di Sandro Moiso

Gapon A distanza di un mese dalla manifestazione nazionale del 19 ottobre a Roma, sabato 16 novembre si sono tenute due manifestazioni che per contenuti, modalità, composizione sociale e partecipazione ne hanno ripetuto i fasti ampliandone la portata e il significato politico.
Nonostante, infatti, il tentativo da parte dei media di tenere separate la manifestazione di Napoli, contro l’inquinamento camorristico e l’avvelenamento istituzionale del territorio, da quella di Susa, contro il TAV, non vi può essere alcun dubbio che le due manifestazioni fossero tra loro strettamente correlate.

Decine di migliaia di persone, molte di più di quelle già presenti a Roma, hanno finito col ritrovarsi unite in due manifestazioni che di fatto hanno delegittimato l’attuale sistema economico-politico e il regime consociativo (Destra, Sinistra, Mafie, Banche) che ne “giustifica” l’esistenza.
Le ragioni della lotta NoTAV sono state ripetutamente e frequentemente esposte qui su Carmilla e per una volta non vale la pena di tornarci sopra, ma sono stati i contenuti della manifestazione napoletana a far, letteralmente e chiaramente, saltare il banco politico.

Roberto Saviano non ne è stato e non poteva esserne l’ospite d’onore né, tanto meno, il gran ciambellano in quanto non si è presentata soltanto come una manifestazione legalista o legalitaria. Nelle parole di un medico della Terra dei Fuochi, il senso di tutta la manifestazione: ”Dai camorristi sapevamo di doverci aspettare di tutto: sono criminali. Ma lo Stato no! Dallo Stato avevamo il diritto almeno di essere informati. Invece per vent’anni ci hanno nascosto tutto. A partire dai luoghi dove i pentiti avevano detto di aver seppellito i rifiuti più pericolosi1

Lo Stato è davvero il nemico più subdolo per chi abita nelle zone devastate dalla speculazione mafiosa, economica ed edilizia. Lo stesso Stato che oggi indice il lutto nazionale per le vittime dell’alluvione sarda dopo aver permesso per anni la cementificazione selvaggia del territorio, causa principale, e non secondaria, dell’irruenza delle acque. Lo stesso Stato la cui più alta autorità era Ministro degli Interni ai tempi delle prime rivelazioni dei pentiti di Camorra sull’avvelenamento del territorio campano ( e non solo). La stessa autorità che ha sempre condiviso il migliorismo dell’ex-sindaco e ex-commissario straordinario all’emergenza rifiuti campana Antonio Bassolino.

Nelle strade di Napoli non si è levato un grido di dolore, come vorrebbe poter affermare retoricamente l’informazione catto-comunista e fascistoide italiana, ma un grido di protesta. Cui presto si affiancherà prima o poi anche quello di altre manifestazioni contro l’inquinamento dell’Ilva di Taranto o della Caffaro di Brescia o degli altri mille territori inquinati, resi invivibili, privi di speranze di sviluppo sociale ed economico e, soprattutto, di qualsiasi fiducia nei partiti politici attuali. Come il numero delle astensioni (53%) ha ancora una volta ben dimostrato nelle recenti elezioni regionali della Basilicata.

La terra ha cominciato a muoversi. I pavimenti dei palazzi del potere si son fatti meno stabili e il governo più insulso della storia repubblicana si prepara ad un atterraggio di fortuna su una pista danneggiata da un bombardamento a tappeto. Nonostante Letta abbia formalmente chiamato ai comandi il Fondo Monetario Internazionale, attraverso la figura del consulente alla spending review Carlo Cottarelli, che per tale ente ha lavorato fino alla sua nomina (del valore di 260mila euro), a commissario per l’attuale governo italiano, i tempi del fallimento politico, economico ed istituzionale della classe dirigente italiana stanno accelerandosi sempre più velocemente. Come lo scontro di classe che già fin da ora ne consegue.

Il governo Letta è un morto che cammina e non supererà, per eccesso di putrefazione, la primavera del 2014. Berlusconi sopravvive ormai soltanto grazie alla formalina in cui viene conservato. Il Nuovo Centro Destra è sostanzialmente il frutto di un aborto spontaneo. Napolitano pencola sulla porta del trapasso politico e biologico, mentre il partito che più di ogni altro ha contribuito a mantenere l’ordine sociale in Italia dagli anni settanta in avanti si sfalda e disgrega ogni giorno di più in faide interne degne di un romanzo di Mario Puzo.

No, non del Pdl/FI si sta qui parlando, ma del PD/ex-PCI! La cui profonda ed irreversibile crisi la si può leggere tutta nella perdita di peso dell’apparato demokrat/dalemiano e nello scollamento sempre più evidente del partito dalla sua base e dall’elettorato giovanile. PD che, all’ombra di un gioco delle parti tra tre candidati di cui due sono ormai senza storia, può sperare soltanto nella vittoria del novello Tony Blair de noantri per concedersi un attimo di respiro. Ma tutti, assolutamente tutti, sembrano essersi resi conto che è giunto, inequivocabilmente, il momento di andare oltre. O, almeno, di fingere di farlo. Sperando di mantenere ancora, magari per poco, l’attuale status quo.

Grillo, nel comizio genovese del primo dicembre, sembra aver manifestato la più chiara coscienza politica di questa necessità e ancora una volta si è preparato a cavalcarla, rivolgendosi, per una volta, alla “sinistra” della sua piazza citando demagogicamente, in apertura, Pertini e la caduta del governo Tambroni. Poi, ha presentato disordinatamente, un programma in sette punti alternativo all’attuale presente politico ed economico.

