Wu_Ming_Armata_dei_sonnambulidi Girolamo De Michele1

Wu Ming, L’armata dei sonnambuli, Einaudi Stile Libero, Torino 2014, pp. 803, € 21.

«Non un fiato mentre la mano di Sanson smolla la fune e… Tump. Un bel suono secco, da far rinculare la testa nelle spalle, come si fosse tartarughi. È stato un attimo, poi un boato e un zullo di cappelli in aria, e soquanti l’han perso nella calca, ma chissene, quello era il giorno! Un miliziano della guardia nazionale ha tirato su la zucca di Luigi e ce l’ha fatta vedere che spioveva…» [p. 20]: così, nell’argot di una delle voci di questo romanzo, esce dalla scena sulla quale era appena stato introdotto Luigi Capeto, già noto come Luigi XVI. E noi lettori siamo gettati in medias res, in quel frangente della Rivoluzione francese cui già Hugo aveva dedicato Novantatré (e forse alluso Dumas in Vent’anni dopo). Seguiremo la rivoluzione, che ha già conosciuto la Costituente, farsi più rapida lungo il pendìo irreversibile della Convenzione e del Termidoro: «ogni spinta doveva portare il mondo piú lontano dal vecchio ordine, ogni paradosso andava reso piú stridente, ogni contrasto doveva acuirsi» [p. 210], recita il copione di Laplace, la “Primula Nera” controrivoluzionaria per il quale la rivoluzione è una Grande Parodia, e il delirio degli internati nell’ospedale di Bicêtre ne è la più veritiera espressione.

Ma se è vero che nel reclusorio gli alienati inscenano la rivoluzione che ha luogo al di là di quelle mura, è altrettanto vero che un’altra rivoluzione stava davvero cercando di nascere tra Bicêtre e la Salpêtrière, tra Pinel e Pussin: il “trattamento morale” dei pazienti psichiatrici. «Fino a pochissimi anni prima, gli alienati di Bicêtre, in catene, arrancavano incrostati di sporcizia nella penombra umida tra i muri, senza mai ricevere sulla pelle i baci e gli schiaffi del vento. Nel loro mondo, i raggi del sole erano pochi e irresoluti spifferi di barlume, grevi di polvere e insetti, inadatti a tagliare l’aria delle celle. Le cose stavano cambiando. Jean-Baptiste Pussin stava facendo la sua rivoluzione nella rivoluzione. Applicava idee inusitate, a loro modo coraggiose: trattare gli insensati come esseri umani, mirare a una loro «guarigione». Come se si potesse alterare la volontà di Dio onnipotente a forza di teorie. Aveva tolto i ferri da polsi e caviglie, e si era messo a parlare agli alienati» [p. 94]. L’utopia medica dell’illuminismo sociale, incarnata dai personaggi di D’Amblanc e Chastenet: «La Repubblica è nulla senza uguaglianza, e l’uguaglianza è nulla senza un rimedio universale contro la malattia. Una terapia capace di guarire tutti allo stesso modo, senza distinguere il nobile dal poveraccio» [p. 473]. Una rivoluzione senza ghigliottina. Sarebbe facile sovrapporre la medicina illuministica al progresso, e l’oscurantismo del passato alla reazione – se l’umanizzazione della malattia mentale non comportasse il passaggio da una «coercizione fisica a una piú nascosta, ma non meno invasiva, coercizione mentale» [p. 777]2. Ed ecco che, in un registro narrativo che allude (mantenendo la giusta distanza) all’horror, il potere medico si fa controllo mentale, sino all’ipnosi collettiva vòlta a creare un’armata di sonnambuli – «gecchi strani che li picchiavi e non andavano giú» [p. 788] – usata per restaurare quel potere che la Rivoluzione aveva abbattuto: allegoria potentissima delle tecniche di controllo sociale a noi presenti.
Armata_dei_sonnambuli_nozièreDalla rivoluzione nei manicomi a quella nelle strade: cos’altro aveva fatto, la rivoluzione, se non cominciare a costruire la liberazione degli uomini dalla misera e dalla disuguaglianza, e dar loro parola? E dare diritto di parola anche alle donne? E di donne che si riprendono la parola ne incontriamo molte, ciascuna a rappresentare una sfaccettatura dell’altra metà del cielo3: sfaccettature che dovrebbero far esplodere l’indistinto agglomerato del “popolo di Parigi” – quel viavai «che era specchio dell’intera città: ricchi e poveracci, rivoluzionari veri e farlocchi, zotici e uomini di spirito» [p. 242] – nella concretezza dei comportamenti; e che invece finiranno uniformate nelle grandi divisioni manichee – brissottiane contro repubblicane –, mentre il Termidoro è già in marcia. Unificare, omologare, disciplinare il molteplice è sempre il gesto del (di un) potere: spacchettare l’Uno nelle sue mille voci è sempre un gesto di rivolta contro quel potere4.
Spicca, tra queste figure femminili, la sarta Marie Nozière – forse la più complessa figura femminile messa in scena dai Wu Ming da Q. ad oggi. Nella semplice eventualità che sia un’ava di  Violette Nozière, Marie apre all’immaginario del lettore altri squarci, nei quali baluginano i lampi di Breton, di  Chabrol, degli Area ( So che se fossi pazzo e dopo internato / approfitterei di un momento di lucidità…).
Personaggio di grande complessità, attraversato dalla contraddizione tra desiderio di giustizia sociale e riscatto dalla condizione di origine; ma anche, tormentata dalla memoria delle violenze subite, e dal senso di colpa per una sorta di “violenza rivoluzionaria” inflitta a una girondina. Al di sotto dell’espressione dei comportamenti, della “superficie” delle cose, si apre una profondità d’animo nella quale si agitano rimorsi e memorie inconsci: come accade a molti personaggi femminili di Stephen King5, che nascondono nel proprio inconscio le tracce di passate violenze, nodi irrisolti che non riescono a sciogliere.

