Pubblichiamo il prologo del nuovo romanzo di Simone Sarasso, Il paese che amo, Marsilio, Venezia 2013, pp. 581, € 19,50

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SCENA 1.1
ANDREA STERLING: New York City, USA

New York City, niente di meglio per ricominciare.
Andrea Sterling stava per compiere sessantun’anni, e la sua vita non era esattamente quella di un pensionato. Si guardò allo specchio in camicia e mutande mentre stringeva il nodo windsor della cravatta di seta: cicatrici e un sacco di brutte storie su quella faccia che sapeva d’avventura. Suture vecchie d’un secolo dalla coscia al polpaccio, dove i calzini in tinta coprivano il resto d’un passato troppo duro da ricordare. Infilò le braghe e la giacca: un doppiopetto nero notte da duemila dollari. Col pettine d’osso che teneva nel taschino sistemò i capelli. Una passata di gommina per darsi un tono; i mocassini di cuoio, l’impermeabile e quel cappellaccio a tesa larga che, da qualche tempo, era diventato il suo marchio di fabbrica.
Un’ultima occhiata: non c’era proprio niente che non andasse.
Si accese una paglia guardando fuori dalla finestra dell’attico: Upper West Side, un quartiere da ricchi. Central Park, oltre il vetro, era uno schiaffo in faccia alla povertà: tutti quegli alberi, piantati nel cuore della più merdosa jungla di cemento di tutto il globo, ricordavano ai newyorchesi che ci sono solo due modi di giocare la partita: lavorare duro e passare la vita a prendere ordini; o rischiare tutto, fottere il banco e portarsi a casa il jackpot. La vita di Andrea Sterling era finita un sacco di volte sul tavolo del destino.
Qualche volta aveva vinto, altre era finita peggio.
Durante l’ultima mano che aveva giocato, quasi dieci mesi prima, per poco non ci aveva rimesso la pelle. La bomba alla stazione di Bologna avrebbe potuto farlo fuori. Ma un timer difettoso o forse solo un maledetto colpo di fortuna gli avevano regalato un’altra possibilità. Privandolo di tutto, facendogli male sul serio. Incidendo segni sulla carne che non se ne sarebbero più andati e avrebbero continuato a raccontare quella brutta storia fino all’ultimo giorno.
Una ridda di pensieri scomodi squassava le viscere dell’Uomo Nero ogni mattina che il buon Dio mandava in terra. Lanciò uno sguardo allo specchio prima di uscire: “Sei vivo, dopotutto… Nessuno avrebbe scommesso un nichelino su di te, eppure sei ancora in piedi. Fattelo bastare…”.
Andrea Sterling, quel giovedì di giugno, se lo fece bastare eccome. E se lo sarebbe fatto bastare per un sacco di altri giovedì.
Catturò le chiavi, uscì dall’attico senza fretta, richiuse la porta blindata e s’infilò nell’ascensore. Dabbasso il portiere in livrea lo salutò con una scappellata. La divisa verdeoro, quei baffi ridicoli. Sterling scosse la testa: “Gesù, a certe stronzate non ci farò mai l’abitudine…”
Il portiere non smise di sorridere finché Sterling non montò sulla limo. Una Lincoln Town Car da quattro litri e nove lo aspettava col motore acceso: non appena Sterling fu dentro, il negro al posto di guida gli chiese dove desiderasse andare. Lo chiamò “signore” e attese la risposta con un bel sorriso di neve. Sterling ragionò che il negro era vestito esattamente come lui: abito nero, camicia bianca, cravatta nera. Di certo il suo completo non era fatto a mano e non indossava scarpe italiane, ma l’insieme era simile. Il colore della pelle e un cappello con la visiera erano i simboli distintivi della schiavitù di quel ragazzo spensierato. Tutto quello che fa la differenza tra chi dà gli ordini e chi li prende.
“Coney Island”, disse Sterling prima di accendersi la seconda paglia della giornata.
Il negro spostò la leva del cambio sulla D di DRIVE, e la città più bella del mondo prese a scorrere dal finestrino.
