di Sandro Moiso
balzerani

Barbara Balzerani, Lascia che il mare entri, DeriveApprodi 2014, pp. 102, Euro 12,00

Ci sono battaglie che, nella letteratura e nel mito, durano da millenni. Ad esempio quella tra il Bene e il Male.
Altre, nella storia, durano da secoli. Come quella tra le classi. Entrambe richiedono canoni narrativi specifici e, in tutti e due i casi, non solo lo svolgimento delle vicende, ma anche il registro e lo stile della loro esposizione deve essere obbligatoriamente ben definito.

La prima battaglia ha bisogno di eroi, di nomi e di eventi straordinari .
La seconda è fatta da moltitudini. Spesso anonime e comuni.
Entrambe sono intrise di sangue e di dolore.
Ma, mentre nella prima il sangue è sacro e, come quello contenuto nel Sacro Graal, appartiene a ciò che è eterno, nella seconda il sangue si mescola al sudore e alla fatica e può fecondare la Storia a venire senza che chi lo versi abbia la minima possibilità di tornare a vivere.

Per molto tempo chi ha narrato le cronache della seconda ha cercato di farlo ripetendo il canone della prima. In questo modo la narrazione poteva essere consolatoria anche di fronte alla sconfitta più evidente. Ma, oggi, le sconfitte accumulate nel tempo dalla causa degli oppressi sono state talmente tante, impreviste e pesanti che il semplice eroismo o l’azione momentaneamente vincente non bastano più a giustificarne la causa.

Occorre mettere a nudo le radici di quella causa.
Quelle che continuano a donarle, per mille vie e mille rivoli, la linfa vitale.
Quelle che il potere farà sempre di tutto per tagliare, nei fatti e nella memoria.
Barbara Balzerani ha vissuto in quella battaglia e per quella battaglia.
Avrebbe, ancora una volta, potuto scegliere di raccontarne nomi e fatti salienti. Non l’ha fatto e ha scelto l’altra via. Un altro stile e un altro registro, meno epico e mitopoietico, ma sicuramente anche meno archivistico.

A pensarci, da tanto non so più da dove vengo. Forse da una barca portoghese di pescatori di corallo lungo le coste della Calabria. Forse dai monti del biellese con gli eretici di Dolcino sfuggiti all’inquisitore. O dai fecondi altopiani kenioti, in fuga dai predoni bianchi.
Le vicende del mondo mi sono entrate dentro, mi hanno attraversata come una carta geografica aperta, e mi sono ritrovata in ogni Vietnam senza attraversare nessuna frontiera
” (pag. 6)

Narra tre generazioni di donne: la sua, quella della madre e quella della nonna.
Tre generazioni di donne in cui l’Io soggettivo si confonde e si moltiplica. In cui l’Io di oggi si fonde con quello di ieri e dell’altro ieri. Si rafforza. Resiste. In qualsiasi condizione.
Come il seme sprofondato nella terra durante l’inverno e la cattiva stagione, ma pronto a dare i suoi frutti col ritorno del sole e della primavera.

Tre generazioni di donne, dalla valli del vicentino prima della “grande guerra” alla piana laziale tra le due guerre mondiali, fino alla Roma degli anni settanta. La natura, la fabbrica, la lotta. Ma non solo quelle e non solo quello.
L’autobiografismo, così presente nella memorialistica e nella letteratura, non può più fermarsi ai confini della famiglia e dell’esperienza individuale.

E’ una generazione sconfitta quella di Barbara, ma non rassegnata. La mia.
Che non si è arresa, ma che, semplicemente, ha dovuto lasciare che il mare dei conflitti e della Storia entrasse all’interno del proprio sé. Aprirsi alle contraddizioni e alle storie che hanno fondato un’avventura politica ed esistenziale unica, come lo sono tutte le rivoluzioni. E terribile, come tutte le rivoluzioni sconfitte o deviate.

Ma in quel mare di storie, individuali e collettive oppure di individui più o meno celebri, come l’architetto catalano Gaudí o il maestro elementare socialista della madre ancora bambina, stanno le radici di una battaglia. Che non si è ancora fermata e che non è ancora stata definitivamente vinta da nessuna delle due forze in conflitto. Non più il Bene e il Male, ma il Capitale e il Lavoro.
Che uno scrittore, che di queste cose se ne intendeva e che per primo provò a trattare in maniera meno retorica, avrebbe riassunto in un titolo: Uomini e no.

Una generazione che, per narrarsi, deve tener conto dell’amore per la sintesi di Italo Calvino e della lezione di Marx sulla storia umana che deve fondersi con la storia naturale. Così come la bisnonna di Barbara sembrava già sapere senza aver avuto bisogno di studi ingombranti e non sempre utili. Una generazione che, per la transitorietà della propria esperienza e della vita umana più in generale, deve sapersi raccordare con i tempi lunghi e, talvolta, lunghissimi della storia.
Riunendo il proprio presente al passato più antico e ai tempi che verranno.

Così non è soltanto la prevalenza matrilineare della narrazione a rendere inutile ed obsoleto l’uso del patronimico, dei cognomi che definiscono anagraficamente la genealogia dei singoli. Al massimo i nomi, i diminutivi e, spesso, nemmeno quelli. Altrimenti sarebbero troppi e si rischierebbe di dare più valore ad uno piuttosto che ad altri, mentre il movimento, nel tempo presente e nella storia, è solo e sempre collettivo.

Dalle migrazioni transoceaniche di ieri a quelle mediterranee di oggi; dal disastro della diga del Vajont alle devastazioni ambientali di oggi, storia e natura si fondono, sotto i nostri occhi, sempre di più. E l’Io soggettivo non basta più per narrare e per spiegare il tutto perché il tempo individuale concessoci è, davvero, troppo breve.

Adesso sappiamo. Avevi ragione tu, nonna. L’unica che non ti sei fatta confondere e hai continuato a misurare il bene e il male sui tempi lunghi, tutti quelli che ci vogliono perché ci possa essere ancora domani […] Adesso possiamo provare a salvarci. Diventare capaci di poesia, di archeologia d’anime, imparare a scavare nelle pieghe dell’umano patire, per riconoscere in ogni piccola storia la meraviglia che rimuove la banalità al dolore e alla fatica. Ma per questo c’è bisogno di silenzio, fuori dalla chiacchiera che confonde. Il silenzio […] che è impresso nelle pieghe di imposte verità, che tenacemente aspetta di essere liberato, che consente la resistenza agli oltraggi.” (pp.101 – 102)