Si può parlare di qualche avvicinamento ai territori della psiche e della sua analisi? Due altre figure sembrano far segno in questa direzione: i due ragazzi Bastien, il figlio di Marie (una sorta di Gavroche, per rimarcare ancora la prossimità con Hugo), e Luigi Carlo Capeto, il figlio del sovrano deposto. Ambedue orfani di un padre-padrone, mancanti di un genitore violento: il primo reagisce nelle forme della ribellione, il secondo si lascia cadere in una sindrome depressiva, chiuso nel mutismo e tormentato da un incubo ricorrente. Le vicende dei due ragazzi sembrano alludere a quella più generale eclissi della figura del padre possessivo con la quale un certo pensiero psicoanalitico (di stampo lacaniano) si confronta oggi nel tentativo di fornire strumenti di lettura per le patologie sociali contemporanee – tra cui quella forma di ipnosi collettiva che è l’ipnosi dell’oggetto correlata al totalitarismo dell’oggetto di godimento6: con una nuova freccia nella propria faretra, i Wu Ming confermano l’intento di parlare sempre al presente attraverso romanzi storici, «scavando nella melma di un passato al quale non ci si può più permettere di fare sconti» per far emergere la speranza «su qualunque sconfitta», come scriveva De Pascale nella sua (un po’ entusiastica) monografia sui Wu Ming7.

