di Carlo Trombino

GoréeLa mattina dell’otto Luglio 2003 gli abitanti dell’isola senegalese di Gorée vennero terrorizzati dall’irruzione nelle loro case di decine di soldati accompagnati da cani anti-esplosivo. Dopo esser stati evacuati, gli abitanti vennero stipati dentro il campo di calcio dell’isola. Lo stadio venne chiuso e nessuno potè uscire prima di otto ore.

Le reazioni raccolte sull’isola dall’antropologo Michael Ralph possono essere sintetizzate da questa frase in wolof:

“Da fa mèlni Diaam mo gna watt”, “Sembrava di essere tornati indietro ai tempi della schiavitù.”

Come si spiega un tale spiegamento di forze? Quel giorno era in programma la visita del Presidente americano Bush, in Africa per motivi diplomatici e per fornire finanziamenti in cambio dell’appoggio nella War on Terrorism. Il concentramento della popolazione faceva parte delle misure di sicurezza predisposte dai servizi americani per l’occasione. Ma un’azione del genere ha avuto un significato simbolico enorme.

L’isola di Gorée è infatti uno dei simboli globali della tratta degli schiavi verso le Americhe che richiama migliaia di visitatori l’anno. Una specie di Yad Vashem della schiavitù. Sull’isola c’è un museo della schiavitù, ricavato all’interno di quella che si credeva essere una prigione per gli schiavi in attesa di essere venduti e deportati nel Nuovo Mondo.

Recenti indagini storiografiche, però, hanno dimostrato che la quasi totalità degli schiavi non veniva rinchiusa in strutture simili a quella di Gorée (probabilmente utilizzata solo come prigione) ma in campi di concentramento all’aperto, del tutto simili alla situazione ricreatasi nel campo di calcio di Gorée l’otto luglio 2003.

Ma ci sono anche altri aspetti simbolici di questa visita, fatti notare da Michael Ralph nel suo saggio “Crimes of History”: Senegalese Soccer and the Forensics of Slavery, contenuto nel volume collettivo Transnational Blackness curato da Manning Marable e Vanessa Agard-Jones.

Innanzitutto, il valore metaforico del campo da calcio trasformato in campo di concentramento.

L’anno prima, ai mondiali di calcio del 2002, le due nazionali più sorprendenti erano state proprio Senegal e Stati Uniti.

L’epocale vittoria del Senegal contro i campioni del mondo in carica della Francia fu il simbolo del riscatto di un intero popolo contro la nazione che aveva colonizzato il Senegal. Il presidente Abdoulaye Wade fu abilissimo a sfruttare le vittorie sportive per cementare il proprio consenso, lanciando la parola d’ordine/slogan “Gagner”. Il segreto del successo senegalese secondo Wade stava in personaggi come i calciatori El Hadj Diouf o Khalilou Fadiga, o come il rapper Akon, o come le migliaia di uomini e donne senegalesi emigrati in tutto il mondo. Bisogna inseguire il capitale fuori dal proprio paese (le rimesse sono una delle principali entrate del Senegal) e lavorare sodo.

“Il n’y a pas de secret: il faut travailler, encore travailler, beaucoup travailler, toujours travailler.”

Questo era il mantra di Wade, immortalato in numerose canzoni mbalax senegalesi.

Nel suo discorso Bush, oltre a ringraziare Wade per il suo impegno nella creazione di un asse africano filo-americano nella lotta al terrorismo, usò una serie di stratagemmi retorici che conferirono al discorso un’aura epica, ma non priva di stridenti contraddizioni.

“One of the largest migrations of history was also one of the greatest crimes of history.” George W. Bush.

Bush mise al centro della sua critica allo schiavismo la fase della tratta fra Africa e America, e non quella dello sfruttamento degli schiavi sul suolo americano, una scelta non certo casuale. D’altronde, il fatto di trovarsi in un luogo-simbolo come Gorée rafforzava questo framing.

Poi, sempre seguendo il discoroso di Bush, una volta arrivati in Africa gli schiavi riuscirono solo attraverso Dio e la dottrina cristiana a trovare le armi per spezzare le catene. Un’affermazione, questa, che ha effettivamente delle solide basi storiche ma che tende a dimenticare il ruolo portante del Cristianesimo anche nel sistema di sfruttamento schiavistico-capitalista bianco degli Stati Uniti.

Infine, il richiamo di Bush agli eroi della decolonizzazione africana e della battaglia per i diritti civili: ecco quindi il parallelo fra l’eroica sopportazione della schiavitù a Gorèe e il carcere subìto da Martin Luther King e Mandela; oppure il plauso agli eroi della decolonizzazione come Nkrumah, Sadat, Selassié etc.

Una operazione di riscrittura della storia che espunge le responabilità del capitalismo americano, arrivando a riconoscere gli errori del passato ma, importantissimo, senza chiedere scusa.

Chiedere scusa significherebbe accettare la verità di aver commesso crimini contro l’umanità. E, come nel caso della Germania nei confronti di Israele e della Grecia, o dell’Italia verso la Libia, un’ammissione del genere comporterebbe anche un esborso economico come “riparazioni di guerra”, come accadde per Italia e Germania con Libia e Israele. Qualcosa che gl iStati Uniti non permetterebbero mai.

Bush (e prima di lui Clinton, sempre a Gorée) sono riusciti a esaltare il coraggio degli antischiavisti senza ammettere le responabilità storiche americane, evitando così polemiche su eventuali riparazioni.

Wade ha sfruttato il calcio e la War on Terror per costruire consenso personale, un consenso basato sui valori neoliberisti del profitto e del successo economico a tutti i costi.

Gli abitanti di Gorée, dal canto loro, hanno assistito a tutto ciò chiusi in un campo di concentramento, con l’eroica sopportazione che Bush attribuiva ai loro antenati.