di Franco Pezzini

CushingEra capace di riempire i copioni di appunti con promemoria di suggestioni, gesti e atteggiamenti da tenere – o da evitare – al momento di questa o quella battuta. Studiava da competente i costumi dei suoi personaggi, e spesso svolgeva un ruolo-ombra di aiuto regista inventando (sul momento) scene che gli spettatori poi avrebbero ricordato tra le migliori della sceneggiatura. Per capire come Frankenstein potesse tenere in mano i suoi ferri del mestiere, era andato a consultare specialisti di chirurgia dell’Ottocento. Lo soprannominavano “Props”, cioè “robe-di-scena”, per il disinvolto multitasking mentre recitava – al punto che un giorno era riuscito a spegnere un accidentale focolaio di incendio continuando a sostenere la parte. Ma era anche pittore raffinato e illustratore ironico, abilissimo costruttore di modellini, cultore di musica, appassionato ornitologo. E a monte si era già costruito due carriere – una di attore teatrale, guadagnandosi la stima di capi-compagnia esigenti come Laurence Olivier, poi l’altra di straordinario successo sul piccolo schermo – quando aveva scelto di reinventarsi per il cinema. Certo con soggetti molto più popolari, per quella Hammer che dalla fantascienza intendeva tentare (seconda metà anni Cinquanta) l’azzardo del gotico, ma dove il Nostro avrà modo di giocare la sua assoluta sottigliezza d’interprete. E, per inciso, nasceva giusto un secolo fa, il 26 maggio 1913.

Peter Cushing viene in genere associato all’horror, proprio per le prove offerte con quella Hammer che gli garantirà fama planetaria, e in seguito con svariate altre case di produzione. Una marcatura in realtà limitante: sia perché il suo profilo d’attore mostra un’estrema versatilità, sia perché i suoi gusti personalissimi andavano piuttosto alla commedia o al genere avventuroso: l’amore per il western, ad esempio, coltivato fin da bambino. E che troverà ideale consacrazione quando Peter, ormai adulto e attore, per un caso sarà chiamato a fungere da testimone di un contratto nientemeno che del suo eroe di un tempo, un Tom Mix a fine carriera, che non sapeva scrivere.

Ma limitante anche per un altro motivo, visto che l’etichetta “horror” Cushing non l’amava troppo – con una diffidenza peraltro condivisa da vari dei colleghi in storie nere. Basti leggere l’intervista rilasciata a Marjorie Bilbow sul set di House of the Long Shadows, in Italia La casa delle ombre lunghe, 1983: una pellicola divertente da un classico di Earl Derr Biggers, Seven Keys to Baldpate, e che senza essere un capolavoro scintilla della presenza, oltre che di un Cushing ormai anziano e felicemente ironico, dei complici e amici Christopher Lee e Vincent Price, del patriarca John Carradine e di una straordinaria Sheila Keith, collaboratrice-feticcio del regista, Pete Walker. Parte all’attacco Price:

“Noi non crediamo nella parola orrore [“horror”]… Fantastico [“fantasy” – ma in italiano ha una sfumatura diversa, n.d.r.], storie gotiche, qualsiasi termine del genere può andar bene, ma non orrore, perché non sono storie dell’orrore. Quelle vere sono storie dell’orrore”.

Continua Lee:

“Io ho sempre detto esattamente la stessa cosa. Orrore è una parola terribile e impropria. È una parola facile da piazzare sullo schermo o sulla carta. Io le chiamo fiabe, drammi allegorici, melodrammi, pantomime, ma la parola orrore suggerisce sempre al pubblico qualcosa di pericoloso […]”.

Cushing conclude:

“E come i miei cari amici hanno detto, questi film sono proprio per l’immaginazione; e molto è lasciato all’immaginazione, che penso sia importante perché l’orrore, come la bellezza, è negli occhi di chi guarda”. E in altre occasioni dichiarerà di preferire a orrore il termine fantastico, per il potere ricreativo di talune suggestioni.