Abile e confuso come al solito ha mescolato referendum sull’uscita dall’euro e energie rinnovabili, banda larga e sovranità nazionale, alleanze geopolitiche e scontro con l’Europa germanica, impeachment di Napolitano e abolizione delle province ma, appunto come al solito, è cascato sulle reali questioni di classe quando, pur agitando lo straccio sbiadito del reddito di cittadinanza, non ha saputo proporre di meglio che il rientro delle aziende italiane che producono all’estero promettendo loro le stesse condizioni in cui operano, ad esempio, in Romania.

Costo del lavoro? Contributi previdenziali? Sì, perché, diciamolo una volta per tutte, l’abbassamento degli oneri sociali per gli imprenditori non significa altro che riduzione delle tasse a loro carico e dei contributi previdenziali versati dai lavoratori. E allora il Welfare, che Grillo ha detto di voler difendere e rilanciare, dove andrebbe a finire? Solo con il taglio delle spese parlamentari o delle missioni militari non si potrebbero mantenere gli standard anteriori all’attuale crisi. E non sembra essere presente nel suo programma, sempre in precario equilibrio tra destra e sinistra, alcun riferimento ad una severa e generalizzata ridistribuzione della ricchezza socialmente prodotta.

Non vale la pena di spendere ancora, qui, giudizi già ampiamente esposti in passato sul comico genovese. E’ abile e lui e i suoi suggeritori hanno capito che nei prossimi appuntamenti politici gli avversari da battere saranno Renzi, da un lato, e i populismi di estrema destra dall’altro. Gli altri partiti e personaggi sono già defunti, come è stato detto prima. Ma l’argomento del programma e delle parole d’ordine deve toccare ormai da vicino anche l’antagonismo di classe, di cui, chiaramente, i 5 Stelle non fanno assolutamente parte. Grillo, quindi, ancora una volta non è andato oltre.

Di fronte ad una borghesia che non è più classe dirigente perché ha perso coscienza di sé2, i movimenti si troveranno sempre di più davanti ad un bivio: procedere nelle proteste affidandosi ancora ad una rappresentanza esterna e parlamentare oppure farsi carico sempre di più della propria rappresentanza politica. Evitando di cascare nelle maglie dei novelli Pope Gapon, preti o populisti che siano, e conducendo una battaglia sempre più politica per determinare quello che dovrà essere il futuro di questa società.

Ma, mentre l’unico, vero rischio per il movimento reale può essere rappresentato dal suo ondeggiare tra la Scilla della deriva populista e il Cariddi della ricerca di una irraggiungibile purezza ideologica, la lotta di classe e della specie per il radicale cambiamento degli assetti socio-economici e politici prosegue il suo corso: inarrestabile ed imprevedibile. Rendendo evidente che le condizioni oggettive di un ribaltamento sociale di portata storica esistono già tutte: grave crisi economica, crisi di rappresentanza delle istituzioni, azione sociale antagonista diffusa sul territorio e trasversale tra territori e settori sociali, confronto diretto con lo Stato non più mediato dai sindacati istituzionali o dai partiti dell’area parlamentare.

Una crisi sistemica in cui uno degli attori sta progressivamente perdendo qualsiasi controllo sulla propria recitazione e sul copione, mentre l’altro sta crescendo di giorno in giorno senza aver bisogno di alcun copione se non di quello già scritto nelle istanze sociali e nel suo genoma. Le cui parole d’ordine sono inscritte nelle contraddizioni della società senescente in cui si va formando quella futura. Oltre il miserabile presente, appunto.
Signori, è vero, si recita a soggetto! Ma che soggetto…è la rivoluzione che viene!
1905
Oggettivamente la strada è ancora lunga e sicuramente in salita, ma il percorso, almeno qui in Italia, è già dato. Là dove la difesa delle condizioni di vita essenziali si uniranno sempre più alla difesa delle condizioni di lavoro le contraddizioni sociali e di classe si faranno esplosive. Sarà la scelta delle parole d’ordine e delle pratiche per conseguire gli obiettivi che ne deriveranno a determinare chi e come dovrà dirigere la lotta generale, oggi ancora parzialmente dispersa.
Una lotta che affermi la necessità di un altro modello di vita. Una lotta che metta in discussione, non per scelta, ma per oggettiva necessità l’intero quadro dell’esistente. Che da Nord a Sud e dai luoghi di lavoro al territorio inizi fin da oggi ad accelerare i tempi della rottura politica e sociale dei fragili e odiosi equilibri odierni…Letta Go Home!!

(…ma saran cazzi anche per quelli che verranno dopo)


  1. Gian Antonio Stella, I sogni dei bimbi della terra dei Fuochi “Caro Gesù salvaci dal cancro”, Corriere della sera, sabato 16 novembre 2013, pag.23 

  2. E’ di queste ultime ore la proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Fabrizio Saccomanni, di trasformare la Banca d’Italia in una public company che significa, di fatto, privatizzare l’organo centrale di direzione dei flussi di capitale monetario, alienandone completamente quel poco di autonomia politica e di emissione che le erano rimaste all’ombra dei diktat della BCE e svendendone, a vantaggio dei caveau delle maggiori banche, il tesoro in lingotti d’oro rimasto allo stato italiano come ultima risorsa