di Girolamo De Michele

Just fucking boys

bambini_gaza16 luglio 2014. Prende la mira con calma, dalla nave. Il primo shrapnel ha centrato i bambini che giocavano a pallone sulla spiaggetta, dilaniandone uno. Gli altri scappano verso il capanno. Aspetta che lo abbiano raggiunto. Si sente calmo, freddo: come uno jihadista col coltello in pugno che aspetta la fine del messaggio registrato per sgozzare l’ostaggio. Eccoli tutti lì: in trappola. Il secondo shrapnel centra il bersaglio: sia lode a Yahweh, il dio degli eserciti.
Ahed Atef Bakr, Zakaria Ahed Bakr (10 anni), Mohamed Ramez Bakr (9 anni) e Ismail Mohamed Bakr (11 anni) [nella foto in alto: la fuga dei bambini tra il primo e il secondo colpo di mortaio] sono morti in una luminosa giornata di sole sotto il fuoco di una fregata militare israeliana [fonte: Corriere della sera].  Dall’albergo prospiciente accorrono i primi soccorritori: sono tutti giornalisti stranieri. Uno di loro vomita davanti ai resti carbonizzati di quello che era un bambino di 10 anni: il fumo del suo olocausto sale fino alle narici di un qualche dio osceno. «They’re just fucking boys», sibila tra i denti un giornalista americano. «Si: sono solo bambini», gli risponde quello italiano [fonte: l’Espresso].
Non c’erano “target militari”, su quella spiaggia. I quattro bambini sono stati macellati davanti all’hotel dei corrispondenti stranieri: chi ha orecchie per intendere, intenderà.

Uno che non voleva intendere è Ayman Mohyeldin, che stava giocando a pallone con quei ragazzini pochi minuti prima della mattanza.

Ayman
«Today was a personal low point – giving first aid with colleagues to two children wounded by shrapnel on Gaza beach on terrace of our hotel», tweetta [fonte: NBC]. Mohyeldin è un veterano del giornalismo di guerra: è stato in Egitto durante la rivoluzione del 2011 (e arrestato per due volte dai gendarmi di Mubarak), e di nuovo nel 2013, durante la deposizione di Morsi; è stato in Ukraina durante la guerra civile. Ha lavorato per Al Jazeera e la CNN, oggi lavora per la NBC, sa qual è il proprio mestiere, e lo fa bene. I suoi reportage non piacciono a Israele, e mettono in discussione le versione ufficiali dell’uso di “scudi umani” e dei “target militari”: dai siti filo-sionisti e Neocon è accusato di essere un farneticante “Hamas spokesman”, due giorni dopo viene rimosso dall’incarico (e gli viene impedito di partecipare al programma Nightly News).

Un’altra che non aveva orecchie per intendere è Diana Magnay, corrispondente della CNN: documenta l’esultanza di alcuni israeliani per le bombe lanciate su Gaza, e denuncia di essere stata minacciata: «una parola sbagliata, e distruggeremo la tua auto».

Diana Magnay
Viene immediatamente richiamata a casa.
I precedenti lasciano pochi dubbi: l’esercito israeliano (IDF) fa opera di “targeting” nei confronti dei giornalisti. Nel novembre 2012 l’esercito israeliano ha bombardato il Gaza Media Center (8 giornalisti feriti), l’edificio della Agence France-Presse, la sede in Gaza di Al Jazeera e l’hotel che ospitava i giornalisti stranieri.
«Israel does not target journalists», aveva dichiarato il portavoce del primo ministro Mark Regev: «We don’t target journalists, we target Hamas».
La versione dell’IDF è stata smentita dagli stessi giornalisti. Con macabro senso dell’humor, la corrispondente del Washington Post ha tweettato al portavoce dell’IDF: «Se Hamas è nella camera 208, avvertitemi: io sono nella 209».

Targeting the media, shooting the messenger

9 luglio 2014: Un’auto dell’agenzia di stampa Media 24, con un evidente contrassegno TV in rosso sul cofano, è centrata da un proiettile sparato dell’esercito israeliano. Hamdhi Shihab muore sul colpo, altri tre giornalisti restano feriti [fonte: The Huffington Post]. Mideast Israel Palestinians 20 luglio 2014. Il cameramen 26enne della Continue TV Production Khaled Hamad sta riprendendo l’attacco dell’IDF al quartiere Sajaya, Gaza est (67 vittime civili). È su un’ambulanza, e indossa un giubbotto con la scritta “PRESS”: viene colpito e lasciato per quattro ore senza soccorso, muore dissanguato [fonte: The Guardian]. Khalid Hamad Poche ore prima, l’ufficio stampa del governo israeliano ha inviato a tutti i giornalisti stranieri accreditati una mail che si conclude in modo inequivocabile: “Israele non è in nessun modo responsabile per ferite o danni che potrebbero accadere come risultato di giornalismo sul campo”. Il giorno prima (19 luglio) l’aviazione aveva bombardato la torre al-Jawara, nella quale si trovano diverse redazioni giornalistiche, tra cui quella della iraniana Press Tv e dell’agenzia di stampa al-Watanya. Lo stesso 20 luglio il giornalista Kareem Tartouhi è ferito in una diversa operazione, mentre la casa del giornalista della stazione radio Al-Ashab Mahmoud al-louh è bombardata dall’artiglieria israeliana.

