di Luigi Marfé

zooadueMarino Magliani, Giacomo Sartori, Zoo a due, Perdisa Editore, 2012, pp. 177, € 14,00

“L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio qui”, ha scritto Jacques Derrida ne L’animale che dunque sono (2006). L’alterità dello sguardo non-umano mette l’uomo di fronte alla propria fragilità:scoprire di non essere soli è il primo passo per comprendersi.

È lunga la storia degli scrittori che hanno preso a prestito occhi animali: le favole di Fedro, il gallo silvestre di Leopardi, gli insetti di Kafka, i cani di London, le tigri e gli orsi di Kipling, la fattoria di Orwell. Assumere un punto di vista animale, secondo Viktor Sklovskij, è la strategia migliore per straniare il proprio discorso: per toglierlo cioè da morti binari del linguaggio di tutti i giorni. Non conoscendo le lusinghe della civiltà, gli animali giudicano ciò che li circonda dal punto di vista dei bisogni del corpo e degli istinti. Il loro sguardo ci riporta a quelle basi materiali dell’esistenza che troppo spesso dimentichiamo,e che invece ci riguardano da vicino.

Da qualche tempo, tuttavia, pare che la voce degli animali abbia smesso di parlare agli scrittori. Pare che nessuno la cerchi. Forse perché la società contemporanea, troppo presa da se stessa, è ormai del tutto indifferente a ciò che le è estraneo, forse perché ci si è abituati a chiamare umanesimo quello che è solo provincialismo del genere umano.

Un libro come Zoo a due, scritto a quattro mani da Marino Magliani e Giacomo Sartori per la collana PerdisaPop di PerdisaEditore, è per queste ragioni una gradita sorpresa. A cominciare dall’immagine di copertina, un disegno tenero ed essenziale di Andrea Pazienza, che raffigura due pappagalli intenti ad accarezzarsi, senza nascondere le imperfezioni del proprio corpo, che non permette loro di abbracciarsi, ma solo di appoggiarsi l’uno all’altro. Ma è tutto il libro ad essere curatissimo, dalla prefazione di Beppe Sebaste ai testi dei due autori, che alternano nel volume due narrazioni complementari: una – quella di Sartori – che colleziona in brevi testi di poche pagine le voci degli animali più diversi; l’altra – quella di Magliani – che si concentra sulla storia di un cane abbandonato dal padrone, e innamorato del mare.

I racconti di Sartori – scrittore e agronomo che vive tra Trento e Parigi, autore di romanzi come Anatomia della battaglia (2005) e Sacrificio (2008) – rammentano le atmosfere impalpabili di certi testi di Julio Cortázar, come quello sull’uomo che si trasformò in axolotl (un particolare anfibio che trascorre tutta la vita in stato larvale), dopo aver fissato per troppo tempo quello strano animale in un acquario al Jardin desPlantes di Parigi. Lo stesso desiderio di passare dallo sguardo dell’uomo a quello animale è alla base dei racconti di Sartori. Spinti da emozioni primarie come il desiderio del cibo o la paura della morte, i loro timidi protagonisti esibiscono molta più umanità degli uomini che li tormentano. Ingenue e ferite, le loro voci portano avanti le ragioni di una vita che conosce la sua caducità, e proprio per questo non perde tempo a bruciarsi.

Magliani – romanziere e traduttore giramondo, che da alcuni anni vive tra la Liguria e l’Olanda, ed è autore di romanzi come Il collezionista di tempo (2007) e Quella notte a Dolcedo (2008) – ha invece disteso i suoi due racconti in una misura più ampia. Il primo narra la storia di Cobre, un cane abbandonato nell’entroterra ligure, che arriva alla costa, vede il mare e se ne innamora. Il secondo quella del figlio del cane, che segue le orme del padre al contrario, risalendo verso i monti. Si tratta di due iniziazioni, di due veri e propri itinerari di formazione interiore, che tuttavia – e qui vengono in mente le storie di Jack London – non riguardano il mondo degli uomini,sordo e crudele, troppo intento nei suoi affari, ma due cani e la loro scoperta del paesaggio ligure, teatro a mezzogiorno tra il sole e il mare.

Proprio nel mare Cobre pare intravedere la promessa di una vita diversa rispetto a quella randagia cui è stato condannato. E il “giacimento di parole” che le sue orecchie hanno assimilato inconsapevolmente gli riporta il suono di qualche verso che gli era stato letto dall’unico uomo che gli era stato amico:

Quale voce viene sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
È la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
proprio per esserci messi ad ascoltare.

Sono versi di Pessoa, tratti da Le isole fortunate, una lirica trasognata che postula l’esistenza di una voce che non è quella dell’uomo, e nemmeno quella degli animali: una voce più antica, che viene dalla vita stessa.

Dare voce a ciò che è muto e nascosto, secondo Jean-François Lyotard,è il compito più autentico di un pensiero che voglia dirsi ecologico. Nei discorsi dell’uomo, il mondo animale è spesso costretto al silenzio da grancasse più agguerrite. Libri come Zoo a due provano a tendergli la mano, a starlo ad ascoltare, per renderlo più libero.

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