Del resto Cushing è uomo dolcissimo: e se spesso i vilain del cinema sono persone deliziose nella vita fuori dallo schermo, per universale riconoscimento dei colleghi il Nostro presenta letteralmente una marcia in più per sensibilità e disponibilità. Ingrid Pitt, sua collega alla Hammer e indimenticata Carmilla che lui impala e decapita in The Vampire Lovers (Vampiri amanti) 1970, testimonia: “Non conosco nessuno, uomo o donna, che non voglia bene a Peter Cushing”. Carrie Fisher, che come principessa Leia di Star Wars, 1977, lo affronta in scena – lui interpreta il gelido gerarca Grand Moff Tarkin – racconta quanto le è stato difficile simulare tanto disprezzo verso un collega così caro e gentile. Per non parlare dell’amico di una vita, Chris Lee – un gentiluomo dalla vita morigerata la cui ruvidezza burbera e aristocratica non sconta però nulla a nessuno – che ricorderà sempre il partner come una persona speciale, non solo per professionalità ma per doti umane. 

Detto questo sul Cushing uomo, è però vero che pochi attori hanno saputo evocare dimensioni interiori e sociali di ambiguità con la sua sottigliezza. Gratificato talora da indimenticabili ruoli positivi, Cushing offre altrove il suo volto scavato a parti assai equivoche, nelle quali istanze di Bene e Male si compenetrano in modo spiazzante – fino a evocare un orrore (usiamo pure questo termine) dalle incredibili risonanze critiche.

Ben prima della svolta gotica, la galleria di Cushing mostrava personaggi di sublime ambiguità: per limitarsi a due apparizioni in film dove già compare anche Lee – ma i due non si incontrano in scena – basti citare il sinistro dandy Osric dell’Hamlet di Laurence Olivier, 1948, e l’equivoco sciupafemmine Marcel de la Voisier nel Moulin Rouge di John Huston, 1952. A valorizzare però in termini provocatori le ombre della recitazione di Cushing sarà la Hammer, il cui sistema mitico prenderà a ruotare tutto, idealmente, proprio attorno all’asse tra lui e Lee – suo partner fin dai tempi di The Curse of Frankenstein (La maschera di Frankenstein), 1957: un tandem presto saldato nell’immaginario collettivo in termini di opposizione dialettica, pur senza mai esaurire la percezione di un’autonomia dei due interpreti. Forti del rispettivo carisma, della capacità di dominare la scena e dell’enorme lavoro all’interno (va detto) di un’ottima squadra, Cushing & Lee finiranno così col fornire al vocabolario simbolico postmoderno alcune icone fondamentali nell’ambito di vere e proprie celebrazioni rituali (profane, ancorché fitte di con elementi parareligiosi) con istanze fortemente simboliche. Dove l’altissimo, aristocratico e distante Lee rappresenterà quasi sempre il mostro o l’eroe nero (anti)cristico – le bende srotolate a terra della Creatura “risorta” e fuggitiva, l’impalamento sulla croce o la coronazione di spine di Dracula nella selva dei biancospini –, il tiranno portatore dell’Occulto, della furia sciamanica e del morso erotico, cui sacrificare schiere di fanciulle: latore insomma di minacce (specie quella sessuale) che insidiano la società fin nelle radici più profonde, a echeggiare simbolicamente la crisi innescata in un sistema di valori ancora vittoriani all’alba della Swinging London, quando in pochi anni la riscoperta del gotico in costume incontra Mary Quant e le minigonne. Mentre Cushing è invariabilmente l’espressione di demoni culturali, l’uomo di scienza fanatico, l’asceta sapiente o il puritano votato a un’idea, il dandy capace di nettarsi le dita dal sangue di qualche mostruoso esperimento sul panciotto elegante, volto gelido e magari ipocrita di quella stessa società minacciata – ma a quel punto meno meschino della pletora dei “normali” (dame bellocce, amici dal moralismo facile) coi loro progetti di piccolo cabotaggio ai quali sacrificano sogni propri e altrui.