30 luglio 2014. L’aviazione israeliana bombarda il mercato di Shojayah, in pieno pomeriggio,  durante la “finestra umanitaria” di sospensione dei bombardamenti. Sameh Al-Aryan, 26enne, di Al-Aqsa TV Channel, e Rami Rayan, 25enne, del Palestinian Media Network, si recano sul posto per documentare l’accaduto. L’aviazione israeliana ritorna una seconda volta, colpendo il mercato mentre sono in corso le operazioni di soccorso. 17 civili inermi restano uccisi, 160 feriti: tra loro, i due giornalisti. Un terzo, Mohamed Nour Eddine Al-Dairi, 26enne, fotografo del Palestinian Network for Journalism and Media, morirà per le ferite riportate tre giorni dopo. Un quarto giornalista, Hamed Shobaky del Manara Media Production Company, è gravemente ferito [fonte: International Federation of Journalists (IFJ) Reporters sans Frontières]. L’orrore per la strage al mercato è sopravanzato da quello per il bombardamento della scuola-rifugio gestita dall’ONU che uccide 23 tra donne e bambini.

1 agosto 2014. Abdullah Nasr Fahjan, giornalista della televisione Al-Aqsa TV, sta fotografando l’esodo notturno dalle proprie case degli abitanti del sobborgo di Al-Jineene, a Rafah in seguito all’intimazione dell’esercito israeliano. Poco dopo mezzanotte un drone lo punta e lo colpisce alla testa. Abdullah muore tre ore dopo in ospedale [fonte: Humanize Palestine]. Abdullah Nasr Fahjan 2 agosto 2014. Il giornalista freelance Chadi Hamdi Ayad, 24enne, muore nella sua casa bombardata, ad Al-Zaytoun, nel sud-est di Gaza. Anche suo padre resta ucciso dalle bombe dell’IDF. Lo stesso giorno Moussa Al-Qawasme, 31enne, fotografo dell’agenzia di stampa Reuters, mentre sta riprendendo gli scontri tra manifestanti ed esercito israeliano nel quartiere di Bab Al-Zawiya di Hebron (Cisgordania), viene ferito dai soldati israeliani, nonostante porti un casco con la scritta “PRESS”. Sempre in Cisgiordania, il giorno dopo viene ferito il giornalista Abd Marish [fonte: l’Humanité].

3 agosto. Due auto di giornalisti palestinesi che lavorano per l’agenzia di stampa cinese Xinhua News Agency, con ben visibili sul cofano il contrassegno TV, sono puntate e colpite dall’IDF davanti alla Mushtaha Tower, in Gaza City.

7 agosto 2014. Hamada Khaled Makat, direttore della Saja News Agency, viene puntato e ucciso mentre sta riprendendo davanti alla propria casa i bombardamenti dell’aviazione israeliana a Gaza [fonte: International Middle East Media Center].

13 agosto 2014. Una squadra di artificieri palestinesi cerca di disinnescare una bomba inesplosa a Beit Lahiya, nel nord di Gaza. La bomba ha però un innesco sconosciuto ai pur esperti artificieri (come testimonia il sopravvissuto  Najy Abu Murad): la sua esplosione li uccide. Assieme a loro sono colpiti e uccisi il giornalista italiano Simone Camilli, che  documentava col proprio lavoro le condizioni di vita a Gaza, e il fotografo e interprete Ali Abu Shehda Afash, ambedue dell’Associated Press. Gravissime ferite riporta un terzo giornalista della stessa agenzia, Hatem Moussa.

Inoltre la giornalista Bouchra Al-Tawil e il cameraman della rete Al-Aqsa TV Ahmed Al-Khatib, arrestati all’inizio di luglio in Cisgiordania, sono tutt’ora detenuti, mentre al corrispondente della Quds Press International News Agency Mohamed Mouna è stata prorogata per la terza volta consecutiva la detenzione amministrativa: di fatto, il giornalista è agli arresti senza alcuna decisione di un tribunale dal 7 agosto 2013, ed è in sciopero della fame [fonte: l’Humanité].

Reporters without Borders ha documentato che la Palestina è, nel 2014, il luogo in cui il rischio di essere uccisi è, per un operatore dell’informazione, al massimo grado: quasi il 20% di tutti gli operatori dell’informazione uccisi nell’esercizio della professione nel mondo mondo sono stati uccisi in Palestina tra in meno di due mesi.
Nel frattempo Israele impedisce con pretesti burocratici l’ingresso nella striscia di Gaza agli operatori di Human Right Watch e Amnesty International.