Le signore ingioiellate di Central Park West, i tassisti dell’84esima e poi Broadway, con tutta la sua maledetta fretta e i cartelloni pubblicitari. Gli hot dog della 79esima, lo svincolo di Riverside e poi giù, a rotta di collo sulla Hudson, fino a imboccare West Side Highway. Il fiume a destra, il profilo dei grattacieli: “Certo che gli americani ci sanno fare…”, le parole scapparono dalla bocca di Sterling tra un tiro e l’altro. Consumava Marlboro come pop corn: “Ovunque guardi, ti sembra di stare dentro un film…”
Il negro annuiva: non sapeva una parola d’italiano.
Imboccò la 12esima, giù fino a West Street, e il paesaggio iniziò a mutare: Manhattan era finalmente agli sgoccioli e la vera America si stava facendo sotto. Te ne accorgevi dalle facce della gente, via via più fredde, sicuramente più scure, a volte semplicemente più felici. Imboccarono il Battery Tunnel per arrivare a Brooklyn:  quando la Lincoln rivide la luce, Sterling si rilassò sul sedile, abbassò il finestrino per far uscire un po’ di fumo e si godette l’ultimo miglio fino a Coney.
Il negro lo scaricò davanti a Cha Cha’s, una squallida pizzeria con un’insegna sgargiante che prometteva il miglior gelato italiano di tutta New York. Qualunque cosa fosse il dannato “gelato italiano”…
Sterling scosse la testa e congedò l’autista.
Coney Island è un luogo della mente. Specie alle undici del mattino d’un giorno lavorativo. Negli anni Trenta questo sputo di sabbia, legno e cemento di fronte all’oceano era il parco giochi di New York. Ma, col passare del tempo, finì per assomigliare a una discarica: l’unica reliquia del passato è la Wonder Wheel, la gigantesca ruota panoramica che di notte mette paura alle coppiette coi suoi neon intermittenti.
Il boardwalk, l’infinita passeggiata di faggio dirimpetto al Grande Blu, era sconnesso e maltrattato. Il vento e l’incuria l’avevano ridotta come il resto del quartiere: uno desolato rifugio per sbandati, perdigiorno e poco di buono. Sterling aveva fatto tutta quella strada proprio per incontrare un tipo del genere.
Dunque smise di perdere tempo, distolse lo sguardo dal mare e dall’insegna ridicola, spinse la maniglia e fu dentro.
Odore di fritto e messicani mal rasati dietro i fornelli. Uno di loro aveva una retina in testa e stava immergendo un wurstel nella pastella: lo scopo era friggerlo infilzato su uno stecco. Il pavimento a scacchi sapeva di ammoniaca e gomma da masticare.
I tavoli erano tutti vuoti tranne uno, le sedie ribaltate come all’ora di chiusura.
Il messicano fece un cenno a Sterling, lui si tolse il cappello. Ordinò una fetta di margherita e una birra e andò a sedersi. Di fronte a lui, indosso una vecchia giacca di pelle sdrucita, c’era La Leggenda.
I gomiti sulla formica e le gambe inguainate da jeans troppo stretti e corti, le Nike da basket, la solita faccia da figlio di puttana e il sorriso più docile del mondo: il Mago era in gran forma, nonostante i capelli cominciassero a ingrigire. Il Mago era qualcosa in più di un semplice trafficante di eroina, era l’uomo d’oro di Cosa Nostra.
Fu lui a installare la prima raffineria di roba in Sicilia, ad avere l’idea dell’oppio cinese a buon mercato e a trasformare una banda di assassini italiani da quattro soldi in una dinastia di magnati della droga.
Il Mago tenne a battesimo Sterling, circa vent’anni prima di quell’incontro. Gli insegnò come ci si comporta nella Famiglia, gli affidò lavori importanti e non ebbe mai a pentirsene. Nonostante il Mago fosse d’un paio di lustri più giovane dell’Uomo Nero, Sterling lo considerava un maestro. E gli portava tutto il rispetto che un tizio del genere merita.
I due non si vedevano da parecchio ma, dopo il casino di Bologna, Sterling aveva bisogno di cambiare aria. Così chiamò il Mago, gli chiese un grosso favore. E si mise a disposizione.
