanti? Sono problemi tipici anche per un Dungeon Master che progetti una campagna. Chiaro poi che in mondi del genere, quando si vuole sorprendere il lettore, bisogna sparare più alto, mentre in un fantastico molto ‘low’, come è se vogliamo una parte importante dell’horror, anche una piccola scollatura rispetto alla realtà può avere un potenziale narrativo ed emozionale rilevante.

Il mondo di Terra ignota viene dal mito e dalle fiabe, e per questo gli elementi sovrannaturali, così come i ‘mostri’, sono relativamente rari, e quando ci sono hanno un ruolo narrativo importante. Anzi, in scene come la traversata di Brocéliande, nella quale il punto di vista è sostanzialmente quello di Val, un uomo comune di fronte a un contesto ‘tarato’ sugli eroi, si vira per l’appunto quasi sull’horror. Tuttavia, dato che la protagonista Ailis non è una persona comune – è lei stessa un ‘elemento sovrannaturale del mondo’ –, ella ha la possibilità di ‘passare’ anche dall’altro lato, come quando è ai Cinque Picchi da Lorlei e apprende la magia esattamente come si apprende una tecnica.

Per te dunque qual è il rapporto tra fantasy, fantastico e avventura? Il primo è una ‘branca’ del secondo? Sono due forme narrative ‘parenti’, ma comunque diverse e specifiche? E l’avventura: secondo te la cosiddetta letteratura d’avventura include il fantastico e/o il fantasy, come un versatile ‘contenitore’, oppure può solo incidentalmente sovrapporsi ad essi?

Come non amo molto i dibattiti ‘di genere’ versus ‘non di genere’, così trovo abbastanza sterile l’esercizio della suddivisione, tanto che, in linea generale, preferirei parlare solo di fantastico anche per il fantasy, sebbene sia innegabile che quest’ultimo, per via di una serie di ‘caratteristiche di canone’, sia facilmente descrivibile come una branca del primo. Diverso, credo, il discorso rispetto all’avventuroso, che rappresenta, se vogliamo, più una descrizione del tipo di vicenda narrata nel romanzo, dato che si adatta senza problemi a varie ambientazioni: se oggi molti hanno definito Terra ignota come un “action fantasy”, non c’è dubbio che, visto l’alto tasso di scontri, viaggi, rapimenti, agnizioni, rivelazioni, prove, un tempo lo si sarebbe senz’altro potuto definire come “romanzo d’avventure”: del resto, per quanto si tenda a sovrapporre l’avventuroso con i primi decenni del ventesimo secolo, anche l’Orlando furioso, che è tra i principali riferimenti di Terra ignota, è facilmente ascrivibile a tale categoria.

L’Orlando furioso costituisce uno dei principali modelli per Italo Calvino: non solo un esempio ante litteram di letteratura combinatoria, ma anche di fantastico intriso d’ironia. Una fonte d’ispirazione talmente forte che, non a caso, Calvino decise di ri-raccontare il poema attraverso la propria scrittura. Un esempio di tributo, ma anche di appropriazione. Calvino ha sempre teso a ‘liquidare’ il fantastico ottocentesco italiano come «un campo veramente “minore”» (cito dall’introduzione ai due volumi di Racconti fantastici dell’Ottocento, pubblicati in cofanetto nel 1983). E in una relazione del 1984, ormai celebre, Calvino ribadisce l’assunto e individua la vera nascita di un fantastico italiano nel Novecento, «quando la letteratura fantastica, perduta ogni nebulosità romantica, s’afferma come una lucida costruzione della mente, […] quando la letteratura italiana si riconosce soprattutto nell’eredità di Leopardi, cioè in una limpidezza di sguardo disincantata, amara, ironica». Come sai – ne abbiamo d’altronde discusso privatamente – io penso che questa posizione abbia formato un ‘canone’ a proposito del fantastico di casa nostra, un canone che è stato accolto dalla critica al pari di un ‘dogma’, e ha portato a un quasi totale disinteresse nei confronti del fantastico popolare italiano, che tra l’Otto e il Novecento è tutt’altro che esiguo e si presenta assai diverso: poco «intellettuale», poco ironico e molto «emozionale». Certo, è innegabile che ci sia una ‘linea’ di scrittori di grande qualità che hanno coltivato un fantastico che risponde alle caratteristiche identificate da Calvino: Bontempelli, Palazzeschi, Buzzati, Landolfi… e ovviamente, tra i vari, anche lo stesso Calvino. Ma la pulp fiction italiana di taglio fantastico, dove la mettiamo? Qualche studioso ha negato (o nega tuttora) l’esistenza di un artigianato letterario italiano tra il XIX e il XX secolo. È dura far accettare, più che riscoprire, questa vasta produzione dimenticata, che riserva non poche sorprese e annovera tra le sue firme non solo ignoti dilettanti. Se un’ottica di questo tipo resta dominante, non credi, mutatis mutandis, che sulla distanza finirà per ostracizzare persino opere apparse nel corso degli ultimi dieci/quindici anni, e con esse anche la serie Terra ignota?