Nei film Hammer, a inquietare non sono insomma le profanazioni di sepolcri o i morti che tornano, l’emergere di mummie assassine o di Dee pietrificatrici – ma piuttosto lo scarto tra titanismi criminali e buoni principi di una società ipocrita, l’eversione di rapporti sessuali, familiari e sociali, le paralisi culturali e le menzogne comunitarie catafratte da ronde di bravi cittadini. “Mostri”, dunque, ma di una mostruosità ben diversa da quella magica e poetica dei Baracconi delle Meraviglie dei film Universal di cui la Hammer aveva raccolto il testimone, riportando in vita l’horror dopo l’eclissi negli anni Cinquanta e riappropriandosi di miti peculiarmente britannici. E come il suo pertinace barone Frankenstein appare di film in film più brutale e amaro, così anche agli eroici Van Helsing delle prime interpretazioni seguiranno ammazzavampiri sempre più inquietanti – “buoni vecchi” pronti, come quelli di Carmilla di Le Fanu alla cui liberissima trasposizione in trilogia Cushing partecipa per ben due volte, ad accanirsi in modo davvero vampirico su corpi femminili indifesi. E del resto, anche al di fuori del marchio Hammer, basti pensare – per un titolo tra tutti – alla sua interpretazione del folle antropologo Emmanuel Hildern nel bellissimo The Creeping Flesh (Il terrore viene dalla pioggia) di Freddie Francis, 1973: Cushing vi riprende con eleganza uno dei suoi ruoli complessi di finto buono dominato in realtà da egoismo e sessismo di tutta una cultura vittoriana, mentre Lee è il fratellastro cattivo, ombra di rancore trionfante e oscuro riflesso. Dove appunto appare evidente da parte di Cushing la straordinaria capacità di evocare i demoni culturali di un’epoca, i suoi pregiudizi striscianti e le manipolazioni in guanti di seta: qualcosa che non cancella il dramma umano del personaggio, ma lascia emergere con straordinaria forza critica meccanismi dell’oggi della pellicola e del mondo da cui promana. E se, come l’attore spiega nella citata intervista, “molto è lasciato all’immaginazione”, sono proprio lo scarto della messa in scena in costume, la metafora sottotesto al fantastico, gli echi di verità del mito a vellicare anche più provocatoriamente – perché non condizionati dal qui e ora – la nostra percezione della realtà. Certo non è facile sintetizzare in pochi paragrafi d’analisi una carriera tanto lunga, e si recherebbe torto all’abilità dell’interprete l’appiattire in formule banalizzanti la varietà dei ruoli affrontati; ma altrettanto sicuramente il candore di Cushing offriva agli spettatori spunti critici dal filo di rasoio. Ed è interessante rammentare che il Nostro era stato partecipe di quel capolavoro televisivo Nineteen Eighty-Four, 1954, tratto dal 1984 di Orwell, che suscitò dubbi di opportunità e polemiche di benpensanti fino alla Camera dei Comuni.