Nel giro di dieci mesi pagò il suo debito, e grazie al Mago tornò in pista. Il volume d’affari era cresciuto, anche grazie ai suoi servigi. Ora era tempo di discutere del futuro: e che c’è di meglio di una squallida pizzeria di fronte all’oceano per riempirsi la bocca con le Meraviglie del Tempo Nuovo?
“Bel vestito, ragazzo. Te la stai godendo, vedo…”, fu il Mago a rompere il ghiaccio.
Sterling allargò le braccia: “Non mi lamento, signore. Pensavo che la mia vita fosse finita a Bologna, invece è solo ricominciata da un’altra parte. Ho lasciato il mio Paese all’Omino e ai suoi tirapiedi: lo faranno a pezzi, ma la cosa non mi riguarda. Ora sono da questo lato dell’oceano. Con qualche osso rotto e un sacco di buoni amici.” Cavò l’ennesima bionda dal portasigarette d’oro. Il Mago disse: “Amen…” e gli passò uno Zippo che aveva visto giorni migliori. Sterling se lo rigirò tra le dita, sbirciò la scritta sul dorso: FUCK COMMUNISM. Diede fuoco alla Marlboro e aspirò qualche tiro: “Non ho bisogno di tenere il culo all’ombra del tricolore per fare il mio lavoro. Ci sono un sacco di modi per spedire i rossi all’inferno…”.
“Con l’eroina, per esempio?”, il Mago sorrise e chiamò a raccolta i messicani: quelli ai fornelli e quello con la retina. Farfugliò qualcosa in spagnolo e i tre sparirono nel retro del locale. Retina tornò da solo e porse al Mago una scatoletta di metallo, poi si ritirò in buon ordine. Il Mago spalancò lo scrigno e mostrò a Sterling il tesoro: due bustine di roba purissima. Lady Ero fece l’occhiolino al suo vecchio amico Andrea Sterling. L’Uomo Nero acchiappò una dose, cavò un pizzico di polvere dalla plastica e se la passò sulle gengive. La botta fu stratosferica: “Gesù Cristo, signore…”
Il Mago rise di gusto, diede una pacca come si deve sulla spalla di Sterling: “Il mio negro! Sarà un successo, che te lo dico a fare?”.
Sterling cercava di darsi un contegno, il Mago non aveva finito: “Il primo carico è arrivato ieri dall’Italia. Stiamo sperimentando un sistema nuovo di zecca: infiliamo la roba nelle latte di pomodoro e qualche biglietto da cento nelle tasche degli sbirri della dogana. A chi diavolo verrebbe in mente di perquisire un container di condimenti per la pizza?”
Il trafficante era compiaciuto, ma Sterling faticava a mettere a fuoco: “E poi che succede? La smerciamo nelle strade?”.
Il mago agitò l’indice di fronte alle pupille dilatate dell’ex agente segreto: “No, ragazzo…” – non aveva smesso di chiamarlo così, neppure adesso che portava i capelli grigi – “…ecco il fottuto colpo di genio: la smazziamo qui. E in cento altre merdose pizzerie come questa. Così non dobbiamo nemmeno accollarci il trasporto: la dama bianca arriva direttamente nelle scatole di pelati. Pizza Connection, è così che ho battezzato l’operazione. Ogni negro dei bassifondi, ogni ebreo benestante e ogni maledetto protestante della Quinta Strada, dalla prossima settimana potrà entrare in un locale per famiglie, sedersi al tavolo, ordinare una fetta di margherita e uscire con un paio di grammi di neve come Cristo comanda…”.
Retina ricomparve con l’ordinazione di Sterling e un whisky liscio per il Mago. L’Uomo Nero sbatté il suo bicchiere di carta contro quello del vecchio figlio di puttana: “Al futuro, signore!”.
“Al futuro!” rispose La Leggenda.
Bevvero con calma, senza aggiungere altro finché i drink non furono terminati.
Sterling non la smetteva di rigirarsi lo Zippo tra le dita, il Mago sfogliava un giornale italiano. Alzò lo sguardo dalla pagina e indicò l’accendino col mento: “Ti ho mai raccontato come ho avuto quello?”.