Sono partito anch’io da lì, tant’è che la donna cavaliere con cui si apre, nel prologo, Terra ignota, si chiama Bradmá, ulteriore variazione sul nome e sul tema di quella Bradamante ariostesca, progenitrice di molte delle donne guerriere della letteratura (e non solo), e per la quale già Calvino aveva fatto propria la variante Bradamà. E tanto la comparsa di Bradmá attraverso le fronde, quanto quella, notturna, di Åydric Reinhare e dei suoi, sono senz’altro un tributo all’estetica ariostesca. Detto questo, credo che al fantastico popolare italiano sia mancato un Lovecraft, qualcuno che, in soldoni, faceva artigianato credendosi artigiano, e invece era un gigante della letteratura. Avessimo avuto una figura di quella stazza, allora anche gli altri onesti artigiani avrebbero probabilmente goduto di maggiore considerazione.

In Terra ignota troviamo i cavalieri del Cerchio d’Acciaio impegnati, tra le altre cose, nella distruzione di cinquantaquattro magiche città i cui nomi, Diomira, Despina, Dorotea, parlano forte e chiaro a qualunque lettore di Calvino (il numero, invece, viene dall’Utopia di Thomas More, che era divisa in cinquantaquattro città – le Invisibili di Calvino sono invece cinquantacinque); il senso di questo omaggio sta anche nel suggerire che la strada di Calvino rischiava di essere un vicolo cieco: una volta che, giocando nel campo del fantastico speculativo, colto e intellettuale, si giunge a un risultato sostanzialmente perfetto come è Le città invisibili, per ripartire bisogna distruggere, pur nell’ammirazione infinita che è naturale avere per un libro come quello. Detto questo, per quanto mi riguarda, avendo chiara volontà di ibridare fonti ‘alte’ e ‘basse’, ho trovato altre e ben più potenti – specie nel parlare alla nostra generazione – mitologie pop in quegli anime e manga con cui eravamo cresciuti: se dal lato ‘alto’ mi è venuto naturale volgermi ad Ariosto, a Calvino, a Virgilio, a Eliot, da quello ‘basso’ ho guardato, più che alla “Domenica del Corriere” e alle sue storie di mostri e avventure, a Ken il guerriero, Battle Angel Alita, I cavalieri dello zodiaco, Berserk (che di fatto, poi, è già un pastiche, metafumettistico, di suo), al primo Dragon Ball: quello è il ‘pulp’, prima televisivo, poi cartaceo, con cui sono cresciuto e che sento più mio, anche per le affinità che ha nei toni con l’epica classica, che è tra le poche cose, assieme alla poesia inglese, che a scuola attirasse la mia attenzione.

Venendo infine alla sopravvivenza eventuale di Terra ignota, pur essendo felice nel vedere che gli sono stati riconosciuti da più parti tratti di innovazione e qualità formale rispetto alla media del fantastico italiano contemporaneo, credo che sarebbe sciocco e arrogante farsi simili illusioni; per ora mi accontento del fatto che venga letto e apprezzato dai lettori di oggi, e che il dibattito su di esso abbia trovato spazio anche in ‘luoghi’ come “Tuttolibri” o “Nuovi Argomenti”, dove difficilmente si parla di narrativa fantastica programmaticamente popolare.