Se Lucas lo arruolerà per Star Wars nei panni dello spietato Tarkin (invece che, come pensato inizialmente, quale Obi-Wan Kenobi), sarà comunque in memoria di un’intera galleria di personaggi. Compreso quel cameo nella divisa di un altro gerarca, il maggiore Benedek del fantapolitico Scream and Scream Again (Terrore e terrore, 1970), folle e divertente film pop che inzuppa lo spy-fi alla The Avengers di un pessimismo ironico e corrosivo verso le istituzioni – e dove per la prima volta Cushing fa terzetto con Lee e Vincent Price. Un ufficiale di un non meglio identificato paese sotto dittatura (qualcosa a metà tra Patto di Varsavia e Germania nazista), tale Konratz, ha torturato fino alla morte un paio di giovani oppositori politici arrestati mentre tentavano di espatriare: e Benedek appare in scena – un ufficio scuro, claustrofobico – con le fotografie dello scempio sui corpi, commentando che si tratta di cosa veramente inaudita. A sottoporgli il problema è un ministro, preoccupato soprattutto dei deflagranti echi esteri della notizia; e imbarazza il fatto che la formale responsabilità sia di Benedek, come diretto superiore di Konratz. Certo, a volte – considera il maggiore – è stato inevitabile usare le maniere forti per impedire ribellioni o perché la gente collaborasse, ma in questo caso tutto si è consumato senza necessità, “e ciò è riprovevole”. In tale situazione sgradevole, Benedek può solo togliersi la soddisfazione di far pesare al ministro un ruolo da uomo di paglia. E quando quello protesta che non possono rimproverargli nulla, il maggiore ribatte tagliente: “Proprio così, signor ministro: i politici sono sempre più furbi dei militari”.

Benedek fa dunque entrare nell’ufficio Konratz, per parlargli da solo. “Quel giovane e la ragazza… sono stati torturati?” “Interrogati, signore” ribatte il subordinato, imperturbabile. “Naturale” osserva Benedek. “I soliti metodi. Perché non si aggiorna? Tutto questo andava bene una volta, in tempi andati: ma adesso… dopo cinque anni di governo, i dissenzienti devono essere convertiti per dimostrare l’efficienza del sistema. Le torture creano i martiri, e i martiri vengono utilizzati contro di noi dai nostri avversari. Questo è elementare, Konratz, anche se lei la tortura la chiama interrogatorio. Non occorre arrivare ai limiti estremi. Queste cose non le capisco”.

Poi spiega che contava su di lui, ma ora è costretto a ricredersi: Konratz è un violento, e come tale ignora il senso della misura. “Lei è troppo crudele per un compito già di per sé stesso così perverso”: quasi un giudizio morale, giocato dall’interprete in sguardi e sottotoni con splendida ambiguità.

In considerazione però dello stato di servizio di Konratz, Benedek intende limitarsi ad accettare le sue dimissioni… e commette l’errore di voltarsi. A quel punto l’altro lo uccide – e lasciamo ai lettori la sorpresa sul prosieguo vedendosi il film. Ma in questo cameo di un vilain che per ragion di Stato e in fondo per difendere la propria carriera si oppone alle violenze del bruto di turno, giocando in qualche modo a fare il “buono” (dove l’abbiamo già sentita?), brilla il controllo con cui l’attore regge le brevi battute, la poca stima del militare nei confronti del ministro e la severità, inizialmente temperata da un’ombra vaga di comprensione, nei confronti del subordinato.

Ha ragione Price: “Quelle vere sono storie dell’orrore”. Ma queste ne offrono in pantomima il gioco di ombre: una macchina-per-pensare di tagliente forza critica davanti a candori (sul potere, i ruoli sociali, i “buoni” e le loro poltrone) assai meno lucidi di quello di Cushing.

Per un curioso caso di calendario, alla ricorrenza della nascita di Cushing il 26 maggio segue quella – il 27 maggio – della nascita di entrambi i colleghi che con lui hanno segnato l’ultima grande generazione di mattatori del macabro, proprio Price (nel 1911) e Lee (nel 1922). Ed è sorta la proposta di considerare questa coppia di giorni memoriali, 26 e 27 maggio, come Festa delle Ombre Lunghe: qualcosa che non si ripiega in un pur simpatico fandom, ma attraverso l’eclettismo e le provocazioni di tre attori-cerniera tra l’alta e la bassa cultura (qualunque cosa vogliano dire simili categorie) ci aiuta a riscoprire anche la ricchezza critica dell’horror. O comunque vogliamo chiamarlo.

 

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