Sterling sorrise: “Solo un milione di volte, signore. Un pegno mai riscattato…”.
Il Mago sbuffò e acchiappò lo Zippo, si accese una Pall Mall: “E ti ho mai detto da chi l’aveva avuto il bastardo che ha dovuto impegnarselo?”.
Sterling scosse la testa. Il Mago aprì il giornale. Indicò la notizia del giorno: “JOHN WAYNE PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA”. Sotto il titolone strillato, l’uomo che uccise Liberty Valance se ne stava a braccia conserte, indosso un abito di sartoria e il sorriso delle grandi occasioni. Wayne aveva 74 anni.
“Che c’entra il Presidente?”, disse Sterling.
Il Mago scosse la testa: “Gesù, ci puoi credere? Il più grande cowboy della Storia è il Re del Mondo Libero… questo è il tizio che disse “Portateli in Missouri”, ti rendi conto? E ora, se gli gira, può dichiarare guerra persino a Dio. Gli basta premere un bottone…”.
Sterling non mollava: “Lo Zippo, signore… Che diavolo c’entra il Presidente Wayne con lo Zippo?”.
“Giusto…”, il Mago scacciò le chiacchiere con la mano destra. “Il tizio che sì è impegnato questa meraviglia…”, l’accendino scintillava alla luce fredda delle undici del mattino, “…è stato in Vietnam. O in Corea non ricordo. Combatteva per il suo Paese, insomma, era pronto a farsi ammazzare. Era un dannato marine degli Stai Uniti. Be’, un bel giorno quel ragazzo – si chiamava Custer, proprio come il generale del Settimo Cavalleggeri – si trova inquadrato sotto al sole insieme ai suoi compagni. Nessuno sa che diavolo stanno aspettando, di certo non si fanno molte parate in tempo di guerra, ma quel pomeriggio gli tocca starsene impettito a sudare per ore senza uno straccio di ragione. C’è chi dice che verrà in visita Bob Hope, chi le conigliette di Hefner, ma quando la porta dell’elicottero si spalanca e l’ospite tanto atteso scende, nessuno crede ai propri occhi.
John Wayne, figliolo.
Il Duca in carne e ossa.
Il marine che per primo mise piede a Iwo Jima, Davy Crockett, il Grinta, Cristo santo! Se ne stava lì di fronte a quei soldati, a raccontare quanto stessero facendo bene il loro lavoro, quanto fosse importante mandare all’inferno quei comunisti degenerati e tutto il resto. Custer era talmente frastornato che non ascoltò molto del discorso. Ma alla fine, come tutti gli altri uomini del suo plotone, ricevette in regalo uno di questi”.
Il Mago sventolò l’accendino sotto il naso di Sterling. L’incisione FUCK COMMUNISM logora e magnifica, sul dorso. “Prima di risalire sull’elicottero, John Wayne si avvicinò al nostro uomo e gli chiese d’accendere. Lui diede fuoco al sigaro del Duca con lo Zippo nuovo di zecca. Wayne fece un paio di boccate e poi gli domandò “Come ti chiami, figliolo?”. “Soldato semplice Custer J., signore!”.
Il Duca allora disse: “E per cosa sta quella J., ragazzo?”; “John, signore”, ribatté Custer.
Fu allora che Wayne lo guardò dritto nelle occhi: “Un nome con le palle, soldato!”
Poi rimontò a bordò e l’elicottero se lo portò via. Lasciò tutti a bocca aperta, lì in mezzo alla polvere e al fango, a domandarsi se fosse successo davvero. Tutti tranne uno: il soldato semplice John Custer sapeva che era successo.”
Silenzio.
E un gran bel sorriso stampato sulla faccia dell’Uomo Nero.
Sterling adorava le storie del Mago. Tutti le adoravano, che diavolo… perché parlavano di onore e roba forte. Ma pure del potere, e di tutta la merda che si porta appresso. Sterling ragionò su quello strano Paese a stelle e strisce che l’aveva accolto a braccia aperte, senza fare domande. Pensò al suo Presidente cowboy che tutti rispettavano come un dio pagano e gli si serrò la gola. Di colpo fu investito dal ricordo il proprio Paese e del suo dannato Presidente. L’Omino, il santo gobbetto che l’aveva ingannato. Si era servito di lui, l’aveva battuto, messo in ridicolo e quasi ammazzato. Sterling pensò all’Italia, e un ghigno triste gli si dipinse in viso.
