di Alberto Prunetti

ghelli.jpgVoi onesti farabutti di Simone Ghelli è un libro che non posso recensire in maniera neutrale. Lo dico subito per evitare il malcostume letterario delle recensione degli amici. Non vedo Ghelli da molti anni ma siamo coetanei, io sono appena più grande, più vecchio ormai di lui, siamo cresciuti in una zona di confine tra la maremma grossetana e il litorale livornese, lungo la via Aurelia, e siamo andati all’università nello stesso posto. Se io e il Ghelli fossimo due vini, oltre a unirci annata e terroir, saremmo due vini da contadini, di quelli che sì, un po’ di solforosa e di rame ci si sente, però insomma, anche genuini e adatti ai palati ruvidi. C’è stato un periodo in cui io e il Ghelli ci si incrociava spesso. Lui aveva vent’anni, io credo ventidue. Ci si vedeva nei locali della Federazione anarchica maremmano-elbana, nella pinetina di Riotorto alle fiere anticlericali, a Siena davanti al manicomio, a bersi un americano da Paolone e poi nei boschi della Valdelsa. Poi ci siamo persi di vista, sono passati quindici anni. Fino a quando nella casella postale ho trovato questo libro con la copertina rossa. Mi arrivavano notizie da lui, perché condividiamo amici dalla bottiglia facile e la precarietà lavorativa certa. Prima o poi ci si vedrà anche, ho pensato, meglio lungo l’Aurelia, ho pensato subito dopo, e il perché glielo spiego alla fine, al Ghelli.

Tutto questo per dire che il libro del Ghelli racconta un pezzo di storia in cui io ci sono stato dentro e ora non posso mettermi a fare il recensore oggettivo e impersonale. Soprattutto quando parla di anarchici e matti, un capitolo stupendo e commovente del suo libro, perché io li conoscevo tutti quegli anarchici e quei matti. Coi primi ci si beccava tra Montebamboli e Montieri, nella colline Metallifere, e allora uscivano discorsi di fuoco e vinelli bianchi, di quel bianco un po’ torbido che non conosce filtrazioni. Vini che portava Fabio il boscaiolo, che con una stretta di mano ti faceva pentire di tutto il tempo che avevi perso in una biblioteca, quando più pennato – o più roncola, all’uso italico – ben ci avrebbe giovato alla salute dei polsi. Poi c’era Nedo, che oltre a tenere in piedi i locali di un circolo che aveva ospitato Pietro Gori, era anche uno degli ultimi pescatori piombinesi e aveva gli occhi del colore del mare e quando allestiva le sagre libertarie a Riotorto portava quel che gli rimaneva nelle reti; e poi c’erano Duilio e Patrizia che se non c’era questo libro del Ghelli, che è meraviglioso e toccante, di loro mi sarei quasi dimenticato, e invece mi ricordo eccome di quella notte che io facevo il banchetto dei libri anticlericali e mi vennero a salutare perché erano stanchi di vivere in Maremma, loro che c’erano venuti da poco e da lontano, e l’indomani partivano in una barca a vela per l’Oriente e avevano intenzione di vivere in barca per qualche anno, dove i venti li avrebbero sospinti, si vedrà, mi dissero abbracciandomi; e poi c’era il Chessa, che era proprio come dice il Ghelli, leticava con tutti, però gli si voleva bene perché era il grande vecchio e era la memoria di tante lotte e lo aiutavamo a sistemare l’archivio della famiglia Berneri e lui ci regalava i libri e ci diceva “Leggete, bolscevichi!”. E’ grazie al vecchio Chessa che ho scoperto Osvaldo Bayer, che poi sono andato a trovare fino a Buenos Aires. Poi c’erano i matti, quelli che frequentavamo a Siena, perché il manicomio era accanto all’università, o forse dentro. C’era Guerino, come lo chiama il Ghelli, ma io lo chiamavo il Guerriero, che col bastone colpiva gli studenti in testa (ma con quella protesi lignea toccava anche il culo alle studentesse, lo conferma un mio amico che è suo nipote e anche tante mie amiche e compagne di studi) e lo Sceriffo, che andava a giro col cappello texano, il mezzo garibaldi in bocca e la stella sul petto e a cui ogni tanto pagavo da bere il bicchiere d’americano che Paolo al bar del ponte di romana teneva già preparato in bottiglioni enormi da tre litri. I matti avevano occupato Lettere, altro che noi studenti. Erano implacabili. E infatti te li trascinavi fino alle lezioni del Luperini e mentre lui stigmatizzava il vitalismo letterario piccolo-borghese, loro avevano invaso le classi universitarie e leggevano beati l’elenco telefonico, cominciando dalla lettera A. Era così, Ghelli, te lo ricorderai e il tuo libro lo conferma. E ti ricorderai, anche se non ne parli, di Annina, che ancora sbraita per quelle strade di laterizi rossi. E in queste cose ormai vecchie di quasi vent’anni mi ci hai fatto finire dentro, risucchiato nella memoria dalla magia delle tue righe. Poi c’erano cose che non conoscevo. Tuo nonno, un eroe. Me lo immagino come quei livornesi che venivano a vendere le verdure il venerdì al mercato a Follonica e che con l’accento slabbrato labronico dicevano delle porcate terribili piene di doppi sensi alle spose che passavano, che tutti, òmini e donne, si rideva come pazzi. Poi finivano di fa i complimenti alle spose e cominciavano a insultà il papa e i fascisti. Che gente, che risate. S’andava al mercato solo per sentirli, mica per le verdure. Anche perché le verdure noi le coltivavamo in casa, o meglio nell’orto e io al mercato andavo solo a comprare albi di Tex Willer e numeri di Urania usati e a ride’ delle grezzate dei livornesi. Almirante, topa-punta-e-seghe-tante, urlavano dai banchi del pesce. E giù tutti a ridere. Qualcuno dava il tema: Fanfani e Andreotti, e i venditori buttavano il carico di improperi irriferibili, con rime in -ano e -azzo. E noi dè, grandi e piccini, giù a ride. Erano i comizi politici che mi ricordo, Ghelli, e puzzavano d’acciughe sotto sale e di porpo briaco e me li hai fatti ricorda tè, quell’anni lì. Per chi non l’ha vissuti, c’è sempre il libro del Ghelli, che è stupendo e racconta molte più cose e meglio dette di quelle che scrivo io in questa recensione. Ora basta, ti saluto Ghelli e dopo questa sviolinata ti aspetto dalle parti del bar Il cacciatore, giù verso Venturina, sull’Aurelia vecchia, dove potrai sdebitarti di questa recensione con un terzo di Martini, uno di Campari e il resto soda, alla modica cifra di euri due. Niente noccioline, quelle so per i borghesi. Bona, compagno Ghelli.