Armata_dei_sonnambuli-GoldoniDel resto, non aveva forse lo stesso Freud definito l’inconscio ein anderer Schauplatz, “un’altra scena”? E infatti la scena è una delle chiavi di lettura di questo romanzo strutturato come un copione teatrale, al cui interno è narrata la gran scena del mondo sulla quale si agita il «teatro vivente della rivoluzione» nel quale le maschere non hanno soltanto una funzione scenica, ma diventano armi; e dentro la scena della Grande Parodia, la piccola parodia della rivoluzione recitata tra gli alienati; e all’interno dei rivoluzionari, l’altra scena dell’inconscio… Così stando le cose, non stupisce che uno dei protagonisti di questa sarabanda sia proprio un attore cresciuto nel mito di Goldoni, il bolognese Leonida Modonesi-Léo Modonnet8 – i cui tratti rimandano (ma non sveleremo come) al Gert di Q., ma anche all’impiegato di De André: che travisato da Scaramouche viene a restituire al potere un po’ del suo terrore. Questo vendicatore un po’ maldestro – un antidoto alla caduta nel  mito tecnicizzato e fascistoide dell’eroe, dal quale è sempre bene tenersi lontani – sembra contenere una delle possibili morali non solo di questa Armata, ma di un’intera carriera letteraria svolta sotto l’impegno di “pensare la Rivoluzione” in tutte le sue declinazioni e le sue derive: forse, sembrano suggerire i vari Léo, Marie, Bastien, D’Amblanc, Treignac, se la morale ha un senso, il vero rivoluzionario (come  Stefano Tassinari, cui è dedicato in memoriam il romanzo) è chi riesce a non essere indegno di ciò che gli accade.


  1. Questa recensione è stata pubblicata (in formato più ridotto) sull’Indice dei libri del mese, n. 4, aprile 2014, p. 19, col titolo “Grande e piccola parodia”. 

  2. Esplicito il riferimento alle ricerche di Michel Foucault, e in particolare alla Storia della follia, il cui discorso «ha forti risonanze» con questo romanzo, come anticipavano i Wu Ming nel settembre 2011  segnalandone la nuova edizione italiana a cura di Mario Galzigna. 

  3. Perché, per l’appunto, l’intero si divide sempre in due metà. Anche se a volte, pur con le migliori intenzioni,  se ne vede una solaè l’inconscio, bellezza, e tu non puoi farci niente… 

  4. Ed è quello che fanno, qui e altrove, i Wu Ming. 

  5. Da Beverly Marsh a Jessie Mahout e Dolores Claiborne, solo per citarne alcune. 

  6. Il riferimento è ai recenti lavori di Massimo Recalcati per la cosiddetta “eclissi del padre”, e a Jacques-Alain Miller per la funzione ipnotica delle cose che decidono al posto degli uomini (La politique des choses, Navarin, Paris 2005). Non è questo il luogo per un confronto tra questa pista psicoanalitica e quella anti-edipica di Deleuze e Guattari, cui va la mia preferenza: è peraltro utile segnalare l’esistenza di questi terreni d’intersezione per chi non si adegua (né si consola) allo stato di cose esistente. 

  7. Gaia De Pascale, Wu Ming. Non soltanto una band di scrittori, Melangolo, Genova 2009, p. 18. E a p. 62: «A questo servono le armi della scrittura: a dare il via a spinte centrifughe che allontanino dai centri del potere e avvicinino alle periferie della contestazione». 

  8. «Sí, i parigini avevano sviluppato il gusto per un teatro piú vasto. Gli attori che recitavano grandi personaggi non erano piú gli idoli delle folle. Lui stesso s’era visto costretto a fare il saltimbanco, a recitare per strada, in mancanza di un teatro. Ma nemmeno cosí aveva avuto fortuna, perché era la sua prospettiva a essere sbagliata. Un attore come lui non doveva scendere a recitare in strada per mancanza di un teatro, come anelando un palcoscenico che non poteva piú avere. Un attore come lui doveva scendere in strada perché la strada era un teatro piú efficace e piú emozionante. Era la vera sfida di quei tempi convulsi. Questo è l’arte: saper interpretare lo spirito del proprio tempo, saper cogliere il vento del cambiamento e prendere il largo a gonfie vele. Non aveva fatto cosí anche il suo maestro, Carlo Goldoni, quando aveva eliminato le maschere e i canovacci della commedia dell’arte?» [pp. 249-250].