Il Mago se ne accorse, per lui l’ex agente segreto era un libro aperto.
Mostrò all’Uomo Nero la prima pagina del quotidiano che stava leggendo: era un’edizione del CORRIERE DELLA SERA del giorno prima.
Il titolo parlava chiaro: “LO SCANDALO DELLA LOGGIA”.
In Italia era scoppiato un casino: durante le indagini sul presunto rapimento di un Pezzo Grosso della finanza, era stata perquisita la villa del Gran Maestro, uno dei massoni più potenti dello Stivale. Il Gran Maestro aveva le mani in pasta ovunque: undici anni prima aveva collaborato, insieme a Sterling, all’Omino e all’allora Presidente del Consiglio Francesco Argento, alla pianificazione di colpo di Stato militare in Italia, poi abortito grazie a un gioco di prestigio dell’Omino stesso.
Nella villa del Gran Maestro le forze dell’ordine avevano scovato una lista di quasi mille iscritti alla Loggia: nell’elenco c’erano nomi importanti, personaggi chiave alla guida del Paese. Due ministri, cinque sottosegretari, dirigenti dei Servizi, giornalisti, magnati dell’industria e delle comunicazioni. Non appena la lista era stata resa pubblica era scoppiato uno scandalo senza precedenti, che minava le fondamenta della Repubblica.
Il Mago sorrise: “Cambia la strada e cambia il Palazzo, bello mio. Non essere triste”.
Sterling ordinò un’altra birra e rimase zitto finché il messicano con la retina non gliela mise davanti.
Il Mago attese paziente e alla fine si fece uscire il fiato: “Non lo vedi che sta succedendo? Il capo dei socialisti, Tito Cobra, ha sparato a zero sul governo. Ha dichiarato che se il Gran Maestro della Loggia è Belzebù, dietro di lui ci dev’essere per forza uno stramaledetto Belfagor. Sta parlando dell’Omino, capisci?”
Sterling capiva eccome.
“Il vento sta girando, ragazzo. In Cosa Nostra e pure nel tuo dannato Paese. Tra i mafiosi presto scorrerà il sangue e noi avremo un posto in prima fila…”.
“Che c’entra la Famiglia col Palazzo? E che c’entra la Loggia, signore?”.
“Anche nel Palazzo ci sarà una rivoluzione, proprio come tra i picciotti siciliani. E pure a Roma i lunghi coltelli scintilleranno a dovere, che te lo dico a fare?”
Sterling era confuso, il Mago la smise di essere così criptico: “La lista degli iscritti alla Loggia è stata resa pubblica al momento giusto, il ricambio della classe politica è dietro l’angolo. Chi ha scelto di far parte della squadra del Gran Maestro si dimetterà, vergognandosi di fronte agli amici cattolici di essere stato pizzicato in grembiule e guanti bianchi. La DC subirà un duro colpo, dammi retta. Giù i DC, su i laici, ragazzo. Tra non molto l’Italia potrebbe essere pronta per un governo socialista. E quando l’Omino sarà fuori dai giochi, forse, potrai finalmente tornare a casa…”
Sterling distolse lo sguardo dalle lenti a specchio del Mago: “Nessuno farà mai fuori l’Omino”.
Il Mago sorrise per l’ultima volta. A denti stretti: “Ti fidi di me, ragazzo?”.
Sterling: “Più che di me stesso, signore”.
Il Mago allargò le braccia, andò dritto al punto: “Allora preparati e affila le armi. Se sarai fortunato, il tuo nemico ti vorrà al suo fianco per l’ultima battaglia”.
Sterling fissò il cielo d’America, così scuro e pieno di promesse da levare il fiato.
Il Mago gli strinse la mano destra e l’obbligò a fissarlo: “Presto, molto presto, l’Italia avrà ancora bisogno del suo peggior mastino…”.