Concordo sul fatto che al fantastico italiano sia mancato un Lovecraft. Nondimeno continuo a pensare che sia profondamente errato, da parte della critica, persistere nell’ignorare una così vasta – e all’epoca diffusa – produzione. Rilevare l’assenza di un Lovecraft nostrano non implica infatti negare la realtà di un terreno che per fini, temi e persino apparato iconografico è assai prossimo all’universo del pulp e del dime novel. Uscendo però dal fantastico, ma restando nella letteratura popolare, non credi che l’Italia abbia avuto uno dei più grandi scrittori (per inventiva, per fortuna ecc.) a livello mondiale? Il riferimento è scontato e va chiaramente a Emilio Salgari. Sul romanziere veronese pesano ancora pregiudizi, spocchia, disinformazione da una parte e, dall’altra, patetismi vari e addirittura approcci para-agiografici… E tutto questo si protrae nonostante le numerose iniziative scaturite in occasione del biennio 2011-2012, anniversario doppio per il centenario della morte e il centocinquantesimo della nascita. Voci assai diverse (Giovanni Spadolini, Claudio Magris, Ernesto Ferrero, Valerio Evangelisti, Michele Mari, Paco Ignacio Taibo II…) gli hanno tributato omaggio, ma il corpus dell’‘irregolare’ Salgari seguita ad essere estromesso dalla storia ufficiale della narrativa italiana. Qualcuno, timidamente, ne accenna qua e là: un rapido richiamo, una nota furtiva… ma al di là degli aficionados, talvolta insospettabili, su più larga ‘scala’ il clima fondamentalmente non cambia. Pensando alla tua versatilità, al tuo abbracciare fonti e campi diversi (anche solo all’interno della cultura popolare), non possiamo dunque aspettarci una tua rivisitazione dell’immaginario salgariano? «Capitan» Salgari, d’altronde, era il primo a farsi pochi scrupoli, all’interno della dimensione avventurosa, nell’ibridare generi, fonti, influenze d’ogni tipo e provenienza. Giusto per fare un esempio: l’incidenza sulla sua opera del gotico, del fantastico e dell’orrore è fortissima, benché rimanga piuttosto trascurata finanche dagli studiosi dell’autore…

Salgari è una parte importante delle mie letture d’infanzia. Lo scoprii grazie al Salgari a fumetti di Franco Chiletto, Guido Moroni Celsi (testo e disegni), Guido Mellini & Rino Albertarelli (l’immenso), poi da lì mi lessi a ruota tutto Sandokan. Anzi, mi sa che Sandokan lo lessi tutto e poi lo rilessi da cima a fondo. La caduta di Mompracem resta un fatto traumatico. Credo senz’altro che il destino di Salgari sarà la piena riabilitazione, e già se ne vedono i segni: recentemente mi sono trovato a presentare il bel libro Non fate troppi pettegolezzi di Demetrio Paolin, dedicato ad alcuni scrittori torinesi morti suicidi, nel quale Emilio Salgari (assieme a un altro scrittore ‘di genere’, ancorché più gradito alla critica, come Franco Lucentini) era posto a fianco, e senza ‘seconde file’ o premesse di sorta, di due giganti indiscussi come Primo Levi e Cesare Pavese. Circa la rivisitazione da parte mia di quegli immaginari e di quegli scenari, chissà, forse un giorno…

(una parte di questa intervista è stata pubblicata su Ilcorsaronero)

[Vanni Santoni è nato a Montevarchi nel 1978. Dopo l’esordio con Personaggi precari (RGB 2007, poi Voland 2013) ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza, 2011) e, da coordinatore, In territorio nemico (minimum fax, 2013). Come Vanni Santoni HG ha pubblicato per Mondadori Terra ignota: Risveglio (2013) e Terra ignota: Le figlie del rito, fuori in questi giorni. Fabrizio Foni, studioso di fantastico popolare e cofondatore de Il corsaro Nero, è lecturer presso il Dipartimento d’italiano dell’università di Malta]

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