Democrazia, verità e altre bazzecole di poco conto

L’esercito israeliano ha chiarito la propria idea di controllo democratico e volontà popolare con questo messaggio affidato a un suo alto ufficiale: «La nostra responsabilità è di condurre l’offensiva fino a dove è necessario che giunga, non dove vuole l’opinione pubblica. Questo non è un reality televisivo e gli indici di ascolto non sono un fattore» [fonte: Il sole24ore]. Uno Stato in cui la volontà popolare è derubricata a “indici di ascolto” e l’opinione pubblica paragonata agli spettatori di un reality è ancora una (sedicente) democrazia?
L’esercito israeliano ha giustificato i propri atti criminali (bombardamento di scuole, ospedali, popolazioni civili inermi) durante l’invasione del Libano del 2006 con il preteso uso di “scudi umani” da parte di Hezbollah. Questa giustificazione è stata smentita da Human Right Watch nel rapporto Why They Died [ qui la traduzione in italiano della presentazione].
L’esercito israeliano ha giustificato i propri atti criminali contro l’esercizio della libertà di stampa durante l’attacco a Gaza del 2012 con il preteso uso di “scudi umani” da parte di Hamas. Questa giustificazione è stata smentita dai giornalisti stranieri vittime (=target) degli attacchi.
Nessun provvedimento è stato preso nei confronti dei militari israeliani responsabili di quelli che, secondo la Convenzione di Ginevra, sono classificabili come crimini di guerra. «Non punire soldati responsabili di gravi abusi manda a quelli che stanno combattendo a Gaza il terribile messaggio che ogni futuro abuso sarà ignorato», ha dichiarato nel 2009 Joe Stork, responsabile del settore Medio-Oriente e Nord Africa di Human Rights Watch.

L’esercito israeliano sta giustificato i propri atti criminali (bombardamento di scuole, ospedali, rifugi dell’ONU, popolazioni civili inermi) con il preteso uso di “scudi umani” da parte di Hamas. Le organizzazioni internazionali che dovrebbero verificare queste giustificazioni sono tenute fuori da Gaza; ai giornalisti che potrebbero confermare o smentire è impedito l’esercizio della professione con le intimidazioni, se stranieri, o il deliberato assassinio, se palestinesi. La richiesta di un «sistema investigativo indipendente, esterno e imparziale» sulle violazioni delle norme umanitarie del diritto internazionale e del pronunciamento della stessa Alta Corte di Giustizia dello Stato d’Israele del 14.12.2006 ( HCJ 769/02: Public Committee Against Torture in Israel v. Government of Israel) da parte dell’IDF è stata avanzata sin dal 21 luglio da ben  10 organizzazioni umanitarie israeliane (B’Tselem, Gisha, The Association for Civil Rights in Israel, The Public Committee against Torture in Israel, Hamoked: Center for the Defence of the Individual, Yesh Din, Adalah, Machsom Watch, Rabbis for Human Rights, Physicians for Human Rights – Israel).
In assenza di giudici imparziali, perché si dovrebbe prestare fede all’unica versione esistente, se l’autore è l’IDF, che ha già ripetutamente mentito all’opinione pubblica internazionale?

L’opinione pubblica mondiale inorridisce davanti al macabro video del reporter James Foley sgozzato da un militante dell’IS. Perché non inorridisce davanti al massacro indiscriminato dei giornalisti palestinesi? Forse sono meno umani, meno uguali di quelli occidentali? Sono forse delle non-persone?
Fa differenza, se la testa di un giornalista viene decapitata da una lama jihadista, o spappolata da una granata sparata da un aereo con la Stella di David? Fa differenza, se un giornalista è sequestrato da un’organizzazione di fanatici fondamentalisti, o inquadrato da un democratico drone israeliano? C’è più o meno libertà di stampa, se i giornalisti vengono ammazzati dai fautori di un barbarico califfato fondamentalista, o da un criminale cacciabombardiere sionista?

Sul quotidiano israeliano Haaretz, Gideon Levy (un giornalista che ha ricevuto minacce di morte, cosa da non sottovalutare in uno Stato nel quale fu assassinato da un colono estremista il capo del governo Yitzhak Rabin) si chiede «Cosa succederebbe, se Israele fosse al posto di Hamas»: se Hamas uccidesse Sara e Yair, la moglie e il figlio di Netanyahu, o la moglie e il figlio del comandante dell’IDF, ci sarebbe differenza rispetto all’assassinio di Vidal e Alì, moglie e figlio (di 8 mesi) di Mohammed Deif, il comandante militare di Hamas? No, risponde Levy: nell’uno e nell’altro caso, la risposta sarebbe «vendetta e legge del taglione. […] Niente pace: solo ancor più sangue e vendetta».
Scriveva Agostino d’Ippona [De Civitate Dei, IV, 4] che remota iustitia – col venir meno la giustizia – viene a cadere la differenza tra lo Stato e un’accolita di perversi, se non per le dimensioni: sicché una banda di uomini malvagi che abbia la forza di presidiare territori, occupare città e sottomettere popoli può definirsi Stato, e il capo della banda farsi chiamare Sovrano, in nome della sola forza dispiegata; mentre un pirata è definito tale solo perché agisce con un piccolo naviglio. Remota iustitia, l’esercizio della vendetta e della legge del taglione si chiama per gli uni diritto, per l’altro crimine.

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